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Lévi-Strauss: prima e dopo l'incontro con il pensiero selvaggio

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(1)

Giardino giapponese,

due saggi:

Walker e Escande

PASQUALE DI PALMO

di CATERINA RICCIARDI

A

ll’inizio degli anni

Sessanta Alice Mun-ro inviava sei delle sue storie, il nucleo diciò che sarebbe di-ventato Danza delle

ombrefelici,aJackMc-Clelland,allora ilpiù quotatoeditorecanadese.Ilma-noscritto fu restituito alla mit-tente con parole di elogio, ac-compagnate da un secco «no». Le raccolte di racconti, scriveva McClelland, non vanno (do not

sell),enonsolo:noncostituisco-no un buon esordio per usell),enonsolo:noncostituisco-no scrittore. Meglio finire un ro-manzo, nel caso ce ne sia uno già in gestazione – continuava – e poi passare ai racconti. La legge del mercato in un paese sul punto di lanciarsi in una av-ventura letteraria che, per la prima volta nella sua storia, prometteva un futuro di una certa distinzione, sacrificava qualità per quantità (di vendi-te). Le cose sarebbero poi anda-te diversamenanda-te e la pregevo-lissima Danza sarebbe uscita presso un altro editore nel 1968. Nel frattempo, il consi-glio di McClelland non venne dimenticato e Munro comin-ciòapensare aunromanzo, an-che se, avrebbe detto in segui-to, le riusciva di vedere la real-tà e le persone in riquadri da «istantanee» (snapshots) e non in un fluire a lungo raggio o in una linearità da Bildung.

Nacque quindi da un com-promesso con le sue doti più istintiveLa vita delle ragazze e delle donne (traduzione di

Susanna Basso, Einaudi, pp. 293, e 20,00), anello mancan-te in italiano nella ricostruzio-ne dell’intera saga della scrit-trice canadese, ambientata per lo più (se si eccettuano al-cune parentesi, quella di Van-couver in particolare) nella Contea del Lago Huron, nell’Ontario meridionale.

Una storia di formazione

Pubblicato nel 1971 da Mc-Grow-Hill, lo stesso editore che avevadatoallestampeDanzadelle

ombre felici, lo pseudo romanzo

di Alice Munro è – nella sostan-za – una storia di formazione, narrata in prima persona. In ot-to episodi dislocati nel tempo si seguelacrescitadellaprotagoni-sta, Dell Jordan, dall’infanzia al-la fine dell’adolescenza, poco prima che, all’inizio degli anni Cinquanta, una borsa di studio laportilontanadallanativaJubi-lee (la Wingham di Munro), sul fiume Wawanash (il Maitland: locusdifuturimisteri).C’è,dun-que, la parvenza del romanzo, sostenuta dall’andirivieni di al-cuni personaggi, ma in realtà la formula osservata in questi

rita-gli di vita quasi autobiografici è quella selettiva del racconto.

Non siamo ancora alle altez-ze tecniche delle raccolte futu-re, quelle pubblicate fra gli anni OttantaeNovanta.Anzi,fattaec- cezioneperalcunicasi,quisem- braregistrarsiunaflessioneper-sino rispetto ai primi quindici magnifici racconti. Munro ripe-terà l’esperimento con risultati più brillanti qualche anno dopo conChiticredidiessere?, anch’es-so costruito sui passaggi dell’esistenza di un unico per-sonaggio, la giovane Rose, alle prese con gli stessi disagi espe-riti da Dell Jordan e alla fine, come Dell, in fuga verso altre mete. Entrambi i volumi – e so-prattutto il primo – fanno da soglia al mondo che Munro va riscoprendo a posteriori, par-tendo dalle fondamenta della sua infanzia. Per conoscerlo meglio quel mondo – rappre-sentato sempre sul filo dell’in-sondabilità – è dalla Vita delle

ragazze e delle donne che si deve

incominciare.

Vite di esclusi

Èqui, infatti, che la scrittrice ca-nadese allestisce ilsuo teatro, lo stesso che avrebbe continuato a esplorare in modi diversi e in un tempo prolungato (dagli an-ni Quaranta al nuovo secolo), condizione che le permette abi- lisovrapposizionitemporali,co-me se il passato non intendesse esaurirelasua storia,anzi conti-nuasse a produrla nei giochi dei riverberi della memoria. Il cen-tro focale di Munro resta il suo luogo d’origine, una cittadina di fondazione ottocentesca (ca-muffata di volta in volta sotto nomi diversi), una come tante nella più gretta provincia cana-dese, divisa da differenze socia-li (una pseudo gentisocia-lity vittoria-na e i meno fortuvittoria-nati), religiose (metodisti e presbiteriani, qual-che cattolico), etniqual-che (scozzesi e irlandesi) e di gender.

A questa élite contraddittoria fanno da contorno le frange del-la lower town, poste al confine conunpaesaggioancoraindomi-to e al tempo stesso contamina-to dal degrado. Qui vivono gli esclusi, come lo Uncle Benny di «Flats Road», un eccentrico che colleziona rifiuti e rottami, dai qualisiliberanotracceindecifra-bili del loro passato, e sui quali si

accendonoi germi della fantasia infantile e gotica di Dell; o il dre di Dell (controfigura del pa-dredi Munro) cheallevavolpiar-gentate (o visoni e poi tacchini) da destinare al commercio.

Le impietose scene di scuoia-mento che si ripetono, quasi os-sessive, in varie raccolte fanno intuire la persistenza di un con-flitto sanguinolento tra natura e cultura,cheMunronontienena- scostonelloscantinatodellapro-pria coscienza. Ma è in questi margini ambigui che il paesag-gio cambia tono nel restituire spazio attivo (e simbolico) al fiu- meeallerivedelLagoHuron.En-trambi, il fiume e il lago, con le loro profondità ataviche, miste-riose e insidiose, si innestano nell’intero canone di Munro

co-me l’anima pulsante di una più autenticageografialocale,finoa trasformarla in uno spazio men-tale,unospecchioriflettente an-che il mistero del vivere umano.

Monotone e insondabili

Suquestoduplicesfondonasco-noesi incamminano lesue pro-tagoniste da noviziato. Sono ra-gazze solitamente ribelli, tor- mentatedavergognaediffiden-za:vergogna per la propria con-dizione subalterna e diffidenza verso la comunità che vive ol- treilfiume,dovetoccalorocon-frontarsi con le ipocrisie, le pic-cole e grandi perversioni ses-suali, le solitudini, gli inspiega-bilisuicidi, il grottescodietrole facciatedelle case e dei volti dei concittadini. Tutto si sfiora con

toccolieve: difficileè immerge-rela mano fino al fondodei pre-cordi. Si raccolgono solo fram-menti,istantanee,perilfuturo. Nell’ultimo, perturbante racconto, titolato «Epilogo: il Fotografo», in un’affermazio-nepiù voltecitata, si fissa ilcar-dine della poetica che Alice Munro avrebbe mantenuto inalterata: «Le vite delle perso-ne, a Jubilee come altrove, era-no moera-notone, semplici, sor-prendenti e insondabili … ca-verne profonde dai pavimenti in linoleum». E su questa con-statazione la narratrice Dell (e Rose) si arresta, abbandonan-do l’arena del suo battesimo al-la vita in una città ironicamen-te «giubilare», alla quale però, forse come Rose, finirà per

tor-nare. Un arco narrativo si chiu-de, come potrebbe avvenire in un romanzo.

Se c’è storia di formazione, utileintantoafermaresullapa-gina l’anatomia incompleta di un territorio, restano tuttavia chiuse le «caverne profonde». Ed è su queste che Munro rico-minceràilsuo viaggionellerac-colte successive a partire da Il

percorsodell’amore,

conaltrome-todo e un diverso orientamen-to:entrambipiù slegatidall’au-tobiografismo, più frammen-tati, più ellittici, e dall’anda-mento multidirezionale, de-viantedao convergente su pos-sibili fili in trasparenza, picco-lescintillesulla sogliadell’inat-tingibile sotto quello strato di linoleum ancora da scrostare.

9

GIUSEPPE FRANGI

Knud Rasmussen

e Claude Lévi-Strauss,

vite di antropologi

2

Nuova traduzione

per il «Jean Santeuil»

5

La carne la morte

il diavolo nel romanzo

di William Gay

Pubblicato nel 1971, «La vita delle ragazze e delle donne»

è la sola approssimazione al romanzo di Alice Munro:

ora da Einaudi, che completa l’opera della scrittrice canadese

Protagoniste

da noviziato,

tormentate

dalla vergogna

e dalla diffidenza

Jean Paul Lemieux, La mort par un clair matin, 1963

Lavita sottoil linoleum

ANDREA DI SALVO

10

Futuriste, lo specifico

è la gioia cromatica

AL MAN DI NUORO

INGRID BASSO, ENRICO COMBA

L’agonia della critica,

sintomo della crisi.

