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Definizione di ‘praeda’ bellica

Con i termini praeda bellica si indica il bottino di guerra con riferimento a quanto fosse stato sottratto ai nemici, sia cose materiali che prigionieri, anche se per questi ultimi le fonti suggeriscono una predilezione per il termine captivi, nonostante rientrassero nella piena disponibilità del comandante184. Questi ne

disponeva con grande libertà se provvisto di imperium, altrimenti era il senato a decidere a seconda del caso specifico o, infine, entrambi concordavano una posizione, prevalentemente sulla base di ragioni politiche.185

Il comandante aveva ampia discrezionalità circa il bottino di guerra. 186

Egli poteva, anzitutto, autorizzare i soldati a saccheggiare, come ad esempio risulta da una testimonianza di Livio:

Liv., 4.47.4: Captis direptis que castris cum praedam dictator

militi concessisset secutique fugientem ex castris hostem equites renuntiassent omnes Labicanos [victos], magnam partem Aequorum Labicos confugisse.

184Cfr. R. Ortu, Schiavi e mercanti di schiavi in Roma antica, op. cit., p. 29.

185 Cfr. F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, Napoli, 1975, pp. 185 ss. 186 Cfr. R. Ortu, Schiavi e mercanti di schiavi in Roma antica, op. cit., pp. 29-30.

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Inoltre, il comandante poteva optare tra il suddividere il bottino fra i soldati o destinare il ricavato all’erario, procedendo autonomamente o rimettendosi al senato.

Nelle fonti giuridiche coesistono pareri, antinomici fra di loro, che testimoniano, da una parte, che il singolo possa liberamente acquisire la proprietà delle res hostium e, dall’altra, che la proprietà del bottino spetti allo Stato.

La pandettistica tedesca differenziava, semplicisticamente e trascurando il problema storico, le cose, che divenivano di proprietà dello Stato, da quelle che entravano a far parte della proprietà di chi per primo ne acquisiva il possesso.

Le prime erano quelle occupate dall’esercito nello svolgimento della propria funzione, mentre le seconde quelle sottratte al nemico dai singoli soldati a titolo personale.187

Più recentemente, però, la dottrina quasi unanime ha distinto l’acquisto della proprietà sul bottino in base alle differenti epoche storiche. Anticamente, è sembrato avere avuto maggiore diffusione il principio dell’occupazione privata del bottino, inibente la pretesa dello Stato sulla praeda.

Ancora Gaio parla di cose che, una volta prese ai nemici, divengono di proprietà dei Romani (nostra) secondo un criterio rispondente alla ragione naturale e, pertanto, di diritto delle genti:188

187 Cfr. F. Bona, Lectio sua. Studi editi e inediti di diritto romano, op. cit., pp. 71-73.

188 Cfr. S. Barbati, Sul regime proprietario del bottino di guerra mobiliare, Napoli, 2016, p.

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Gai. 2.69: Ea quoque quae ex hostibus capiuntur naturali ratione

nostra fiunt.

D. 41.1.5.7 (Gai. 2 r. cott.): Item quae ex hostibus capiuntur, iure

gentium statim capientium fiunt.

Anche Paolo paragona quanto preso in guerra alla proprietà che ha origini dalla possessio naturalis, come qualunque cosa che si trovi in natura ed entri nella disponibilità di chi se ne appropria per primo. Come conseguenza di ciò, anche il bottino di guerra diviene dominio di chi riesce ad acquisirne il possesso antecedentemente ad altri.

D.41.2.1.1 (Paul. 54 ad ed.): Dominiumque rerum ex naturali

possessione coepisse Nerva filius ait eiusque rei vestigium remanere in his, quae terra mari caeloque capiuntur: nam haec protinus eorum fiunt, qui primi possessionem eorum adprehenderint. Item bello capta et insula in mari enata et gemmae lapilli margaritae in litoribus inventae eius fiunt, qui primus eorum possessionem nanctus est.

In un secondo tempo, è probabile che vi sia stata un’evoluzione del pensiero giuridico in materia e che sia prevalso il principio per il

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quale quanto saccheggiato diventa res publica populi Romani, delimitando la possibilità di una occupazione privata, che però continuerà a sopravvivere per tutto il periodo classico, per poi rifiorire pienamente nel periodo post-classico fino a Giustiniano, con il quale cadrà ancora in desuetudine189.

