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Una scorciatoia per la felicità

I selvaggi Sciti, il saggio Socrate, la “città dei porci” della Repubblica, i primi uomini delle Leggi ci hanno permesso di intraprendere un percorso di riflessione sulla felicità umana che si è sempre posto in controtendenza. Nonostante le evidenti differenze delle varie concezioni che abbiamo analizzato, non è troppo difficile trovare dei punti di contatto tra esse, punti che costituiscono pietre miliari nel nostro percorso. Ciò che è elogiato negli Sciti, ciò che Socrate consiglia e porta avanti, ciò che Platone sembra quasi rimpiangere è il ridimensionamento dei bisogni ed un conseguente atteggiamento di distanza dai beni materiali. In tutti i casi questo porta con sé il conseguimento della giustizia, della virtù e, infine, della felicità. E' innegabile, d'altro canto, che nella vita socratica o nella riflessione platonica tutto ciò poggia sopra un solido ed esplicito impianto intellettualistico, assente nell'esempio del popolo barbaro: il presupposto di Socrate è la coincidenza di scienza, virtù e felicità, mentre Platone, come abbiamo visto, rifiuta ogni soluzione primitivista che non conceda spazio alla filosofia. Per Socrate l'esiguità di bisogni è la base dell'autarkeia, così che il saggio sia sempre libero da ogni vincolo, il solo capace di comandare su sé stesso. Platone invece, in un'ottica pluralistica (anche l'anima del singolo, ricordiamo, è composta da tre parti che interagiscono tra loro), riconosce nel disinteresse per i beni e per la ricchezza la possibilità della rimozione dei conflitti e dunque di una vita tranquilla. Non va comunque dimenticato che tra gli Sciti nacque quell'Anacarsi che fu uno dei Sette Savi: anche in questo caso, dunque, viene sempre instaurato un nesso tra la sapienza e la semplicità delle condizioni di vita.

La felicità risulta così imprescindibilmente legata da una parte ad uno stile di vita sobrio e modesto, e dall'altra ad una cura per l'intelligenza e l'anima umane. Questi due elementi sono quelli che insieme dirigono l'uomo verso il possesso della virtù, che sola può aprire le porte alla felicità. Se tale idea era ben salda e radicata nella filosofia antica, essa tuttavia non mancò mai di suscitare contrasti e vero e proprio scalpore, soprattutto dal momento in cui venne a costituire la principale dottrina di una delle scuole filosofiche più irriverenti dell'antichità: la scuola cinica. Michel Foucault, nel suo ultimo corso tenuto al Collège de France, parla di “paradosso cinico” per indicare l'impronta rivoluzionaria che

ha avuto il Cinismo nel trattare temi già abbondantemente dibattuti dai predecessori1. Il Cinismo fa della filosofia un modo di vita sfacciatamente in controtendenza con il sentire comune: il bios kynikòs rende inammissibile e sconcertante ciò che era già stato accettato, si fa rottura per essere ancora più incisivo e dirompente. Esso promette di essere la strada breve per la virtù e per la felicità, ma una strada poco battuta ed impervia.

E' Apollodoro di Seleucia che, nella sua Etica, definisce il Cinismo proprio come la «strada breve per la virtù (syntomon ep'aretèn odòn)» (Diogene Laerzio, VII, 121), intendendo eliminare, con questo, il complesso di dottrine sulla virtù che le altre scuole filosofiche implicavano. Il Cinismo è solo vita filosofica, la più dura, ma anche la più soddisfacente vita filosofica. Due passi di lettere ciniche2, opere sicuramente spurie, ci confermano tale visione di questo modo di filosofare: in uno di essi, Cratete, uno degli esponenti di maggiore rilievo del primo Cinismo, rivolgendosi ai propri allievi afferma che il Cinismo è uno stile filosofico breve e diretto (Lettera XVI = SSR V H 103), mentre nell'altro Diogene racconta al padre Icesio dell'insegnamento che ha ricevuto da Antistene una volta giunto ad Atene (Lettera XXX = SSR V B 560). Antistene aveva mostrato ai suoi seguaci, ai quali si era unito Diogene, due vie per arrivare all'acropoli ateniese, una lunga ma piana e facile, l'altra breve ma aspra ed accidentata, paragonandole alle due vie che conducono alla felicità: mentre gli altri discepoli avevano già scelto la strada più lunga, Diogene si era incamminato per il percorso meno battuto. Questa la mitica nascita della filosofia cinica.