Una discussione

FEDERICO BERTONI

4

8

VIOLA PAPETTI

MARCEL PROUST

Inserto settimanale

de "il manifesto"

22 aprile 2018

anno VIII - N° 16

(2)

RASMUSSEN

di INGRID BASSO

«E’

una scoperta

chenonsmet-te di sorpren-dere – scrive ildano-groen-landese Knud Rasmussen, fu-turo padre della moderna eschimologia– il fattoche dav-vero, nella nostra rapidissima epoca, ci si può trovare di fron-te a persone che sembrano ap-pena uscite dalla mano della natura». Era il 1910 e il grande esploratore aveva appena fon-dato, insieme all’amico Peter Freuchen,lastazionecommer-ciale «Thule», sull’estrema puntaoccidentaledellaGroen-landia, a Capo York.

NatoaJakobshavnoIlulissat, la«cittàdegliiceberg»,Rasmus-sen era figlio del pastore loca-le, la bisnonna della madreera groenlandese e le tradizioni del suo popolo in famiglia non erano state dimenticate. Ra-smussen parlava la lingua de-gli Inuit e sapeva governare perfettamente la slitta traina-ta dai cani, con la quale avreb-be ripercorso il passaggio a Nord-Ovest solcato da pochi anni, per la prima volta, dal norvegese Roald Amundsen.

I materiali raccolti

A partire dal 1912 Rasmussen avviò una serie di esplorazioni, lecosiddette «Thule»,maèstata quella compresa fra l’estate 1921eildicembre1924aconse- gnareilsuonomeallastoria.At-traversò il Canada artico, par-tendo dalla Groenlandia fino all’Alaska,accompagnatodasei Inuit di Capo York e da un grup-po di studiosi: l’inseparabile amicoPeterFreuchen,cartogra-fo e naturalista, l’archeologo Therkel Mathiassen, l’etnologo e geografo Kaj Birket-Smith, due assistenti scientifici, Helge Bangsted e Jakob Olsen e, dal 1923, il fotografo Leo Hansen.

Sembrava l’entusiasta bri-gata nordica che nel 1761 la-sciòil porto di Copenaghen al-la volta dell’Arabia Felix, al-la pri-ma grande spedizione scienti-ficadanesedalla qualefecepe-rò ritorno solo il cartografo

Carsten Niebuhr, la cui vicen-da sarebbe poi stata racconta-ta dal giornalisracconta-ta danese Thorkild Hansen nel 1962 in

Arabia Felix, appunto, un

ro-manzo che ha fatto la storia della letteratura danese. Ma la spedizione di Rasmussen eb-be un esito positivo: gli oltre 20.000 oggetti raccolti tra le popolazioni Inuit del Canada artico,lecentinaiadifotoei di-segni non finirono dimentica-ti nei sotterranei degli isdimentica-titudimentica-ti scientifici di Copenaghen, co-me le casse che i botanici, i na-turalisti e cartografi del Sette-cento avevano inviato in pa-tria dallo Yemen.

Il materiale documentario raccolto da Knud Rasmussen è tuttora visibile presso la Rac-coltaEtnografica delNational-museet di Copenaghen, insie-me a 5500 pagine di studi, più due corposi tomi dal titolo Fra

Grønland til Stillehavet (Dalla

Groenlandia al Pacifico), editi in danese nel 1925-26 e usciti inversione ridottaper unpub-blico più vasto nel 1932 con il titolo di Il grande viaggio in

slit-ta, di cui esiste una traduzione

italiana del 2011 a cura di Bru-no Berni per Quodlibet.

Della straordinaria V Spedi-zioneThule, undiscorso a par-temerita l’escursionecompiu-ta da Rasmussen insieme a due Inuit attraverso Canada e Alaska, fino a toccare rapida-mente il continente asiatico, dove gli furono negati i per-messi per sostare nel territo-rio sovietico. Abbandonata temporaneamente la base co-mune, «il mantice», a Danish Island, dadove partivanole di-verse puntate dei membri del-laspedizione intornoalla Baia di Hudson, Rasmussen volle entrare in contatto con tutte le tribù Inuit conosciute, per studiare le analogie tra la cul-turache coltivavano in Groen-landia e quella diffusa nel

Ca-nada, separate da una migra-zione di quasi un millennio. È in questa circostanza che av-venne l’incontro con lo scia-mano Aua, prima e dopo la sua conversione al cristianesi-mo,unavicenda raccontataat-traversoscelte dibrani elegan-temente tradotti (tratti dai due tomidiDallaGroenlandia

alPaci-fico) inAua (traduzione e

intro-duzione di Bruno Berni, Adel-phi, pp. 190, € 18,00).

Un incontro in due fasi

L’incontroconlosciamanodel-la tribù degli Iglulingmiut, su un’isola del Bacino di Foxe, si svolse in due fasi: la prima nel gennaio del 1922, quando Aua eraancora fedeleallasua tradi-zione e operava come sciama-no, laseconda esattamente un anno dopo, quando aveva «congedato i suoi spiriti ausi-liari» e sugli igloo

dell’accam-pamento di caccia della tribù sventolavano tante bandiere bianche, simbolo della rinun-cia all’antica religione pagana in favore della «fede del cielo». Grazie ad Aua, ora emancipa-to dai suoi spiriti e dunque di-sposto a rivelare quei segreti che aveva considerato in pas-sato troppo sacri, Rasmussen raccolse il materiale orale più completo che esistesse fino ad allora sulla cultura sciamani-ca, nel momento della transi-zionetra due epoche e due cul-ture, formando la base di ogni studiosuccessivo sullosciama-nesimo, in primo luogo quello di Jean Malaurie negli anni Cinquanta.

Rasmussennota con stupore come un popolo costretto più di altri a occuparsi quotidiana-mente del problema dell’ali-mentazione – gli episodi di can-nibalismo nei periodi di

care-stia dovuta al gelo, per quanto esecrati dagli Inuit erano fre-quentissimi – sia tuttavia vota- toacoltivareunaprofondaspiri-tualità: «ciò avviene – annota – sempre partendo dall’incante-vole spontaneità posseduta da

chi è costretto a basare le pro-prie teorie sulle parole vive che gli sono state tramandate».

In un incontro ricostruito da Zacharias Kunuk e Norman Cohn nel 2006 per la Igloolik Isuma Productions nel film The

Journal of Knud Rasmussen,

Ra-smussen dichiara: «Nonostan-te tutti i nostri sciamani, siamo così ignoranti che abbiamo pa-ura di tutto ciò che non cono-sciamo». Nel corso del secondo incontro con Aua, verrà accol-to da «un povero inno cantaaccol-to da persone che, in cerca di una verità, avevano trovato qualco- sacheavevasensoperlalorovi-ta».Larapidaconversionedegli Inuit al Cristianesimo dà vita a una forma di culto ibrida: «Lo statodinaturafadilorodeipoe-ti, senza che loro stessi lo sap-piano, e questa carenza di orto-dossia acquisita dona alla loro rappresentazionel’infantilefa-scino che rende credibile il mi-stero». Questa stessa forma di culto è stata raccontata di re-cente dal dano-norvegese Kim Leine nel suo grande romanzo

Il fiordo dell’eternità (Guanda,

2013), dove le certezze dogma-tiche di un pastore danese in-viato in una colonia groenlan-dese alla fine del Settecento, si dissolvono in quella religiosità primordiale,promiscuaevisio-naria che il cristianesimo assu-me, trarformandosi, presso una coppia di Inuit convertiti e divenuti nuovi profeti.

Le altre missioni

Rasmussen nota che i racconti biblici sono accolti nello stesso modo letterale delle leggende pagane; e «come in passato era uso proteggere persone e ani-mali dalle sventure grazie alla forza nascosta degli amuleti, così adesso era considerato na-turale mettere il crocifisso al collo anche ai cani». La celebre V Spedizione Thule, al limite del mondo, non fu l’ultima di Rasmussen: tra il 1931 e il 1932 furono organizzate altre due missioni, ma nel 1933, nel cor-so della VII Thule l’esploratore contrasse una infezione allo stomaco che lo condannò a una morte precoce.

di ENRICO COMBA

N

essun evento

memo-rabile, né rivelazioni straordinarie, piutto-sto vicende estrema-mente banali di vita quotidiana, problemi easpirazionideltutto comuni nelle lettere scrittedaClaudeLévi-Strausstra il 1931 e il 1942 ai suoi genitori, dove si parla di condizioni della vita militare, della ricerca di un lavoro, delle difficoltà economi-che o del desiderio di acquistare la prima automobile. Tuttavia, questidocumentiraccoltiecura-ti dalla moglie Monique, che ha condiviso con il grande antropo-logo quasi sessant’anni di vita, contribuiscono a farci compren-dere meglio l’epoca che precede e segue immediatamente lo scoppio del secondo conflitto mondiale.

