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Un modello antico di felicita': la semplicita' delle origini.

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione...3

Capitolo 1: Primitivismo e non...7

1 Il mito dell'età dell'oro...8

2 Buoni e cattivi selvaggi...13

3 The bright side of the moon...23

Capitolo 2: Il modello socratico dell'autarchia...33

1 La saggezza di Socrate tra realtà e idealizzazione...34

2 L'esperienza dell'autarkeia socratica...40

3 La prospettiva di Platone...43

4 La prospettiva di Senofonte...51

5 Due approcci al piacere: Antistene ed Aristippo...58

Capitolo 3: Platone e la costruzione della civiltà...69

1 Repubblica 369b-372d...70

2 Politico 269a-275b...77

3 Timeo 20d-25d e Crizia 108f-121a...82

3 Leggi III 676a-681c...90

Capitolo 4: Una scorciatoia per la felicità...99

1 La nascita della filosofia cinica...100

2 Altera la moneta!...104

3 Allenarsi alla virtù...115

Bibliografia...122

Fonti:...122

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Introduzione

Qualunque sia l'epoca, qualunque sia il luogo, qualunque siano gli ideali e le aspirazioni, l'uomo non ha mai cessato di interrogarsi sulla felicità. Che essa sia solamente un'idea irraggiungibile o che sia in effetti una condizione a portata di mano, è connaturata all'uomo la ricerca di una strada verso di essa. Questa strada è però stata più volte ostacolata, ed uno degli ostacoli più grandi che le siano mai stati imposti è sempre stato il corrosivo influsso della società. Sembra che con essa siano sorti i peggiori vizi umani, che in essa siano maturati i mali più fatali, che con essa l'uomo abbia rischiato di perdere il senno. La corruzione, la perdita dei valori, l'avarizia, la vanagloria, i conflitti: da sempre il lamento della ragione e della virtù si scaglia contro tutto ciò, e nemmeno i tempi che a noi appaiono come i più floridi per la cultura e la scienza sono esenti da questo meccanismo. In pieno Illuminismo, quando gli ingegni si risvegliarono e si mossero all'unisono per rendere omaggio alla Dea Ragione, non mancarono né un Candido che si faceva beffa di uno sciocco ottimismo riguardo un fantomatico “migliore dei mondi possibili”, né delle

Lettere persiane che guardavano stupite e sconcertate al tipo di società europea di allora. In

quella florida epoca a cavallo tra '500 e '600, piena di menti brillanti e di artisti sublimi, a quali oggi noi guardiamo con nostalgia, Tommaso Moro sognava un'Utopia mentre Campanella una Città del Sole. In nessun tempo, sembra, il genere umano sia stato soddisfatto da sé stesso: passando per un ciceroniano “O tempora, o mores1” possiamo andare a ritroso fino all'inizio della letteratura occidentale, quando persino Esiodo, nell'VIII secolo a.C., racconta di come vi sia stata una decadenza dell'intera umanità da una mitica età dell'oro fino all'attuale e misera età del ferro2. Quando Francisco Goya stampò il suo Il sonno della ragione genera mostri aveva in mente tutto il male che nella Spagna e nell'Europa del XVIII secolo aveva potuto provocare il silenziamento di quella capacità raziocinante in nome di dogmi incontestabili; ma quell'opera sembra un ammonimento all'uomo di ogni tempo, un ammonimento che in ogni tempo l'uomo avrebbe fatto a sé stesso guardandosi intorno.

1 Espressione divenuta ormai proverbiale, si trova in Catilinarie, I, 2 e Verrinae, II, IV, 25.

2 Si tratta del mito delle cinque età in Le opere e i giorni, di cui parleremo più approfonditamente in seguito.

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Ma come la deplorazione del mondo è nata con il mondo stesso così gli sono contemporanei anche quegli individui che non hanno fatto dormire la ragione, coloro che hanno combattuto contro quei mostri tanto spaventosi. Questi sono coloro che hanno tentato di scoprire le regole del gioco, che hanno indagato la realtà per scoprirne la sostanza, coloro che hanno cercato una legge a cui confarsi per vivere al meglio. Che questa legge si chiami “conoscenza”, “politica”, “morale” o “natura” non cambia molto; questi grandi uomini hanno trovato in loro stessi le risorse per lottare contro i mostri di Goya. Sono uomini che guardano al mondo ma sanno che non sarà il mondo ad appagare il loro animo o a concederli i mezzi per elevarsi dalla massa sregolata e senza ragione. Questa, infatti, è figlia delle circostanze, dell'avvicendarsi delle ere, figlia della storia insomma. Se si vuole vivere fuori dalla massa bisogna cercare di uscire dalla storia. Ciò non significa estraniarsi dalla realtà e decidere per un'esistenza solitaria (in cima ad una colonna o dentro ad una grotta magari), ciò vuol dire scovare e adottare uno stile di vita astorico, non dettato dalle contingenze esterne, prendere una netta posizione nei confronti del mondo. E' un bastare a sé, un non aver bisogno di altro se non delle proprie facoltà.

E' una scelta che può implicare modelli di vita alternativi, che spesso nella storia del pensiero e delle effettive condotte ha portato a recuperare ideali di vicinanza alla natura, di repulsione per la civiltà attuale, di riscoperta di un'antica sintonia tra uomo e mondo in una dimensione che travalica le difficoltà della società di ogni tempo. La figura del saggio si fa strana, distaccata, lontana: si fa guida senza però mischiarsi ai discepoli, si fa timoniere di una nave del cui equipaggio non fa parte. Egli non è pura contemplazione, non solo allontanamento, è esempio vivente, è pratica, attività. Nel 1854 Henry David Thoreau scrive nella sua opera più celebre Walden ovvero Vita nei boschi:

Essere filosofi non significa soltanto avere pensieri acuti, o fondare una scuola, ma amare la saggezza tanto da vivere secondo i suoi dettami: cioè condurre una vita semplice, indipendente, magnanima e fiduciosa. Significa risolvere i problemi della vita non solo teoricamente ma praticamente.3

Il filosofo americano si era ritirato nove anni prima in una solitaria capanna in mezzo ai boschi nel nord America, vivendo del proprio lavoro, senza necessità accessorie a quelle di una vita semplice al di fuori della frenesia e delle fatiche di una società che si stava industrializzando. Ma egli è lo stesso che aveva già scritto Disobbedienza civile,

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dimostrando così che la sua autosufficienza non era mera indifferenza verso il mondo, bensì esperimento morale per valutare le vere necessità umane.

Andando indietro nel tempo e nella lista dei grandi uomini che vissero nel segno di un'autonomia illuminata ed illuminante, potremmo poi citare, per il fascino che ha ammaliato uomini di scienza e letterati, quel gracile e minuto omiciattolo che, tra il XVII e XVIII secolo, fu tra i più grandi esploratori al mondo: William Dampier, una delle più grandi menti scientifiche che l'Inghilterra abbia partorito, botanico ed idrografo, instancabile viaggiatore e divoratore di nuove esperienze, mai sazio di scoprire luoghi, costumi o specie sconosciute. Il suo ideale era la conoscenza, i mezzi per raggiungerla erano accessori: non gli interessava imbarcarsi con pericolosi pirati, costruirsi zattere di fortuna o girovagare senza soldi per terre lontane. Per usare il canone di Thoreau, egli “ama la saggezza tanto da vivere secondo i suoi dettami”. Leggiamo nelle sue parole la sua totale indipendenza e autodeterminazione che lo rendono immune alle possibili avversità di una vita trascorsa all'insegna dell'esplorazione:

«La compagnia di anime tanto nere e dissolute mi offriva la migliore occasione di soddisfare la mia sete di conoscenza […] Quanto più ci fossimo inoltrati in quella follia, tanto più sapere ed esperienza avrei accumulato: il che, tutto sommato, è il principale scopo della mia esistenza.4»

Se cerchiamo un possibile inizio di questa visione di una vita bastante a sé stessa, di questa autosufficienza dell'individuo che ritrova un contatto più autentico con ciò che lo circonda uscendo, realmente o metaforicamente, dalla civiltà, ecco che possiamo volgere lo sguardo verso un preciso concetto di origine greca: l'autarkeia. Essa consiste essenzialmente in un ideale di autonomia, che va dalla semplice capacità di procurarsi i mezzi che occorrono alla vita, ad una più profonda autoregolazione ed autolegislazione (autòs= egli stesso, sé medesimo; nomos= legge, norma, regola) che porta il saggio, il filosofo, a poter fare a meno di beni o a non avere bisogni (chreiai) esterni a sé. La prima veduta, più materiale ed ancorata ad una concezione preminentemente pratica dell'autarkeia, è quella che farà capo a tutta una corrente di pensiero che prenderà il nome di “primitivismo”: questo consiste in una generale tendenza a a disprezzare gli assetti presenti (civili, politici o sociali), guardando invece con nostalgia ad una leggendaria epoca passata, primitiva appunto, in cui l'uomo viveva beatamente senza nessun tipo di angoscia o difficoltà, riuscendo con facilità a procacciarsi tutto ciò di cui necessitava. Un'epoca in

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cui l'uomo stesso, però, non aveva pretese di una vita lussuosa, di una casa sfarzosa o di grandi ricchezze: la semplicità con cui veniva raggiunta la felicità era dovuta anche al fatto che non si richiedeva troppo alla felicità stessa.

