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Profili giuridici del diritto della guerra in Roma antica.

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Università di Pisa

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

P

ROFILI GIURIDICI DEL DIRITTO DELLA GUERRA IN

R

OMA ANTICA

Relatore:

Chiar.mo Prof. Aldo Petrucci

Candidato:

Leonardo Stranieri

(2)

1

INDICE

INTRODUZIONE

………4

CAPITOLO I

LA LEGITTIMAZIONE DELL’AZIONE BELLICA

NEL DIRITTO ROMANO

1. Il pensiero greco e le diversità con la concezione romana della guerra………..9 2. Il ius fetiale………..11 3. Rapporti fra l’ordinamento feziale e il bellum iustum………...17 4. Evoluzione del procedimento………...28 5. Il bellum iustum nelle opere di Cicerone………..34

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2

CAPITOLO II

I PRIGIONIERI DI GUERRA NEL DIRITTO

ROMANO: PROFILI GIURIDICI

1. Condizione giuridica dei romani presso gli hostes………..47 2. La redemptio ab hostibus: La redemptio del liber: pubblica e privata………...49 3. Genesi del regime giuridico del prigioniero di guerra riscattato presso i nemici……….55 4. La constitutio de redemptis………..58 5. Il vincolo sul redemptus riscattato iure commerci presso gli

hostes……….64

6. Definizione di postliminium………68 7. Status personali e rapporti patrimoniali nello studio del

postliminium: il prigioniero pater familias………..70

8. Il patrimonio del prigioniero di guerra……….73 9. L’eredità del prigioniero. Problematiche relative alla

successione………...78 10. Matrimonio e figli nati in prigionia……….81 11. Concetto di limen……….88

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3

12. Postliminium cum hostibus e postliminium in pace:

differenze………..91

13. Analisi del postliminium in bello……….94

14. Il problematico caso del postliminium del miles non previsto in un foedus pacis………...99

CAPITOLO

III

‘PRAEDA’ BELLICA E DESTINO DEI

PRIGIONIERI DEL POPOLO ROMANO

1. Assoggettamento e vendita dei prigionieri di guerra………..102

2. Definizione di ‘praeda’ bellica………...106

3. Vendita sub corona degli schiavi………..112

4. Beni immobili………117

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4

INTRODUZIONE

Lo studio del diritto della guerra nel mondo romano non è una tematica semplice da affrontare, sia per le molteplici teorizzazioni che hanno riguardato l’argomento, a partire dalle più antiche concezioni greche, sia da un punto di vista più strettamente etico-morale, pertanto, personalmente, nell’apprestarmi a questo studio, sono stato consapevole di quanto una simile indagine possa risultare mero esercizio di antichistica giuridica, se non esposta con le dovute cautele.

Lo studio, di conseguenza, prende in considerazione l’evoluzione del procedimento relativo alla dichiarazione di guerra a partire dalla Roma arcaica fino all’epoca imperiale, dando ampia descrizione delle ragioni, anche sostanziali, per cui esso era venuto a stabilizzarsi.

Analizzeremo, basandoci sulla descrizione riportata da Livio, le varie fasi che, seguite scrupolosamente, conducono ad una legittima dichiarazione di guerra.

Il primo snodo sarà quello di interrogarsi su come i Romani rendessero note a terzi le cause della guerra e le loro pretese nei confronti degli hostes, in seguito, quali fossero le prescrizioni formali e gli organi incaricati della decisione sostanziale sull’opportunità di dichiarare una guerra.

L’analisi di queste formalità propedeutiche ad uno scontro armato porterà ad imbattersi nel concetto di guerra giusta (bellum iustum)

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5

come anticamente sviluppato dalla filosofia romana e con una particolare attenzione a quanto contenuto nelle opere di Cicerone, il quale, giustifica una guerra che si basi scrupolosamente su precise forme giuridiche attuate dal collegio dei Feziali, così legittimando anche quella che si realizzi per difesa o vendetta. Il diritto della guerra in Roma antica era, quindi, strettamente connesso allo ius fetiale, essendo considerati ammissibili soltanto quegli scontri che fossero intrapresi in conformità a tale diritto, i quali, in conseguenza di questa aderenza, acquisivano carattere legittimo.

Il rispetto di queste forme era un presupposto irrinunciabile per principiare un’attività bellica, rendendo quest’ultima meritevole di essere intrapresa e proseguita. In nessun caso i Romani avrebbero posto in essere un conflitto se non in seguito ad una preventiva richiesta di soddisfacimento a carico di un popolo avversario che era, in qualche modo, risultato mancante nei confronti del popolo romano. Si trattava di un vero e proprio rituale solenne attuato da sacerdoti con la partecipazione degli Dei stessi, chiamati in causa a giudicare della legittimità dell’azione e ad intercedere in prima persona fra le popolazioni in conflitto. Il carattere formale non giustifica la violenza, ma ne dà rigore, ponendo dei termini e favorendo la possibilità di far emergere le motivazioni che spingono un popolo a pretendere qualcosa da un avversario, di modo che, da entrambe le parti, possa esservi un tempo consono per la valutazione dell’opportunità dello scontro.

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6

Successivamente a quest’analisi, l’elaborato si svilupperà sullo studio dei prigionieri di guerra, a partire dalla situazione giuridica di un civis romano catturato e detenuto presso una popolazione nemica, sia conseguentemente ad un evento bellico che a prescindere da quest’ultimo.

Valutata la situazione di un captivus apud hostes, ormai privo del suo precedente status giuridico, ci inoltreremo nella complessa tematica del rientro dello stesso, qualora, per causa fortuita, riscatto o intervento militare, egli riesca a tornare nei propri confini. Analizzeremo rispettivamente l’istituto della redemptio ab

hostibus, sviscerandone la sua evoluzione storica e le varie

modalità di applicazione, per poi affrontare un altro meccanismo che fa da recipiente ad ogni diversa tipologia di rientro e che ha lo scopo di restituire, con alcuni limiti, lo status giuridico anteriore alla captivitas, una volta che si fosse ritornati attraverso il limen romano: il ius postliminii.

Qui incidentalmente tratteremo del concetto di limen, che corrisponde in età arcaica al pomerium cittadino e che acquisirà nel tempo una connotazione più astratta, andando ad ampliare i confini considerati validi per l’applicazione del postliminio fino a comprendere i praesidia romani, anch’essi reputati idonei ad accogliere coloro che sfuggono alla cattività, sia con le proprie forze, che successivamente all’intervento dell’esercito.

Ulteriore spazio sarà dedicato all’approfondimento delle situazioni giuridiche del cittadino, involgenti anche coloro che a lui erano

(8)

7

legati da vincoli personali, che fossero rimaste pendenti durante la prigionia. Studieremo lo status del captivus, sia come titolare di

potestas che in rapporto al suo patrimonio. In seguito, vaglieremo

le problematiche successorie nei casi in cui si venga a conoscere della morte del cittadino in territorio nemico. In ultimo, per concludere i vari rapporti giuridici, accenneremo alla tematica del matrimonio e dei figli nati in prigionia, distinguendo, in quest’ultimo caso, se il concepimento sia avvenuto precedentemente alla cattura della madre (e nel territorio di Roma) o meno.

Nell’ultimo capitolo, comprese le varie dinamiche relative alla prigionia e di conseguenza alla schiavitù che da essa deriva, dedicheremo uno sguardo al concetto di praeda bellica, locuzione con cui si fa riferimento al bottino di una guerra, costituito da beni mobili, immobili (in questo caso si parla essenzialmente di territori), ma soprattutto dagli stessi schiavi, riferendoci questa volta a coloro che si trovano come prigionieri nel territorio romano. L’analisi della condizione di questi ultimi volgerà poi verso il regime giuridico della loro vendita ed in particolare studieremo l’insituto nella sua configurazione sub corona, un particolare tipo di vendita all’incanto che ha la finalità di prevenire qualsiasi richiesta di garanzia da parte dell’acquirente sullo schiavo venduto.