Come osserva Monique

Lévi-Strauss nella sua prefazio-ne a questeLettere ai genitori

1931-1942 (traduzione di

Massi-mo Fumagalli, Il Saggiatore, pp. 422, € 37,00), esse ci permetto-no di scorgere «l’uomo che si na-scondeva dietro allo studioso», sebbene manchi il fondamenta-le periodo trascorso in Brasifondamenta-le, tra il 1935 e il 1939, di cui tutta-via Lévi-Strauss ha lasciato nu-merosi ricordi in Tristi Tropici. Presi insieme, questi due testi si integrano a vicenda, andando a costituire una sorta di autobio-grafia della giovinezza e delle prime fasi della carriera intellet-tuale dell’antropologo francese.

La prima moglie

La prima parte del volume, dedi-cata al periodo precedente allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, comprende le lettere inviateduranteilserviziomilita-re, nel settore «Artiglieria e Tra- smissioni»,daunacasermapres-so Strasburgo; ci smissioni»,daunacasermapres-sono inoltre, le missive inviate da Parigi, dove Lévi-Strauss era stato trasferito per lavorare al Ministero della Guerra (probabilmente grazie all’intervento di alcune amici-zie politiche) e infine quelle da Mont-de-Marsan, una cittadina delle Landes (attuale Nuova Aquitania), dove aveva trovato unpostocomeinsegnantedifilo-sofia nel liceo locale.

È il periodo in cui compare, quasi improvvisamente, la figu-ra di Dina Dreyfus, che sarebbe diventata nel settembre del

1932 la sua prima moglie. I due avevanostudiatoinsiemefiloso-fia alla Sorbona e condivideva-no la militanza politica sociali-sta: partirono insieme nel 1935 per il Brasile e Dina, la cui pre-senza nella prima fase della car-riera di Lévi-Strauss è stata mol-to più importante di quanmol-to non appaia, svolse un ruolo non secondario nella organizzazio-ne delle due spedizioni che li avrebbero portati nell’interno del Mato Grosso per visitare le popolazioni dei Caduveo, dei

Bororo, e dei Nambikwara. Molti probabilmente ricorde- rannolafotografiasbiaditadiDi-na pubblicata in Tristi Tropici du-rante la spedizione etnografica, unica testimonianza della sua presenza. Eppure, sua è la firma dell’articolo con cui sul Journal

de la Société des Américanistes

ven-ne annunciata, ven-nel 1938, la futu-ra missione etnologica condotta nell’interno del Brasile, a testi-monianzadel suoruolo centrale nellaprogettazione.Unainfezio-neagli occhicostrinsepoiDinaa

abbandonare la spedizione, e il matrimonio con Lévi-Strauss fi-nìdopoillororitornoinFrancia, dove Dina rimase anche dopo l’occupazione nazista.

La seconda parte del carteg-gio,lapiù interessante,riguarda le lettere spedite da Lévi-Strauss durante il suo soggiorno a New York, dal 1941 al 1942, dove si eratrasferitopersfuggirealperi-colo dell’occupazione tedesca, grazie soprattutto all’interven-to di Alfred Métraux, antropolo-

gofrancesechedatemporisiede-va e lavoragofrancesechedatemporisiede-va in America, e che si era molto impegnato per far sì cheLévi-Strauss venisse invitato presso la New School of Social Research di New York.

Inmolteletterevienericorda-ta con riconoscenza l’attenzio-ne prestata da Métraux, persona «di un’estrema gentilezza, (che) sembra volermi aiutare con ogni mezzo e in maniera del tut-to disinteressata».

«La sua amicizia e la suadevo-zione – si legge ancora – nei miei confronti sono al

contem-po inspiegabili e commoventi». Fu lo stesso Métraux a proporre il nome di Lévi-Strauss per alcu-ni articoli da pubblicare sull’Handbook of South American

Indians, opera curata dalla

Smi-thsonian Institution e destina-ta a divenire un riferimento classicopergli antropologiinte-ressati all’America meridiona-le. Lévi-Strauss fu subito consa-pevole dell’opportunità che gli veniva offerta: «Eccomi quindi certo di passare alla storia con un’operachesarà probabilmen-te un’autorità per un secolo».

Tra Boas e Malinowski

La pubblicazione di quei contri-buti avrebbe aperto al giovane Lévi-Strauss le porte dell’antro-pologia americana, consenten-dogli di entrare in contatto con grandi personaggi dell’epoca, anche loro spesso presenti nelle lettere: Robert Lowie, Ralph Lin-ton,JulianSteward,chedirigeva l’Handbook, e lo stesso Franz Boas, il «padre fondatore» dell’antropologianegliStatiUni- ti,doveLévi-Straussincontròan-che Malinowski, del quale scri-ve: «è anziano, gentile, parla egregiamente il francese e non si trova bene negli Stati Uniti».

Figura, in queste pagine, an-che la passione per la musica classica – fin dai tempi del servi-zio militare, quando il giovane Claude chiede ai genitori di pro-curargliun’edizionedelPelléaset

MélisandediDebussy,eunacurio-sa inclinazione perla cucina:en-trambe sarebbero diventate te- miimportantinell’operadedica-ta allo studio dei miti. Qualche breve accenno, nelle lettere da New York, allude alle prime ri-cerchediLévi-Straussnelcampo dellaparentelaedell’elaborazio-ne logico-matematica, che sa- rannomateriadellatesididotto-rato,discussaaPariginelgiugno del 1948.

L’influenza di Jakobson

La scelta dell’argomento e del metodo impiegati risentono molto dell’amicizia con un altro esule, il grande linguista Roman Jakobson,concuiimbastìunare-lazione fondamentale, sebbene nelle lettere ne compaia appena qualche traccia. Proprio nell’ul-tima, però, datata settembre 1942, si accenna al fatto che Lévi-Strauss, oltre a tenere i suoi corsi, era interessato «a seguire un eccellente corso di linguisti-ca tenuto da uno dei miei colle-ghi,ilqualemifornirà,inquesto campo, delle conoscenze indi-spensabili per il lavoro».

L’influenza di Jakobson fu effettivamente decisiva nella formazione del giovane studio-so e, da lì a qualche anno, sa-rebbe stata fondamentale a in-formare quella prospettiva strutturalista che nel campo della antropologia sarebbe ri-masta legata inscindibilmen-te al nome di Lévi-Strauss.

LÉVI-STRAUSS

Le lingue storiche, manifestazioni

distrutturemetafisicheprofonde

di ADRIANO BERTOLLINI

N

egli ultimi decenni del secolo

scorso, la prospettiva «relativi-sta» sul linguaggio, convenzio-nalmente chiamata «ipotesi Sa- pir-Whorf»,eracadutaindiscre-dito:l’idea checon il variaredel-lelingueedelleculture mutian-che il modo in cui le comunità umane organizzano l’esperienza conosce tuttavia oggi un rinnovato interesse, tan-to che Bollati Boringhieri ha deciso di ri-pubblicare il volume di Benjamin L. Whorf Linguaggio, pensiero e realtà

(pp. 250, € 17,50), quarant’anni dopo la

sua uscita in Italia. Morto precocemente, Whorf non fece in tempo a mettere a pun-to il libro, che aveva progettapun-to come un manuale universitario. Il curatore del vo-lume decise così di comporlo con scritti editi e inediti: studi sulla lingua dei nativi americani, soprattutto quella degli hopi, della cui analisi Whorf fu un pioniere, ma anche saggi di linguistica generale e arti-coli più divulgativi in cui l’autore prova a illustrareilrapportotrapensiero,linguag-gio e comportamento.

Malgrado l’eterogeneità del materia-le che lo compone, il volume ruota at-torno a un’idea centrale, ovvero che la nostra esperienza del mondo è

struttu-rata e pensata linguisticamente. Dun-que, la variazione delle lingue portereb-be con sé un mutamento della concezio-ne di realtà e dei comportamenti che vi si realizzano.

Whorf formula così il suo principio di

relatività linguistica: due uomini «non

so-nocondottidagli stessifatti fisici allastes-sa immagine dell’universo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simi-li, o non possano essere in qualche modo tarati». In altre parole, il linguaggio pro-duce una visione del mondo che muta al variare delle lingue. Questa differenza di

Weltanschauung è tanto più evidente

quanto più sono lontani gli idiomi che si mettono a confronto. Può addirittura sfuggire se si rimane nell’alveo delle lin-gue indoeuropee. Se però si comparano queste ultime con le lingue dei nativi americani, sostiene Whorf, le cose cam-biano radicalmente.

Il linguista americano si concentra so-prattutto sui concetti di tempo, spazio e materia. Per via della struttura

sogget-to-predicato delle lingue indoeuropee e della presenza dei tempi passato, presen-te e futuro, noi occidentali siamo inclini a concepire la realtà in termini di cose e di

azioni e relazioni tra esse, che avvengono in

uno spazio e in un tempo definiti. Ma sa-rebbe un errore pretendere per questa struttura una validità universale. Pur es- sendolapercezionesensibiledeicorpinel-lospazio«data»pertutti«sostanzialmente nella stessa forma, qualunque sia la lin-gua» che parliamo, non dobbiamo ignora-re l’esistenza di idiomi che organizzano quell’esperienza sensibile in modo radi-calmente diverso dal nostro.