Sulla linea dell'autonomia come governo di sé stesso, invece, si vanno incastrando quelle grandi figure che partendo da Socrate si stagliano al di sopra di ciò che accade loro intorno. Questi sono quei personaggi esemplari, quelle guide per una vita saggia e buona, una vita che non si affligge per gli affanni esteriori ma che conoscendo la giusta direzione riesce a seguirla senza distrazioni: la migliore delle vite possibili. L'autarkeia è controllo di sé e dei propri bisogni e contemporaneamente ferma coscienza che la sola ragione basti per ottenere la felicità. Troveremo dunque un Socrate atopos che muore andando tranquillamente incontro alla morte, che rifiuta il denaro che gli viene offerto per i suoi servigi, un Diogene di Sinope che non si cura della propria nomea e rompe con ogni convenzione. E' in particolare con la filosofia cinica che l'ideale di autarkeia si fa motore di ricerca di atteggiamenti orientati in senso filosofico: «Il cinismo fu la prima e più vigorosa rivolta filosofica della civiltà contro la civilizzazione in quasi tutti i suoi tratti fondamentali - eccetto la filosofia stessa5». Da questo ramo sbocceranno poi quei nomi che abbiamo già citato, come Dampier o Thoreau: uomini atopoi davvero, che avrebbero potuto vivere ovunque finché in quell'ovunque avessero trovato il modo per accumulare sapere o amare la saggezza, finché fossero bastati a loro stessi. Per tutti questi uomini l'autarkeia è la strada per una vita felice, l'unica vita realmente felice.

Autarkeia e primitivismo sono due facce, dunque, della stessa medaglia: una

medaglia fatta di disprezzo e nostalgia, di grandezza statuaria ed esemplarità. Non si può quindi parlare di una faccia senza considerare l'altra, sono elementi complementari ed indivisibili: Diogene fu uno dei più agguerriti autarchici ed osservava un tenore di vita animalesco, selvaggio, primitivo.

Ma per comprendere una storia è sempre bene partire dall'inizio e seguirne gli svolgimenti cronologici; sarà bene allora partire dall'inizio anche in questo caso, andare fino ai primordi di quella ricerca di autonomia dal mondo che è sembrata coincidere con la felicità.

5 Arthur O. Lovejoy, George Boas, Primitivism and related in antiquity, Johns Hopkins Paperback editions, Baltimore, 1997, p. 118

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Capitolo 1: Primitivismo e non

La necessità umana di ritrovare un luogo ed un tempo in cui riporre la felicità trovò nell'antichità una risposta in particolare: quella che oggi chiamiamo “primitivismo”. Con questa espressione si possono intendere due diversi tipi di approcci alla questione delle migliori condizioni per la vita del genere umano. Il primo è quello che viene definito “primitivismo cronologico”, in quanto poggia sull'ipotesi che vi sia stata un'epoca in cui la vita era veramente beata. Le varie declinazioni di tale variante dipendono dalla concezione di tempo presa in considerazione: tempo come successione lineare di eventi o come ciclo, tempo con un inizio ed una fine o solamente con un inizio, come alternarsi di periodi favorevoli e sfavorevoli o come continua decadenza. L'assunto fondamentale della teoria è comunque che l'epoca felice per l'uomo è esistita e la ritroviamo se guardiamo indietro fino al principio dei tempi, ed è proprio questa era che provoca tanta nostalgia in chi ormai non crede più in un suo ritorno, o speranza in chi si prospetta ancora una ricomparsa di quella. Il secondo tipo di primitivismo invece è quello detto “culturale”. Esso si distingue da quello cronologico perché non ha a che fare con la storia e con il trascorrere del tempo ma riguarda lo stile di vita: la vita cinica ad esempio è considerata modello di primitivismo culturale. Essa prevede di mantenere usanze e abitudini semplici, che ricalchino quelle dei primi uomini, così da limitare bisogni e desideri. La vaghezza di questa indicazione permette una grande varietà di condotte “primitivistiche”: il vegetarianesimo, la mancanza di agricoltura, il non avere città, l'assenza di tecnologia... tutto ciò che potrebbe ricordare appunto un antico modus vivendi.

Al primitivismo si oppone la concezione di coloro che vedono nelle capacità dell'uomo la via sicura per la piena realizzazione della perfezione umana: le tecniche sono l'espediente grazie al quale sono soddisfatti tutti i bisogni ed è spesso necessario un continuo progresso scientifico per conquistare uno stato di benessere sicuro. Questa linea di pensiero più progressista si contrappone totalmente alla corrente primitivista e completa il quadro antico della civilizzazione umana. La civiltà si veste così di costumi multicolore: l'oscuro della degenerazione e dell'allontanamento da uno stato di armonia con la natura, ed il luminoso di un avanzamento tecnico e culturale che concretizza le possibilità umane.

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civilizzazione: i miti di fondazione tentano di descrivere la nascita della razza umana ed il suo sviluppo nel corso del tempo. Se, per un verso, l'età dell'oro racconta di un beato passato ormai perduto, l'esposizione del Protagora platonico (321a-323c) sottolinea d'altro canto come le condizioni primordiali dell'uomo non fossero sufficienti per una vita sicura, e come ci sia stato bisogno di un avanzamento tecnico per rendere la vita davvero umana.

E' conveniente quindi puntare la nostra riflessione su questa atavica consapevolezza umana dell'imperfezione delle proprie condizioni, prendendo in considerazione il panorama dei miti e delle visioni (in ambito letterario, scientifico o filosofico) riguardanti l'avventura dell'uomo in leggendari momenti prepolitici e precivili della storia.

1 Il mito dell'età dell'oro

Aurea prima sata est ætas, quae vindice nullo,

sponte sua, sine lege fidem rectumque colebat.1 (Ovidio, Metamorfosi, 189-90)

Così Ovidio descrive quel lontano tempo, perso in una nebbia di leggenda e racconti, in cui l'uomo viveva senza affanni e, punto su cui pone l'accento il poeta latino, in piena rettitudine. Egli offre una delle più alte espressioni letterarie di quello che è stato definito quel “mito delle cinque età” che narra di una decadenza del genere umano lungo il corso della “storia”2, da una prima età dell'oro ad una attuale età del ferro, nella quale si trovano completamente ribaltate le caratteristiche dell'età più felice.

Ma la tradizione latina di tale credenza è figlia di quella greca, ed in particolar modo figlia di Esiodo e della premessa narrativa alla sua opera Le opere e i giorni. Il poema esiodeo tratta principalmente argomenti di interesse pratico, fornendo direttive su come svolgere al meglio l'attività agricola. Ma la prima parte dello scritto è dedicata ad illustrare come il lavoro sia divenuto indispensabile alla vita umana, unica possibilità di riscatto per una razza decaduta. Il declino dell'uomo e la necessità delle sue fatiche vengono delineati attraverso due miti. Il primo, che mira a spiegare come il male e le pene siano entrati nel mondo, è quello della nascita di Pandora e della sua venuta tra gli uomini (Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 42-105): Zeus, adirato con Prometeo per averlo ingannato

1 N.B. «Fiorì per prima l'età dell'oro, la quale, spontaneamente, senza legge o giudice, venerava lealtà e giustizia.»

2 Non è appropriato parlare di storia in quanto, come abbiamo detto, gli avvenimenti riguardanti questi miti si svolgono in un periodo prestorico; periodo che funziona in questo tipo di racconti proprio da fondamento morale degli eventi e delle condizioni prettamente storiche.

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per ben due volte a giovamento della stirpe dei mortali3, decide di vendicarsi del titano punendo proprio questi ultimi; fa modellare quindi dagli altri dèi una donna bellissima nell'aspetto ma che cela dentro di sè «menzogne e seducenti discorsi e un carattere scaltro» (v. 78) Pandora appunto. Una volta tra gli uomini, curiosa e sfacciata, ella toglie il coperchio ad un vaso che le era stato donato da Zeus con l'ammonimento di non aprirlo: i mali allora si dispersero nel mondo:

Dapprima infatti vivevan sulla terra le stirpi degli uomini, prive di mali, e prive del pesante lavoro, e delle malattie fastidiose, che recano agli uomini la morte. [Ben presto difatti nel male i mortali invecchiano]. Ma la donna, togliendo con la mano il grande coperchio dell'orcio, li fece disperdere; e così versò agli uomini dolorosi affanni. Sola, lì dentro, in quella dimora infrangibile, sotto l'orlo del vaso, restò la Speranza, e non potè volar fuori, dacchè ella [Pandora] riuscì a metter prima il coperchio sul vaso, per volere dell'egioco Zeus adunatore di nubi. (Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 90-99)

Il secondo mito invece è quello che ci riguarda più da vicino, ovvero quello che si riferisce ad un processo di decadenza della razza umana attraverso cinque ere, distinte secondo un ordine decrescente di preziosità dei metalli (tutte tranne una): età dell'oro, dell'argento, del bronzo, degli eroi e del ferro (vv. 109-201).