L’intento di questo lavoro è offrire una visuale quanto più possibile esaustiva sul diritto della guerra ed illustrare la concezione che

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8

dello stesso si diffuse a partire dalla Roma più arcaica, per mettere poi in evidenza l’evoluzione degli istituti di diritto che entravano in funzione contemporaneamente o successivamente ad un conflitto.

(10)

9

CAPITOLO I

LA LEGITTIMAZIONE DELL’AZIONE BELLICA

NEL DIRITTO ROMANO

1. IL PENSIERO GRECO E LE DIVERSITÀ CON LA

CONCEZIONE ROMANA DELLA GUERRA

Le differenze tra la regolamentazione del fenomeno bellico in Grecia e a Roma non sono di poco conto; gli storici del diritto si sono prevalentemente occupati dell’elaborazione concettuale romana rispetto a quella greca, mentre le correnti storiografiche più sensibili al metodo dell’histoire sociale nello studio della guerra inizialmente hanno invece avuto una spiccata preferenza per la seconda.1

Le discrepanze si colgono soprattutto riguardo all’impostazione del problema della legittimità della guerra: circa le sue giustificazioni, gli obiettivi, i comportamenti e le conseguenze.

Tuttavia, questo rapporto fra le due culture è allo stesso tempo molto stretto, avendo Roma, dal III secolo a.C., risentito fortemente dell’influenza della filosofia ellenica ed essendosi posta

1 Cfr. V. Ilari, L’interpretazione storia del diritto di guerra romano fra tradizione romanista

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10

come interlocutrice di una diplomazia da quest’ultima sviluppata che solo di recente comincia ad essere opportunamente studiata2.

Non è infatti raro che molti autori latini come, ad esempio, Cicerone, che sembra rifarsi a Panezio da Rodi per quanto concerne gli officia adversus hostes servanda,3 richiamino spesso

loro predecessori greci.

Un’ulteriore relazione si può individuare anche in riferimento alla concezione giudiziaria della guerra, strettamente collegata con quella agonale.

L’arbitrato è stato, del resto, considerato in entrambe le esperienze come qualcosa di alternativo allo scontro, anche se pure quest’ultimo, prevalentemente nel mondo romano, veniva considerato come un processo di esecuzione giudiziaria conseguente ad una rerum repetitio non soddisfatta.4

Una concettualizzazione comune sembra risiedere proprio nel

bellum iustum, cioè nell’idea di guerra diretta a sostenere le

ragioni e a denunciare i torti altrui davanti agli Dei e al popolo.5

Da queste premesse consegue che l’elaborazione romana della guerra non emerge in senso innovativo ed in modo netto né sul piano filosofico-ideologico, né su quello delle forme giuridiche.

2 Ivi, p. 5.

3 Cic., Off. 1.11.34; Cic., Att., 16.11.4; Cic., Off. 2.60.

4 Cfr V. Ilari, L’interpretazione storia del diritto di guerra romano fra tradizione romanista e

giusnaturalismo, op cit., p.7.

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11

Diversamente deve dirsi per quanto concerne il jus fetiale, una delle concezioni più antiche delle relazioni esterne romane, probabilmente coevo all’elaborazione concettuale dell’hospitium.6

2. IL IUS FETIALE

I Feziali erano un collegio sacerdotale costituito da venti sacerdoti designati per cooptazione. La loro nomina era a vita, ad esclusione del pater patratus, il quale veniva scelto per un arco temporale limitato. Al di fuori di quest’ultima carica, non sembra che, fra di loro, vi fosse un ordine di priorità.7

Essi verificavano, controllandone scrupolosamente il profilo formale, la validità di tutte le attività romane aventi rilievo internazionale.8 Dovevano sostanzialmente, come vedremo,

occuparsi di tradurre in forme le decisioni intraprese da chi deteneva il potere.9

Come afferma Ilari10, tale collegio è stato depositario di uno ius

sanzionato dalla religio,11 ossia un legame che Roma non

instaurava direttamente con altri popoli, bensì con gli Dei di modo che fossero questi ultimi ad intercedere con le altre popolazioni.

6 Cfr. F. De Martino, Storia della costituzione Romana2, Napoli, 1973, II, 2, p. 23.

7 Cfr. M. Talamanca, Lineamenti di storia del diritto romano2, Milano, 1989 p. 28.

8 Ivi p. 27. 9 Ibidem.

10 Cfr. V. Ilari, L’interpretazione storica del diritto di guerra romano fra tradizione romanista

e giusnaturalismo, op cit., pp. 9-10.

(13)

12

L’etimologia più credibile del loro nome 12 è quella indicata nel De

lingua Latina, 5.86, di Varrone, che la riconnette alla fides publica:

Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant; nam per hos fiebat, ut istum conciperetur bellum et inde desitum ut foedere fides pacis constitueretur…

Secondo lo storico, i Feziali sovrintendevano alla pubblica fiducia fra i popoli.

Era grazie alla loro intercessione che una guerra era concepita come “giusta” e che, poi, al termine di questa, si potesse stipulare un trattato di pace. Controllavano, in generale, la regolarità formale di tutti gli atti internazionali ed il loro riscontro era finalizzato a non suscitare l’ira degli Dei, mansione che li poneva da tramite fra quanto deciso dal monarca e dal senato e gli Dei stessi. Come è assodato nella manualistica13, questo rigido

formalismo regola il modo di vivere più arcaico ed è tipico della società romana anche di epoche successive; esso, in ogni caso, permette di legittimare, attraverso il solenne ossequio a complesse procedure rituali, un determinato tipo (espansionistico) di politica internazionale.

12 Cfr. A. Petrucci, Corso di diritto pubblico romano, Torino, 2012 p.388. 13 Cfr. M. Talamanca, Lineamenti di storia del diritto romano, op. cit., p.28.

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13

Un sistema di forme così articolato sembra, in un certo senso, avere valore di per sé, non richiedendo o spesso schermando le reali motivazioni di tale politica.14

È così che una guerra può essere considerata “giusta”, se dichiarata nel rispetto di una specifica procedura, prescindendo dalla natura sostanziale delle motivazioni addotte per muoverla.15

Per quanto concerne lo spettro complessivo delle loro funzioni è Dionigi di Alicarnasso a darcene una testimonianza16. Egli

sostiene che i compiti, che spettano ai Feziali, sono così tanti che non è facile enumerarli tutti, indicandone solo alcuni:

4. […] Essi devono curare che i Romani non muovano

ingiustamente guerra ad una città alleata, se gli altri cominciano a violare i trattati devono inviare ambasciatori e chiedere giustizia; se le richieste non vengono accolte, dichiarare la guerra”.

Si evince chiaramente come i Feziali avessero un ruolo di garanzia nei confronti sia di Roma che delle città alleate. Prima di giungere alla eventuale dichiarazione di guerra, spettava sempre a loro intervenire precauzionalmente richiedendo “giustizia”.

Infatti, continua Dionigi:

14 Ibidem. 15 Ibidem.

(15)

14

5. Parimenti, se degli alleati sostengono di aver subito torti da parte dei Romani e chiedono giustizia, è compito loro di stabilire se c’è stata una violazione dei trattati a loro danno […]

Inoltre,

[…] Devono giudicare sugli oltraggi fatti agli ambasciatori, avere cura che i trattati siano pienamente osservati, fare la pace ed annullarla, se ne sia stata conclusa anche una che, a loro giudizio, va contro le leggi sacre; indagare ed espiare le illegalità commesse dai comandanti riguardo ai giuramenti ed ai trattati […].

È bene però chiarire che non competeva a loro decidere dell’opportunità della guerra e della pace, bensì soltanto di mettere in atto le procedure rituali, affinché la conclusione dei trattati e le dichiarazioni belliche potessero considerarsi “iustae”, acquisendo legittimità agli occhi degli Dei17.

Sostanzialmente, come afferma Theodor Mommsen,18 essi erano

per il diritto delle genti ciò che i Pontefici erano per il diritto divino, avevano la facoltà, non di eseguire la giustizia, ma di indicarla,

17 Cfr. A. Petrucci, Corso di diritto pubblico romano, op. cit., pp. 388-389.

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15

non potendo mai indire un comando ma solo esprimere un parere pratico. Aggiunge Mommsen che “essi non dovevano invocare direttamente la risposta degli Dei ma che dovevano soltanto interrogare all’interpretante il responso ricevuto (dagli Dei stessi)”19.