La nozione di tempo, per esempio, è variabile: in hopi non si possono utilizza-re i numeri cardinali in riferimento ai giorni, ma solo gli ordinali. Si può dire «il terzo giorno» ma non «tre giorni». Il tempo è quindi sempre riferito alla pro-spettiva di un soggetto o in relazione a un evento e per gli hopi è inconcepibile l’idea di una temporalità astratta e vuo-ta, fatta di unità discrete (giorni, mesi,

anni) ripetute all’infinito.

Secondo Whorf è addirittura la nozio-ne di verbo a venire fortemente indeboli-ta se si tiene presente come in alcune lin- gue,peresempioloyana,qualunqueparo-la possa essere resa verbo «tramite l’appli-cazione di certi suffissi distintivi». Sareb-

bequindipiùcorrettoparlaredi«verbazio-ne». In questa goccia di grammatica si na-sconde una grande differenza di prospetti-va rispetto a noi europei: emerge infatti una visione che privilega gli eventi, ognu- nodeiqualièesitodiunprocesso,adiscapi- todellecose.Mapuressendoilpernointor-noacuiruotatuttoilvolume,ilrelativismo linguistico è solo una faccia della meda-glia: man mano che ci si avvicina alle pagi-ne finali emerge infatti un’idea opposta.

Secondo Whorf la linguistica, pur non essendo una scienza quantitativa, sareb-be tuttavia esatta, proprio come la mate-matica e la fisica, e attraverso di essa si po-trebberoscoprire leggi e strutture genera-lissime che regolano il pensiero e il lin-guaggio,comeper esempioalcuneformu-le, ideate dall’autore,che descrivono le re- golegeneraliperlaformazionedelleparo-le, applicabili a tutti gli idiomi.

Se confrontate con queste forme gene-rali del pensiero, le lingue storiche altro non sarebbero che manifestazioni spazio-temporali di una struttura metafisica più profonda: oltre il «velo di Maya»

(l’espres- sioneèdiWhorf)costituitodallamentein-dividuale dei parlanti, ci sarebbe una psi-che impersonale psi-che si esprime in un lin-guaggio puro, di cui gli idiomi storici non sarebbero se non pallide imitazioni.

Al di là delle differenze tra le lingue e le culture, tutti gli esseri umani sarebbero dunque accomunati dall’appartenenza a una medesima sostanza, che se debita-mente illuminata potrebbe portare a una «fratellanza» universale e a un’umanità pacificata. Ma la ricaduta politica di que-sta nobile idea ha un prezzo teorico: per-chépostulareunastrutturadi pensieroul-traterrena al di là delle lingue, quando queste possono essere concepite – mate-rialisticamente – come un mutevole pro-dotto della nostra biologia? Per questo, le paginefinaliincuiWhorfalludeall’eterni-tà come chiave di volta per la soluzione del problema storico della convivenza tra gli uomini, sembrano essere l’esito para-dossale di un libro il cui pregio principale è proprio quello di sottolineare la matrice storica dell’esperienza umana.

Primaedopol’incontro

conilpensieroselvaggio

Era il gennaio del 1922 quando

il futuro padre della moderna

eschimologia incontrò, su un’isola

del Bacino di Foxe, lo sciamano

degli Iglulingmiut: «Adua», da Adelphi

BENJAMIN L. WHORF, «LINGUAGGIO, PENSIERO E REALTÀ», DA BOLLATI BORINGHIERI

Suighiacci,icaniconlacrocealcollo

Raccolte dalla moglie Monique, le missive dell’antropologo francese durante

il servizio militare, poi dall’America: «Lettere ai genitori 1931-1942», dal Saggiatore

Knud Rasmussen

racconta come

la rapida conversione

degli Inuit diede vita

a forme di culto ibride

Dal 1912 vennero

avviate le esplorazioni

cosiddette «Thule»,

ma quella cruciale

si svolse fra il ’21 e il ’24

Monique e Claude Lévi-Strauss

l’antropologo

nel quotidiano

grandi

esploratori

Ritratto di un Inuit; in basso, Knud Rasmussen

Maschere sacre della tribu nordamericana degli Hopi

(3)

RASMUSSEN

di INGRID BASSO

«E’

una scoperta

chenonsmet-te di sorpren-dere – scrive ildano-groen-landese Knud Rasmussen, fu-turo padre della moderna eschimologia– il fattoche dav-vero, nella nostra rapidissima epoca, ci si può trovare di fron-te a persone che sembrano ap-pena uscite dalla mano della natura». Era il 1910 e il grande esploratore aveva appena fon-dato, insieme all’amico Peter Freuchen,lastazionecommer-ciale «Thule», sull’estrema puntaoccidentaledellaGroen-landia, a Capo York.

NatoaJakobshavnoIlulissat, la«cittàdegliiceberg»,Rasmus-sen era figlio del pastore loca-le, la bisnonna della madreera groenlandese e le tradizioni del suo popolo in famiglia non erano state dimenticate. Ra-smussen parlava la lingua de-gli Inuit e sapeva governare perfettamente la slitta traina-ta dai cani, con la quale avreb-be ripercorso il passaggio a Nord-Ovest solcato da pochi anni, per la prima volta, dal norvegese Roald Amundsen.

I materiali raccolti

A partire dal 1912 Rasmussen avviò una serie di esplorazioni, lecosiddette «Thule»,maèstata quella compresa fra l’estate 1921eildicembre1924aconse- gnareilsuonomeallastoria.At-traversò il Canada artico, par-tendo dalla Groenlandia fino all’Alaska,accompagnatodasei Inuit di Capo York e da un grup-po di studiosi: l’inseparabile amicoPeterFreuchen,cartogra-fo e naturalista, l’archeologo Therkel Mathiassen, l’etnologo e geografo Kaj Birket-Smith, due assistenti scientifici, Helge Bangsted e Jakob Olsen e, dal 1923, il fotografo Leo Hansen.

Sembrava l’entusiasta bri-gata nordica che nel 1761 la-sciòil porto di Copenaghen al-la volta dell’Arabia Felix, al-la pri-ma grande spedizione scienti-ficadanesedalla qualefecepe-rò ritorno solo il cartografo

Carsten Niebuhr, la cui vicen-da sarebbe poi stata racconta-ta dal giornalisracconta-ta danese Thorkild Hansen nel 1962 in

Arabia Felix, appunto, un

ro-manzo che ha fatto la storia della letteratura danese. Ma la spedizione di Rasmussen eb-be un esito positivo: gli oltre 20.000 oggetti raccolti tra le popolazioni Inuit del Canada artico,lecentinaiadifotoei di-segni non finirono dimentica-ti nei sotterranei degli isdimentica-titudimentica-ti scientifici di Copenaghen, co-me le casse che i botanici, i na-turalisti e cartografi del Sette-cento avevano inviato in pa-tria dallo Yemen.

Il materiale documentario raccolto da Knud Rasmussen è tuttora visibile presso la Rac-coltaEtnografica delNational-museet di Copenaghen, insie-me a 5500 pagine di studi, più due corposi tomi dal titolo Fra

Grønland til Stillehavet (Dalla

Groenlandia al Pacifico), editi in danese nel 1925-26 e usciti inversione ridottaper unpub-blico più vasto nel 1932 con il titolo di Il grande viaggio in

slit-ta, di cui esiste una traduzione

italiana del 2011 a cura di Bru-no Berni per Quodlibet.

Della straordinaria V Spedi-zioneThule, undiscorso a par-temerita l’escursionecompiu-ta da Rasmussen insieme a due Inuit attraverso Canada e Alaska, fino a toccare rapida-mente il continente asiatico, dove gli furono negati i per-messi per sostare nel territo-rio sovietico. Abbandonata temporaneamente la base co-mune, «il mantice», a Danish Island, dadove partivanole di-verse puntate dei membri del-laspedizione intornoalla Baia di Hudson, Rasmussen volle entrare in contatto con tutte le tribù Inuit conosciute, per studiare le analogie tra la cul-turache coltivavano in Groen-landia e quella diffusa nel

Ca-nada, separate da una migra-zione di quasi un millennio. È in questa circostanza che av-venne l’incontro con lo scia-mano Aua, prima e dopo la sua conversione al cristianesi-mo,unavicenda raccontataat-traversoscelte dibrani elegan-temente tradotti (tratti dai due tomidiDallaGroenlandia

alPaci-fico) inAua (traduzione e

intro-duzione di Bruno Berni, Adel-phi, pp. 190, € 18,00).