Gli dèi crearono gli uomini aurei (“un'aurea stirpe”, chryseon ghenos), che vissero sotto il regno di Crono. Erano sconosciute malattie, angosce e miseria, non invecchiavano e al sopraggiungere della morte semplicemente si addormentavano: vivevano una vita da dèi (hoste theoi). La terra fruttificava senza bisogno di lavoro ed il bestiame era abbondante. Questi uomini erano massimamente graditi agli dèi che offrivano loro ogni agio. Questa fu l'età più felice in assoluto, età di piena armonia tra mortali ed immortali, età che suscita rimpianto. Non vi è nessun riferimento ad un panorama di giustizia o norme, come invece avviene nell'opera di Ovidio: il solo fatto che questa razza fosse tanto amata dagli dèi implica la sua rettitudine. La fine di quest'epoca avvenne senza un preciso motivo: gli dèi nascosero sottoterra quegli uomini beati e ne fecero i demoni atti a governare le stirpi seguenti, distribuendo beni e ricchezze. Enorme privilegio questo per degli esseri imperfetti e mortali.

Seguì la genia degli uomini argentei, di molto inferiori (poly cheiroteron) e per niente simili ai primi nati né nell'aspetto né nella mente (oute phuen enalinkion oute

3 La prima volta, essendogli stato affidato il compito di spartire tra dèi e uomini un bue per un banchetto, riservò per i primi le ossa e le parti peggiori dell'animale nascondendole sotto un succulento strato di grasso, mentre concesse ai secondi le parti migliori, inserite in un disgustoso sacco di pelle del toro. Il secondo inganno a Zeus è invece il celebre furto del fuoco da donare agli uomini.

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noema), uomini che nell'infanzia avevano bisogno di accudimento continuo, e poco dopo

esser entrati nell'età della giovinezza conducevano una vita violenta per cui presto morivano. Al contrario dei primi, infatti, questi non erano devoti agli dèi, non facevano sacrifici, e «non riuscivano a stare lontani dalla tracotante violenza nei loro rapporti» (vv. 134-135)4. Grandi angosce provocavano tali costumi a causa della stoltezza (aphradia): stolti sono chiamati dunque coloro che non venerano gli dèi, stolti per il fatto di non vivere in conformità con il volere divino, come accadeva nella prima epoca.

Di nuovo dunque si ha una cancellazione di una stirpe, questa volta però sussiste una motivazione: perché Zeus, adirato per la loro empietà, nasconde ancora una volta gli uomini sotto terra. Questi tuttavia diverranno «i mortali beati degli inferi (hypochthonioi

makares thnetois), quelli di ordine inferiore; ma pure a loro spetta di essere onorati dagli

uomini» (vv.141-142). Si ha allora la creazione della terza stirpe: gente nefanda, dedita soltanto al culto di Ares e alle crudeltà5, gente terribile e violenta, la cui unica virtù è la forza e la prestanza corporea. Si dice che essi non mangino pane e, come vedremo anche in seguito, una dieta simile è inadatta agli uomini, più consona a delle bestie senza riguardo per gli dèi. Analogamente infatti i selvaggi Polifemo ed i suoi compagni Ciclopi, nel dramma satiresco Il ciclope di Euripide, non conoscono la spiga di Demetra (Il ciclope, vv. 121-123). Sarà proprio a causa di questa loro forza poi (forza che Esiodo designa con il termine bia, dunque una forza violenta, spregiudicata, lontana quindi da essere una vera e propria virtù) che gli uomini di bronzo (questo il loro metallo, dovuto anche al fatto che case e armi di quel tempo erano costruite con tale materiale) sparirono dalla faccia della terra per andarsene «alla squallida dimora del terribile Ade, ingloriosi» (Esiodo, Le opere e

i giorni, vv.153-154). E' la prima stirpe che si condanna alla fine per mano propria e non

viene nascosta sotto terra da Zeus, ma scende nell'Ade come conseguenza delle proprie azioni. Mentre alle due prime razze veniva comunque riservato onore dopo la loro cancellazione, questa sarà costretta per sempre al disonore.

Si ha invece un ritorno ad una razza valente e pia con la quarta creazione del dio: la stirpe degli eroi. Questi sono i personaggi delle saghe mitiche dell'Iliade, della progenie di Edipo e delle guerre di Tebe: sono gli uomini più giusti e buoni tanto da essere essi stessi

4 “Tracotante violenza” traduce il greco atasthalos hybris: la hybris è la tracotanza verso gli dèi, il voler travalicare le loro leggi, una superbia verso le norme divine. Quindi, anche se l'avverbio allelon indica una dimensione interumana della brutalità, è già implicito quel mancato rispetto nei confronti degli dèi di cui si legge subito dopo.

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simili agli dèi: semidèi vengono chiamati (emitheoi). E' il fato la causa della loro scomparsa e non la loro ferocia come nelle due precedenti categorie di mortali. E coloro che non perirono per volere della sorte Zeus li pose lontano dagli uomini, nelle isole dei Beati, dove continuarono a vivere in eterno senza affanno, ricalcando le condizioni iniziali dell'età dell'oro, nelle quali la terra concede i suoi frutti in abbondanza per tre volte all'anno senza il peso di lavorare. Esiodo tace su quale destino sia riservato alla loro memoria o su quale ruolo svolgano verso i loro successori, ma è chiaro che essi sono gli esempi da seguire, i pilastri di una morale che ha attraversato la cultura ellenica fino alla “rivoluzione” del V secolo.

Giunge alla fine la creazione degli uomini di oggi. La quinta stirpe è quella con cui si entra nella storia vera a propria, cui appartiene lo stesso autore che si affligge per il fatto di prendervi parte. In questa età si hanno tutte le ambivalenze della vita presente, le fatiche e le gioie, i beni e i mali. Scrive Esiodo:

In seguito, volesse il cielo che non mi fosse toccato di vivere assieme agli uomini della quinta stirpe, ma di morir prima, o di nascere dopo! Ora difatti è proprio l'età del ferro; né mai gli uomini cesseranno il giorno dalla fatica e dalla miseria, e la notte di struggersi, e gli dèi daranno loro angosce pesanti. Tuttavia però a questi malanni si troveranno misti dei beni. (Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 178-183)

Il mito si chiude con un'ulteriore conferma della continua degenerazione della civiltà umana: la nostra razza infatti perirà solamente quando ne sorgerà un'altra peggiore. La descrizione di quest'ultima non lascia speranza: si perde ogni valore, dal rispetto per i genitori a quello per gli ospiti, non vi sarà più gratitudine, giustizia o pudore. Sarà il governo degli ingiusti e dei violenti. Non vi sarà salvezza per questa condizione, ma l'uomo, artefice delle proprie disgrazie, patirà e soffrirà in balia di un male inarrestabile.

L'intento di Esiodo era quello di spiegare come il lavoro e la fatica fossero ormai connaturati alla vita umana, dei mali inevitabili mandati dagli dèi, ma che l'uomo può volgere a proprio favore procurandosi con essi i mezzi per la sussistenza e per glorificare gli stessi dèi; sono i malanni misti a beni. Ma il mito delle cinque età è rimasto celebre soprattutto per l'immagine dell'età dell'oro, quel tempo in cui l'uomo non mancava di niente e la sua esistenza era distinta da pace, giustizia e abbondanza di ogni cosa. Non vi è privazione di nulla, non vi è nessun segno di un possibile ascetismo o di un'attitudine ad “accontentarsi”: è descritta solo una placida ed equilibrata realtà in cui ad ogni bisogno

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corrisponde una soddisfazione. Questo quadro offre il primo esempio di quel primitivismo che, come abbiamo visto, è caratterizzato come cronologico, poiché si riferisce ad un momento nella storia passata6. La fortuna di questo mito è subito vasta, tanto che pure i poeti comici del V secolo hanno ironizzato su di esso. Significativo è per esempio un frammento degli Anfizioni di Teleclide, comico del V secolo, che descrive un mondo impossibile in cui le focacce combattono tra loro per entrare nelle bocche degli uomini ed i pesci guizzano fuori dai fiumi per cucinarsi nelle case e servirsi sopra le tavole. Non esistono malattie e la pace regna su tutti gli uomini che per la loro pinguedine assomigliano a mostruosi giganti7. Come si vede anche qui l'età dell'oro non solo continua a essere sì un'età primitiva, in cui non esiste agricoltura o lavoro o nessuna delle attività umane, ma di nuovo si manifesta come un'era ricca di ogni bene (certamente in questo testo in modo eccessivo, come è normale che avvenga in una commedia).

