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Il dibattito sul fine vita:profili teorici e comparitistici

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Academic year: 2021

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INDICE

Introduzione...1

Capitolo I TESTAMENTO BIOLOGICO E QUESTIONI DI FINE-VITA NEGLI ORDINAMENTI DELLA TRADIZIONE GIURIDICA OCCIDENTALE...8

1.1Introduzione...8

1.2 Il testamento biologico...10

1.3 Il“diritto di morire”: eutanasia e suicidio medicalmente assistito...14

1.4 Sviluppi delle tecniche biomediche e dibattito bioetico: dalla bioetica al biodiritto...28

1.5L'autodeterminazione...36

1.6 L'evoluzione del rapporto medico-paziente...39

1.7 Il consenso informato...41

1.8 La questione del fine-vita tra incertezze della scienza e del diritto: stato cosciente e stati di incoscienza...54

1.9 Terminalità ed accanimento terapeutico...61

1.10 Terapia del dolore e cure palliative...64

Capitolo II UNO SGUARDO AL PANORAMA COMPARATISTICO DELLA REGOLAMENTAZIONE DEL FINE VITA...66

2.1 Introduzione...66

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2.3Uno sguardo al di fuori dell'Europa...72 2.4 Il panorama europeo in tema di fine-vita...94

Capitolo III

L’ORDINAMENTO ITALIANO DINANZI ALLE QUESTIONI DI FINE VITA: TRA GIURISPRUDENZA, FONTI

SOVRANAZIONALI E DISEGNI DI

LEGGE...124

3.1 introduzione...124 3.2 Diritto alla salute o dovere di curarsi? Il fondamento costituzionale del diritto del paziente al consenso/dissenso informato...127 3.3 Le questioni della disponibilità / indisponibilità del diritto alla vita...132 3.4 Autodeterminazione individuale terapeutica o “diritto di morire”? Il dibattito dottrinale sull'eutanasia in Italia...136 3.5 Il principio dell'autodeterminazione terapeutica e la tutela della dignità umana nelle fonti sovranazionali a livello europeo...142 3.6 Il Comitato Nazionale per la Bioetica e le problematiche relative a direttive anticipate di trattamento (DAT) e al testamento biologico “strictu sensu”...158 3.7 Problematicità dell’attribuire valore giuridico al testamento biologico nell’ordinamento italiano...173 3.8 La giurisprudenza italiana dinanzi al fine vita: leading cases: Englaro e Welby...180 3.9 Il testamento biologico e le proposte di legge...196

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro prende in esame i profili teorici e comparatistici del dibattito sul fine vita, proponendosi anche di verificare la compatibilità del nostro ordinamento costituzionale con istituti e figure giuridiche con cui, molti ordinamenti della tradizione giuridica occidentale, hanno dato risposta alle problematiche giuridiche ed applicative emerse: le direttive anticipate, il testamento biologico e il fiduciario.

La tematica inerente le istanze di fine vita da parte del paziente, che vive in una situazione di sofferenza, non solo fisica, la fase finale della propria vita, è messa in evidenza in una prospettiva del tutto nuova nella società contemporanea, interessata da un sempre maggiore superamento del paradigma naturalistico, nell’ambito della biomedicina e delle applicazioni biotecnologiche.

I nuovi scenari aperti da una biomedicina che, incidendo su un processo di morte già irreversibilmente avviato, è spesso in grado di garantire il prolungamento, per un tempo non determinabile, delle funzioni organiche essenziali, che necessitano tuttavia di essere sostenute artificialmente, aumentano le paure dell’uomo post moderno che la morte non giunga improvvisa e che la fase finale della vita sia accompagnata dalla perdita del potere di scelte autonome, attraverso cui ogni persona costruisce durante la sua vita la propria identità.

Il tema delle scelte di fine vita presenta molti aspetti controversi, che possono essere analizzati dal punto di vista di un complesso di ambiti disciplinari. In primo luogo le questioni di fine vita sono state messe in evidenza intorno agli anni ’70 del secolo scorso, in

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tutti i Paesi ad economia sviluppata, nell’ambito di una riflessione multidisciplinare, poi divenuta una vera e propria disciplina, che prese il nome di bioetica. La bioetica ha avuto il merito di sottolineare le questioni etiche poste da una medicina come scienza fondata essenzialmente sul metodo empirico, che si sviluppa come ricerca nei laboratori, ma poi abbisogna del riscontro pratico, per stabilire statistiche di successi o insuccessi. A una fase di sperimentazione scientifica su esseri umani attuata su basi di “volontarietà” del trattamento, segue la certificazione dell’applicabilità del trattamento nella pratica clinica quotidiana. Ė proprio nella clinica medica da cui comunque si continuano a trarre dati statistici di conferma che sorge il dubbio.

