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Platone e la costruzione della civiltà

La vicenda di Socrate, la condanna dell'uomo più giusto tra gli Ateniesi, e la conseguente critica ad una società che aveva potuto permetterla, insieme a tutta la riflessione sulle tecniche, riassunta perfettamente dai versi dell'Antigone sulle capacità dell'uomo di compiere tanto il bene quanto il male (Antigone 332 ss.), rinnovarono la necessità di elaborare un ideale di vita più semplice e giusto. Fece nuovamente la sua comparsa, in questo quadro, ciò che abbiamo incontrato con il nome di primitivismo.

Un testimone fondamentale di questo rinnovato sentimento di insoddisfazione è stato Platone. In lui si uniscono appieno la delusione per la politica, che ha miseramente fallito sia nelle vesti democratiche sia in quelle oligarchiche, e la consapevolezza della corruttibilità dell'animo umano. In Platone etica e politica si vengono spesso a sovrapporre, laddove la ricerca filosofica verte sulla giustizia e sulla costruzione di una società migliore. La speculazione riguarda quindi tanto il singolo quanto l'intera comunità: per Platone «esiste una giustizia del singolo individuo ed in certo senso anche quella di uno stato intero» (Repubblica, 368e), dunque per scoprire cosa sia la giustizia e come essere giusti si può partire cercandone le basi nel macrocosmo dello stato. Platone si chiede, per un certo verso, se, vista la crisi politica dell'Atene dell'inizio del IV secolo, sia necessario un ridimensionamento ed una semplificazione delle aspirazioni cittadine, se la giustizia sia compatibile con un così alto livello di abilità tecniche, di fioritura economica, di complessità sociale. D'altra parte uno stato non è composto solo dai suoi governanti e dunque è fondamentale individuare il comportamento corretto del buon cittadino. In quattro passi in particolare dell'opera platonica troviamo una descrizione/costruzione di società, che tenta di rispondere agli interrogativi riguardanti i regimi politici ed il miglior stile di vita dei cittadini: si tratta di Repubblica 369b-372d, Politico 269a-275b, Timeo 21a- 25d-Crizia 108f-121a e dell'inizio del terzo libro delle Leggi. Un esame di questi testi potrà consentire di comprendere il valore che Platone attribuisce alla civilizzazione, di capire a quale grado di incivilimento egli colloca la possibilità di una società giusta, di cogliere la portata dell'ideologia primitivista in uno dei più influenti pensatori dell'antichità1.

1 Per un inquadramento di questi dialoghi in questo tema cfr. Arthur O. Lovejoy, George Boas, Primitivism and related in antiquity, op. cit., pp. 155-168, M. M. Sassi, Natura e storia in Platone, in Histoire de l'historiographie, 9, 1986, pp. 104-127.

I dialoghi sopracitati sono quasi tutti appartenenti al periodo della vecchiaia di Platone, periodo di revisione e di distacco dalla figura di Socrate; l'unico a fare eccezione è la Repubblica, iniziato verso il 390 e dunque compreso tra gli scritti della maturità. Può essere proficuo partire proprio da un'analisi di quest'opera, per poi seguire un andamento cronologico anche affrontando gli altri tre dialoghi, così da poter abbracciare lo sviluppo del pensiero di Platone nel corso del tempo.

1 Repubblica 369b-372d

La Repubblica è una ricerca approfondita sul potere e sulle condizioni di legittimità e di giustizia di questo, dovuta probabilmente alla delusione di Platone nei confronti delle due forme di governo che avevano dominato ad Atene fino ad allora, quella democratica e quella oligarchica -sia pure per tempo assai più breve-. Se la democrazia aveva portato la città prima alla guerra e poi alla sconfitta contro Sparta, e la restaurazione democratica era stata la colpevole della condanna a morte di Socrate, l'oligarchia si era macchiata di orrendi crimini con il regime dei Trenta Tiranni2. La giustizia aveva dunque lasciato Atene da molto tempo e non era più rintracciabile nessuna base per un modello di Stato giusto. Per fondare una città giusta, dunque, per scoprire quale fosse la costituzione migliore, non restava che partire da zero, “incontrare” l'uomo al di fuori dello Stato e vedere come quest'ultimo si potesse evolvere. Nel secondo libro della Repubblica accade proprio questo: Socrate costruisce razionalmente uno Stato, cercando di crearlo secondo giustizia, così che si possa finalmente giungere a risolvere l'enigma posto da Glaucone: cos'è la giustizia3?