Guardando più da vicino questo “scandalo”, come Foucault definisce il Cinismo, ed il suo più scandaloso protagonista, ovvero Diogene di Sinope, scopriremo quello che fu, nella Grecia classica, uno dei più radicali percorsi per la felicità. Il nostro sguardo si poserà in particolare su quelli che furono i tratti fondamentali del Cinismo, che permisero ai suoi “profeti” di raggiungere il più alto grado di soddisfazione, ovvero, in due parole, l'adiaphoria, l'indifferenza alle convenzioni, e l'askesis, l'allenamento alla virtù.

1 La nascita della filosofia cinica

Diogene Laerzio, come abbiamo già visto, inserisce il Cinismo tra le dieci scuole

1 Michel Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli Editore, Milano 2016, pp. 223 e ss.

filosofiche derivanti dall'insegnamento etico di Socrate (I, 18) e, sempre secondo la testimonianza delle Vite dei filosofi, esso farebbe capo ad uno dei discepoli più vicini allo stesso Socrate, Antistene (VI, 13-15). Sempre seguendo il dossografo, Platone avrebbe detto di Diogene che era un «Socrate impazzito» (VI, 54). Nonostante la dubbia veridicità di queste informazioni, è importante sottolineare il debito che il Cinismo ha nei confronti di Socrate: esso deriva dal maestro la cura per l'anima e l'idea della vita filosofica come vita vera, e porta all'estremo (qui la pazzia di Diogene) i tratti più caratteristici del socratismo (l'ironia, la semplicità dei costumi, il rifiuto di conformazione all'opinione comune)3. L'immagine di Socrate, beffato da Aristofane per i suoi piedi scalzi ad esempio (Nuvole, vv. 103-104), oppure assimilato ad Eros mendicante nel Simposio da Platone, non fa che anticipare la figura del cinico che persegue un simile ideale autarchico e diviene similmente un personaggio bizzarro per la sua condotta. A Socrate, infatti, il Cinismo deve, se così possiamo chiamarlo, il suo “impegno esistenziale”, ovvero il suo farsi bios, farsi innanzitutto vita filosofica prima che dottrina4.

Nell'antichità, per tracciare una linea diretta che portasse da Socrate fino allo Stoicismo, era stata promossa la sequenza maestro-allievo Socrate – Antistene – Diogene – Cratete – Zenone, facendo così di Antistene il padre del Cinismo e di Zenone (e dello Stoicismo) il figlio primogenito dello stesso Cinismo. Diogene Laerzio scrive ad esempio:

Pare anche che a lui [Antistene] si possano far risalire le origini del più virile Stoicismo. […] Antistene anticipò l'impassibilità di Diogene, la moderazione di Cratete, la tolleranza di Zenone e pose le fondamenta della dottrina. (Diogene Laerzio, VI, 14-15)

Che nell'antichità si ritenesse il Cinismo filiazione antistenica ci è confermato anche dalle parole che Luciano mette in bocca a i suoi personaggi in uno dei suoi Dialoghi

dei morti:

Diogene: E a loro stette bene. Noi quando eravamo in vita, non pensammo mai a siffatte cose tra noi: né io mai desiderai la morte di Antistene per ereditarne il bastone, che era di fortissimo oleastro; né penso che tu, oh Cratete, desiderasti mai che io morissi per ereditare la mia ricchezza, la botte e la bisaccia, con dentro due misure di lupini.

Cratete: Io non aveva bisogno di questo e neppure tu, oh Diogene. Quello di cui avevamo bisogno tu lo ereditasti da Antistene, ed io da te. Ed è una cosa più grande e più preziosa del regno dei Persiani.

Diogene: Quale dici?

Cratete: Sapienza, frugalità, verità, libertà, franco parlare.

3 Cfr. Donald R. Dudley, A history of Cynicism, Bristol Classical Press, Bristol 1998, pp. 27-28. L'opera di Dudley resta uno dei più importanti studi moderni riguardanti il cinismo, la cui prima pubblicazione nel 1937 ha contribuito a riaccendere l'interesse per tale movimento filosofico.