Il malato sembra non essere più una persona ma un caso clinico. Gli enormi progressi scientifici degli ultimi decenni del XX secolo hanno anche portato a una realtà di “medicalizzazione” del fine vita negli ospedali dotati di reparti di terapia intensiva e in cliniche con reparti “a lunga degenza”, i cui pazienti non possono dirsi propriamente “malati”, concetto che sottende implicitamente la concreta probabilità di un miglioramento della qualità della vita tramite una terapia, ma piuttosto “morenti”, esseri umani che stanno concludendo in modo ineluttabile il loro ciclo vitale.

Le questioni delicate di cui si occupa la bioetica, riguardanti temi per lo più concernenti la sfera della coscienza individuale della persona, diventano ancora più complesse quando è il diritto ad essere chiamato a dare risposte alle problematiche poste dai casi concreti riguardanti istanze di fine vita di tali malati.

Sempre più di frequentemente, anche in Italia, casi giudiziari riguardanti scelte di fine vita di pazienti, portano all’attenzione

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dell’opinione pubblica la domanda rivolta al diritto, nel suo formante giurisdizionale, di risposte tese a chiarire quali siano le libertà, i limiti, i diritti e i doveri dei vari soggetti che si rapportano negli scenari di fine vita.

Il dibattito sulle scelte di fine vita che tali casi riaccendono, stenta a trovare soluzioni che concilino posizioni ideologiche contrapposte. Come è stato osservato, la bioetica tende sempre più a svilupparsi per antagonismi e per contrapposizioni: cattolici e laici; bioconservative e liberal. Ė chiaro che l’etica presuppone la scelta e la scelta implica il dubbio.

Così il tema delle scelte in merito alla propria morte, suscita un dibattito che si anima da anni, spaziando dal rifiuto delle cure, alla cd. eutanasia, fattispecie certamente più irta di implicazioni etiche e anche religiose, che getta la sua ombra sulle scelte di fine vita. Il sottile confine che separa la scelta di rifiuto di cure, da cui discende la morte per il decorso della malattia, dalla scelta di morire secondo il “proprio” modello di vita e di “buona morte”, rende chiaro il motivo per cui il nodo del dibattito sul fine vita è costituito principalmente dalle cure “salva vita”.

La scelta libera, sostenuta dalla posizione liberal, implica l’autonomia, per cui ad ogni individuo e a nessun altro spetta decidere le cure, anche di fine vita, e quindi anche quale sia la morte migliore per sé. Tale scelta rimarrebbe quindi un problema confinato nella sfera privata, in cui il singolo fa valere la propria personale gerarchia di valori.

La tesi pro-life tende viceversa a una strenua tutela della vita,

degna di essere vissuta in ogni situazione e in ogni sua fase. A prescindere dalla sua “santità”, in quanto dono di Dio o no, la vita

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è un bene indisponibile in quanto presupposto dell’esercizio di ogni diritto.

Alle soluzioni giudiziarie di casi concreti sempre più spesso segue un’attenzione accresciuta del legislativo al tema che lo porta a disciplinare sul fine vita.

Le norme esistenti difficilmente si adattano ad essere riferite ad un innegabile cambiamento sopravvenuto, rispetto al tempo in cui la durata della vita biologica era l’arco di tempo tra la nascita e la morte, non dominabili dalla medicina, tesa in altre epoche a migliorarne la qualità, e solo indirettamente la quantità.

Quel che è necessario tener presente è che, in molti casi di “vita al limite”, la scienza medica, attraverso quelle che definisce cure salva-vita, non offre in realtà una prospettiva futura di ben che minimo cambiamento in meglio delle oggettive condizioni cliniche, che evolvono comunque verso la morte. Sebbene anche in Italia recentemente i giudici abbiano accolto sulla base del diritto vigente, e principalmente delle norme dei diritti fondamentali della nostra Costituzione, quale diritto vivente, le richieste di interrompere, a determinate condizioni oggettive e soggettive, le cure “salva-vita, si avverte la necessità di una legge che regoli il fine vita assicurando la certezza del diritto.