In ogni caso, per un lungo arco di tempo, “a partire dalla tarda repubblica, il principio che il singolo può far proprie, per occupatio, le res hostium”, doveva essere di fatto svuotato del suo contenuto, ad esclusione, come si evince in Celso, dei rari casi di cose appartenenti ad hostes che si trovassero già sul territorio romano allo scoppio di una guerra. Secondo il giurista, in questo specifico caso, le cose in questione non diventano publicae, lasciando intendere che negli altri casi la soluzione fosse differente.

Questa idea è condivisa anche dalla Ortu190, che sottolinea come

quanto saccheggiato in epoca repubblicana non divenisse meccanicamente res publica populi Romani, con la conseguenza che l’acquisto di proprietà per occupazione da parte dei privati era di fatto possibile.

Un esempio di tale fase storica ci viene riportato da Livio, parlando del caso di Veio, conquistata nel 395 a. C.

Lo storico ci racconta come il dittatore di quell’anno, resosi conto dell’entità del bottino, avesse chiamato in causa il senato per capire come comportarsi. Fra le varie proposte, ebbe la meglio

189 Cfr. F.Bona, Lectio sua. Studi editi e inediti di diritto romano, op. cit., p. 73. 190 Cfr. R.Ortu, Schiavi e mercanti di schiavi in Roma antica, op. cit., p. 32.

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quella di P. Licinio, secondo cui chiunque avrebbe dovuto avere la possibilità di recarsi nel luogo ove fosse materialmente il bottino (Veio) a prenderne una parte:

Liv., 5.20.1-10: qui particeps esse praedae vellet, in castra Veios

iret… edictum itaque est, ad praedam Veintem, quibus videretur, in castra ad dictatorem proficiscerentur.

Risulta dal contesto come il principale modo di acquisto della proprietà fosse di fatto l’occupazione (occupatio) da parte dei privati191.

Vi sono alcune fonti però che, a prima vista, supportano la tesi che considera quanto sottratto al nemico come automaticamente di proprietà del popolo romano:

Liv. 9.1.5-6: Res hostium in praeda captas, quae belli iure nostrae

videbantur, remisimun; auctores belli…

Liv. 30.14.9-10: Syphax populi Romani auspiciis victus captusque

est. Itaque ipse coniunx regnum ager appida homines qui incolunt, quicquid denique syphacis fuit praeda populi Romani est, 10. Et regem coniugemque eius, etiamsi non civis Carthaginiensis esset, etiamsi non patrem eius imperatorem hostium videremus, Romam

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oporteret mitti, ac senatus populique Romani de ea iudicium atque arbitrium esse, quae regem socium nobis alienasse atque in arma egisse praecipitem dicatur.

Sia il discorso attribuito ad un Sannita, che quello di Scipione l’Africano, rispecchiano secondo la Ortu la concezione romana.192

Lo storico latino attribuisce per diritto di guerra a Roma ogni cosa che viene sottratta al nemico. “Ciò non vuol dire, però, che essa diventi ‘di proprietà’ del popolo romano, bensì che essa diviene oggetto di un pieno diritto di disposizione, le cui modalità di esercizio non sono sancite in norme scritte, ma sono regolate da una prassi che si articola nella dialettica fra poteri del Senato e poteri della magistratura, e che vede delinearsi in prevalenza in capo al comandante militare un potere di disposizione sui beni facenti parte della preda (uomini e cose)”193.

Il quadro è completamente mutato in epoca più tarda se, rispetto alla proprietà pubblica del bottino, Modestino testimonia come, colui che entra in possesso della preda nemica, deve sottostare alla

lex peculatus tramite la quale viene condannato al pagamento del

quadruplo del valore di quanto sottratto.

192 Ivi, p. 34. 193 Ibidem.

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Mod. 2 de poen D. 48.13.15: Is, qui praedam ab hostibus captam

subripuit, lege peculatus tenetur et in quadruplum damnatur.

Barbati in proposito evidenza come questa legge corrisponda alla

lex Iulia e come si tratti di regolamentazione valida per tutti beni

mobili, come si evince dall’utilizzo del verbo subripere che può tradursi con il termine trafugare, pertanto, evidentemente sottende ad uno spostamento spaziale della cosa.194

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