Un incontro in due fasi

L’incontroconlosciamanodel-la tribù degli Iglulingmiut, su un’isola del Bacino di Foxe, si svolse in due fasi: la prima nel gennaio del 1922, quando Aua eraancora fedeleallasua tradi-zione e operava come sciama-no, laseconda esattamente un anno dopo, quando aveva «congedato i suoi spiriti ausi-liari» e sugli igloo

dell’accam-pamento di caccia della tribù sventolavano tante bandiere bianche, simbolo della rinun-cia all’antica religione pagana in favore della «fede del cielo». Grazie ad Aua, ora emancipa-to dai suoi spiriti e dunque di-sposto a rivelare quei segreti che aveva considerato in pas-sato troppo sacri, Rasmussen raccolse il materiale orale più completo che esistesse fino ad allora sulla cultura sciamani-ca, nel momento della transi-zionetra due epoche e due cul-ture, formando la base di ogni studiosuccessivo sullosciama-nesimo, in primo luogo quello di Jean Malaurie negli anni Cinquanta.

Rasmussennota con stupore come un popolo costretto più di altri a occuparsi quotidiana-mente del problema dell’ali-mentazione – gli episodi di can-nibalismo nei periodi di

care-stia dovuta al gelo, per quanto esecrati dagli Inuit erano fre-quentissimi – sia tuttavia vota- toacoltivareunaprofondaspiri-tualità: «ciò avviene – annota – sempre partendo dall’incante-vole spontaneità posseduta da

chi è costretto a basare le pro-prie teorie sulle parole vive che gli sono state tramandate».

In un incontro ricostruito da Zacharias Kunuk e Norman Cohn nel 2006 per la Igloolik Isuma Productions nel film The

Journal of Knud Rasmussen,

Ra-smussen dichiara: «Nonostan-te tutti i nostri sciamani, siamo così ignoranti che abbiamo pa-ura di tutto ciò che non cono-sciamo». Nel corso del secondo incontro con Aua, verrà accol-to da «un povero inno cantaaccol-to da persone che, in cerca di una verità, avevano trovato qualco- sacheavevasensoperlalorovi-ta».Larapidaconversionedegli Inuit al Cristianesimo dà vita a una forma di culto ibrida: «Lo statodinaturafadilorodeipoe-ti, senza che loro stessi lo sap-piano, e questa carenza di orto-dossia acquisita dona alla loro rappresentazionel’infantilefa-scino che rende credibile il mi-stero». Questa stessa forma di culto è stata raccontata di re-cente dal dano-norvegese Kim Leine nel suo grande romanzo

Il fiordo dell’eternità (Guanda,

2013), dove le certezze dogma-tiche di un pastore danese in-viato in una colonia groenlan-dese alla fine del Settecento, si dissolvono in quella religiosità primordiale,promiscuaevisio-naria che il cristianesimo assu-me, trarformandosi, presso una coppia di Inuit convertiti e divenuti nuovi profeti.

Le altre missioni

Rasmussen nota che i racconti biblici sono accolti nello stesso modo letterale delle leggende pagane; e «come in passato era uso proteggere persone e ani-mali dalle sventure grazie alla forza nascosta degli amuleti, così adesso era considerato na-turale mettere il crocifisso al collo anche ai cani». La celebre V Spedizione Thule, al limite del mondo, non fu l’ultima di Rasmussen: tra il 1931 e il 1932 furono organizzate altre due missioni, ma nel 1933, nel cor-so della VII Thule l’esploratore contrasse una infezione allo stomaco che lo condannò a una morte precoce.

di ENRICO COMBA

N

essun evento

memo-rabile, né rivelazioni straordinarie, piutto-sto vicende estrema-mente banali di vita quotidiana, problemi easpirazionideltutto comuni nelle lettere scrittedaClaudeLévi-Strausstra il 1931 e il 1942 ai suoi genitori, dove si parla di condizioni della vita militare, della ricerca di un lavoro, delle difficoltà economi-che o del desiderio di acquistare la prima automobile. Tuttavia, questidocumentiraccoltiecura-ti dalla moglie Monique, che ha condiviso con il grande antropo-logo quasi sessant’anni di vita, contribuiscono a farci compren-dere meglio l’epoca che precede e segue immediatamente lo scoppio del secondo conflitto mondiale.

Come osserva Monique

Lévi-Strauss nella sua prefazio-ne a questeLettere ai genitori

1931-1942 (traduzione di

Massi-mo Fumagalli, Il Saggiatore, pp. 422, € 37,00), esse ci permetto-no di scorgere «l’uomo che si na-scondeva dietro allo studioso», sebbene manchi il fondamenta-le periodo trascorso in Brasifondamenta-le, tra il 1935 e il 1939, di cui tutta-via Lévi-Strauss ha lasciato nu-merosi ricordi in Tristi Tropici. Presi insieme, questi due testi si integrano a vicenda, andando a costituire una sorta di autobio-grafia della giovinezza e delle prime fasi della carriera intellet-tuale dell’antropologo francese.

La prima moglie

La prima parte del volume, dedi-cata al periodo precedente allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, comprende le lettere inviateduranteilserviziomilita-re, nel settore «Artiglieria e Tra- smissioni»,daunacasermapres-so Strasburgo; ci smissioni»,daunacasermapres-sono inoltre, le missive inviate da Parigi, dove Lévi-Strauss era stato trasferito per lavorare al Ministero della Guerra (probabilmente grazie all’intervento di alcune amici-zie politiche) e infine quelle da Mont-de-Marsan, una cittadina delle Landes (attuale Nuova Aquitania), dove aveva trovato unpostocomeinsegnantedifilo-sofia nel liceo locale.

È il periodo in cui compare, quasi improvvisamente, la figu-ra di Dina Dreyfus, che sarebbe diventata nel settembre del

1932 la sua prima moglie. I due avevanostudiatoinsiemefiloso-fia alla Sorbona e condivideva-no la militanza politica sociali-sta: partirono insieme nel 1935 per il Brasile e Dina, la cui pre-senza nella prima fase della car-riera di Lévi-Strauss è stata mol-to più importante di quanmol-to non appaia, svolse un ruolo non secondario nella organizzazio-ne delle due spedizioni che li avrebbero portati nell’interno del Mato Grosso per visitare le popolazioni dei Caduveo, dei

Bororo, e dei Nambikwara. Molti probabilmente ricorde- rannolafotografiasbiaditadiDi-na pubblicata in Tristi Tropici du-rante la spedizione etnografica, unica testimonianza della sua presenza. Eppure, sua è la firma dell’articolo con cui sul Journal

de la Société des Américanistes

ven-ne annunciata, ven-nel 1938, la futu-ra missione etnologica condotta nell’interno del Brasile, a testi-monianzadel suoruolo centrale nellaprogettazione.Unainfezio-neagli occhicostrinsepoiDinaa

abbandonare la spedizione, e il matrimonio con Lévi-Strauss fi-nìdopoillororitornoinFrancia, dove Dina rimase anche dopo l’occupazione nazista.

La seconda parte del carteg-gio,lapiù interessante,riguarda le lettere spedite da Lévi-Strauss durante il suo soggiorno a New York, dal 1941 al 1942, dove si eratrasferitopersfuggirealperi-colo dell’occupazione tedesca, grazie soprattutto all’interven-to di Alfred Métraux, antropolo-

gofrancesechedatemporisiede-va e lavoragofrancesechedatemporisiede-va in America, e che si era molto impegnato per far sì cheLévi-Strauss venisse invitato presso la New School of Social Research di New York.

Inmolteletterevienericorda-ta con riconoscenza l’attenzio-ne prestata da Métraux, persona «di un’estrema gentilezza, (che) sembra volermi aiutare con ogni mezzo e in maniera del tut-to disinteressata».

«La sua amicizia e la suadevo-zione – si legge ancora – nei miei confronti sono al

contem-po inspiegabili e commoventi». Fu lo stesso Métraux a proporre il nome di Lévi-Strauss per alcu-ni articoli da pubblicare sull’Handbook of South American

Indians, opera curata dalla

Smi-thsonian Institution e destina-ta a divenire un riferimento classicopergli antropologiinte-ressati all’America meridiona-le. Lévi-Strauss fu subito consa-pevole dell’opportunità che gli veniva offerta: «Eccomi quindi certo di passare alla storia con un’operachesarà probabilmen-te un’autorità per un secolo».

Tra Boas e Malinowski

La pubblicazione di quei contri-buti avrebbe aperto al giovane Lévi-Strauss le porte dell’antro-pologia americana, consenten-dogli di entrare in contatto con grandi personaggi dell’epoca, anche loro spesso presenti nelle lettere: Robert Lowie, Ralph Lin-ton,JulianSteward,chedirigeva l’Handbook, e lo stesso Franz Boas, il «padre fondatore» dell’antropologianegliStatiUni- ti,doveLévi-Straussincontròan-che Malinowski, del quale scri-ve: «è anziano, gentile, parla egregiamente il francese e non si trova bene negli Stati Uniti».

Figura, in queste pagine, an-che la passione per la musica classica – fin dai tempi del servi-zio militare, quando il giovane Claude chiede ai genitori di pro-curargliun’edizionedelPelléaset

MélisandediDebussy,eunacurio-sa inclinazione perla cucina:en-trambe sarebbero diventate te- miimportantinell’operadedica-ta allo studio dei miti. Qualche breve accenno, nelle lettere da New York, allude alle prime ri-cerchediLévi-Straussnelcampo dellaparentelaedell’elaborazio-ne logico-matematica, che sa- rannomateriadellatesididotto-rato,discussaaPariginelgiugno del 1948.