Oggi molti Stati della Western Legal Tradition si sono dotati di una legge sul fine vita che ha dato risposte certe ai tanti casi di pazienti in stato vegetativo permanente o di pazienti che vivono con estrema sofferenza un prolungamento della loro vita biologica in totale dipendenza dalle macchine salva-vita, che sicuramente comporta un depauperamento della loro vita “biografica”.

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il prolungato silenzio legislativo. In conseguenza alla sentenza della Corte di Cassazione relativa al caso Englaro, la necessità di una legge sul fine vita è certamente oggi più largamente condivisa. Sull’onda emotiva destata nella società civile anche dall’eco mediatica che il caso ha avuto, si è assistito a una “frenesia legislativa”, che ha più il sapore di una rivalsa del potere legislativo su quello giudiziario, piuttosto che di una concreta volontà politica di dare risposte certe ai tanti casi di “morti sospese”. Anche il ddl del 26 marzo 2009 recante” Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento”, di cui, in un clima meno concitato, si è avviato l’iter legislativo, che oggi rappresenta l’unico tra i vari disegni di legge sul fine vita che abbia raggiunto un livello così alto dell’iter legislativo da far ritenere che probabilmente sarebbe approdato in legge se non fosse caduto il governo, è stato oggetto di molte critiche, non solo di chi sostiene la tesi liberal. Escludere la possibilità di rifiutare l’alimentazione e l’idratazione artificiali, sulla base di un assunto che non si possa parlare propriamente di ”trattamenti”, ma di cure dovute, che servano ad alleviare le sofferenze del morente per cui sussiste il dovere morale di darle, appare quanto meno irrazionale data l’artificialità del mezzo tecnico con cui è forzatamente indotta sul paziente. Di fatto in Italia manca una legge sul fine vita che, tuttavia, potrebbe non essere necessaria. Nel presente lavoro si è cercato di verificare se, sulla base dei principi costituzionali, alla alla luce delle fonti sovranazionali, il nostro ordinamento tuteli già in modo certo la piena autonomia del paziente nelle scelte di fine vita.

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La struttura della trattazione si articolerà in un primo capitolo dedicato all’analisi delle questioni di fine vita, partendo da una veloce presentazione del momento “genetico”, che le vede nascere come questioni bioetiche, per poi affrontare le questioni dalla prospettiva del diritto costituzionale, anche comparatistico. Vi si affronta quindi il tema testamento biologico e le DAT, come estensione del diritto al consenso/dissenso informato a pazienti in cui sia sopraggiunto uno stato di incapacità. Quindi si è ritenuto necessario sottolineare la differenza tra autonomia terapeutica e “diritto di morire” fondante il diritto all’eutanasia e al suicidio assistito, due fattispecie da distinguere. Si sono poi affrontate anche altre questioni inerenti al tema del presente lavoro, come il diritto alla salute v. dovere di curarsi, il diritto al consenso informato e l’evoluzione storica del rapporto medico-paziente, la terminalità e gli stati di incapacità, il controverso e per certi versi ambiguo concetto di accanimento terapeutico, le cure salva-vita e infine le cure palliative e la terapia del dolore.

Il secondo capitolo affronta quindi l’aspetto comparatistico del tema, avendo riguardo agli ordinamenti della tradizione giuridica occidentale. L’analisi, tesa ad evidenziare se in tali ordinamenti sia previsto un”diritto di morire” in senso pieno, parte da una presentazione dei modelli teorici che, in relazione all’an e al quantum dell’autodeterminazione individuale terapeutica si presentano all’opzione del legislatore. Si giunge quindi a concludere che in nessuno di tali ordinamenti è riconosciuto un pieno diritto di morire, mentre in tutti indistintamente oggi è dato ampio riconoscimento all’autodeterminazione alle cure, anche di soggetti in stato di incapacità. L’esame dei leading cases

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rivelandosi rilevante ai fini di una tale conclusione.