Lo Stato sorge per far fronte alla condizione di insufficienza del singolo: esso è il rimedio che la chreia, il bisogno, escogita al fine di unire le forze di individui che non bastano a sé stessi. La riunione di questi individui che necessitano l'uno dell'altro prende il nome di Stato (369bd). La polis che si viene a formare è dunque una comunità di technitai che devono specializzarsi ognuno nella tecnica atta a soddisfare un bisogno: agricoltori, muratori e tessitori sono quindi i primi abitanti, che nutriranno, costruiranno e tesseranno per tutta la società (369d). Ma questi, per svolgere al meglio il proprio lavoro (secondo una

2 Cfr. introduzione, Platone, La Repubblica, a cura di Franco Sartori, Editori Laterza, Roma-Bari 1994, p. 2.

3 Cfr. Silvia Campese, La genesi della polis, in Platone, La Repubblica, traduzione e commento a cura di Mario Vegetti, Bibliopolis, Napoli 1998-2003 vol. II, pp. 185-332

logica di massima specializzazione che favorisca la solidarietà tra i vari membri della società ed una maggiore efficienza), hanno a loro volta bisogno di artigiani che producano loro gli attrezzi (369e-370d). Si aggiungeranno inoltre allevatori e mercanti, commercianti e mercenari (misthotoi, coloro che vendono le proprie capacità fisiche, la propria forza, dei salariati), tutti per la stessa logica espansiva della chreia: per ogni bisogno va trovata una figura di riferimento che vi supplisca (370e-372e). A questo punto siamo giunti alla città compiuta, telea, che però non è una città politica ma economica: essa nasce per permettere la collaborazione (nel senso più stretto del termine di “lavorare insieme”) degli uomini e sussiste in quanto organizzazione del lavoro. Apparentemente non vi è spazio per l'etica, né tanto meno per la giustizia in una città simile; a tale proposito infatti ci si limita ad affermare che la giustizia consiste solamente «nel reciproco uso di queste cose» (372a), ovvero all'adempimento di ognuno al proprio lavoro specifico. Non è in uno Stato così semplice che la giustizia o un regime giusto possano emergere. Ma uno Stato così semplice è ciò che Socrate chiama «uno Stato sano» (372e), perché sani sono i suoi abitanti. Guardiamo infatti qual'è il tenore di vita (diaitesontai) di questi cittadini, leggendo le parole pronunciate da Socrate:

-E prima di tutto vediamo in che modo vivranno uomini così organizzati. Non forse producendo alimenti, vino, abiti e calzature? E si costruiranno abitazioni e nella stagione calda lavoreranno per lo più seminudi e scalzi, nella fredda ben vestiti e calzati. Si nutriranno di farine ricavate dall'orzo e dal frumento ora cuocendole ora impastandole, e serviranno belle focacce e pani su canne o foglie pulite, sdraiati su giacigli cosparsi di smilace e di mirto, banchetteranno bene in compagnia dei loro figlioli e ci berranno sopra vino, inghirlandati e cantando inni agli dèi, lieti di stare insieme, e non metteranno al mondo più figli di quanto consentano i mezzi di vita, per timore della povertà o della guerra.

E Glaucone entrò a dire -Mi sembra che tu faccia pranzare la gente senza pietaze.- -Giusto- ammisi -mi son scordato che dovranno averne, cioè sale, olive, formaggio, e si cuoceranno gli alimenti propri della campagna, cipolle e legumi. Serviremo loro, non è vero?, anche pasticcini di fichi, ceci e fave; e abbrustoliranno al fuoco bacche di mirto e ghiande, bevendoci sopra con moderazione. Così passeranno la vita, come è naturale, in pace e buona salute, moriranno in tarda età e trasmetteranno ai discendenti un sistema di vita simile a questo. (372a- d)