Il massimo dei sacerdoti non solo era sottoposto al Re, ma neppure osava consigliarlo se questi non gli avesse esplicitamente domandato un intervento. Se il collegio non fosse stato convocato, sarebbe risultato del tutto impotente, escluso da qualsiasi comando, in attesa di prestare ubbidienza20.

Il ius fetiale veniva sostanzialmente configurandosi come un complesso di norme giuridico-religiose sovranazionali, individuando, di fatto, un’antica rappresentazione di diritto internazionale pubblico21.

Non era proprio strettamente della civitas romana, ma comune a diverse popolazioni dell’Italia antica e verosimilmente anche del Mediterraneo come i Cartaginesi22.

È Cicerone a darcene conferma in un noto passo del De officiis23,

parlando dello spergiurio di Attilio Regolo:

19 Ivi, p. 213. 20 Ibidem. 21 Ibidem.

22 Cfr. A. Petrucci, Corso di diritto pubblico romano, op. cit., p. 389. 23 Cic., Off. 3.29.108.

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Regulus vero non debuit condiciones pactionesque bellicas et hostiles perturbare periurio. Cum iusto enim et legitimo hoste res gerebatur, adversus quem et totum ius fetiale et multa sunt iura communia. Quod ni ita esset, numquam claros viros senatus vinctos hostibus dedidisset.

L’arpinate si esprime rispetto a quando Attilio Regolo, che, con uno spergiuro, aveva messo in crisi i patti di guerra stipulati con Cartagine. Egli non avrebbe dovuto venir meno agli accordi con un nemico giusto e legittimo, con il quale era in comune il diritto feziale e molti altri iura. C’è, dunque, un legame più forte, più stretto, quando si fanno accordi con popoli che condividono in medesimo ius, mettere in dubbio l’ossequio alla parola data a questi nemici mette a rischio l’intera comunità, poiché la pone in cattiva luce agli occhi degli Dei. Il diritto feziale, in ogni caso, emerge chiaramente nelle parole di Cicerone come, se non compiutamente, internazionale, cioè di tutti i popoli, sovranazionale perché in buona misura condiviso da molte popolazioni mediterranee24.

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17

3. RAPPORTI FRA L’ORDINAMENTO FEZIALE E IL

BELLUM IUSTUM

Tito Livio, basandosi sulla documentazione degli annalisti come Gaio Licinio Macro e Valerio Anziate25, mette in luce l’origine dei

rituali giuridici per principiare l’attività bellica:26

Liv., Ab.urb.cond. 1.32.1-6: “Mortuo Tullo res, ut institutum iam

inde ab initio erat, ad patres redierat hique interregem nominauerant. Quo comitia habente Ancum Marcium regem populus creauit; patres fuere auctores. Numae Pompili regis nepos filia ortus Ancus Marcius erat. Qui ut regnare coepit et auitae gloriae memor et quia proximum regnum, cetera egregium, ab una parte haud satis prosperum fuerat aut neglectis religionibus aut praue cultis, longe antiquissimum ratus sacra publica ut ab Numa instituta erant facere, omnia ea ex commentariis regiis pontificem in album elata proponere in publico iubet.

Inde et cuibus otii cupidis et finitimis ciuitatibus facta spes in aui mores atque instituta regem abiturum. Igitur Latini cum quibus Tullo regnante ictum foedus erat sustulerant animos, et cum incursionem in agrum Romanum fecissent repetentibus res Romanis superbe responsum reddunt, desidem Romanum regem inter sacella et aras acturum esse regnum rati. Medium erat in Anco ingenium, et Numae et Romuli memor; et praeterquam quod

25 Cfr. A. Calore, Forme giuridiche del ‘bellum iustum’, Brescia, 2003, p. 50. 26 Ivi, p. 44.

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18

aui regno magis necessariam fuisse pacem credebat cum in nouo tum feroci populo, etiam quo dilli contigisset otium sine iniuria, id se haud facile habiturum; temptari patientiam et temptatam contemni, temporaque esse Tullo regi aptiora quam Numae.

Vt Tamen, quoniam Numa in pace religiones instituisset, a se bellicae caerimoniae proderentur, nec gererentur solum sed etiam indicerentur bella aliquo ritu, ius ab antiqua gente Aequiculis quod nunc fetiales habent descriptis, quò res repetuntur.

Lo storico romano ci racconta che, morto Tullo Ostilio, il potere era passato ai senatori che avevano nominato un interrè.

Quest’ultimo aveva convocato i comizi all’interno dei quali il popolo si era espresso eleggendo come monarca Anco Marzio, poi approvato dagli stessi senatori.

Egli, convinto che nel regno precedente, ottimo sotto molti altri aspetti, fossero però stati trascurati i riti religiosi e consapevole che fosse suo preciso dovere celebrare i sacrifici pubblici così come erano stati istituiti da Numa Pompilio, ordinò al Pontefice di ricavarli dai commentari del Re e di esporli al pubblico.

Livio spiega chiaramente che, attraverso il ritorno a queste usanze, veniva a instillarsi, nei cittadini desiderosi di pace e nei popoli confinanti, l’aspettativa che il Re sarebbe tornato a quelle antiche tradizioni che erano state praticate dal suo avo.

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19

Ma ciò, si deduce dallo storico, ebbe anche come conseguenza che i popoli con i quali era stata conclusa un’alleanza, fatta un’incursione nel territorio dei Romani, si posero arrogantemente nei confronti di questi ultimi, convinti che il Re avrebbe continuato a regnare pigramente fra santuari e altari.

Livio prosegue27raccontando che Anco Marzio, siccome Numa

Pompilio aveva istituito in tempo di pace riti religiosi, voleva ora proporre delle cerimonie guerresche, anch’esse secondo un determinato rito.

La procedura, tratta dagli antichi Equicoli (popolo di cui purtroppo non si hanno notizie), era eseguita dai Feziali (Livio dice, “ancora oggi”) per chiedere riparazioni dei danni che le scelte di politica internazionale di un popolo straniero avevano arrecato a Roma stessa.

Ne segue una rappresentazione molto precisa della procedura che poteva, in caso di insoddisfazione delle richieste, portare alla guerra:

Liv., Ab.urb.cond. 1.32.6-14: Legatus ubi ad fines eorum venit unde

res repetuntur, capite velato filo - lanae velamen est - "Audi, Iuppiter" inquit; "audite, fines" - cuiuscumque gentis sunt, nominat-, "audiat fas. Ego sum publicus nuntius populi Romani; iuste pieque legatus venio, verbisque meis fides sit." Peragit deinde

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20

postulata. Inde Iovem testem facit: "Si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier mihi exposco, tum patriae compotem me nunquam siris esse." Haec, cum fines suprascandit, haec, quicumque ei primus vir obvius fuerit, haec portam ingrediens, haec forum ingressus, paucis verbis carminis concipiendique iuris iurandi mutatis, peragit. Si non deduntur quos ecit diebus tribus et triginta - tot enim sollemnes sunt - peractis bellum ita indicit: "Audi, Iuppiter, et tu, Iane Quirine, dique omnes caelestes, vosque terrestres vosque inferni, audite; ego vos testor populum illum" - quicumque est, nominat - "iniustum esse neque ius persolvere; sed de istis rebus in patria maiores natu consulemus, quo pacto ius

nostrum adipiscamur."