L’influenza di Jakobson

La scelta dell’argomento e del metodo impiegati risentono molto dell’amicizia con un altro esule, il grande linguista Roman Jakobson,concuiimbastìunare-lazione fondamentale, sebbene nelle lettere ne compaia appena qualche traccia. Proprio nell’ul-tima, però, datata settembre 1942, si accenna al fatto che Lévi-Strauss, oltre a tenere i suoi corsi, era interessato «a seguire un eccellente corso di linguisti-ca tenuto da uno dei miei colle-ghi,ilqualemifornirà,inquesto campo, delle conoscenze indi-spensabili per il lavoro».

L’influenza di Jakobson fu effettivamente decisiva nella formazione del giovane studio-so e, da lì a qualche anno, sa-rebbe stata fondamentale a in-formare quella prospettiva strutturalista che nel campo della antropologia sarebbe ri-masta legata inscindibilmen-te al nome di Lévi-Strauss.

LÉVI-STRAUSS

Le lingue storiche, manifestazioni

distrutturemetafisicheprofonde

di ADRIANO BERTOLLINI

N

egli ultimi decenni del secolo

scorso, la prospettiva «relativi-sta» sul linguaggio, convenzio-nalmente chiamata «ipotesi Sa- pir-Whorf»,eracadutaindiscre-dito:l’idea checon il variaredel-lelingueedelleculture mutian-che il modo in cui le comunità umane organizzano l’esperienza conosce tuttavia oggi un rinnovato interesse, tan-to che Bollati Boringhieri ha deciso di ri-pubblicare il volume di Benjamin L. Whorf Linguaggio, pensiero e realtà

(pp. 250, € 17,50), quarant’anni dopo la

sua uscita in Italia. Morto precocemente, Whorf non fece in tempo a mettere a pun-to il libro, che aveva progettapun-to come un manuale universitario. Il curatore del vo-lume decise così di comporlo con scritti editi e inediti: studi sulla lingua dei nativi americani, soprattutto quella degli hopi, della cui analisi Whorf fu un pioniere, ma anche saggi di linguistica generale e arti-coli più divulgativi in cui l’autore prova a illustrareilrapportotrapensiero,linguag-gio e comportamento.

Malgrado l’eterogeneità del materia-le che lo compone, il volume ruota at-torno a un’idea centrale, ovvero che la nostra esperienza del mondo è

struttu-rata e pensata linguisticamente. Dun-que, la variazione delle lingue portereb-be con sé un mutamento della concezio-ne di realtà e dei comportamenti che vi si realizzano.

Whorf formula così il suo principio di

relatività linguistica: due uomini «non

so-nocondottidagli stessifatti fisici allastes-sa immagine dell’universo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simi-li, o non possano essere in qualche modo tarati». In altre parole, il linguaggio pro-duce una visione del mondo che muta al variare delle lingue. Questa differenza di

Weltanschauung è tanto più evidente

quanto più sono lontani gli idiomi che si mettono a confronto. Può addirittura sfuggire se si rimane nell’alveo delle lin-gue indoeuropee. Se però si comparano queste ultime con le lingue dei nativi americani, sostiene Whorf, le cose cam-biano radicalmente.

Il linguista americano si concentra so-prattutto sui concetti di tempo, spazio e materia. Per via della struttura

sogget-to-predicato delle lingue indoeuropee e della presenza dei tempi passato, presen-te e futuro, noi occidentali siamo inclini a concepire la realtà in termini di cose e di

azioni e relazioni tra esse, che avvengono in

uno spazio e in un tempo definiti. Ma sa-rebbe un errore pretendere per questa struttura una validità universale. Pur es- sendolapercezionesensibiledeicorpinel-lospazio«data»pertutti«sostanzialmente nella stessa forma, qualunque sia la lin-gua» che parliamo, non dobbiamo ignora-re l’esistenza di idiomi che organizzano quell’esperienza sensibile in modo radi-calmente diverso dal nostro.

La nozione di tempo, per esempio, è variabile: in hopi non si possono utilizza-re i numeri cardinali in riferimento ai giorni, ma solo gli ordinali. Si può dire «il terzo giorno» ma non «tre giorni». Il tempo è quindi sempre riferito alla pro-spettiva di un soggetto o in relazione a un evento e per gli hopi è inconcepibile l’idea di una temporalità astratta e vuo-ta, fatta di unità discrete (giorni, mesi,

anni) ripetute all’infinito.

Secondo Whorf è addirittura la nozio-ne di verbo a venire fortemente indeboli-ta se si tiene presente come in alcune lin- gue,peresempioloyana,qualunqueparo-la possa essere resa verbo «tramite l’appli-cazione di certi suffissi distintivi». Sareb-

bequindipiùcorrettoparlaredi«verbazio-ne». In questa goccia di grammatica si na-sconde una grande differenza di prospetti-va rispetto a noi europei: emerge infatti una visione che privilega gli eventi, ognu- nodeiqualièesitodiunprocesso,adiscapi- todellecose.Mapuressendoilpernointor-noacuiruotatuttoilvolume,ilrelativismo linguistico è solo una faccia della meda-glia: man mano che ci si avvicina alle pagi-ne finali emerge infatti un’idea opposta.

Secondo Whorf la linguistica, pur non essendo una scienza quantitativa, sareb-be tuttavia esatta, proprio come la mate-matica e la fisica, e attraverso di essa si po-trebberoscoprire leggi e strutture genera-lissime che regolano il pensiero e il lin-guaggio,comeper esempioalcuneformu-le, ideate dall’autore,che descrivono le re- golegeneraliperlaformazionedelleparo-le, applicabili a tutti gli idiomi.

Se confrontate con queste forme gene-rali del pensiero, le lingue storiche altro non sarebbero che manifestazioni spazio-temporali di una struttura metafisica più profonda: oltre il «velo di Maya»

(l’espres- sioneèdiWhorf)costituitodallamentein-dividuale dei parlanti, ci sarebbe una psi-che impersonale psi-che si esprime in un lin-guaggio puro, di cui gli idiomi storici non sarebbero se non pallide imitazioni.

Al di là delle differenze tra le lingue e le culture, tutti gli esseri umani sarebbero dunque accomunati dall’appartenenza a una medesima sostanza, che se debita-mente illuminata potrebbe portare a una «fratellanza» universale e a un’umanità pacificata. Ma la ricaduta politica di que-sta nobile idea ha un prezzo teorico: per-chépostulareunastrutturadi pensieroul-traterrena al di là delle lingue, quando queste possono essere concepite – mate-rialisticamente – come un mutevole pro-dotto della nostra biologia? Per questo, le paginefinaliincuiWhorfalludeall’eterni-tà come chiave di volta per la soluzione del problema storico della convivenza tra gli uomini, sembrano essere l’esito para-dossale di un libro il cui pregio principale è proprio quello di sottolineare la matrice storica dell’esperienza umana.

Primaedopol’incontro

conilpensieroselvaggio

Era il gennaio del 1922 quando

il futuro padre della moderna

eschimologia incontrò, su un’isola

del Bacino di Foxe, lo sciamano

degli Iglulingmiut: «Adua», da Adelphi

BENJAMIN L. WHORF, «LINGUAGGIO, PENSIERO E REALTÀ», DA BOLLATI BORINGHIERI

Suighiacci,icaniconlacrocealcollo

Raccolte dalla moglie Monique, le missive dell’antropologo francese durante

il servizio militare, poi dall’America: «Lettere ai genitori 1931-1942», dal Saggiatore

Knud Rasmussen

racconta come

la rapida conversione

degli Inuit diede vita

a forme di culto ibride

Dal 1912 vennero

avviate le esplorazioni

cosiddette «Thule»,

ma quella cruciale

si svolse fra il ’21 e il ’24

Monique e Claude Lévi-Strauss

l’antropologo

nel quotidiano

grandi

esploratori

Ritratto di un Inuit; in basso, Knud Rasmussen

Maschere sacre della tribu nordamericana degli Hopi

(4)

CRITICA

DOVE SEI

PROUST

di FEDERICO BERTONI

C

hiariamo subito un punto: si parla anche di voi, o meglio di tutti noi. La scomparsadellacriticaletterariadal-lascena pubblicanon èun problema da accademici spocchiosi o letterati ingobbiti sulle sudate carte. Perché l’eclissidiunadisciplinadiperséirri-levante per i destini del mondo rac-conta una storia molto più grande, grida con la forza del sintomo una perdita ben più gra-ve: lo spirito critico della modernità illumini-sta, l’aspirazione kantiana a camminare eret-ti e a rivendicare l’uso pubblico della ragione:

sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della

tua propria intelligenza.