Siamo ancora nell'ottica del produrre, del poiein: i cittadini trascorrono il loro tempo le attività lavorative, ma subito la prospettiva si inverte: ora consideriamo quegli stessi uomini non più come produttori ma prevalentemente come consumatori. Da questo quadro del loro stile di vita spicca in particolar modo l'attenzione con cui Platone descrive le abitudini alimentari. Abbiamo già visto, nel primo capitolo, che rilevanza abbia la dieta a livello antropologico: come l'agricoltura sia un passo fondamentale nel percorso di civilizzazione, come la cottura dei cibi differenzi il cibarsi umano da quello ferino, come il

latte ed i suoi derivati siano un nutrimento che caratterizza la dieta dei popoli più giusti. Tutte queste considerazioni vanno tenute ben presenti affrontando il banchetto degli abitanti di questa prima città costruita da Socrate. Le pietanze che troviamo su questa tavola sono assai semplici, tuttavia denotano un netto allontanamento dalla sfera animale: le farine utilizzate per impastare le focacce evidenziano non solo la coltivazione dei cereali, ma anche l'uso della macinazione, così da poter distinguere il prodotto destinato agli uomini (le farine appunto) e quello adatto agli animali (i chicchi non lavorati). Inoltre queste focacce sono cotte, e la cottura permette la completa rottura con l'epoca primordiale: uscita dal forno quella farina mischiata con acqua non è più solamente un oggetto naturale, ma diviene un oggetto culturale, un prodotto umano, fatto dall'uomo e che rende uomo. Ma questa scarsa varietà di cibi non è gradita al giovane aristocratico Glaucone, che lamenta a Socrate l'inconsistenza dei pasti che ha previsto. A questa obiezione Socrate si decide ad aggiungere dell'opson, del companatico, al menù: gli abitanti si nutriranno anche di formaggio, olive, sale, e dei prodotti tipici della campagna come cipolle e legumi. E' interessante confrontare questa lista con quella che ci viene offerta da Trigeo nella Pace di Aristofane, commedia rappresentata nel 421, in piena guerra del Peloponneso, a ridosso della pace di Nicia. Dopo che il coro dei contadini ha liberato la dea Pace dalla grotta nella quale l'aveva rinchiusa Polemos (la guerra), Trigeo esulta, ricordando, sognante e speranzoso, lo stile di vita che vigeva in tempi di pace:

Coro: Giorno desiderato dai contadini e dagli uomini onesti, sono lieto di vederti, e voglio salutare le viti, e riabbracciare dopo tanto tempo gli alberi di fico che ho piantato quando ero giovane.

Trigeo: Adesso, amici miei, per prima cosa invochiamo la dea che ci ha tolto di mezzo i cimieri e le Gorgoni; poi corriamo a casa nelle nostre fattorie, dopo aver fatto provvista di salamoia.

Ermes: Per Poseidone, bello spettacolo la schiera compatta, ardita e ricca come il pane, o meglio come un banchetto completo!

Trigeo: Certo, splendida è la vanga equipaggiata, e anche i rastrelli scintillano al sole. I filari si gioveranno bene di loro. E anch'io per conto mio desidero tornare ai miei campi, e lavorarli con la zappa dopo tanto tempo!

Ricordatevi amici, l'antico modo di vita (diaita tes palaias), quello che un tempo la Pace ci offriva: la frutta secca, i fichi, il mirto, il dolce mosto, le viole accanto al pozzo, gli olivi che rimpiangiamo – in cambio di tutto questo, salutate la dea! (La Pace, vv. 556-581)

Le due diaitai, quella degli abitanti della città costruita da Socrate e quella che si ricorda il personaggio comico, sono sorprendentemente simili. E' evidente la vicinanza di abitudini alimentari: la pace regnante in Platone e quella di Aristofane portano entrambe ad un regime strettamente legato alla vita semplice ma appagante delle campagne. La varietà dei cibi elencati, infatti, sembra coincidere con il menù tipico della cultura rurale

dell'Atene del V secolo. Varie testimonianze antiche (Aristofane, Crisippo, i Deipnosofisti di Ateneo...) confermano una differenziazione tra le abitudini alimentari delle campagne e della città nell'antichità, abitudini che possiamo ritrovare le une nella prima comunità costruita da Socrate, le altre nella seconda, ovvero nella città tryphosa, la città nata dal lusso. Solamente in quest'ultima i cibi si fanno raffinati ed elaborati, tant'è che lo stesso attributo tryphosa è connesso con il sostantivo tryphos che sta ad indicare il pezzettino, il bocconcino di cibo che va gustato perché ricercato e di qualità4. Siamo dunque al cospetto, anche nella commedia aristofanea, della più tipica cucina agreste, testimone della cultura contadina che si vuole elogiare. Infatti il paesaggio dell'Attica si fa ameno dopo la liberazione della dea, e tornare a coltivare i campi, a badare alla vigna e all'albero di fico è una gioia per il coro, proprio come per gli uomini della città platonica è piacevole lavorare in estate ed in inverno. E' interessante notare come a salvare la pace non siano stati grandi eroi, ricchi cittadini o potenti governanti, bensì un gruppo di contadini la cui vita è scandita dai doveri (e piaceri) dell'agricoltura, e le cui necessità sono le stesse degli uomini platonici. In entrambi gli autori la frugalità sembra essere il tratto caratteristico di una società giusta e pacifica.