Il terzo capitolo si soffermerà sull’analisi della situazione italiana avendo riguardo dei principi costituzionali che rilevano in tema di autodeterminazione alle cure, ma anche delle fonti sovranazionali su cui si è ritenuto doversi soffermare, sottolineando anche la posizione anomala dell’Italia rispetto alla Convenzione di Oviedo. Si è presa in esame la posizione evidenziata dal CNB, importante organo consultivo governativo in materia bioetica, nel recente documento del 2003, che tratta delle questioni giuridiche e applicative relative alle dichiarazioni anticipate di trattamento. Dei codici deontologici, per quanto hanno una ricaduta non trascurabile sulle questioni esaminate, si è fatto solo un breve cenno, senza entrare ad un esame di dettaglio che ci è parso appesantire troppo la trattazione. Non poteva mancare la presentazione dei leading cases italiani che evidenziano le recenti evoluzioni giurisprudenziali. Si è anche voluto prendere in esame il ddl “Calabrò”, che come si è detto è il progetto di legge che ha raggiunto il più elevato stadio dell’iter legislativo. Tale analisi tende ad evidenziare come in Italia appaia ancora molto lontana la speranza di una volontà della politica di conciliare posizioni ideologiche contrapposte e dare finalmente risposte certe a tanti casi di “morti sospese”. A chiusura di questo terzo capitolo si è esaminata la reale esigenza o meno di una legge sul fine vita in Italia. Il lavoro si chiude con le conclusioni che si possono trarre dall’esame del dibattito sul fine vita, che ho trovato molto interessante, anche dal punto di vista di approfondimento personale di un tema su cui, purtroppo, ho avuto un’esperienza di vissuto familiare che mi ha toccato molto da vicino.

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CAPITOLO I

Testamento biologico e questioni di fine-vita negli ordinamenti della tradizione giuridica occidentale

“Se cadono le leggi della natura l’orrore del vuoto che lasciano deve essere colmato dalle leggi degli uomini”

1.1. Introduzione

Quale modo più efficace di introdurre il tema del testamento biologico di questa incisiva frase tratta dal libro La vita e le regole: tra diritto e non diritto di Stefano Rodotà.

Ė il diritto, nel suo formante legislativo a cui qui si fa riferimento, a dover dare risposte certe alle tante domande di tutela della dignità umana troppo spesso sacrificata sull’altare di un tecnicismo estremo dell’era postmoderna.

Il testamento biologico o testamento di vita è il documento che dà voce alle paure dell’uomo dell’era tecnologica dinanzi al sempre maggiore superamento del paradigma naturalistico determinato dallo sviluppo delle tecniche biomediche e le connesse applicazioni biotecnologiche capaci di incidere in maniera sempre più massiva ed invasiva nei diritti della persona nelle fasi finali della vita.

I nuovi scenari aperti da una biomedicina in grado anche di dilatare il momento della morte naturale di pazienti che versano in condizione di indefettibile terminalità, ma soprattutto la possibilità di prolungare oltre misura la vita meramente “biologica” della persona con conseguente dequalificazione della sua vita “biografica”, suggeriscono la possibilità di un testamento

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biologico come documento cui affidare pro futuro la propria autodeterminazione terapeutica, in caso di sopravvenuta incapacità ad esprimerla.

Il consenso informato, oggi precondizione per la liceità di ogni trattamento sanitario sul paziente, rappresenta molto più di un atto meramente formale di consenso tendente piuttosto ad escludere la responsabilità del medico in una logica di medicina difensiva. Il diritto al consenso informato rappresenta una “rivoluzione copernicana“ del rapporto medico-paziente: presuppone un binomio assolutamente necessario di un’informazione tecnico-professionale e di una scelta libera consapevole ed essenzialmente morale del paziente in quanto

« basata su un giudizio di compatibilità e coerenza della proposta medica con la struttura morale del paziente, con la rappresentazione della sua umanità, con l’immagine che ha di sé e che vuole lasciare a chi potrà sopravvivergli: in una parola - potremmo dire - con la sua dignità »1.