Una parola-chiave della modernità

Perciò non è affatto semplice indicare cause e moventidiquestoprocessoapparentementeir-reversibile: significherebbe raccontare la crisi stessa della modernità. La critica letteraria na- sceinfatticonilpensieromoderno:«siemanci-pa» in quanto disciplina autonoma quando la ragioneoccidentalemetteindiscussioneunas- settomillenario,articolandosiinunaseriedidi-scipline che vanno a costituire l’episteme del moderno:psicologia,antropologia,sociologia, economia politica, estetica e appunto critica letteraria. Anchel’espressione «crisi dellacriti-ca» che da almeno venticinque anni segna pe-riodicamente il dibattito culturale, peraltro senza scalfirlo, ha qualcosa di tautologico.

Cri-si, ci ha spiegato un filosofo della storia come

ReinhartKoselleck, è una parola-chiave del vo-cabolario della modernità, è anzi «la chiave in-terpretativacentraletantoperlastoriapolitica quanto per la storia sociale» almeno a partire dalla Rivoluzione francese.

E dunque la critica letteraria, come decli-nazione specifica dello spirito critico moder-no,èincrisi perdefinizione. Loharicordatoa suo tempo Mario Lavagetto sulla scorta di Paul de Man: la crisi della critica ha natura «endemica», coincide cioè con l’esistenza stessa di questa disciplina, come rivela

peral-tro la comune derivazione etimologica dei termini critica e crisi dal verbo greco kríno, che copre un duplice campo semantico: da un la-to «separare», dall’altro «scegliere», «decide-re», «giudicare». In altri termini, la crisi è una condizione strutturale dell’esercizio critico, lasuaragioned’essere; enonesistecritica au-tentica che non viva in una situazione di in-stabilità categoriale, che non rimetta conti-nuamente in discussione i presupposti, i me-todi e gli obiettivi del suo operato.

Vienequindidapensarechelacrisidellacri-tica in cui si macerano da anni tanti intellet-tualinon siaaffattounacrisimapiuttosto una paralisi,unasclerosiprogressiva,illentoeine-sorabile svuotamento di quel vitale nesso se-mantico:lacritica langueemuore (osisuicida più o meno consenziente, come ha diagnosti-catoLavagettoinEutanasia dellacritica) proprio perchénonèpiùingradodiessereedimetterein

crisi, o forse perché, più in generale, il

concet-to di crisi con cui interpretiamo compulsiva-menteilnostropresentehapersole suevalen-ze anche positive, di cesura drastica, momen-to di fine e di inizio, spinta al cambiamenmomen-to, impantanato nella visione malinconica di un presunto declino.

Nulla avviene per caso

C’èpoiunacausapiùcircoscrittacheciinduce periodicamenteachiederci«dovesiamo?»,co-me nel titolo di un bel libro collettivo sulle «nuoveposizioni della critica» di Giancarlo Al-fano e altri studiosi. È una causa iscritta nell’evoluzione (o involuzione) degli studi let-terari negli ultimi decenni del Novecento, quando si consuma il fallimento di un pro-gramma critico, modellato sulla linguistica, che voleva fondare una scienza «forte» della letteratura, basata su metodi e protocolli affi-ni a quelli delle scienze naturali. Sono i decen-ni in cui una certa teoria letteraria di matrice soprattutto francese raggiunge al tempo stes-so il culmine e il punto di non ritorno, trionfa mentrenutrei germidellasuadistruzione, sa-crifica tutto al miraggio utopico e

inevitabil-

mentefallimentaredimettereapuntounama-thesis universalis del sapere letterario. Lo scacco

grandioso e catastrofico di questa aspirazione all’universale, di quest’ultimo progetto illu-minista ha prodotto effetti a catena che è im-possibile descrivere nel dettaglio. Ma a grandi linee ne è uscita una contrapposizione nefa-sta tra due tendenze che segnano il panorama attuale degli studi letterari: da un lato la chiu-sura specialistica, l’arroccamento difensivo neipropriminuscoliappezzamentidisciplina-ri, dove si continua felicemente (?) a lavorare senza farsi troppe domande, impermeabili al mondo,protettidaunsaperechesiautogiusti-fica con il vecchio e ormai inservibile scudo della tradizione; dall’altro la tuttologia, la let-teratura come pretesto per parlare d’altro, il goffoespessopateticoinseguimentodellemo-de e goffoespessopateticoinseguimentodellemo-dei consumi culturali, in un tentativo di innovareconcettielinguaggiperadeguarsial-le richieste dell’ideologia dominante, cioè l’unica rimasta: il mercato.

A venir meno è appunto lo spazio intermedio, il luogo deputato della critica, cioè di un di-scorsotecnicoespecializzatosullaletteratura che ambisca a un senso più ampio, collettivo, nei termini sempre più inattuali del bene co-mune e dell’uso pubblico della propria ragio-ne. Ne è sintomo perfetto, con il lucido cini- smochesoloilmercatopuòavere,lascompar-sa pressoché totale della smochesoloilmercatopuòavere,lascompar-saggistica letteraria dall’orizzonte editoriale, e anche fisicamente dagli scaffali delle librerie. Agli studi letterari di tipo accademico non resta così che alimen-tare in modo compulsivo il canale parallelo, ormai del tutto drogato, delle edizioni a paga-mento, da dare in pasto alle commissioni di concorsoe aquellamacchina impazzita che si chiama «valutazione della ricerca scientifica» (potrei citare decine di messaggi promoziona-li di editori più o meno improbabipromoziona-li che offro- nodipubblicarequalunquelibro,aprezzimo- dici,intempoutileperlescadenzedell’Abilita-zione Scientifica Nazionale).

Certo, non c’è da fare le vittime o rimpian-gere nostalgicamente il bel tempo perduto.

Nulla, ovviamente, avviene per caso. E in fon-do non è tutta colpa dei critici e degli studiosi diletteratura,puremoltoinclinialsuicidioas-sistito. Parte di un problema ben più ampio, l’agonia attuale della critica letteraria può es-sere letta come un sintomo di enormi trasfor- mazionipolitiche,sociali,economiche,cultu- ralietecnologichecheinostristrumentiinter-pretativi non sono in grado di capire e tanto-meno digovernare. Calvino,Fortini e Pasolini sono morti, d’accordo (e anch’io non misento tanto bene, direbbe Woody Allen), ma non è questo il punto. A mancare non sono i cervelli maunasortaditessutoneuronalediffuso,sen- zailqualeanchelegrandifigurechehannose-gnato la storia intellettuale del Novecento, se rivivessero oggi, sconterebbero una condizio-ne di malinconica irrilevanza.

Lacriticanonsapiùparlareperchéèscompar-sa una certa società letteraria, una comunità di lettori che condivideva gli stessi valori, saperi e orizzonti culturali, un pubblico (sicuramen-te ristretto, ma vivo e riconoscibile) con cui istituire un’intesa comunicativa immediata. (Quelchestasuccedendosulwebèunfenome-no diverso, che nessu(Quelchestasuccedendosulwebèunfenome-no è ancora riuscito a mettere a fuoco).

Dobbiamo seppellire l’umanesimo

La società che ha costituito la «letteratura» in quanto oggetto di un sapere, concetto identi-tario e pedagogico, luogo del valore e fulcro del sistema educativo, non esiste più, e non è detto che sia per forza un male. Ma è un lutto che bisogna elaborare al più presto. Dobbia-mo seppellire una volta per tutte l’umanesi-mo, rinunciare ai diritti di primogenitura cul-turale per combattere una battaglia di resi- stenza,enonsolodiretroguardia,nell’econo-mia di quello che ormai si chiama «capitali-smo cognitivo», dove la produzione e la ge-stione delle conoscenze – scienza, ricerca, cultura,arte,letteratura,insegnamento–en-trano in una logica di scambio, profitto, com- petizioneeaccumulazionedelcapitalecogni-tivo globale. È quel che ci è toccato in sorte: micro-pratiche, tattiche congiunturali, pic-coli gesti resistenti che spezzano gli automa-tismi, inceppano gli algoritmi, costringono un paio di studenti a farsi domande nuove, contrappongono a un mondo che non ha al-cuna voglia di essere interpretato quell’atto congiunto di lacerazione e giudizio che è iscrit- tonelconcettoenellastoriadellacriticalette-raria. Non posso dire di essere ottimista, ma credo che ne valga ancora la pena.

di PASQUALE DI PALMO

«A

volte, ed è il caso più

semplice, la prima persona singolare sembra affiorare nell’ombra di Jean e assumere il ruolo di unnarratoretestimo-ne, che si intromet-te nella narrazione e finisce per prevarica-re, per sostituirsi al protagonista e per aprire alle sue spalle un dialogo con il letto-re». Quest’asserzione di Mario Lavagetto, riguardante lo slittamento che fa approda-re, alla stregua di un lapsus narrativo, la descrizione del protagonista dalla terza persona singolare alla prima, potrebbe idealmente introdurre la nuova traduzio-ne delJean Santeuil di Marcel Proust

(Edi-zioni Theoria, pp. XXVI-806, € 20,00), effet-tuata con eleganza da Salvatore Santorelli. Si tratta della prima versione dopo quella «storica» allestita da Fortini per Einaudi nel 1953 e riveduta dallo stessoFortini nel ’76in base alla lezione critica stabilita nel ’71 da Pierre Clarac per Gallimard. Si è ripristinato «l’arbitrario ordine strutturale e di capitola-zione» che figurava nell’edizione originale francese,conl’obiettivodifavorireuna mag-giore fruibilità del testo, a scapito di una fe- deltàfilologicachenonpotevacheessereap-prossimativa, considerata la frammentarie-tà del progetto proustiano.