E' palese nella dieta platonica la totale assenza di carne: il vegetarianesimo, come abbiamo anche già potuto notare precedentemente, era per tanti versi ritenuto un elemento di purezza e giustizia. Leggiamo per esempio, a proposito, dallo stesso Platone nelle Leggi:

Ateniese: Il costume degli uomini di sacrificarsi l'un l'altro lo vediamo sopravvivere ancora presso molti popoli; e al contrario presso molti altri sentiamo dire di un tempo in cui neppure osavano assaggiare carne di bue, non sacrificavano animali agli dèi, ma focacce e frutti intrisi di miele e altre analoghe offerte sacrificali pure, e si astenevano dalla carne nella convinzione che fosse empio mangiarla e contaminare di sangue gli altari degli dèi. I nostri uomini di allora vivevano il sistema di vita detto orfico, nutrendosi esclusivamente di esseri inanimati e, al contrario, astenendosi da ogni essere animato. (Leggi, VI, 782 c-d)

Il vegetarianesimo è considerato qui particolare distintivo del culto orfico, come pratica in contrasto con la tradizione corrente (che non sdegnava i sacrifici animali, né tanto meno il nutrirsi di carne) nel nome di una purezza derivante dalla vicinanza con il

4 Per la rilevanza che le abitudini alimentari dell'antica Grecia hanno per l'antropologia e per l'ampliamento semantico di termini nati in ambito nutrizionale fino a raggiungere significati di più ampio respiro culturale: Giuseppe Nenci, Pratiche alimentari e forme di definizione e distinzione sociale nella Grecia arcaica, in Oddone Longo, Paolo Scarpi, Homo edens, contributi del congresso “Homo Edens” Verona 1987, Diapress documenti, Verona 1989, pp. 25-31. Per una trattazione della tradizione gastronomica dell'Atene del V secolo: Luigi Gallo, Alimentazione urbana e alimentazione contadina nell'Atene classica, in O. Longo, P. Scarpi, Homo edens, op. cit., pp. 213-231.

dio5. L'appartenenza orfica dell'alimentazione vegetariana è attestata inoltre sia dall'Ippolito di Euripide, sia dalle Rane di Aristofane. Teseo, lamentando, sdegnato, la scelleratezza del figlio Ippolito che si era unito con la matrigna Fedra, portandola al suicidio, pronuncia queste parole:

Mostra il tuo volto, qui, dinanzi a tuo padre, dopo esser giunto a un delitto! E tu tratti con gli dèi come un uomo superiore. Tu, casto e intatto dal male? Non posso credere alle tue vanterie, così da attribuire agli dèi la stoltezza di pensar male. Gloriati pure e truffa gli altri col tuo regime vegetariano! Prenditi Orfeo per signore e fa' l'ispirato, onorando i fumi di molti libri! (Ippolito, vv. 946-954)

Mentre Eschilo, nella commedia aristofanea, lodando l'utilità dei poeti, nomina come primo nome dell'elenco Orfeo, dicendo: «Orfeo insegnò i misteri e ammonì a non macchiarsi di assassinio» (Rane, v. 1032). Vicino all'ambiente orfico è poi il pitagorismo, comunità con strette regole di comportamento che includevano, appunto, anche il divieto di uccidere, sacrificare e mangiare animali. L'unione con il divino che orfici e pitagorici credono di riprodurre, astenendosi dalle crudeltà verso gli animali, sarebbe dovuta al rifiuto di conformarsi al resto dell'umanità, che ha avuto in dono da Prometeo le parti più succulente del bue da spartire con gli dèi6. Pitagora addirittura avrebbe compiuto un sacrificio esemplare ad Apollo a Delo, offrendogli prodotti semplici e frugali come orzo e frumento, impartendo così la regola ai suoi adepti7. Plutarco, inoltre, ricorda in Il simposio

dei sette sapienti, attraverso le parole del tiranno Periandro, come anche malva ed asfodelo

fossero piante adatte ai sacrifici ad Apollo, in quanto semplici e vicine ad un'alimentazione primitiva8. Non mangiare carne, dunque, rende sia più puri, sia più vicini a quel tempo antico in cui regnava un legame intimo con gli dèi (età dell'oro).