Un'occorrenza molto interessante del mito è quella che troviamo in Virgilio, in particolar modo nella famosa IV egloga, ove è prospettato il ritorno di un'epoca felice grazie alla nascita prossima di un puer8 che metterà fine alla stirpe di ferro. Questa fine,

però, non sarà seguita dalla venuta di una razza peggiore, come accade in Esiodo, bensì dalla rinascita della generazione aurea dell'inizio dei tempi. Come nella descrizione esiodea, la natura stessa provvederà ad ogni esigenza; addirittura non vi sarà bisogno di tingere le vesti perché i manti degli animali saranno variopinti. Le tecniche umane saranno del tutto inutili e la sola traccia della vita passata sarà quella delle grandi imprese, unico vanto dei mortali: di nuovo ritornerà Achille e di nuovo le gesta degli Argonauti. Quella presentata da Virgilio è un'epoca di completa armonia e beatitudine, in cui spariscono infatti tutti i simboli dell'inganno, come il serpente o le erbe nocive, per fare spazio ad immagini idilliache della natura, che fanno pensare ad un assetto di pace assoluta tra tutti i viventi: nasce l'amomo assiro, erba esotica e rara, la cui comparsa può solo avvenire in una nuova età dell'oro, e persino gli armenti non devono temere i leoni. Che le Parche filino

6 Il mito dell'età dell'oro può essere inoltre inserito nel secondo tipo di teoria del declino delineata da Lovejoy e Boas: secondo questo tipo, denominato teoria della degenerazione progressiva, soltanto all'inizio dei tempi vi fu un'era felice e successivamente è seguito solamente un perpetuo declino che proseguirà fino alla fine del mondo. Nel testo esiodeo non viene accennata nessuna fine assoluta del mondo, per cui è difficile includere il mito nelle teorie finitiste bilaterali oppure nelle teorie finitiste unilaterali, categorie delineate dai due autori per indicare rispettivamente la gamma di credenze che contemplano un inizio ed una fine delle cose, e quelle che invece non vedono un termine alla storia. Cfr. Arthur O. Lovejoy, George Boas, Primitivism and related ideas in antiquity, Johns Hopkins Paperback editions, Baltimore, 1997 pp. 1-4.

7 Il testo ci è stato tramandato grazie ai Deipnosofisti di Ateneo (VI, 268)

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veloci fino all'arrivo di tale secolo, il secolo di Saturno! Come in Esiodo e nella cultura greca, infatti, l'età dell'oro era quella governata da Crono, così nel mondo latino è Saturno la divinità antica che regge la prima epoca:

Già torna la Vergine9 e tornano i regni di Saturno,

già una nuova progenie viene mandata dall'alto del cielo. Tu, o casta Licinia, sii favorevole al bambino che ora nasce con cui per la prima volta cesserà la generazione del ferro

ed in tutto il mondo nascerà la generazione dell'oro: già regna il tuo Apollo. (Bucoliche, IV, vv. 6-10)

Quella virgiliana è una delle prime occorrenze nella letteratura latina dell'aurea

aetas, tema che sarà felicemente proseguito da Ovidio, come abbiamo visto, ma anche da

Tibullo, Orazio, o Stazio. Ma non sono soltanto le belle lettere a ricevere l'eredità di questo mito, poiché anche la filosofia tesse, a partire da Esiodo, una lunga riflessione sullo stato di natura e sulla civilizzazione. In seguito prenderemo in analisi le riflessioni platoniche che risentono profondamente di tale mito, ma per adesso può essere utile vedere come esso è declinato in contesti di carattere più “etnografico”, se così possiamo definire i riferimenti alla vita selvaggia di alcune popolazioni lontane dalla civiltà che si trovano nella letteratura greca fin da Omero.

2 Buoni e cattivi selvaggi10

La prima volta che nella storia della letteratura incontriamo un esempio del selvaggio è nel IX libro dell'Odissea, quando Ulisse racconta alla corte di Alcinoo le proprie avventure dopo essere salpato da Troia e come (dopo aver depredato i Ciconi e conosciuto i Lotofagi) era approdato nella terra dei Ciclopi, che sono detti superbi e selvaggi, uperphialoi athemistoi. La descrizione della loro patria ricorda molto quella delle origini auree dell'umanità:

E avanti di là navigammo turbati nell'animo, finché dei Ciclopi selvaggi e protervi giungemmo alla terra. Questi si affidano

9 Ci si riferisce alla costellazione della Vergine che raffigura Astrea, la divinità che, presente tra gli uomini durante l'età dell'oro per distribuire bontà e giustizia, lasciò la Terra disgustata dalla degenerazione delle età successive. Un suo ritorno, associato con quello di Saturno, annuncia la nuova venuta della prima epoca.

10 Un contributo molto interessante sul “selvaggio” nel V secolo proviene da Fabio Turato, La crisi della città e l'ideologia del selvaggio nell'Atene del V secolo, Edizioni dell'Ateneo & Bizzarri, Roma 1979

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ai numi immortali: non piantano alberi, non arano campi; ma tutto dal suolo per loro vien su inseminato e inarato, orzo e frumento e viti che portano vino nei grappoli grossi, che a loro matura

la pioggia celeste di Zeus. (Omero, Odissea, IX, vv. 105-111)

Non vi è dunque necessità di lavoro, ma è la provvidenza di Zeus che regala ai Ciclopi una terra fertile in cui abbonda tutto ciò di cui hanno bisogno. La civiltà non è necessaria (né lo sviluppo tecnico, né le norme di convivenza) in quanto tutto è spontaneo e sotto il controllo divino. Ognuno legifera per il proprio nucleo familiare e non vi è segno di vita in comune: abitano in spelonche profonde o sulle cime dei monti, ovvero lontani da qualsiasi tipo di contatto, e non si curano affatto l'uno dell'altro. Inoltre la “legge” di cui parla Omero, unica forma legale attribuibile ai Ciclopi, non è il nomos, la legalità ufficiale che deriva da un potere legittimato, bensì la themis, una legge naturale o divina, che non sarà mai messa per iscritto, non sarà mai promulgata nelle assemblee. Il dettare legge sui propri figli e sulle proprie donne dunque ha un valore più naturale che legale. Come nel passo già citato di Ovidio non vi sono giudici o diritto, ma, nel caso dei Ciclopi, ciò avviene non tanto per naturale rettitudine delle genti, quanto per la mancanza di comunicazione tra di loro. Immediatamente Ulisse offre un metro di paragone con cui valutare la vita ciclopica: non lontano dalla terra di questi giganti infatti vi è un'isola totalmente disabitata, piena di potenzialità per l'agricoltura e l'allevamento, ricca di boschi e di capre, con prati fertili lungo le spiagge ottimi per la coltivazione della vite. Una pazzia non colonizzarla! Ma i selvaggi Ciclopi non costruiscono navi e lasciano che quest'isola così florida rimanga abbandonata. Si smorza quindi il tono della prima presentazione: certo, i Ciclopi hanno tutto quello di cui necessitano senza fatica, ma sono così bestiali da non conoscere tecniche di costruzione o da non sfruttare un terreno fertile.

Ma di tutto il popolo dei Ciclopi non sapremo più niente dalle parole di Ulisse; egli infatti, non appena decide di sbarcare, incontra il più feroce e ingiusto di loro, che abita solitario lontano dagli altri, terribile e spaventoso. Così viene descritto:

Quivi un uomo abitava di enorme grandezza che solo e da tutti lontano pasceva le greggi; né insieme viveva con gli altri, ma stava appartato, feroce, ingiusto, privo di affetti; un mostro orrendo era quello né uomo pareva di pane nutrito, ma rupe boscosa

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Se l'ambiente è ameno, la natura sorridente, e fino ad adesso la vita dei Ciclopi può essere considerata, per quanto primitiva e selvaggia, felice nella misura in cui la terra è generosa con loro e l'indifferenza reciproca tiene lontani eventuali conflitti, ora si ha l'altra faccia della selvatichezza: Polifemo è orrendo e vive in totale solitudine, è rude e incute timore. La precisazione che non sembra si nutra di pane è molto importante. Come abbiamo visto i Ciclopi non conoscono l'arte dell'agricoltura ma comunque godono dei suoi frutti grazie all'intervento di Zeus; Polifemo si situa in una posizione ancora più arretrata dei suoi simili, ancora più vicino allo stato animalesco. Questo tipo di alimentazione viene maggiormente rimarcato nella rappresentazione del Ciclope di Euripide; il contesto del dramma satiresco offre una lettura parodistica dell'episodio dell'Odissea e dunque anche le caratteristiche del Ciclope vengono esasperate. Egli è ghiotto di selvaggina e non vede l'ora di potersi abbuffare anche della carne degli sfortunati passanti. Ma è il Sileno che ci ragguaglia chiaramente sulle abitudini alimentari di Polifemo. Così la creatura boschiva, fatta prigioniera dal mostro, parla ad Ulisse, nella poetica traduzione di Camillo Sbarbaro:

Ulisse: Della spiga di Cere o di che campano? Sileno: Di latte, caci e carni pecorine

Ulisse: L'hanno il licor che sgorga dalla vite? Sileno: Macchè! Qui non si brinda né si balla. Ulisse: Accolgon ben, almeno, i forestieri?

Sileno: Stimano che non v'è carne più ghiotta. (Euripide, Il Ciclope, vv. 120-125)

Nel Prometeo incatenato di Eschilo le conoscenze meteorologiche, utili per la cura e la lavorazione dei campi, costituiscono il secondo dono di Prometeo agli uomini, subito dopo quello della costruzione di case (infatti prima la razza umana abitava nelle grotte, proprio come i Ciclopi di Omero). Il titano ha concesso ai mortali pure la capacità di attaccare il giogo agli animali così da sentire meno la fatica del lavoro agricolo (Eschilo,

Prometeo incatenato, vv. 450-466). Nell'Antigone sofoclea, invece, l'uomo è detto il “più

prodigioso” dei prodigi terrestri in quanto è capace di navigare (ancora un'attività sconosciuta ai Ciclopi), arare la terra, pescare, cacciare e, di nuovo, di usare animali da traino per alleggerirsi lo sforzo del lavoro nei campi (Sofocle, Antigone, vv. 332-353). L'arte di Demetra e la conoscenza e la disponibilità dei suoi frutti sono una tappa fondamentale per la la storia della civilizzazione, spartiacque tra il tempo di una selvaggia

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ingiustizia e una vita regolata dalla moralità.