Diogene: Si, per Zeus, mi ricordo che questa ricchezza io la ricevetti da Antistene, la accrebbi, e la lasciai a te. (Luciano, Dialoghi dei morti, XI)

Secondo questa versione della nascita del Cinismo, il nome stesso della dottrina deriverebbe dal ginnasio del Cinosarge, nel quale Antistene soleva recarsi e dove avrebbe svolto la sua attività di insegnamento. Ma la sopracitata successione è molto probabilmente da scartare almeno per quanto riguarda il rapporto diretto tra Antistene e Diogene. Possiamo collocare, infatti, la data di morte di Antistene intorno al 366 a.C. e, stando ad alcuni indizi, possiamo supporre che Diogene non sia arrivato ad Atene in tempo per conoscerlo. Diogene Laerzio apre il paragrafo su Diogene (VI, 20) scrivendo che fu esiliato da Sinope in seguito all'aver contraffatto la moneta (paracharattein to nomisma5):

come chiarisce Dudley6, che ritiene la notizia veridica basandosi sulla storia di Sinope7, ciò comporterebbe l'arrivo di Diogene nella capitale attica non prima del 350/340, troppo tardi per divenire discepolo di Antistene. Sarebbe dunque Diogene il primo Cane, e l'attributo di

haplokyon usato per Antistene sarebbe solamente una caratterizzazione successiva per

distinguere i due pensatori che più hanno contribuito al sorgere del Cinismo. Anche se non è lecito far risalire tutti i tratti del movimento cinico ad Antistene, infatti, è indubbio che egli abbia avuto una forte influenza sul pensiero di Diogene, colui che si può considerare l'incarnazione del saggio cinico per eccellenza ed autentico iniziatore del Cinismo8.

Antistene, come abbiamo visto, ha perseguito durante tutto l'arco della sua vita un ideale di virtù legato al valore dell'autarkeia come liberazione dell'uomo da ogni vincolo, e ciò divenne la base per la diogeniana anaideia (sfrontatezza). Inoltre, risale ad Antistene la dialettica tra piacere (hedoné) e fatica (ponos) che porterà i cinici a ritenere il primo il peggior nemico dell'uomo e a fare della vita una continua lotta contro di esso e le sue insidie9. Se dunque solo con Diogene abbiamo una definizione di un bios kynikòs vero e proprio (ed affrontando il Cinismo Diogene è il nostro primo interlocutore), è bene però tenere a mente come egli abbia mutuato temi fondamentali da Antistene, anche se

5 L'episodio assume una rilevanza particolare per la dottrina cinica, come vedremo in seguito, per cui alcuni interpreti (von Fritz e Diels ad esempio) ne negarono la storicità, attribuendolo ad un motivo di caratterizzazione della filosofia cinica.

6 Dudley, A History of Cynicism, op. cit. pp. 20-23. 7 Cfr. Ivi, cap. 2, pp. 54-55, n. 3.

8 Dudley ritiene addirittura Diogene l'unico e vero fondatore del Cinismo, definendolo «the first and greatest Cynic» (op. cit. p. XIII)

9 Per il rapporto tra Antistene e Diogene cfr. K. von Fritz, Antistene e Diogene, in Studi italiani di filologia classica, 1927, V, pp. 133-150.

probabilmente non venne mai a contatto con lui10. Dando fede a questa versione del sorgere della filosofia cinica, allora, il termine Cinismo non sarebbe più correlato al ginnasio caro ad Antistene, bensì trarrebbe origine dal greco kyon, cane, poiché proprio tale animale sarebbe il paragone più calzante per il sophos cinico. In uno scolio ad Aristotele si leggono le quattro motivazioni per cui i cinici hanno ricevuto questo appellativo: la prima è la loro indifferenza (adiaphoria) al costume corrente, per cui non temono di fare in pubblico nemmeno «ciò che riguarda Demetra e Afrodite» (Diogene Laerzio, VI, 69), la seconda la loro irriverenza (anaideia), per cui non si vergognano di niente e anzi vanno fieri della propria sfrontatezza, la terza ragione pone in parallelo il cane come animale da guardia e la guardia che il cinico fa ai propri principi, pronto ad aggredire chiunque li attacchi, mentre l'ultima fa perno sulla capacità del cane di distinguere tra amici e nemici, assimilandola a quella dei cinici che accolgono con gentilezza coloro che sono pronti a seguire i dettami della filosofia cinica, mentre ringhiano agli altri11. La tradizione che deriva il nome dal Cinosarge sarebbe da imputarsi alla volontà di accomunare il Cinismo a scuole come l'Accademia e la Stoà.