Tum nuntius Romam ad consulendum redit. Confestim rex his ferme verbis patres consulebat: "Quarum rerum litium causarum condixit pater patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis, quas res nec dederunt nec solverunt nec fecerunt, quas res dari fieri solvi oportuit, dic" inquit ei quem primum sententiam rogabat, "quid censes?" Tum ille: "Puro pioque duello quaerendas censeo, itaque consentio consciscoque." Inde ordine alii rogabantur; quandoque pars maior eorum qui aderant in eandem sententiam ibat, bellum erat consensum. Fieri solitum ut fetialis hastam ferratam aut praeustam sanguineam ad fines eorum ferret et non minus tribus puberibus praesentibus diceret: "Quod populi Priscorum Latinorum hominesque Prisci Latini adversus populum Romanum Quiritium fecerunt deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium

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bellum cum Priscis Latinis iussit esse senatusque populi Romani Quiritium censuit consensit conscivit ut bellum cum Priscis Latinis fieret, ob eam rem ego populusque Romanus populis Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis bellum indico facioque." Id ubi dixisset, hastam in fines eorum emittebat. Hoc tum modo ab Latinis repetitae res ac bellum indictum, moremque eum posteri acceperunt.

Livio ci racconta, che il “messo” che giungeva nel territorio del popolo al quale si chiedevano riparazioni, col capo coperto da una benda di lana, invocava Giove affinché fosse testimone delle richieste che si compivano ed il nemico fosse sottoposto alla giustizia divina. Si presentava poi come inviato ufficiale del popolo romano ed ambasciatore secondo il diritto umano e divino, chiedendo di ascoltare le sue parole. Formulava in seguito le richieste invocando ancora il padre degli Dei affinché, qualora queste fossero state ingiuste, egli non gli concedesse più di rivedere la sua patria: “[…] Si ego iniuste impieque illos homines

illiasque res dedier mihi exposco, tum patriae compotem me numquam siris esse […]”.

Ripete più volte questa formula, sia al momento di varcare il confine, sia, successivamente, incontrando la prima persona sul suolo nemico, entrando in città e, infine, giungendo nel Foro.

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Eseguita questa procedura complessa per la precisazione delle richieste romane, il cerimoniale fissava un termine di 33 giorni prima che fosse dichiarata la guerra.28

Scaduto tale termine, il pater patratus doveva pronunciare una formula sacrale che prendeva atto della posizione ingiusta assunta dal popolo nemico, di cui gli Dei, per questa via, sarebbero stati resi testimoni:

[…] “Audi, Iuppiter, et tu, Iane Quirine, dique omnes caelestes, uosque terrestres, uosque inferni, audite; ego uos testorpopulum illum” niustum esse neque ius persoluere; sedde istis rebus in patria maiores natu consulemus, quo pacto ius nostrum adipiscamur […]”.

Giove e le altre divinità venivano invocate a testimoni che un determinato popolo, di cui veniva espresso il nome, non aveva concesso soddisfazione alle richieste dei romani. Il passo successivo prevedeva di consultare gli anziani in patria per sapere da loro come meglio procedere.

Quindi il messaggero tornava a Roma e riferiva. Il Re immediatamente consultava il senato chiedendo cosa proponesse

28 Su questo punto si ritiene preferibile quanto afferma Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates

Romanae, 2.78.8: “…Trascorsi così trenta giorni -non trentatrè come affermava Livio- se la città avversaria non gli assicurava soddisfazione, incovati gli dei celesti e inferi, se ne andava, dicendo soltanto questo, che Roma avrebbe preso le opportune decisioni nei loro confronti a tempo debito”; Cfr. A. Petrucci, Corso di diritto pubblico romano, op. cit., p. 355.

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23

di fare esponendo prima le questioni e le controversie, di cui il

pater patratus del popolo romano aveva trattato col pater patratus

del popolo ostile. Riferiva poi le richieste che erano state fatte a questi popoli e quanto gli stessi avrebbero dovuto corrispondere. La guerra veniva decisa quando la maggioranza dei presenti era concorde.

Anche in questa fase il formalismo della dichiarazione compiuta dai singoli senatori è significativo: essi dovevano, infatti, rispondere con parole determinate ad una precisa volontà del rex. Quando la decisione politica era presa, attraverso la concertazione tra l’imperium reale (o magistratuale, quando poi i consoli rileveranno in tale ruolo il rex) e l’auctoritas senatoria, tornavano in gioco i Feziali.

A questo punto un’asta ferrata29 (sembra che il ferro, per le sue

capacità magnetiche fosse considerato fonte di un’efficacia magica) o di legno con la punta bruciacchiata e tinta di sangue veniva portata dal Feziale presso i confini dei nemici alla presenza di almeno tre adulti30. Dopo aver riepilogato la suddetta procedura,

ribadendo la mancanza che il popolo nemico aveva avuto nei confronti dei Romani e la successiva volontà di questi ultimi di dichiarare guerra con seguente delibera del senato, egli la scagliava nel territorio nemico.

29 Cfr. A. Petrucci, Corso di diritto pubblico romano, op. cit., p. 355: “Il gesto rituale del lancio

dell’asta, si è in dottrina voluto accostare all’uso della bacchetta (festuca) con cui i contendenti nel più antico processo di rivendica della proprietà (legis actio sacramenti in rem) toccavano la cosa controversa affermando il proprio diritto.”

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24

Gli studiosi hanno riscontrato più fasi differenti nella narrazione di Livio.31

Una parte della dottrina suddivide la procedura per la dichiarazione in tre momenti:

- La rerum repetitio ossia la richiesta della riparazione del danno, in cui i Feziali, per mezzo di formule, portavano le loro richieste a conoscenza del popolo nemico. Questa fase mette in evidenza l’esistenza di una sua inadempienza nei confronti del popolo romano. Quest’ultimo, di conseguenza, assumeva la facoltà di sanzionarlo in modo gradito agli Dei, ossia tramite un atto di guerra.

I Feziali per mezzo di formule portavano le loro richieste a conoscenza del popolo nemico. Questa azione può essere messa in relazione alla figura della clarigatio, ossia la consuetudine per cui il pater patratus dichiarava con voce chiara il diritto offeso dei Romani, come si evince da Servio, nel suo commento all’Eneide: “haec clarigatio dicebatur a claritate voci32”.

-La testatio deorum, cioè il ritorno dopo 30 giorni dei Feziali presso il popolo che ha mancato di adempiere alla suddetta richiesta, per dichiarare, con la testimonianza degli Dei, l’esistenza di una legittima causa di guerra.

-La indictio belli, ossia il lancio dell’asta nel territorio nemico.

31Cfr. A. Calore, Forme giuridiche del ‘bellum iustum’, op. cit., p. 51.

(26)

25

Un’altra parte di studiosi33 interpone il votum del senato fra la

testatio e l’indictio belli, valorizzando così anche la decisione

politica sostanziale.

Calore si esprime individuando due grandi fasi nell’esposizione di Livio e quindi nella procedura medesima: la prima fase è esposta dal paragrafo 6 al 10 e la seconda dall’11 al 14.

Petrucci34 suddivide la procedura in quattro fasi: la rerum repetito,

la testatio, la indictio belli, “deliberata dai senatori, interrogati

singolarmente dal Re (e più tardi dai supremi magistrati repubblicani) dopo aver ascoltato il resoconto dei Feziali”, e l’emittere hastam, “effettuato ancora una volta dal capo dei Feziali, che completava la dichiarazione di guerra dando inizio alle ostilità”.

Riguardo al soggetto che veniva inviato in territorio nemico, come conferma Livio al paragrafo 11, si trattava del pater patratus. Come si evince in Antonello Calore35, l’indicazione di un membro

importante del collegio sacerdotale, che si incaricava dell’attuazione delle formalità, chiarisce l’impiego del termine

legatus al singolare anche se, come osserva Ogilvie36, doveva

trattarsi di una delegazione e non di un singolo individuo.

33 Cfr. S. Albert, Bellum iustum: die Theorie des ‘Gerechten Krieges’ und ihre praktische

Bedeutung für die auswärtigen Auseinandersetzungen Roms in republikanischer Zeit,

Frankfourt, 1980, pp. 13-14.

34 Cfr. A. Petrucci, Corso di diritto pubblico romano, op. cit., p.355. 35Cfr. A. Calore, Forme giuridiche del ‘bellum iustum’ op. cit., p.55. 36 Cfr. R.M. Ogiolvie, A Commentary on Livy, Oxford 1965, p. 130.

