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Abbiamo visto, nei precedenti paragrafi quanto problematica sia stata per la dottrina la definizione esatta delle facoltà dei privati e dello Stato rispetto alla massa di beni materiali e viventi accaparrata nelle guerre da parte degli eserciti. Il dibattito, tuttavia, si è sviluppato in modo particolare per quanto concerne

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la praeda mobiliare, senza che si sia potuta individuare una soluzione condivisa delle problematiche suscitate dalle fonti. Sui beni immobili il problema sostanzialmente non si è posto, poichè sembra indubbio che quanto ricadesse in questa fattispecie, soprattutto i territori, venisse acquistato dalla civitas romana. In alcuni casi i Romani annientavano, in seguito a decreto del senato, i loro avversari, trasformandone il territorio in ager

publicus202. Questo avvenne spesso durante la fase imperialistica

per popolazioni non italiche, come, ad esempio, nel caso di Cartagine e Numanzia, anche se, precedentemente, durante l’espansione in italia, un simile destino era toccato anche alla città di Veio. A differenza di quest’ultima, però, per quanto riguarda le popolazioni italiche, i Romani preferivano privarle di una parte del territorio istituendovi municipi o fondandovi colonie al fine di acquisirli nel proprio sistema di pianificazione del territorio.203

Qualche contrasto è sorto in relazione a quanto accadesse in seguito all’inglobamento di nuove terre, soprattutto se il potere di disposizione sulle stesse fosse di competenza del senato o anche del popolo, sebbene si fosse riconosciuto che, in ultimo, dovevano essere i patres a prendere una decisione204.

Fra le varie ipotesi vi era anche la possibilità di restituire i territori, ad esempio in seguito ad un riconoscimento pattizio

202 Cfr. A. Petrucci, Corso di diritto pubblico romano, op. cit., p. 367. 203 Ibidem.

204 Cfr. S. Barbati, Sul regime proprietario del bottino di guerra mobiliare, op. cit., pp. 505-

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dell’autonomia della città conquistata oppure come conseguenza di una concessione unilaterale da parte di Roma, riservandosi quest’ultima una porzione di quanto riconsegnato.

Poteva inoltre avvenire che una comunità venisse lasciata autonoma, per prassi amministrativa, sotto l’osservazione del governatore della provincia, anche a prescindere da un patto di concessione. In quest’ultimo caso i territori erano ritenuti parte del dominio romano.205

In ogni caso, per quanto ci riguarda, il complesso dei beni immobili sottratti ai nemici diveniva sempre di proprietà pubblica e pertanto, conseguentemente, se anche ragioni di opportunità avessero consigliato di affidarlo in gestione a privati, fossero cittadini romani o membri delle comunità conquistate, la sua assegnazione passava attraverso un procedimento di rilevanza pubblicistica, che in età repubblicana si sarebbe fondato sulla concertazione tra senato e assemblee popolari, per rientrare, poi, sotto il principato, tra le competenze imperiali, esercitate direttamente o mediante delega.206

205 Ivi, p. 506, nt.3.

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CONCLUSIONI

L’analisi delle varie tappe che contribuirono a formare il diritto della guerra nell’antica Roma ci ha messi di fronte a molteplici istituti, alcuni propedeutici allo stesso avvenimento bellico, altri elaborati per poter affrontare le conseguenze che da quest’ultimo derivavano.

Studiando le procedure attuate dal collegio dei Feziali, abbiamo preso subito in considerazione una prima fase, costituita dalla

rerum repetitio (che si esplicitava nella clarigatio) e dalla testatio,

momenti in cui rispettivamente il pater patratus dei Feziali avanzava le pretese del popolo romano agli hostes e, in caso di rifiuto, annunciava preliminarmente un conflitto, constatando l’impossibilità di risolvere la questione pacificamente.

Successivamente, in una seconda fase, abbiamo analizzato le procedure dell’indictio belli, alla quale era sottesa una delibera dei senatori, e dell’emittere hastam, ovvero il successivo procedimento di dichiarazione vera e propria, caratterizzato dal lancio di un’asta dalle proprietà esoteriche oltre il confine del popolo avversario, che, come abbiamo visto, andrà in seguito semplificandosi, per poi scomparire del tutto.