Ritrovato in un armadio

E, in effetti, questo romanzo-fiume, compo-sto tra il 1895 e il 1902, il cui manoscritto fu ritrovato in un armadio daBernard de Fallois e pubblicato in tre volumi da Gallimard con prefazionediAndréMauroisnel’52,trent’an-ni dopo la scomparsa di Proust, si configura come una sorta di laboratorio della Recherche o, per usare le parole di Gianfranco Contini, il «cartone» preparatorio della stessa. Nume-rosi sono infatti i motivi adombrati in questo romanzo giovanile e l’opera maggiore, testi-moniati a più riprese dalle corrispondenze chesiimpongonoallamemoriadellettoreco-me felici epifanie: dal bacio materno della buonanotte senza il quale il protagonista bambino non riesce ad addormentarsi («Quella buonanotte a letto era il dono atteso con febbrile impazienza, il cui meraviglioso potererasserenavacomeunincantesimo»)al tema della gelosia che cadenza le vicissitudi- nidellaPrigioniera,dallosnobismovissutoco-me rutilante alternarsi di convenzioni ora

garbate ora patetiche all’uso dei nomi che ri-troveremo nella Recherche, come Bergotte, scrittore anziché pittore. Infine la telefonata alla madre che prefigura quella alla nonna nei Guermantes e la petite phrase musicale della «sonata di Vinteuil»: «Aveva riconosciuto quella frase della sonata di Saint-Saëns che ai tempi della loro felicità le chiedeva quasi ognisera e che leigli suonava incontinuazio-ne, dieci volte, venti volte di seguito». D’al-tronde bisogna ricordare come il celeberri- moepisodiodellemadeleinesfossestatoantici-pato nel Contre Sainte-Beuve.

Scrisse Giacomo Debenedetti che «quan-do Proust, nella Ricerca, farà parlare il suo pro-tagonista in prima persona, avrà molto mag-giore possibilità di distacco, e libertà d’inven-zione. Accollandosi la diretta responsabilità di ciò che succede, potrà crearsi il margine di finzione, indispensabile per dire tutta la veri- tà.JeanèunacreazionedellatimidezzadiMar-cel; ma è una timida creazione. Invece di sen-tirsene protetto e reso più audace, Marcel sconta,conquelsuoJean,l’inizialemancanza di coraggio, che gli ha impedito di dire io». Os-servaAndrea Caterini nella suaintroduzione: «Jean Santeuil è narrato in una terza persona che fa di tutto per diventare una prima. Lo si comprendedalruolo predominante che

assu-me il narratore, il quale è tutt’altro che acriti- co;piuttostoleggelavitadelpropriopersonag- giocomenegiudicasseogniatto,ognicompor-tamento; come il suo personaggio fosse un modello umano dal quale ricavare un signifi- catouniversale,unafilosofia(purepoetica,vo-gliodirepercettiva).Quellaterzapersonanon doveva piacere a Proust, forse perché aveva compreso che, pur ponendo una distanza og- gettivatrapersonaggioenarratore,avevacau- satoalcontempounadiscrepanzadisignifica-ti; quasi che la vita – la vita di Proust – fosse di-venuta appena una somma di esperienze».

Ma, al di là delle elucubrazioni concer-nenti i pronomi personali, la composizio-ne del Jean Santeuil, per quanto abortita (ma la materia non appare abbozzata, ben-sì a tratti delicatamente cesellata), costitui-sce, a differenza di altre prove giovanili an-cora acerbe (si pensi a I piaceri e i giorni e a certe «cronache mondane» contrassegnate dal ricorso al pastiche), come un lavoro godibi-le e ricco di implicazioni intertestuali. Certe paginesull’adolescenzaosulfascinoesercita- todauncarosellodipersonaggiminorisiinci-dono nella memoria con la sottigliezza di un tagliodibisturi.Ilmotivoconclamatodell’au-tobiografismo, avallato da quella «memoria involontaria» che avrà nella Recherche un

po-sto preponderante, non può inficiare la fre-schezza di episodi che ci riconducono alla giovinezza e all’ambiente frequentato dall’autore, in virtù di quel senso della sco-perta di cui è pervasa, se pur frammentaria-mente, ogni pagina del romanzo. George D. Painter,nellasuabiografiaproustiana,scris-se, riguardo a certe incongruenze di stampo cronologico e strutturale (si confronti l’epi-sodio riguardante la sfida a duello tra il pro-tagonista e il signor Saylor che non avrà ade-guato seguito): «Tuttavia le imperfezioni di

Jean Santeuil non vanno esagerate. Il

roman-zo è un frammento fatto di frammenti, una sorta di puzzle in cui molti pezzi mancano o si rifiutano di inserirsi al loro posto; ma un altro anno di lavoro sarebbe bastato per fon-dere gli episodi in un tutto organico (…). Un

JeanSanteuilriveduto sarebbe stato – per il

te-ma, per lo stile, per la freschezza – qualcosa di nuovo e sorprendente per la letteratura

francese,eppurenontropponuovo,nontrop-po lontano da France e Barrès perché il

pub-blico potesse accettarlo e digerirlo».

Frase contorta come i tralci della vite

La frase peculiare che contrassegna tante pa-gine della Recherche, avvolgente aspirale nel-la sua complessità, allungata a dismisura, contorta come i tralci di una vite, ma che, al tempo stesso, si dispiega in una sua innata eleganzacomeilmotivodiqueglistessitralci di vite in un capitello romanico; quella frase che molti critici hanno messo in relazione con l’asma di cui soffriva Proust, sembra qui trovare una versione primigenia, niente af- fattoperegrina.Loscartochedaràlaconsape-volezza necessaria ad affrontare l’architettu-ra spropositata della Rechercheècostituitodal-la cognizione, in parte ereditata da Bergson, del tempo. Painter nota che, all’epoca di Jean

Santeuil, Proust «non poteva ritrovare il

Tem-po perché non lo aveva ancora perduto». Lastessaadesioneallarealtàstoricaepoli-tica descritta in Jean Santeuil (si vedano le pa-ginededicateall’affaireDreyfus) è vissuta co-me il tentativo quasi puerile di arginare i danni causati da quel tempo di cui l’autore non ha ancora adeguata nozione, sottomet-tendosialla sua apparenza e alle relative de-formazioni cronachistiche. Proust ricorre al sotterfugio, teso presumibilmente a ma-scherare l’intento autobiografico, di pre-sentare nella sua introduzione il romanzo come frutto del lavoro di C., «scrittore che alcuni miei amici e io stesso reputavamo il migliore fra quelli in vita», espediente che gli consente di camuffarsi dietro due alter ego: C. e il narratore dell’introduzione. Ag-giunge inoltre, per depistare ancor più il lettore, di non sapere quanto la figura di C. possa identificarsi con quella di Jean San-teuil. Fu Proust stesso ad accorgersi che l’ar-tificio dell’introduzione, così avulso rispet-to alla trama del libro, era «insufficiente a riscattarne il carattere complessivo, che era quello di una grezza trascrizione dell’esperienza vissuta», come ricorda Ma-riolina Bongiovanni Bertini. Non è un caso che Walter Benjamin si chiedesse: «La “memoria involontaria” di Proust non è for-se assai più vicina all’oblio rispetto a ciò che chiamiamo comunemente ricordo?».

Invece di sentirsene protetto e reso

più audace, Marcel sconta,

con quel suo Jean, l’iniziale mancanza

di coraggio, che gli ha impedito di dire

io...»

Giacomo Debenedetti

Ha inizio con questa pagina una discussione mirata

a indagare la patente caduta in disgrazia

della teoria letteraria; ciò che coincide, nella migliore

delle ipotesi, con una ratifica politica dell’esistente

Nonarrendersialcapitalismocognitivo

Salvatore Santorelli, Edizioni Theoria, ha tradotto

«Jean Santeuil», «cartone» preparatorio

della «Recherche»: è la prima versione dopo Fortini

Francesco Vezzoli,

Self Portrait as Apollo del Belvedere’s (Lover), 2011

dalla cassetta

degli attrezzi

Édouard Vuillard, Deux ouvrières dans l'atelier de couture, 1893, Edimburgo, Scottish National Gallery

L’adesione alla realtà storica

e cronachistica è il tentativo

di arginare i danni del tempo

il romanzo

giovanile

Nell’agonia della critica letteraria,

un sintomo di mutazioni che sfuggono

ai nostri strumenti interpretativi

Santeuileilsenso

dellascoperta

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