(27)

26

Varrone infatti afferma37:

“itaque bella et tarde et magna diligentia suscipiebant, quod bellum nullum nisi pium putabant geri oportere: priusquam indicerent bellum is, a quibus iniurias factas sciebant, fetiales legatos res repetitum mittebant quattuor, quos oratores vacabant”

Vediamo come i Romani, prima di intraprendere una guerra, ponderassero attentamente la situazione. Nessun conflitto sarebbe stato portato avanti se non fosse risultato pio.

Per munire di tale carattere l’eventuale azione bellica, essi inviavano a coloro che si erano macchiati di un’ingiustizia nei loro confronti, quattro Feziali come ambasciatori a chiedere risarcimenti.

È chiaro ormai come tali sacerdoti si limitassero alle procedure rituali propedeutiche alla guerra senza mai decidere quest’ultima, che era invece veicolata prima dal senato e poi dai senatori e dal popolo romano.38

Anche Cicerone39 li considera “arbitri e nunzi di rituali trattati, di

pace, di guerra e di tregua”, aggiungendo che sono loro ad

interpretare il diritto di guerra e, più in generale, i deputati al

37 Varr., De vit. Pop. rom. 2.75 R (=31K).

38Cfr. A. Calore, Forme giuridiche del ‘bellum iustum’, op. cit., p. 56. 39Cic., Leg. 2.9.21.

(28)

27

perfezionamento di tutti gli istituti di diritto internazionale,

rectius sovranazionale, esistenti.

Varrone, in ultimo, li definisce come “coloro che sovrintendono alla leale osservanza dei trattati internazionali”:

Varr., De ling. Lat. 5.86: Fetiales, quod fidei publicae inter populos

praeerant; nam per hos fiebat, ut iustum conciperetur bellum et inde desitum ut foedere fides pacis constitueretur. Ex his mittebantur, antequam conciperetur, qui res repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus; quod fidus Ennius scribit dictum.

Come si evince dal testo, i Feziali erano i fautori della legittimità di una guerra e, al termine di questa, era sempre per mezzo loro che con un trattato veniva ristabilita la pace.

Prima della dichiarazione bellica, alcuni di essi (anche in questo caso si evidenzia come fossero più di uno) venivano mandati a reclamare la restituzione dei beni e, “ancora oggi” (scrive Varrone), “è tramite loro che viene stipulato un trattato”. L’idea sottesa ad ogni loro compito è che solo attraverso l’ossequio prestato a quelle solenni formule si potesse richiamare l’attenzione di tutti, Dei compresi, sull’importanza dell’atto che andava compiendosi.

Come risulta dall’analisi che precede, dunque, requisito essenziale affinchè un’azione bellica potesse dirsi giusta era il susseguirsi in

(29)

28

ordine cronologico delle varie tappe del rituale, ciò solo faceva sì che una guerra potesse dirsi: bellum iustum40.

4. EVOLUZIONE DEL PROCEDIMENTO

Dal III secolo a.C., con l’affermarsi dell’imperialismo romano in ambito mediterraneo, il rituale di dichiarazione di guerra viene semplificato e laicizzato.41

Afferma Servio, in Vergilii Aeneida 9.52:

“denique cum Pyrrhi temporibus adversum transmarinum hostes

bellum Romani gesturi essent nec invenirent locum, ubi hanc sollemnitatem per Fetiales indicendi belli celebrarent, dederunt operam, ut unus de Pyrrhi militibus caperetur, quem fecerunt in circo Flaminio locum emere, ut quasi in hostili loco ius belli indicendi implerent”

Come si deduce dal frammento che narra della guerra contro Pirro, essendo questo un nemico transmarino e non potendo procedere alla dichiarazione secondo il rituale feziale, a causa della distanza del popolo avversario, i Romani furono costretti a trovare una

40 Un riepilogo delle varie tappe in A. Petrucci, Corso di diritto pubblico romano, op. cit., p.

354.

(30)

29

soluzione che riducesse le lunghe tempistiche di un procedimento classico.

Pertanto, escogitarono, in questo caso, un particolare meccanismo alternativo: catturarono un soldato di Pirro facendogli acquistare un territorio nel circo Flaminio, in modo da poter considerare quest’ultimo come uno spazio appartenente ai nemici e poter procedere fittiziamente.

Emerge da questo passo come i Romani fossero ancora saldamente avvinti alla necessità di svolgere il rituale che dava avvio alla guerra, attuando, nell’impossibilità di poterlo mettere in atto, come ad esempio nel caso di un territorio nemico troppo distante, una procedura, che avesse una sua valenza giuridica sostitutiva e che conferisse comunque regolarità all’azione bellica.

Le fonti42 parlano nuovamente dell’utilizzo di un simile

procedimento semplificato solo in epoca molto più tarda, ad opera di Ottaviano nel 33. a.C., in occasione della dichiarazione di guerra contro Cleopatra e Antonio, il che lascia intendere che nell’arco di tempo precedente sia stato adoperato raramente.

Come osserva ancora Petrucci43, una svolta decisa si desume dalla

dichiarazione della seconda guerra punica narrata da Livio nei capitoli 6-19 del libro XXI.

42 Dione Cassio, Historia Romanae, 50.4.4-5.

(31)

30

Lo storico ci racconta dell’attacco di Annibale, nel 218 a.C., alla città di Sagunto, federata con Roma, parlando di una lotta contraria a giustizia.

I Saguntini inviarono a Roma dei loro ambasciatori per sollecitare un intervento, poiché la guerra era ormai imminente. In quel momento, a Roma, i consoli erano Publilio Cornelio Scipione e Tiberio Sempronio Longo. Questi, dopo che gli ambasciatori furono ascoltati dai senatori, riferirono sulla situazione e deliberarono di mandare dei legati in Spagna ad assicurarsi della condizione dei confederati. Se avessero trovato degna la causa, avrebbero dovuto intimare Annibale che, se non si fosse tenuto alla larga dai Saguntini, avrebbero raggiunto Cartagine e riferito le lamentele degli alleati del popolo romano.

Tuttavia, l’ambasciata non era ancora partita che Sagunto venne assediata, perciò la questione ritornò immediatamente al senato. Alcuni ritenevano opportuno portare la guerra per terra e per mare affidando ai consoli le province della Spagna e dell’Africa, altri auspicavano una guerra totale in Spagna contro Annibale. C’erano poi coloro che pensavano che non si dovesse scatenare una guerra così grande imprudentemente e che fosse meglio attendere una nuova ambasceria dalla Spagna. Vinse quest’ultima opinione e furono inviati gli ambasciatori Publio Valerio Flacco e Quinto Bebio Tamfilo a Sagunto con il compito, se Annibale non avesse desistito, di recarsi direttamente a Cartagine a chiedere la consegna di quest’ultimo, il ritiro delle truppe e il risarcimento dei danni ai Saguntini.

(32)

31

Così succede, ma queste richieste vengono respinte (21.11.1-2) e l’ambasceria riferisce la volontà dei Cartaginesi di non adempiere. Allora il senato decide di dichiarare la guerra, attribuisce le

provinciae ai consoli e fa presentare la proposta ai comizi

centuriati che l’approvano (21.17.1-4).

Affinché tutto si compia secondo diritto, viene quindi inviata a Cartagine una seconda ambasceria di anziani composta da Quinto Fabio, Marco Livio, Lucio Emilio, Caio Licinio e Quinto Bebio per chiedere se Annibale abbia attaccato Sagunto per pubblica decisione e, nel caso vi fosse conferma di questo, dichiarare la guerra.

La risposta dei Cartaginesi sposta l’argomento dalla pubblica deliberazione, che sostanzialmente non avrebbe dovuto riguardare i Romani, alla questione se, secondo il trattato, si potesse compiere o meno quell’aggressione.

In seguito a questo atteggiamento Q. Fabio, capo della delegazione romana, decide di pronunciare la dichiarazione di guerra.

Emerge con chiarezza da questo racconto il procedimento di decisione sostanziale, che risulta composto da queste fasi: nella prima, viene inviata un’ambasceria, la cui trattativa riporta esito negativo, e il senato decide di dichiarare la guerra attribuendo le

provinciae ai consoli. Viene presentata poi la proposta de bello indicendo ai comizi centuriati. Nella seconda fase, dopochè questi

(33)

32

anziani per accertare la posizione irrituale dei nemici e in caso positivo dichiarare la guerra.