Poi, sulla base delle forme appena ricordate, abbiamo affrontato il concetto di bellum iustum, analizzandone la teorizzazione lasciataci da Cicerone nelle sue opere maggiori, il quale giustificava un conflitto che si basasse sulle procedure medesime,

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in quanto le stesse erano idonee a conferire autonomamente legittimità giuridica all’azione.

Queste operazioni propedeutiche ad ogni ostilità avevano, a mio parere, anche se indirettamente, una funzione ponderatrice molto importante che evitava che un’iniziativa bellica potesse essere intrapresa a prescindere da esse e dunque in tempistiche particolarmente brevi che non garantivano una adeguata riflessione sull’opportunità di quella scelta.

Sono pienamente convinto che non fosse nell’indole dei romani del tempo, attraverso l’applicazione di questi rituali, garantire la posizione delle popolazioni avversarie, ma ciò, indirettamente, non poteva che realizzare un criterio di legittimazione delle azioni le quali, in ogni caso, potevano per questa via essere attentamente valutate da entrambe le parti.

La concezione romana di poter intraprendere soltanto guerre formalmente giuste, pur offrendo di fatto una mera giustificazione per la realizzazione delle proprie pretese, acquisisce a mio parere maggior valore ed una più spiccata modernità, se la si raffronta all’idea che, molti secolo più tardi, si diffuse a seguito dell’opera di S. Agostino, in base alla quale un conflitto si sarebbe potuto considerare legittimo, oltre che per vendicare atti ingiusti, anche sulla base di una, evidentemente ipotetica, sua supposta conformità alla volontà divina.

È da questo momento in poi che il bellum iustum si caratterizza in senso sostanziale, non identificandosi più soltanto, come appariva

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invece propriamente nelle opere di Cicerone, con una guerra considerata gradita agli Dei quando intrapresa in modo conforme a quanto previsto, in materia di relazioni internazionali, dall’ordinamento interno dell’epoca, ma prescindendo da qualsiasi regola procedurale e trovando giustificazione in sé stessa sul piano trascendente.

Valutato il concetto di guerra e la sua dichiarazione, ci siamo spostati sullo studio della situazione giuridica del prigioniero. Riguardo questo argomento abbiamo provato a dimostrare una particolare attenzione del popolo romano per i suoi appartenenti caduti in prigionia, che però non rilevavano soltanto come singoli da riassemblare nel loro status giuridico precedente, ma in quanto titolari di una posizione sociale che era perduta e che, per il bene della comunità stessa, era necesserio ripristinare, qualsivoglia essa fosse. Lo schiavo riscattato, ad esempio, da una certa epoca storica era considerato rientrato in patria solo quando ricadeva nella disponibilità di qualcuno, a prescindere che quest’ultimo fosse il suo proprietario originale o meno, poiché ciò che importava all’ordinamento romano era che il suo status originario fosse ripristinato. L’intento del postliminio era, dunque, quello di ripristinare un equilibrio sociale che, in caso ad esempio di conflitto armato, poteva infrangersi ed influire negativamente sulla civitas, soprattutto se, durante una guerra, fossero stati fatti prigionieri un gran numero di soldati.

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I prigionieri riscattati da terzi commercianti entravano nel calderone della mercanzia umana, all’interno della quale era impossibile distinguere chi, antecedentemente alla prigionia, fosse stato un liber cittadino oppure sottoposto ad altri. Anche in questo caso, al prigioniero veniva garantito, pur se a posteriori, un ritorno alla precedente condizione, potendo, se libero, in una prima fase storica, essere riconosciuto da un adsertor libertatis, in un secondo momento svincolato dalla sua condizione di assoggettamento tramite riscatto, se schiavo, riacquistato entro certi termini dal suo precedente proprietario.