E nella Repubblica platonica il vegetarianesimo è connesso principalmente proprio con l'aspetto di frugalità e semplicità, presente forse con minor forza in contesti orfici e pitagorici. Gli animali vengono assoggettati all'uomo, ma servono come forza-lavoro nei campi o per avere lana e pelli per vestiario e calzature; mangiarli vorrebbe dire sprecare una risorsa preziosa quando vi è tanto altro cibo disponibile. La carne entrerà nella dieta solamente con la costruzione della città tryphosa.

5 Per una trattazione dell'orfismo e per una disamina dei testi principali riguardanti tale culto Paolo Scarpi, Le religioni dei misteri, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, Roma-Milano, 2003, vol.I, pp. 349-437. 6 Supra cap. I, par. 1, n. 8.

7 Per un'analisi accurata della tradizione alimentare pitagorica Marcel Detienne, I giardini di Adone, Einaudi, Torino 1975, pp. 46 e ss.

Ma, secondo Leggi 782d-783a, la vita dell'uomo si snoda attraverso la regolazione e la soddisfazione di tre bisogni, di cui il mangiare occupa certo il primo posto, ma è seguito a ruota dal bere e dall'istinto di procreazione; se, per quanto riguarda il bere, il passo della

Repubblica che stiamo analizzando si limita a prendere in considerazione il vino, dunque

una bevanda collegata più alla situazione di gaudio comune che alla più stretta necessità, vediamo, invece, come in questa città primitiva ma felice viene affrontato il tema della sessualità. Essa sembra essere naturalmente regolamentata, quasi come se questi uomini giusti fossero spinti istintivamente alla prudenza per non avere un eccesso di bocche da sfamare che può condurre alla lotta per l'approvvigionamento e dunque alla guerra. Ancora una volta è l'economia a far da padrona e l'eros è del tutto servo delle esigenze della frugalità. Ma, anche in questo caso, ciò non è sentito dagli abitanti come una restrizione o un'imposizione, ma appunto come un naturale modo di vivere, che perciò porta a ad una convivenza solidale e piacevolmente condivisa. Socrate descrive infatti un banchetto agreste, una stibas, alla quale partecipano padri e figli, vecchi e giovani, in un momento conviviale e di gradevole condivisione, nel quale indossare ghirlande e bere vino (moderatamente!). Queste occasioni ricordano molto da vicino le feste contadine delle Tesmoforie9, nelle quali, rievocando il lutto di Demetra per il rapimento della figlia Persefone, le donne (esclusivamente quelle sposate con ateniesi) compievano un rituale di mortificazione consistente anche in digiuni e astinenza sessuale. Di nuovo, dunque, il collegamento culturale è con la moderazione e la frugalità.

Questo scenario idilliaco, dunque, potrebbe indurre a pensare che Platone riscontri l'eccellenza morale nelle società più primitive: d'altronde è questa la città sana! Ma, nonostante la concordia che pervade questa comunità sembri essere davvero la carta vincente per raggiungere uno Stato giusto e felice, ad uno sguardo più attento una grande mancanza segnala la necessità di progredire da questo primo stadio. Non vi è infatti fatto nessun cenno alla riflessione filosofica, condizione imprescindibile per la giustizia, tanto di un uomo quanto di una comunità. In questo senso, una critica interna alla costruzione di questa prima città la incontriamo, nuovamente, nell'ambito gastronomico. Socrate afferma infatti, nell'elenco dei cibi che si è visto costretto ad aggiungere dopo l'intervento di Glaucone, che questi uomini arrostiscono ghiande. Queste sono un cibo tradizionalmente consumato da popolazioni ritenute selvagge: sono i Selvaggi di Ferecrate che si nutrono di

ghiande, oppure i primitivi Arcadi, secondo Erodoto, che appunto li chiama balanephagoi (Storie, I, 68). Le ghiande sono l'ultimo elemento di una serie di alimenti legati alla selvatichezza (fichi, ceci, fave e bacche di mirto), destinati anche a diventare cibo per gli animali. E, tanto nella nostra tradizione, quanto in quella della Grecia antica, le ghiande costituiscono il nutrimento, in particolar modo, dei maiali10. Non stupisce quindi che Glaucone esordisca, dopo aver udito per intero la descrizione di Socrate, dicendo: «Se, o Socrate, avessi costituito uno Stato di porci, con quali altri cibi li avresti pasciuti se non

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