Per cogliere ulteriormente la differenza rispetto al procedimento arcaico possiamo citare brevemente altri due episodi44: la guerra

contro Antioco III di Siria e gli Etoli e la terza guerra macedonica. Per quanto riguarda la prima, gli storici45raccontano che la

minaccia era rivolta alle città greche alleate di Roma.

Anche in questo caso il senato invia una prima delegazione per chiarire la questione e successivamente una seconda.

Roma, per trattare la pace, propone ad Antioco il ritiro dall’Europa e la rinuncia alle città greche, ma il Re li respinge.

Si susseguono una delibera del senato ed un voto dei comizi centuriati ed una successiva interrogazione ai Feziali da parte del console. Quest’ultimo, come si evince da Livio46, chiede al collegio

se la guerra dovesse essere annunciata allo stesso Re oppure fosse sufficiente dichiararla ad un suo presidio e, per quanto concerne gli Etoli, se dichiarare loro guerra separatamente, ignorando l’alleanza, o se prima fosse necessario sciogliere ogni rapporto di amicizia.

44 Cfr. A. Petrucci, Corso di diritto pubblico romano, op. cit., pp. 357-359.

45 Livio, Ab urbe condita, 33.34.3; Polibio, Historiae, 18.47.1-3; Appiano, Bella syriaca, 1.2. 46 Livio, Ab urbe condita, 36.7.7-8.

(34)

33

Il collegio risponde che era indifferente fare la dichiarazione al Re o al suo presidio e che gli Etoli avevano provveduto da soli a revocare l’alleanza.

Per quanto riguarda la guerra macedonica, senza entrare nel merito, anche in questo caso i Romani inviano diverse ambascerie, diffidando di Perseo col quale era stato rinnovato un trattato di amicizia. Quando questi dimostra palesemente di volersi sottrarre al foedus, il senato invia dei delegati per imporre il rispetto delle clausole dello stesso.

Queste richieste non vengono accolte con la conseguenza che i senatori e i comizi dichiarano lo stato di belligeranza direttamente agli ambasciatori macedoni mandati a Roma. La dichiarazione viene rivolta ai delegati più vicini, consentendo successivamente l’opportunità di trattare fra Perseo e il console già partito con l’esercito47.

La rerum repetitio è ormai una fase condotta dai legati senatori, meno formale rispetto all’età arcaica e può avvenire anche successivamente alla dichiarazione di guerra o simultaneamente a questa.

Anche il procedimento di testatio e indictio viene fondendosi e la dichiarazione, come nel caso della terza guerra macedonica, viene rivolta ai rappresentanti più vicini.

(35)

34

Il lancio dell’asta ferrata finisce per decadere completamente ed il ruolo dei Feziali viene fortemente ridimensionato.

5. IL BELLUM IUSTUM NELLE OPERE DI CICERONE

Cicerone viene considerato il teorico del bellum iustum48, avendo

dedicato all’argomento grande spazio all’interno delle sue opere maggiori.

Una parte della dottrina ha, soprattutto in passato, giudicato l’Arpinate come l’ideatore del concetto di guerra giusta e della giustificazione morale della stessa, evolutasi poi a partire da S. Agostino.

Questa concezione nasce da un passo del terzo libro del De

Republica, tramandato da Isidoro di Siviglia dove si qualifica

giusta una guerra se avviata per vendetta o per respingere dei nemici.

Altri studiosi49, invece, lo considerano come un sintetizzatore, da

un punto di vista filosofico, dell’antica pratica Feziale della dichiarazione di guerra.50

48 W.C. Korfmacher, Cicero and the ‘bellum iustum’, in The Classical Bullettin, 48, 1972, pp.

49 ss.; A. Calore, Forme giuridiche del ‘bellum iustum’, op. cit., pp. 107 ss.

49 V.Ilari, Guerra e diritto nel mondo antico, (Guerra e diritto nel mondo greco-ellenistico fino

al III secolo), I, Milano, 1980, p. 26.

50 Cfr. S. Albert, ‘ Bellum iustum’ (die Theorie des ‘gerechten Krieges’ und ihre praktische

Bedeutung für die auswärtigen Auseinandersetzungen Roms in republikanischer Zeit), op.cit.,

(36)

35

Secondo Loreto51, Cicerone non introduce nulla di originale per

quanto interessa gli elementi costitutivi della dimensione ideologica del bellum iustum, ma si limita a darne una sistemazione teorica, asserendo inoltre che mai “bellum iustum” significa guerra giusta in senso moderno.52

Lo studioso aggiunge che per Cicerone la suddetta espressione “semplicemente identifica la guerra intrapresa in modo conforme ai disposti dell’ordinamento giuridico interno romano in materia di relazioni internazionali” e quindi ad una sostanziale procedura53, che consisteva, come afferma anche Calore, nella

rerum repetitio, ormai caduta in desuetudine e nel rituale feziale

della denuntiatio e dell’indictio54.

Iustum continuerà ad avere il significato di “conforme

all’ordinamento giuridico”, almeno fino alla ridefinizione etico-religiosa del perimetro della guerra giusta che avverrà con Agostino. Quest’ultimo ricercherà nell’azione bellica, non più solo una giustizia formale, ma anche sostanziale, affermando che vengono solitamente definite giuste le guerre, quelle che vendicano gli atti ingiusti, ma anche quel tipo di guerra che Dio comanda, è senza dubbio giusta.

51 L.Loreto, Il Bellum iustum e i suoi equivoci (Cicerone ed una componente della

rappresentazione romana del Völkerrecht antico), Napoli, 2001, pp. XV-122.

52 L.Loreto, Il bellum iustum e i suoi equivoci, op.cit., p. 2. 53 Ibidem.

(37)

36

Quest. in Hept. 6.10: iusta autem bella ea definiri solent, quae ulciscuntur iniurias…Sed etiam hoc genus belli sine dubitatione iustum est, quod Deus imperat…

Il recupero dell’arcaico procedimento delle guerre55 aveva in

definitiva la funzione di regolamentare la lotta, come si desume da un passo del De officiis di Cicerone del quale ci occuperemo fra breve.56

Per quanto concerne il De Republica, Cicerone inizia ad imbattersi nel tema del bellum iustum nel libro secondo, come segue:

Cic., Rep. 2,17,31: Mortuo rege Pompilio Tullum Hostilium

populus regem interrege rogante comitiis curiatis creavit, isque de imperio exemplo Pompili populum consuluit curiatim. Cuius excellens in re militari gloria magnaeque extiterunt res bellicae, fecitque idem et saepsit de manubis comitium et curiam, constituitque ius quo bella indicerentur, quod per se iustissime inventum sanxit fetiali religione, ut omne bellum quod denuntiatum indictumque non esset, id iniustum esse atque inpium iudicaretur. Et ut advertatis animum quam sapienter iam reges hoc nostri viderint tribuenda quaedam esse populo—multa enim nobis de eo genere dicenda sunt—, ne insignibus quidem

55 Cfr A. Petrucci, Corso di diritto pubblico romano, op. cit., pp.364-365. 56 Cic., Off. 1.11.34.

(38)

37

regiis Tullus nisi iussu populi est ausus uti. Nam ut sibi duodecim lictores cum fascibus anteire liceret.

Il testo ci racconta di quando, dopo la morte del Re Numa Pompilio, il popolo riunito nei comizi curiati, su proposta dell’interrè creò Re Tullo Ostilio e di come anch’egli, seguendo l’esempio del suo predecessore, consultò il popolo sul proprio supremo potere. Il nuovo Re era conosciuto per la gloria in campo militare e per le grandi imprese di guerra compiute per aver fatto costruire e recintare la curia e il comizio con il ricavato del bottino strappato ai nemici.

Aveva inoltre istituito la procedura relativa alla dichiarazione di guerra, legittimandola con il rituale dei Feziali, affinché, se a questo non si fosse adempiuto, ogni azione bellica sarebbe stata dichiarata ingiusta.