Il discorso sembra confermarsi ulteriormente rispetto alla vendita

sub corona degli schiavi, che si sostanziava in un caso di

alienazione non coperta da alcuna garanzia. Questo istituto, infatti, se, da un lato, è funzionale alla pacifica circolazione delle merci (schiavi), dall’altro, sottende chiaramente l’idea che uno schiavo prigioniero di guerra sia per sua natura diverso dagli altri individui di condizione servile, poiché, intanto, non è possibile sapere nulla circa le sue pregresse condizioni fisiche e mentali, secondariamente è evidentemente soggetto propenso alla fuga, in terzo luogo gli eventuali, successivi eventi bellici con i connessi spostamenti del fronte, potrebbero influire sulla stabilità del potere giuridico sulla di lui.

In conclusione, la civitas appare, nel suo complesso, come un’istituzione volta a salvaguardare sé stessa nelle sue funzioni e i suoi membri nelle loro proprie posizioni sociali. Pertanto, benchè Roma sia stata la patria di un popolo volto alla conquista e

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all’espansione imperialistica, il conflitto è comunque percepito come un momento di rottura dell’ordine pacifico della comunità e le sue conseguenze sono considerate come anomalie da correggere, favorendo il ripristino di ogni situazione pubblica e privata antecedente lo stesso.

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INDICE DELLE FONTI

FONTI GIURIDICHE ANTICHE

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129 D. 24.3.56 84 D. 28.1.8 pr. 78 D. 28.3.6.12 79 D. 29.7.7 78 D. 38.17.1.1 72 D. 38.17.1.3 86 D. 38.17.2.3 88 D. 41.1.5.7 108 D. 41.2.1.1 108 D. 42.4.6.2 74 D. 42.5.39.1 74 D. 43.29.3.2-3 66 D. 48.13.15 112 D. 49.15 94 D. 49.15.5.1 94 D. 49.15.5.2 91 D. 49.15.9 86 D. 49.15.12 pr. 99 D.49.15.12.2 76 D. 49.15.12.4 82

130 D. 49.15.12.7-8 61 D. 49.15.12.9 60 D. 49.15.14.1 82 nt.140 D. 49.15.19 pr. 90 D. 49. 15.19.9 67 D. 49.15.22 pr 80 D. 49.15.25 86 D. 49.15.29 76 D. 49.15.30 62 D. 50.16.239.1 104 INSTITUTIONES I.1.12.5 68 GAIO Institutiones 1.129 71 2.69 108

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FONTI NON GIURIDICHE ANTICHE

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132 1.11.34 10 nt. 3; 36 nt. 56; 40 1.11.36 44 1.12.38 43 1.13.38 50 nt. 89 2.16.55-56 50 2.60 10 nt. 3 3.29.108 15 nt. 23 De Republica 2.17.31 11 nt. 11; 42 Epistulae ad Atticum 16.11.4 10 nt. 3 DIONE CASSIO Historia Romanae 50.4.4-5 29 nt.42 DIONIGI DI ALICARNASSO

133 Antiquitates Romanae 2.72.4-5 13 nt.16 2.78.8 22 nt.28 FESTO De verborum significatione (ed. Linsday) p.400, sub corona 62; 112 nt. 196 LIVIO Ab Urbe Condita 1.32.1-6 17 1.32.5-14 19 nt. 27 1.32.6-14 19 2.17.6 114 4.47.4 106 5.20.1-10 110 7.19.2-3 105 nt. 182 9.1.5-6 110

134 10.31.3 105 nt.183 21.11.1-2 31 21.17.1-4 31 22.23.6-8 51 22.60.3 52 30.14.9-10 110 33.34.3 32 nt. 45 36.7.7-8 32 nt. 46 38.11.3-4 96 POLIBIO Historiae 18.47.1-3 32 nt.45 21.32.5-6 96 QUINTILIANO Declamationes maiores

135 6.19 49 SENECA De beneficiis 2.21 53 6.13-14 53 SERVIO Vergilii Aeneida 9.52 28 10.14 24 nt. 52 TACITO Annales 13.39.4 116 VARRONE De lingua latina

136

5.86 12; 27

De vita populi romani

2.75R (=31K) 26 De re rustica 2.10.4 113 VOPISCO Historia Augusta 7.1 117

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