D'altronde si possono scorgere delle anticipazioni del tipico carattere dei filosofi cinici (la loro esaltazione della natura in contrapposizione alla legge e alla civiltà, la critica ad un mondo visto come “fiera delle vanità”, come suggerisce Dudley) in documenti precedenti al Cinismo stesso: come abbiamo già detto, l'etnografia antica spesso trattò dei costumi di popoli stranieri e selvaggi, guardandoli a volte addirittura con ammirazione (gli Sciti prima di ogni altro, tra i quali visse Anacarsi12), anticipando il relativismo culturale che sottostà all'idea cinica che il costume, la norma, è solamente una convenzione umana, non necessaria e spesso dannosa se contro natura. Un esempio lampante di questa visione proviene dal terzo libro delle Storie di Erodoto: qui il re etiope commenta i doni ricevuti dal re persiano Cambise, mostrando come con il mutare della cultura mutano anche i significati ed il valore dei vari oggetti preziosi (Storie, III, 22). Ulteriore testimonianza di questa tendenza ci è offerta dai frammenti delle opere di Ctesia di Cnido (IV secolo a.C.) tramandatici da Fozio, in particolare da quelli riguardanti i Cinocefali, popolazione indiana che viene descritta con caratteristiche non del tutto umane, ma detta comunque “giusta”

10 Per una breve storia del Cinismo cfr. Bracht Branham, Marie-Odile Goulet-Cazé (ed.), The Cynics.The cynic movement in antiquity and its legacy University of California Press, Berkeley 1996, introduzione pp. 4-21.

11 Ed. Brandis, p. 23

12 Cfr. R. P. Martin, The scythian accent: Anacharsis and the Cynics, in B. Branham, M. O. Goulet-Cazé, The Cynics.The cynic movement in antiquity and its legacy, op. cit., pp. 136-155

(Fozio, Biblioteca, 20, 22-23)13. L'imperatore Giuliano nella sua ottava orazione, intitolata

Contro i cinici ignoranti, scrive poi:

Un fondatore della scuola, cui si debbano ricondurre gli inizi, non è facile trovarlo, anche se alcuni sostengono che tale titolo spetti ad Antistene e Diogene. Questo almeno sembra dicesse non inopportunamente Enomao: «Il Cinismo non è Antistenismo né Diogenismo». Infatti i più insegni cinici affermano che persino il grande Eracle, com'è stato per noi, in certo modo, l'autore di ogni altro beneficio, così ha anche lasciato agli uomini il più alto esempio di questo genere di vita. Ma io, pur volendo parlare col dovuto rispetto degli dèi e di chi s'è avviato verso una sorte divina, sono della convinzione che, anche prima di lui, qualcuno, e non solo fra i Greci ma anche fra i Barbari <***>. Infatti questa sembra che sia in certo modo la filosofia di tutte le genti, quella più conforme a natura e che non abbisogna di qualsiasi studio particolare. Basta solo che si scelga ciò che è onesto, aspirando alla virtù e rifuggendo dal male, senza dover sfogliare migliaia di libri. (Contro i cinici ignoranti, VIII, 187 1-15)

Tutto ciò ci aiuta a capire che il Cinismo non fu una vera e propria scuola (mai ad esempio si tennero lezioni ufficiali, o vi fu una sede ufficiale), ma piuttosto un movimento filosofico che, come tale, affonda le sue radici in tutti gli autori che, prima della coniazione del termine “Cinismo”, sentirono urgenti temi, quali la predilezione per la physis come norma etica, in contrapposizione al nomos, oppure la cura della propria anima, che implica un allenamento continuo per raggiungere la felicità. Con l'avvento del Cinismo vero e proprio si ebbe però la canonizzazione di questi temi in un unico indirizzo filosofico che iniziò la sua storia partendo dal rivoluzionario ed innovativo assunto: “paracharattein to

nomisma”, “alterare la moneta”.

2 Altera la moneta!

Mi sembra che abbia assai ben compreso la forza della consuetudine chi ha ideato per primo quel racconto d'una contadina che, avendo preso ad accarezzare e a portare tra le braccia un vitello fin dalla nascita, e continuando sempre a farlo, giunse per abitudine a questo, che continuava a portarlo nonostante fosse un grande bue. Infatti la consuetudine è in verità una maestra di scuola violenta e traditrice. A poco a poco e furtivamente impianta in noi il piede della sua autorità; ma da questo dolce e umile inizio, una volta rafforzato e coltivato con l'aiuto del tempo, ci rivela presto un volto furioso e tirannico, di fronte al quale non abbiamo neppure la libertà di alzare gli occhi. La vediamo forzare di continuo le regole di natura14.