Tullo Ostilio aderì ad un sistema di regole che doveva presiedere all’apertura delle ostilità, basato sullo ius fetiale, in ragione del quale una guerra sarebbe divenuta inpia, se fosse stata intrapresa senza essere denuntiata e indicta57.

Secondo Calore58, l’uso del verbo sancire (sanxit) ha qui il valore

originario di ‘fondare’, per cui vi è uno specifico richiamo al sistema giuridico feziale come elemento fondante dell’indictio belli.

57 Cfr. A. Calore, forme giuridiche del ‘bellum iustum’ op. cit., p. 114. 58 Ibidem.

(39)

38

L’Arpinate continua riconoscendo la saggezza dei re che avevano capito di dover accordare al popolo determinati diritti, come appunto aveva fatto Tullo Ostilio che, senza l’ordine del popolo, non osò neppure assumere le insegne regali. La decisione sostanziale su questioni di politica internazionale rientrava tra queste importanti nuove prerogative.

Calore individua tre elementi decisivi nel pensiero ciceroniano rispetto al concetto di bellum iustum59:

-in primo luogo, l’intendere, in generale, lo ius fetiale come elemento propedeutico alle dichiarazioni belliche;

-in secondo luogo, l’utilizzo dei termini iniustum e inpium, che “erano propri delle antiche formule feziali usate nella dichiarazione bellica”;

-in ultimo, l’accento posto sulle azioni del denuntiare e

dell’indicere, dove il primo termine si può legare alla procedura

relativa alla decisione di avvalersi dell’uso della guerra, mentre il secondo rinvia alla parte della procedura feziale successiva alla

clarigatio.

Guardando al De Legibus, in esso Cicerone ci parla di alcune prescrizioni sulle funzioni dei magistrati romani, tra cui quella di condurre legalmente guerre giuste rifacendosi alle indicazioni del senato e alle deliberazioni del popolo.60

59 Ivi, pp. 114-115.

60 Cfr. A. Calore, Bellum iustum tra etica e diritto, In Diritto@Storia, 2006,

(40)

39

Scrive Cicerone riguardo al fenomeno bellico61:

“Imperia, potestates, legationes, quom senatus creverit populusve iusserit, ex urbe exeunto, duella iusta iuste gerundo, sociis parcunto, se et suos continento, populi <sui> gloriam augento, domum cum laude redeunto”

In questo breve passo l’Arpinate si riferisce ai magistrati investiti di imperio e potestà e ai legati, affinché, in seguito ad un decreto del senato o a una delibera del popolo, questi lascino la città e conducano legalmente guerre giuste, comportandosi con moderazione nei riguardi degli alleati ed accrescendo la gloria dello “stato” per poi tornare in patria con lode.

Notiamo come lo storico romano faccia riferimento alla funzione degli organi cittadini sempre propedeutica a qualsiasi azione bellica per poi specificare quale dovesse essere il comportamento dei Romani nei confronti dei nemici.

L’espressione “condurre legalmente guerre giuste” è molto significativa e, a mio avviso, richiama ulteriormente quanto finora abbiamo cercato di dimostrare, ossia che il termine iustum era strettamente legato ad un modus operandi prestabilito che dava formale (ma non sostanziale) giustificazione alla guerra.

(41)

40

Dice, infatti, Calore62 che “i due termini, l’aggettivo iusta e

l’avverbio iuste, rimandano al registro giuridico dell’esposizione ciceroniana, richiamando il primo le regole del bellum iustum prescritte dall’ordinamento romano, il secondo lo ius in bello conosciuto da Cicerone” (anche in questo caso guerra conforme al diritto).

Infine, Cicerone dedica molto spazio al tema della guerra nel De

officis:

Cic., Off. 1.11.34: Sunt autem quaedam officia etism adversus eos

servanda, a quibus iniuriam acceperis. Est enim ulciscendi et puniendi modus – atque haud scio an satis sit eum, qui lacessierit, iniurie suae paenitere – ut et ipse ne quid tale posthac et ceteri sint ad iniuriam tardiores. Atque in re publica maxime conservanda sunt iura belli. Nam cum sint duo genera decertandi, unum per disceptationem, alterum per vim, qumque illud proprium sit hominis, hoc beluarum, confugiendum est ad posterius, si uti non licet superiore.

L’Arpinate spiega che alcuni doveri vanno preservati anche nei confronti di coloro dai quali si è stati offesi e che esiste una misura della vendetta e della punizione. Per quanto riguarda l’attività pubblica bisogna rispettare con cura le leggi della guerra e,

(42)

41

essendovi due modalità di contesa, una attraverso la discussione e l’altra con la forza, ed essendo la prima propria dell’uomo, la seconda delle bestie, si dovrà ricorrere a quest’ultima solo nel caso non sia possibile avvalersi della prima.

Cicerone sembra ispirarsi a Panezio63 indicando le due modalità di

risoluzione dei conflitti, e, riguardo alla prima, il confronto diplomatico, riscontriamo l’uso del termine disceptatio (discussione) contrapposto alla forza (vis) che Cicerone riconduce ai bruti, alle bestie ammonendone l’utilizzo solo in caso di assoluta impossibilità di ricorrere al dialogo.

È però in Cic., Off. 1. 11. 36. che si evince un richiamo specifico al concetto di bellum iustum:64

Ac belli quidem aequitas sanctissime fetiali populi Romani iure prescripta est. Ex quo intellegi potest nullum bellum esse iustum, nisi quod aut rebus repetitis geratur aut denuntiatum ante sit et indictum

Egli afferma che la giustizia della guerra è stata stabilita dal diritto feziale del popolo romano, in seguito al quale nessuna azione bellica può essere definita come giusta se non quella preceduta da una regolare domanda di soddisfazione e da una

63 Cfr. G. Garbarino, Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del II secolo a. C., I,

Torino, 1973, p. 38.

(43)

42

successiva dichiarazione della stessa. Notiamo come la guerra debba essere prima enunciata e poi dichiarata nel rispetto delle regole dell’antico ius fetiale.

Emerge come la rerum repetitio sia, nell’alveo dell’elaborazione del concetto di guerra giusta, per Cicerone un elemento a sé stante rispetto alla denuntiatio e all’indictio.

Calore spiega come la dottrina si sia espressa con diverse proposte interpretative.65

“Una parte ritiene che la rerum repetitio rappresentasse l’elemento contenutistico in contrapposizione a quello formale della denuntiatio-indictio, articolando così la procedura su due piani diversi”. Secondo l’autore però, la tesi non spiega la contraddittorietà con Rep. 2.17.31 dove, applicando quanto detto, verrebbe a mancare il c.d. piano sostanziale66.

Altri parlano di negligenza di Cicerone che (in De officiis 1,11,36) avrebbe di fatto indicato il “principio secondo cui con il nemico prima si tratta e poi si usa la forza”67, utilizzando le congiunzioni

disgiuntive ‘aut…aut’. Queste, se non intese come ‘et…et’,68

farebbero infatti pensare alla possibilità di intraprendere un’azione bellica allo scopo di chiedere riparazioni, a prescindere dalla dichiarazione della stessa.

65 Ivi p. 132. 66 Ibidem. 67 Ibidem. 68 Ibidem.

(44)

43

Calore69, diversamente, ritiene che L’Arpinate abbia a suo modo

soppesato la materia, confrontandosi con l’antico ius fetiale”, pur non rispettandone lo schema tradizionale relativo alla posizione della rerum repetitio.

Conclude lo studioso70 che nel De officiis, a differenza del De re

publica, l’approccio di Cicerone non è più storico, ma teorico e tiene

conto dell’evoluzione sia delle procedure dei Feziali che della stessa “natura della guerra”. Per questi motivi, l’anomalia della

rerum repetitio andrebbe considerata come un indizio di una

rilettura in questo senso.

Lo studio sulla concezione del bellum iustum non può non passare per il paragrafo del De officiis 1.12.3871: “Cum vero de imperio

decertatur belloque quaeritur gloria, causas omnino subesse tamen oportet easdem, quas dixi paulo ante iustas causas esse bellorum”.