Polifemo non delude, per così dire, le aspettative che gli Achei si sono fatti su di lui: alla supplica di Ulisse di accoglierli come ospiti, onorando così gli dèi, il mostro replica con crudeltà, mostrando tutta la sua tracotanza. I Ciclopi non temono gli dèi e Polifemo risponde solamente alle proprie voglie, proprio come agirebbe un animale. Ma è di nuovo Euripide che riesce a sottolineare questa ferinità, questa unica obbedienza ai propri piaceri:

Ciclope: Per chi gonzo non è, vivere lauto, è questo il vero dio, mio caro omuncolo. Il resto sono ciance e belle frasi. A che tirasti in ballo nel preambolo i promontori su cui siede il babbo? Salutameli tanto se li vedi. Io di Zeus la folgore non temo;

né so in che dio più grande egli sia di me. […]

Che senza ribottare e tracannare dì non si passi è questo infatti, per chi ha sale in zucca, il vero dio – e dando al vento i crucci. Ché se c'è chi la vita complicò

inventando le leggi, mal lo colga! (Euripide, Il Ciclope, vv. 356 ss.)

I temi della selvatichezza, dell'istintualità e del compiacimento sono dunque legati a quello della superbia e della tracotanza verso gli dèi: il solo dio conosciuto da una tale bestia è lui stesso con i propri bisogni. In questo caso dunque alla dolce serenità della natura che preserva tutti i tratti della meravigliosa terra cantata da Esiodo, alla condizione di generosità del mondo nei confronti della specie ciclopica, si contrappone la rudezza di una vita nello stato di natura. Se non ci fermiamo all'apparenza di un paesaggio opulento e rigoglioso ma andiamo fin nelle caverne abitate da quei giganti, vediamo la realtà delle cose: non può esistere età dell'oro senza devozione agli dèi. I Ciclopi avrebbero tutte le possibilità per vivere nelle stesse condizioni della stirpe aurea se solo riconoscessero il favore che Zeus riserva loro e la superiorità divina. Ma resta il Polifemo omerico il più empio tra loro, tanto che tutti gli altri, accorsi al suo cospetto in seguito alle sue urla di dolore per l'accecamento provocato da Ulisse, riconoscono la necessità di rivolgersi ad un dio e non hanno dubbi che la sventura gli sia stata mandata da Zeus:

«Nessuno amici mi uccide con frode; non con la forza» E i ciclopi, insieme raccolti, dissero allora:

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il male ti viene da Zeus e schivarlo non puoi;

prega piuttosto Poseidone, il dio che ti è padre». (Odissea, IX, vv. 408-412)

La rappresentazione di Polifemo come il “cattivo selvaggio”, dunque, non è dovuta tanto al contesto in cui si trova, bensì al suo peculiare atteggiamento. Gli è diametralmente opposto ad esempio Filottete, il protagonista della tragedia di Sofocle che viene abbandonato dai suoi compagni Achei in viaggio per Troia sull'isola di Lemno per il fetore emanato da una sua ferita. Egli, condannato ad una vita di solitudine e stenti, non perde il suo ideale di civiltà e cerca di ricrearsi le migliori condizioni per vivere decentemente. Inoltre l'eroe tragico soffre terribilmente del proprio stato di isolamento, riconoscendo che l'unica vita davvero umana è quella in comune con i propri simili. Canta infatti il coro di marinai:

In che modo, in che modo mai può far fronte alla sua sventura? Oh potenza dei mortali,

infelici nobiltà degli uomini,

cui toccò gioia oltre misura! (Sofocle, Filottete, vv. 175-179)

L'opera terminerà addirittura in un lieto fine, in cui Filottete accetterà di riunirsi all'esercito greco per vincere Troia. Questo a testimonianza della fondamentale coincidenza tra vita in comune e vita umana. La nozione di tale coincidenza si coglie anche negli episodi riguardanti Polifemo, ma sul versante negativo del binomio: la mancanza dell'una è necessariamente accompagnata alla mancanza dell'altra.

Ma la narrazione di Euripide ci apre anche scenari che complicano un po' questo sicuro giudizio di specie bestiale e scellerata che emerge al primo sguardo dalla descrizione della vita tra Ciclopi. E di nuovo il particolare rivelatore, il campanello d'allarme che ci invita ad una rilettura sotto una luce diversa, è offerto dalla dieta tenuta da Polifemo. E' vero che egli non si nutre di pane, grano e suoi derivati, ma alimento principe dei suoi pasti è il latte: cagliandolo produce il formaggio, berlo è l'accompagnamento perfetto ad ogni cibaria. E per procurarsi il latte Polifemo cura meticolosamente il suo gregge, divide gli agnelli secondo l'età, munge le pecore ogni giorno, lascia al pascolo i montoni. Ed il nutrirsi prevalentemente di latte è tipico, nell'etnografia leggendaria, di quei popoli selvaggi, lontani dalla civiltà greca, che però conoscono giustizia e rettitudine. Nell'Iliade sono i «nobili» Ippemolgi che si cibano di latte (Iliade, XIII, vv. 5-6), nella lettera dello pseudo-Anacarsi si legge come il saggio scita (in alcune occorrenze inserito tra i Sette

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Savi) si cibi solamente di latte, formaggio, carne e acqua11, nel Prometeo liberato di Eschilo si legge de' «I giusti (eunomoi) Sciti, bevitori di latte di cavalla» (fr. 198 N.). Non sarà dunque un caso che una caratteristica tanto importante per l'antropologia greca sia stata attribuita ad un popolo sì rozzo ed inumano, ma abitatore di un luogo tanto piacevole che abbonda di tutto ciò di cui vi è necessità e il ciclope12, con ciò, viene ad essere un personaggio meno marcatamente negativo, più ambivalente. Addirittura nel terzo libro delle Leggi Platone paragona esplicitamente con la costituzione dei Ciclopi quella degli uomini di montagna salvatisi dal diluvio (giusti, senza bisogno di giudici, non violenti), dai quali ripartirà la società13. Viene detto patriarcato (dynasteia) quel regime che governa questi uomini e prevede che essi non si riuniscano in assemblee ma ognuno comandi sui propri figli e le proprie donne. Si noti come Platone si riferisce ad Omero:

Ateniese: E' vero, [Omero] rende questa testimonianza, anzi prendiamolo pure come rivelatore del fatto che simili ordinamenti possono esistere. (Platone, Leggi, III 680d 4-5)

Omero è quindi considerato una sorta di fonte per comprendere gli antecedenti della società attuale: i Ciclopi sono la trasfigurazione epica del tempo selvaggio, ma giusto, in cui gli uomini vivevano prima di scoprire la civilizzazione.

Ma nella mentalità greca un popolo in particolare fu l'esempio del “selvaggio”, sia del cattivo che del buono: quella gente scitica degli Ippemolgi che abbiamo visto essere “nobili” e “bevitori di latte”, gli stessi dai quali emerge l'emblematica figura di Anacarsi. Essi vivono nel profondo nord, tra il freddo e l'ambiente inospitale: sono l'esempio del popolo esotico, ed è proprio questo esotismo che inevitabilmente fa nascere miti e curiosità. Gente rozza e dura da una parte, dall'altra non hanno però smesso di essere guardati con favore. Una descrizione generale di tale popolazione si trova nel De aere,

aquis, locis ippocratico (in particolare nei capitoli dal 19 al 23), che li inserisce in un

discorso più ampio su come il clima e l'ambiente possano influire sui costumi dei popoli. Abitano regioni nordiche, nelle quali il sole riesce a raggiungerli solamente intorno al

11 Le lettere di Anacarsi sono databili al I secolo a.C. e hanno probabilmente un'origine cinica. La lettera a cui qui si fa riferimento è la quinta, indirizzata ad Annone. Anche Cicerone ci riporta le parole del saggio scita nel III libro delle Tusculanae disputationes, volendo dimostrare come un filosofo dovrebbe saper vivere senza l'ossessione per il denaro, seguendo un regime più ristretto, proprio come insegna Anacarsi. 12 Anche se possiamo fare una distinzione tra il popolo dei Ciclopi e Polifemo: se possiamo dubitare della

totale malvagità della comunità, considerando appunto il contesto in cui è inserita, il tipo di alimentazione e gli ammonimenti a Polifemo riguardo al rispetto degli dèi, è più difficile invece salvare l'immagine di Polifemo stesso che rimane un antropofago empio e brutale, isolato dai suoi simili.