Il Cinismo ha rappresentato una delle più aspre e graffianti critiche alla società e alla civilizzazione. Come l'autarkeia socratica faceva a meno dei beni e delle comodità della civiltà come atto di libertà, il Cinismo, per raggiungere la stessa libertà, rigetta in toto

13 Cfr. James Romm, Dog heads and noble savages: Cynicism before the cynics?, in B. Branham, M. O. Goulet-Cazé, The Cynics.The cynic movement in antiquity and its legacy, op. cit., pp. 121-135.

le regole sociali imposte dalla convenzione. Il Cinismo si accanisce contro il “volto furioso e tirannico” della convenzione, del nomos, per alzare liberamente gli occhi verso quella che è la verità per l'uomo: la conformazione alla natura. Esso spezza le regole della consuetudine che ha “forzato di continuo le regole della natura”. Solo seguendo questa strada sarà possibile per l'uomo accedere alla vera eudaimonia. La felicità è un'acquisizione naturale, che non può derivare dall'artificio delle tecniche (siano esse poietiche o politiche), responsabile della schiavitù umana. Leggiamo a tal proposito:

Andava gridando ripetutamente che gli dèi hanno concesso agli uomini facili mezzi di vita, ma anche tuttavia gli hanno tolti dalla vista umana, perché essi cercano focacce col miele, unguenti e simili. Perciò ad un tale che si lasciava calzare dal servo disse: «Non sei ancora felice se costui non ti soffia anche il naso: verrà la perfetta felicità, quando avrai perduto l'uso delle mani». (Diogene Laerzio, VI, 44)

Per la filosofia cinica, perciò, la responsabilità dell'infelicità umana va addossata per intero a Prometeo: il titano, concedendo il fuoco e le tecniche all'uomo, lo condannò a lasciare per sempre l'idilliaco e giusto stato naturale. Con il fuoco, viene introdotta nel genere umano la mollezza (cfr. Plutarco, Aquane an ignis utilior, 2, 956b, in cui si dice che Diogene mangiava carne cruda per dimostrare l'inutilità del fuoco) e così l'uomo ha iniziato a cercare mille stratagemmi per combattere la natura, apportando a sé stesso solo malessere e sciagure. Zeus, che invece vuol bene agli uomini, punì giustamente Prometeo per aver comportato un tale danno (Dione Crisostomo15, Orazione VI, 23-25). Questa idea ha portato Lovejoy e Boas a definire il Cinismo «la prima e più vigorosa rivolta filosofica della civiltà contro la civilizzazione16», e a ridurlo, nei suoi tratti fondamentali, per intero ad un consapevole primitivismo culturale. In nome della natura il Cinismo rifiuta la società ed i suoi valori, facendosi ostinata opposizione. Per esempio leggiamo di Diogene:

Soleva entrare in teatro incontrandosi faccia a faccia con quelli che ne uscivano. Gli fu domandato perché e Diogene: «E' quel che cerco di fare in tutta la vita». (Diogene Laerzio, VI, 64)

Il motto “alterare la moneta” deriva proprio da Diogene. Vi sono versioni discordanti riguardo l'origine di questa massima, che Diogene Laerzio riporta accuratamente aprendo la vita del filosofo: non è chiaro se fu Diogene stesso oppure il

15 Dione Crisostomo scrive delle orazioni diogeniane (di cui ci sono arrivate solamente cinque), che rappresentano una fonte importante per conoscere il filosofo cinico. Per la loro localizzazione nella letteratura di Dione cfr. Aldo Brancacci, Le orazioni diogeniane di Dione Crisostomo, in G. Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Il mulino, Bologna 1977, pp. 141-171. Cfr. anche SSR, n. 53.

padre Icesia, importante banchiere di Sinope, a battere moneta falsa nella città natale e, anche se fu egli stesso, c'è chi dice che gli fu ordinato dal dio dopo aver consultato l'oracolo di Delfi (Diogene Laerzio, VI, 20-21). Sta di fatto che, ben presto, quello che era stato un gesto concreto (assumendo come veritiero l'episodio in una delle sue forme) divenne il simbolo dello stile di vita cinico.

L'imperatore Giuliano nelle sue due orazioni riguardanti la filosofia cinica, Contro i

cinici ignoranti e Contro il cinico Eraclio, riassume tale filosofia esclusivamente nei due

principi delfici “conosci te stesso” e “altera la moneta”, l'uno consegnato a Socrate e l'altro a Diogene. Seguendo le parole del dio, così, si spiana per l'uomo la strada verso la felicità, che altrimenti sarebbe irraggiungibile. L'uomo, infatti, per Diogene e per il Cinismo, è un essere infelice17, schiavo delle catene che si è autoimposto attraverso la civilizzazione.

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