Cicerone afferma che quando si guerreggia per la supremazia e si cerca la gloria, devono riscontrarsi le medesime ragioni di cui aveva parlato nei passi precedenti e che aveva detto essere giuste. Secondo Loreto72 , in questo passo ciceroniano, viene segnata una

classificazione dei conflitti sulla base del loro oggetto.

Emerge come per Cicerone vi siano essenzialmente due tipi di guerre, quelle volte a l’imperium e quelle deputate alla gloria.

69 Ivi p.133. 70 Ivi p. 134.

71 Ivi p. 139, nt. 132.

(45)

44

Ciò che per l’autore (Loreto) non è stato colto è “da un lato, la sua appartenenza ad un livello sociologico-politico di considerazione e, quindi, dall’altro, la sua estraneità ontologica rispetto alla dimensione di considerazione giuridica e, perciò, il carattere di non connessione – né necessaria, né immediata – con la categoria tecnico-giuridica di bellum iustum”.73 Concetto quest’ultimo con

cui verrebbe a non coincidere anche la distinzione (riguardante la battaglia con i Celtiberi e i Cimbri) che troviamo in De Officiis 1.11.36 tra uter esset, per la sopravvivenza e uter imperaret, per il dominio:“74

…un enim cum civi aliter contendimus, si est inimicus, aliter si competitor – cum altero certamen honoris et dignitatis est, cum altero capitis et famae -, sic cum Celtiberis, cum Cimbris bellum ut cum inimicis gerebatur, uter esset, non uter imperat, cum Latinis, Sabinis, Samnitibus, Poenis, Pyrrho de imperio dimicabatur…

Cicerone spiega che con i Celtiberi e i Cimbri si combatteva per l’esistenza stessa facendo un paragone con la lotta fra cittadini nemici. Con gli altri popoli enunciati invece la battaglia era per l’egemonia, come poteva essere fra cittadini (non nemici ma) concorrenti.

73 Ibidem.

(46)

45

In definitiva, secondo Loreto75: “nulla lascia ricondurre il testo

ciceroniano in cui si parla di iustae causae bellorum anche solo lontanamente ad una riflessione sulle cause sostanzialmente giuste di guerra”. Aggiunge anzi che “proprio postulare la natura di una delle tipologie sociologico-storiche, che lì vengono disegnate, come de imperio/gloria, cioè, sul piano sostanziale, fine a sé stessa, significa escludere, già a monte, anzi per definizione, come problema astratto quello della giustizia sostanziale, o meno, della guerra; o meglio, significa, con un realismo quanto si vuole cinico ma quanto si vuole anche fondato, rinunciare a porre tale questione in quanto inutile”76.

Calore, condivide l’analisi di Loreto, evidenziandone due aspetti importanti.

In primo luogo, “il plurale causae del paragrafo 38 mal si raccorda con il singolare causa del paragrafo 35…

La pace, intesa come fine ultimo della guerra, sarebbe iusta (singolare) causa belli77. Secondo lo studioso, “non convincono i

tentativi di Botermann di spiegare il plurale causae con il riferimento alla politica estera…e quindi alle ritorsioni (plurale) contro il nemico”.78

75 Cfr. L. Loreto, Il ‘bellum ustum e i suoi equivoci’, op. cit., p.22. 76 Ibidem.

77 Ivi, p.141. 78 Ibidem.

(47)

46

“In secondo luogo, l’espressione ‘paulo ante’ che, per la sua precisione, deve coerentemente rinviare ad un argomento appena discusso e non all’inizio dell’intera trattazione”79.

Altra dottrina però giunge a conclusioni differenti sul termine

causae, ricollegandolo al paragrafo 35 del primo libro del De officiis

dove cicerone afferma: “Quare suscipienda quidem bella sunt ob

eam causam, ut sine iniuria in pace vivatur”. Nel passo l’Arpinate

sembra infatti individuare una causa ultima della guerra, asserendo che le guerre erano intraprese per vivere in pace senza offesa.80

79 Ibidem.

80 Cfr. H. Botermann. Ciceros Gedanken zum’gerechten Krieg’ in ‘de officiis’ 1,34-40, in Archiv

(48)

47

CAPITOLO II

I PRIGIONIERI DI GUERRA NEL DIRITTO

ROMANO

PROFILI GIURIDICI

1. CONDIZIONE GIURIDICA DEI ROMANI PRESSO

GLI HOSTES

La prigionia di guerra è una delle cause, se non la più importante, di riduzione di un cittadino in stato di schiavitù.

Il prigioniero viene a trovarsi in questa condizione poiché, trovandosi fuori dai confini, non è più soggetto alla tutela del suo Stato di appartenenza81. Cadono in schiavitù, quindi, tanto i

cittadini romani catturati dai nemici, quanto gli stranieri fatti prigionieri in territorio romano. Di questi ultimi ci occuperemo nel terzo capitolo, mentre, per quanto concerne i primi, la medesima sorte aveva luogo anche qualora non si trattasse di uno stato nemico, ma semplicemente di un popolo che non avesse nessun rapporto di alleanza o amicizia con Roma.

(49)

48

Lo stato di schiavitù del civis romano viene a qualificarsi come una

servitus iniusta, non conforme al ius civile, essendo, tuttavia,

senza dubbio, un istituto di ius gentium.

Diretta conseguenza di questa concezione è che il nuovo status non si considera definitivo, consentendo che il captivus possa entrare nuovamente nei confini romani con animus servandi, ossia mostrando la volontà di rimanervi (questo requisito, come vedremo, acquisirà maggior rilievo, alla fine dell’età repubblicana).

In tal caso, la servitù cessa automaticamente e il civis riacquista la sua capacità giuridica, venendo reintegrato nei suoi precedenti rapporti82.

La riacquisizione dei suoi diritti può avvenire in diversi modi. Il prigioniero può, infatti, fuggire dal territorio nemico e riuscire a raggiungere lo spazio romano autonomamente, può altresì essere liberato militarmente e, in ultimo, essere riscattato (redemptus) privatamente o pubblicamente.

Iniziamo, per la sua predominanza, a trattare quest’ultima opzione, la redemptio ab hostibus, per poi parlare di un istituto che è comune, invece, a tutte le fattispecie citate, il ius postlimini.

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2. LA REDEMPTIO AB HOSTIBUS: LA ‘REDEMPTIO

DEL LIBER’: PUBBLICA E PRIVATA

La redemptio ab hostibus consiste nel riscatto del prigioniero di guerra romano che si trova presso i nemici, o presso terzi (aventi causa), ai quali era stato trasferito a titolo oneroso dai nemici stessi83. Attraverso l’applicazione di questa procedura, il captivus

poteva ritornare allo status di diritto che precedeva la sua cattura84.

Le fonti più antiche però non danno grande considerazione all’istituto, riservando l’iniziativa del riscatto al senato, nel caso si trattasse di soldati caduti nelle mani del nemico, oppure agli stessi familiari dei prigionieri.85

Plauto, Cicerone, Seneca e Quintiliano riportano come, per tutta la repubblica e il primo secolo del principato, “la redemptio sia stata pietoso officio di quanti erano legati al prigioniero”86. Ad

esempio, nelle Declamationes maiores di Quintiliano, si racconta di un padre che va a riscattare i due figli catturati da privati e che, potendo permettersi il riscatto di uno solo, sceglie quello malato, lasciando al suo destino l’altro. Un altro caso, riportato nella medesima opera (in 6.19), è quello di un figlio che accetta di sostituirsi in schiavitù al padre, il quale afferma: “nemo alius

83Cfr. S. Barbati, La redemptio ab hostibus e lo status del redemptus, in AARC, XXI, Napoli,

2016, p. 133.

84 Cfr. A. Maffi, Ricerche sul postliminium, Milano, 1992, p. 170.

85 Cfr. M.F. Cursi, La struttura del ’postliminium’ nella repubblica e nel principato, Napoli,

1996, p. 192.

86 L. Amirante, Prigionia di guerra riscatto e postliminium, Lezioni, I, Napoli, 1969, pp.

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