13 Approfondiremo nel terzo capitolo il tema dei miti platonici circa le cicliche distruzioni e rinascite della civiltà.

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solstizio d'estate, battute da venti freddi e costantemente nebbiose. Il loro inverno è lungo e rigido mentre l'estate è quasi inesistente: questa uniformità di clima comporta anche una monotonia nella dieta che si basa sempre sugli stessi alimenti, che a sua volta porta alla somiglianza di tutti gli individui. Essi hanno corpi flaccidi e grassi, tali che non si distinguono le articolazioni: sono definiti umidi (hygroi). Tale umidità comporta poca forza sia mentale che fisica, e per sopperire alla carenza di quest'ultima gli Sciti ricorrono alla cauterizzazione di spalle, braccia e articolazioni14. Viene espressamente detto, poi, che le caratteristiche di questo popolo sono dovute al freddo e all'assenza di sole. Ma da queste poche informazioni non riusciamo a cogliere il fascino che gli Sciti esercitano sui Greci; dalle parole di Erodoto invece veniamo meglio a conoscenza di quei loro tratti che, seppur selvaggi, provocano ammirazione per questi barbari:

Il Ponto Eusino, verso cui marciava Dario, tra tutti i paesi è quello che presenta i popoli meno intelligenti, tranne gli Sciti: infatti, per il suo sapere, non possiamo citare nessun popolo di quelli all'interno del Ponto, né sappiamo che vi sia nato un uomo colto a parte il popolo degli Sciti e Anacarsi. Una sola cosa -ma la più importante delle cose umane- è stata risolta dal popolo scitico nel modo più saggio fra tutti coloro di cui si abbia conoscenza, sebbene quanto al resto non ammiri questo popolo. La cosa importantissima escogitata dagli Sciti consiste nel fatto che nessuno, se lo attacca, può sfuggire e che, se essi non vogliono essere scoperti, non è possibile sorprenderli. In effetti, uomini che non possiedono né città né mura costruite, ma che si portano dietro la casa e sono tutti arcieri a cavallo, che non vivono di agricoltura ma di bestiame, che hanno le loro abitazioni su dei carri, come potrebbero non essere imbattibili, anzi impossibili da attaccare? (Erodoto, Storie, IV 46)

Erodoto prosegue per svariati paragrafi il suo excursus sul popolo scitico, descrivendone nei dettagli le usanze e le tradizioni. Se nel testo ippocratico potevamo osservarlo da un punto di vista fisico, Erodoto aiuta a completare il quadro grazie ad una prospettiva prettamente culturale ed antropologica. Lo storico descrive gli Sciti come gente votata alla guerra e alla violenza: è Ares il dio a cui sono maggiormente devoti, i cui sacrifici sono più elaborati, l'unico al quale vengono innalzati santuari e statue. La loro vita è interamente regolata dalle attività belliche: l'onore e la gloria vengono misurati con il metro degli scalpi dei nemici uccisi in battaglia (l'espressione “mantello scitico” era comune per intendere lo scalpo umano, poiché usavano conciarlo e lavorarlo per sfoggiarlo e dimostrare il proprio valore) e solamente riportando questi al re si può accedere al bottino

14 Nella medicina ippocratica, e più in generale nelle teorie biologiche del V secolo, si tendeva a sottolineare l'influenza sulla costituzione corporea di quattro qualità fondamentali e della loro proporzione: le due coppie di opposti caldo/freddo e secco/umido. Se si avesse avuto un eccesso da una parte si procedeva tentando di incrementare il suo contrario. Nel caso dell'umidità per gli Sciti ad esempio, essi tentano di frenarne gli esiti (la mollezza, la debolezza) con il fuoco che, seccando, dunque aumentando la tensione, conferisce la forza.

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di guerra. La violenza è all'ordine del giorno: ogni rito, ogni evento, è accompagnato da sangue umano. Sono dei barbari e come tali rifiutano influenze civilizzatrici, ovvero greche. Quell'Anacarsi che tanto viene stimato in ambiente ellenico fu ucciso dal suo re perché importatore di usanze straniere; un altro episodio racconta di come Scile, divenuto re, sia stato decapitato dal suo stesso fratello per aver compiuto riti dionisiaci, avversati dalla gente della Scizia.

Se questi sono i lati negativi rinvenuti nel popolo degli Sciti, vi si può riscontrare però, tra le righe, un tipo di vita semplice ed elementare che non troppo si discosta da quel “primitivismo culturale” studiato nel volume di Boas e Lovejoy. E' proprio tale primitivismo che ispira tanta ammirazione nel popolo greco. La più fervente ed estesa testimonianza in questo senso ci perviene però da Strabone, vissuto a cavallo tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C., dunque molto posteriore ai testi che abbiamo preso finora in considerazione. Nel VII libro della sua Geografia, Strabone lamenta come anche il più semplice dei popoli si sia corrotto al suo tempo attraverso il contatto con altre genti. La corruzione è stata chiamata “civilizzazione”, ma è stata proprio essa la causa dell'uscita da quell'autosufficienza che distingueva gli Sciti. Strabone tramanda, comunque, il commento entusiasta espresso due secoli prima da Eforo nelle sue Storie su quelli che sono “gli uomini più giusti”:

E quest'opinione esiste ancora tra i Greci, per cui li consideriamo il più semplice e meno ingannevole dei popoli, più frugali e autosufficienti rispetto a noi. E ormai la vita alla nostra maniera ha diffuso in praticamente tutti i popoli un cambiamento per il peggio, introducendo loro i lussi, e piaceri e cattive pratiche ed atti egoistici senza fine. Quindi molti di questi tipi di mali sono penetrati tra i barbari, tra i nomadi come tra gli altri. Poiché si sono messi per mare si sono rovinati, rivolgendosi alla pirateria e uccidendo gli stranieri. E poiché si sono mischiati con altri popoli, hanno condiviso le loro stravaganze e abitudini commerciali. Queste cose sembrano portare ad una maggiore civiltà, ma corrompono la morale e introducono astuzie (poikilia) al posto della semplicità di cui abbiamo detto prima. […] Eforo nel quarto libro della sua storia, intitolato Europa, dopo aver viaggiato per l'Europa fino agli Sciti, dice verso la fine che le vite dei Sauromati e degli altri Sciti sono diverse. Infatti i primi sono tanto crudeli fino al punto di essere cannibali, i secondi si rifiutano addirittura di mangiare animali. Altri scrittori, dice, parlano della loro crudeltà perché sanno che il pauroso ed il meraviglioso sono sorprendenti. Ma avrebbero dovuto dire la cosa opposta e innalzarli a modelli, e lui stesso dunque parlerà di coloro che hanno la morale più giusta. Infatti ci sono alcuni degli Sciti nomadi che si nutrono di latte di cavalla e superano tutti con la loro giustizia, ed i poeti se li riportano alla mente. Omero dice “Gli Abii bevitori di latte di cavalla, i più giusti degli uomini”, parlando di Zeus che guarda in basso sulla terra, e Esiodo nel cosiddetto Il circuito della Terra, dice che Fineo fu portato dalle Arpie “nella terra dei bevitori di latte che hanno le case sui carri”. Ed egli spiega questo sulla base che essendo frugali e fuori dai commerci, si comportano bene l'un l'altro, hanno tutte le cose in comune, le mogli, i figli e tutti i parenti. Inoltre sono inconquistabili dagli stranieri, poiché non hanno niente per cui essere fatti schiavi. (Strabone, Geografia, VII 301-303)

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E' un passo davvero emblematico per il tono di rimpianto per una vita selvaggia che ricorda gli inizi dell'uomo sulla terra. Oramai perfino gli Sciti si sono corrotti, ma nel ricordo di tutti rimarranno sempre semplice e giusto popolo lodato da Omero ed Esiodo. Sono gli scambi commerciali lo spartiacque che divide il tempo della giustizia da quello della degenerazione: a causa di questi gli Sciti sono venuti in contatto con altri popoli, hanno iniziato a conoscere il lusso ed i piaceri più sfrenati, hanno visto la strada più facile nell'ingiustizia e si sono dedicati alla pirateria e agli omicidi. Prima invece, prima della grande svolta “civilizzatrice”, non si interessavano affatto alle ricchezze ed ai beni, anzi avevano tutto in comune, compresi moglie e figli: grazie a questa usanza, in primo luogo, non avevano motivi per ingannarsi o truffarsi l'un l'altro, secondariamente non attraevano nemici desiderosi di conquistarli.

Questo tratto comunitario è davvero notevole se pensiamo a come Platone costruisce la sua città ideale nella Repubblica. Alla fine del III libro già si preannuncia quale sarà il regime da far osservare ai guardiani della città: essi non dovranno possedere niente perché oro, argento e ricchezze possono portare ad empietà indicibili, se mai maneggeranno oggetti preziosi diverranno subito degli odiati padroni e non dei governanti alleati degli altri cittadini; inoltre faranno vita comune, in mense ed abitazioni collettive, nelle quali tutto sarà di tutti. Queste sono le condizioni per cui degli uomini possano divenire davvero giusti (Repubblica, III 416d-417b). Nel V libro poi le perplessità di Adimanto aprono la strada all'esposizione delle “tre ondate”, le tre regole più rivoluzionarie di Kallipolis: se la prima consiste nell'uguaglianza di educazione per uomo e donna e la terza nel governo affidato solamente ai filosofi, la seconda prevede la comunanza di donne e figli per i guardiani. Prevedendo che tale affermazione riceverà critiche da ogni dove, Socrate si prodiga a spiegare come sia una riforma della massima utilità per la città: la comunanza di donne e figli porta infatti alla concordia tra tutti i governanti, che si riconosceranno tutti parenti e metteranno in comune le cose:

-Allora, tra tutti, sarà specialmente il nostro stato quello in cui, se un singolo si trova bene o male, tutti i cittadini pronunceranno le parole or ora da noi citate: “le mie cose” vanno bene oppure “le mie cose” vanno male.- -E' verissimo- disse. -Ora, non abbiamo detto che questo modo di intendere e di dire implica comunanza di piaceri e dolori?- -Si, e a ragione- -E non saranno soprattutto i nostri cittadini ad avere in comune la stessa cosa, che denomineranno “mia”? E avendola in comune, non avranno così la massima comunanza di dolore e piacere?- -Si certo- -Ora, la causa di questa situazione, oltre che nel resto della costituzione, non sta nel fatto che i guardiani hanno comuni le donne e i figli?- -Si- rispose -è soprattutto questa.- […] -Ecco dunque quale risulta la fonte del maggior bene per lo stato: che gli ausiliari abbiano figli e donne comuni. (Repubblica, 463e-464b)

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Così questo carattere, riscontrato da Eforo in una popolazione primitiva come gli Sciti, risulta fondamentale non solo per una società civile, divisa in classi e sviluppata tecnologicamente e culturalmente, ma per la migliore delle società civili.

Nel resoconto di Strabone vi è di nuovo, inoltre, il riferimento ad un'alimentazione incentrata sul latte: tanti altri autori riportano questo particolare riguardo agli Sciti, come Omero ed Eschilo, come abbiamo visto, o anche il comico Antifane, nel IV secolo, che ci dice che essi davano ai loro bambini latte di cavalla e non accettavano cattivi maestri. Ancora, leggiamo nell'Orbis descriptio dello Pseudo-Scimno (II secolo a. C.):

Attraversato il Pantacape, incontriamo la tribù dei Limni ed altre non molto conosciute. E quelli chiamati Nomadi sono molto pii, e nessuno di loro farebbe del male ad un essere vivente. E si portano dietro la propria casa, come ho detto, e si nutrono del latte delle cavalle scitiche. Vivono in comune, poiché hanno le loro proprietà e tutta la vita sociale su basi comuni. Ed il saggio Anacarsi si dice venga dai Nomadi, i più pii tra gli uomini. (Pseudo-Scimno, Orbis descriptio, 850-859)

Questi giustissimi Sciti sembrano avere in comune con gli empissimi Ciclopi più di quanto ci si potesse aspettare: in entrambi i popoli manca, infatti, una cultura agricola (il latte diviene quindi la principale fonte di sostentamento) sia una cultura commerciale, inoltre né gli uni né gli altri vivono in città (gli uni perché nomadi, gli altri perché privi di vita sociale), né necessitano di alte mura difensive.

Ulteriore punto rilevante per un certo tipo di primitivismo culturale è l'intento del “non fare male a creatura vivente” implicato nel vegetarianesimo. Su tale questione, come abbiamo potuto notare, le informazioni pervenute sono discordanti: Erodoto riferisce di violenti sacrifici agli dèi, che talvolta vogliono anche esseri umani sull'altare come vittime, mentre nella lettera di Anacarsi si legge che il saggio scita si nutre solamente di latte, formaggio, carne e acqua: questi documenti più tardi attestano un totale rispetto degli Sciti verso gli animali, in quanto accomunati all'uomo dal fatto di essere “esseri viventi”. E' abbastanza facile dubitare della veridicità di queste affermazioni su un popolo che si astiene del tutto dal nutrirsi di carne o che non sfrutta gli animali, ma esse restano comunque importanti perché rivelatrici dei tratti attribuiti alla vita ritenuta più giusta e retta possibile. Gli uomini più pii che esistano tengono una condotta che comprende il vegetarianesimo, e tale usanza caratterizzava i primi uomini, come ribadito per esempio in frammenti di Empedocle che descrivono appunto la vita di quell'età antica in cui la sola dea venerata era la cipride Afrodite, un'età, dunque, in cui il ciclo cosmico tra philia e

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neikos aveva fatto posto all'apice del regno della concordia:

Tutte le cose erano gentili e obbedienti per l'uomo,

animali e uccelli, mostrando benevolenza l'uno con l'altro. (fr. 130)

La civiltà inizia così la sua secolare autocritica, ravvisando in popoli comunemente ritenuti più selvaggi ed arretrati dei tratti positivi ormai perduti e da rimpiangere. La Grecia del V secolo era pronta a guardarsi allo specchio e a riconoscere i propri vizi e le proprie ombre, trovandone la causa proprio in quel progresso che aveva permesso l'emergere della cultura greca. Se Aristofane negli Uccelli racconta la fondazione di un'altra città necessaria perché Atene è ormai degradata e viziosa, se anche i malvagi Ciclopi riescono ad avere un minimo di attrattiva, se il più giusto dei popoli non è quello che ha gettato le basi della democrazia, ma quello che non è mai uscito da un regime primordiale, forse questo sviluppo civile ha dei punti deboli su cui riflettere.

Ma d'altra parte tale sviluppo c'è stato e, prima di portare alla degenerazione dei costumi, ha favorito uno stile di vita più sicuro e semplice, allontanando l'uomo dai pericoli della vicinanza con le bestie feroci e assicurandogli, con le tecniche, la possibilità di alleviare la fatica o di opporsi ad una natura ostile. La faccia più lucente del progresso non può comunque essere ignorata.

3 The bright side of the moon

Se cerchiamo di andare indietro fino alle prime testimonianze di una fede nel progresso umano15 troviamo il frammento 18 di Senofane, che recita:

Gli dèi non rivelarono agli uomini tutte le cose fin dall'inizio,

ma gli uomini con la loro ricerca trovarono nel corso del tempo ciò che è meglio. (fr. 18 Diels-Kranz)

Questo pensiero è diametralmente opposto ai rimpianti esiodei per l'età dell'oro; in Senofane l'uomo è veramente l'artefice della propria vita e del proprio progresso. Secondo la concezione delle arti di Esiodo, inoltre, esse sono un furto perpetrato da Prometeo agli dèi, di qualcosa che agli uomini non doveva nemmeno essere conosciuto. Il frammento di Senofane si contrappone poi anche anche alla tradizione omerica per cui gli dèi “protettori

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di tutte le cose” sono anche coloro che hanno concesso i mestieri ai mortali e ne dispensano l'uso da farsi. Senofane crede invece nella responsabilità dell'uomo riguardo al proprio destino in un'ottica positiva nella quale l'uomo ha trovato “ciò che è meglio” con le proprie forze e, presumibilmente, nulla vieta che possa continuare su questa strada. Un esempio di tale credenza lo ritroviamo anche nei frammenti 3 e 4 del filosofo di Colofone: in questi, infatti, egli attribuisce l'invenzione della moneta al popolo dei Lidi (fr. 4 Diels-Kranz), facendo dunque di una delle più importanti conquiste economiche e culturali dell'uomo un affare tutto terreno, senza il bisogno di consigli divini, e rimprovera ai propri concittadini di avere appreso dagli stessi Lidi il lusso (fr. 3 Diels-Kranz), attribuendo nuovamente all'uomo stesso l'origine dei costumi. Questa fede nel progresso vede nel tempo il mezzo attraverso il quale l'uomo riuscirà a raggiungere il meglio. La ricerca delle tecniche migliori si svolge cronologicamente: col passare degli anni, dei decenni, dei secoli, vengono compiute scoperte sempre più utili e l'uomo può vivere sempre più agevolmente. Non dimentichiamo qui il periodo storico in cui visse Senofane e le sue esperienze di vita: nato nel 570 a.C. a Colofone, viaggiò per tutta la vita, forse anche entrando in contatto con popolazioni straniere, interessandosi allo studio di tutte le discipline e perseguendo un ideale di saggezza di cui riteneva di potersi fare portavoce tra gli uomini. La sua fiducia nelle possibilità dell'uomo probabilmente era dovuta anche agli avanzamenti tecnici e scientifici che vedeva accumularsi attorno a sé: furono introdotti nuovi sistemi monetari, furono unificati pesi e misure, l'ingegneria edile fece enormi balzi in avanti con la costruzione del tempio di Artemide ad Efeso, del tunnel a Mileto e del ponte sull'Ellesponto. Inoltre Talete aveva previsto l'avvento di un'eclissi di sole e ciò aveva destato grande ammirazione in Senofane (siamo a conoscenza di tale stima grazie al frammento 19 dello storico dell'astronomia Eudemo).

Anche se il pensiero scaturito dal frammento 18 di Senofane non sembra aver riscosso grande successo tra i suoi contemporanei, può esser considerato il primo riconoscimento di un progresso che va di pari passo con la storia e che è tutto e del tutto in mano agli uomini. Tale riconoscimento non mancherà di avere un seguito nei pensatori dei secoli successivi tanto che Edelstein parla della «prima Querelle des anciens et des modernes16» paragonando il dibattito del V secolo a.C. tra progressismo e ciò che noi abbiamo chiamato primitivismo a quello avvenuto nel clima preilluministico della fine del

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XVII secolo. Sulla stessa posizione di Senofane si osservano autori come Anassagora, Protagora o Democrito, tutti e tre pensatori che teorizzarono un'evoluzione dell'uomo da uno stadio ferino ad uno degno di poter essere considerato umano grazie all'acquisizione delle tecniche. Un'altra voce importante che si levò, da un punto di vista che oggi considereremmo prettamente scientifico, a favore della fede in un progresso scientifico e culturale è quella del testo ippocratico Antica medicina, che nei primi capitoli delinea uno sviluppo dell'arte medica dalla tecnica dell'alimentazione in funzione di conferma dello

status di memoria assicuratale da una lunga tradizione di ricerca.

Per Anassagora l'uomo è stato in grado di costruire una civiltà avanzata in cui esprimersi al massimo delle sue potenzialità grazie soprattutto alla propria conformazione fisica: è in particolare la struttura della mano a permettere lo sviluppo dell'intelligenza umana. E' infatti prerogativa umana saper usare «l'esperienza, la memoria, il sapere e l'arte» (fr. 21b Diels-Kranz). Se l'interesse di Anassagora è principalmente naturalistico e anche gli aspetti culturali vengono ridotti a caratteristiche fisiche, con Protagora abbiamo invece, nel “mito” che ci racconta Platone, uno sguardo volto più al piano sociale (come gli uomini giungano a riunirsi in comunità) e delle tecniche (come queste siano acquisite dagli uomini).

E' Protagora stesso che narra le vicende primordiali della stirpe degli uomini nel dialogo platonico (Platone, Protagora, 319d-322d). Gli dèi, dopo aver creato tutti gli animali, tra cui l'uomo, affidano ai titani fratelli Prometeo ed Epimeteo il compito di distribuire tra di essi le varie facoltà; Epimeteo si occupa di attribuire ad ogni razza una particolare capacità o carattere: chi non è forte è veloce, i più piccoli hanno le ali per fuggire, tutti riescono a ripararsi dalle intemperie, tutti si nutrono diversamente così che mai le riserve alimentari non finiscano mai. Ma alla fine della ripartizione Epimeteo si rende conto di aver finito tutte le facoltà prima di essere giunto all'uomo; interviene dunque Prometeo, il titano che ha tanto caro il genere umano, e, non sapendo come far sopravvivere l'uomo rimasto inerme in un mondo con bestie tanto pericolose, decide di rubare ad Efesto ed Atena la sapienza tecnica (e l'uso del fuoco, senza il quale tale sapienza sarebbe totalmente inutile) per donargliela. Prometeo verrà severamente punito da Zeus, come sappiamo da altre fonti (il Prometeo incatenato di Eschilo ad esempio), ma ancora i suoi amati uomini non sono al sicuro: manca loro ancora l'ultima arte per poter vivere pienamente da uomini, ovvero l'arte politica:

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In secondo luogo, rapidamente con l'arte sciolse la voce e articolò parole, inventò abitazioni, vesti, calzari, letti e trasse gli alimenti dalla terra. Provvisiti in questo modo, da principio, gli uomini abitavano sparsi qua e là, e non esistevano città. Pertanto perivano ad opera delle fiere, giacché erano molto meno potenti di esse: l'arte che essi possedevano era per loro un adeguato aiuto nel procurarsi il nutrimento, ma non era sufficiente alla guerra contro le fiere. Infatti, essi non possedevano ancora l'arte politica, di cui l'arte della guerra è parte. Pertanto, essi cercavano di raccogliersi insieme e di salvarsi fondando città; ma, allorché si raccoglievano insieme, si facevano ingiustizie l'un l'altro, perché non possedevamo l'arte politica, sicché, disperdendosi nuovamente, perivano. Allora Zeus, nel timore che la nostra stirpe potesse perire interamente, mandò Ermes a portare agli uomini il rispetto e la giustizia, perché fossero principi ordinatori di città e legami produttori di amicizia. (Platone, Protagora, 322a-c)

Sulla stessa vicenda, con un'impronta più drammatica, viene incentrata la tragedia eschilea Prometeo incatenato: il titano, legato ad una roccia da Zeus per aver rubato il fuoco, spiega che grande fortuna è stato lui per gli uomini, lui che fece, di esseri puerili, creature dotate di intelligenza (Prometeo incatenato, vv. 442-506). Prometeo ha insegnato la costruzione delle case, la previsione del tempo, la matematica e l'alfabeto, l'agricoltura e l'arte della navigazione, la medicina e la mantica: insomma «da Prometeo vengono tutte le tecniche ai mortali» (v. 506). L'esistenza umana prima della grande benevolenza di Prometeo era difficile, sempre in preda agli animali feroci, senza ripari dalla natura più avversa: secondo questa visione i primordi della società umana erano tutt'altro che immersi in un'età dell'oro in cui la terra sorrideva ed era benigna, ma erano uno stato di scarsità assoluta, nel quale l'uomo si ritrovava ancora più in difficoltà degli altri animali in quanto privo delle loro capacità: l'uomo senza tecnica è come un leone senza artigli, un uccello senza ali, una gazzella senza velocità. Come abbiamo già ricordato, il coro dell'Antigone di Sofocle definisce l'uomo “il più prodigioso dei prodigi” (deinoteros)17 proprio per i suoi

traguardi nella tecnica: grazie ad essa non è più indifeso ma si fa grande, pieno di risorse; solo l'Ade lo può fermare (Sofocle, Antigone, vv. 332-371). Il contrasto con gli dèi del Prometeo eschileo e la totale assenza dell'elemento divino nella tragedia di Sofocle si inseriscono chiaramente nella scia del frammento di Senofane: se l'uomo è progredito non è certo per merito dell'Olimpo.

Protagora dovette trattare delle origini della civiltà in un'opera che non ci è pervenuta intitolata Perì tes en archè katastaseos, in cui il filosofo si occupò delle

17 Il termine deinos è ambiguo: il suo significato oscilla tra “terribile” e “nobile, valente”. Colui che è deinos è talmente esperto in qualcosa da essere terribilmente o straordinariamente capace di usare tal cosa; egli può volgere sapientemente la sua capacità al bene come al male. L'uomo, con l'acquisizione delle tecniche, si fa deinos. Nei versi 364-375 l'ambivalenza della conoscenza umana si fa esplicita: questa conoscenza può incamminarsi verso il bene, seguendo le leggi della città, oppure verso il male, causando anche l'esilio dalla comunità.

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condizioni primitive dell'umanità. Secondo la visione che si ricava dal dialogo di Platone, dunque, sono tre i momenti dell'evoluzione umana, scanditi dalla padronanza o meno delle tecniche: il primo si ha con la totale mancanza di capacità tecniche e quindi con l'indigenza e l'inadeguatezza del genere umano alla natura, il secondo con l'apprendimento delle tecniche artigianali grazie alle quali iniziarono i primi agglomerati umani, il terzo con la concessione dell'arte politica che viene a risolvere i contrasti naturalmente prodotti dalla convivenza. Sono tre momenti cronologicamente distinti, ed è necessario l'ultimo per permettere una vera e propria civiltà. Una teoria altrettanto evolutiva ma in una prospettiva sincronica delle tre tappe dello sviluppo umano la troviamo invece in Democrito: se in Protagora il momento delle scoperte tecnologiche e quello degli assestamenti sociali erano ben divisi, in Democrito è un unico moto evolutivo che porta contemporaneamente all'avanzamento tecnico e sociale.

Il filosofo di Abdera narra delle origini della storia dell'uomo nella Piccola

cosmologia, uno scritto i cui commenti sono ricostruibili da Diodoro Siculo che riporta

quanto letto in Ecateo, che doveva conoscere lo scritto democriteo. In seguito alla separazione dei quattro elementi del cosmo (terra, acqua, aria, fuoco) e al loro posizionamento nei propri “luoghi naturali18”, si forma il mondo nelle sue parti più secche e più umide; proprio in queste ultime si vengono a formare membrane che circondano della putredine creatasi per il calore improvviso. Da queste nascono i primi esseri viventi che, non appena sono stati nutriti e cresciuti abbastanza, così da aver raggiunto il pieno sviluppo, escono da tali membrane per popolare la terra come animali formati. Discendono così dai primi esseri gli uccelli (che hanno maggior calore e dunque si levano in volo), i rettili (nei quali prevale l'elemento terroso) ed i pesci (in cui vi è abbondanza di elemento liquido). Dalla descrizione di questa epoca primordiale si passa subito alla comparsa dell'uomo. La sua nascita non viene narrata e possiamo presumere che egli sia sviluppato insieme con gli altri primi esseri, come ci suggeriscono alcune testimonianze successive (ad esempio Lattanzio, De divinis institutionibus, VII 7, 9) che attribuiscono a Democrito l'idea che l'uomo era stato generato inizialmente dal fango. Le stesse membrane melmose che dettero la vita agli altri animali furono anche le incubatrici della vita umana. Democrito sembra seguire in questo caso le orme di Anassimandro di Mileto, il quale

18 La nozione di “luogo naturale” per i quattro elementi è propria della fisica aristotelica e si riferisce al luogo a cui naturalmente tende un elemento se lasciato libero di muoversi. Su tale movimento influisce chiaramente il peso dell'elemento perciò aria e fuoco andranno verso l'alto e terra e acqua verso il basso. Sebbene sia una definizione posteriore, comunque è compatibile con la cosmogonia democritea.

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