Quando tale scelta è impossibile per incapacità del paziente, ecco allora che il testamento biologico o le direttive anticipate consentono alla solitudine del medico di tener conto delle scelte previamente espresse. Tante tuttavia le problematiche giuridiche ed applicative che un simile documento fa sorgere a motivo del sottile confine che separa il “diritto di morire” che riporta alla °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

1 C.Casonato, Il consenso informato. Profili di diritto comparato, in Diritto pubblico

comparato ed europeo,III, 2009, p.1053. L’autore a conferma di tale tesi rileva i richiami alla dignità dell’art.5 della Convenzione di Oviedo e soprattutto dell’art.3 (Dignità) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

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fattispecie problematica dell’eutanasia dal “diritto di autodeterminazione individuale terapeutica” da cui discende la vincolatività del testamento biologico con cui si rifiuta qualsivoglia trattamento sanitario ritenuto lesivo della propria dignità, anche se da ciò dovesse derivare la morte per decorso naturale della malattia. Il prospettarsi di casi giudiziari “limite” in cui il diritto, nel suo formante giudiziario, è chiamato il più delle volte a definire i margini di liceità o di illiceità del momento patologico della vicenda in cui la morte consegue a un determinato trattamento sanitario richiesto o rifiutato, ma anche la tendenza alla “circolazione trasnazionale” delle soluzioni giudiziarie, è spesso l'input per la politica ad uscire da un’inerzia che connota in modo più patologico che fisiologico il ritardo con cui essa affronta i temi “bioetici” e dà risposte chiare.

Molti Paesi hanno già regolamentato le questioni di fine vita mentre l’Italia è, in Europa, tra i Paesi più arretrati in materia. L’analisi dal punto di vista del diritto costituzionale col metodo comparatistico, a livello europeo ed internazionale, rappresenta sicuramente una prospettiva d’indagine centrale anche per una migliore comprensione del dibattito intorno alle questioni bioetiche di fine-vita che nello specifico è inerente a questo lavoro di studio ed approfondimento.

1.2. Il testamento biologico

Il testamento biologico, inerente ai diritti delle persone nelle fasi finali della propria vita, è uno dei temi della riflessione bioetica ma soprattutto giuridica sorto in conseguenza agli straordinari progressi della biomedicina e delle biotecnologie in tutti gli Stati

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ad economia avanzata.

Con l’espressione “testamento biologico” si suole indicare il documento con il quale una persona, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, specifica i trattamenti sanitari che intende ricevere o rifiutare nell’eventualità che in futuro dovesse perdere la propria capacità di autodeterminazione per il sopraggiungere di uno stato di incapacità dovuto a malattia, infermità, vecchiaia o a causa di un evento traumatico2.

La sua funzione è dunque quella di custodire e proiettare pro futuro la volontà previa del firmatario, realizzando altresì il principio di eguaglianza riguardo ad uno tra i più importanti “nuovi diritti”: il diritto al consenso/dissenso informato. Occorre precisare che spesso, nelle svariate proposte di legge, nell’uso comune e anche nei vari documenti che trattano questioni bioetiche di fine-vita, si tende a non differenziare tra i termini testamento biologico o testamento di vita (traduzione pedissequa dell’espressione anglosassone living will3), direttive anticipate di

trattamento (DAT), o ancora dichiarazioni anticipate di trattamento.

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2 Alcune definizioni simili a quella proposta cfr. E. De Septis, Eutanasia. Tra

bioetica e diritto, Edizioni Messaggero, Padova, 2008, p. 30; M. Aramini, Manuale di bioetica per tutti, Paoline, Milano, 2006, p. 286; A Pertosa, Scelgo di morire, Esd, Bologna, 2006, p. 179.

3 Il living will nasce dall’idea di Luis Kutner, avvocato di Chicago che nel 1969, in un

contesto in stretta connessione con l’eutanasia, pubbllca “Due Process of Euthanasia: The Living Wll, A Proposal, Indiana Law Journal.

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Va osservato comunque che sussistono notevoli differenze, non solo linguistiche, tra i diversi termini utilizzati.

La dottrina tendenzialmente distingue soprattutto tra direttive anticipate e testamento biologico o testamento di vita4 considerato

una specie del genus delle direttive anticipate. Numerose le questioni di ordine etico-giuridico che un siffatto documento pose già fin dal suo nascere, concepito come un testamento di vita in cui, alla stregua di come nel testamento mortis causa si dispone dei beni di “proprietà”, qui si dispone della propria vita.

Il testamento di vita o biologico è un istituto giuridica intimamente legato all’autodeterminazione individuale cui si ispirano le Costituzioni liberali del secondo dopoguerra. Un’autodeterminazione che secondo la giurisprudenza delle Corti Supreme non è solo espressione dell’autonomia privata, cioè di “spazio di autoregolamentazione” in un ambito di privacy, ma viene intesa spesso come diritto inviolabile garantito costituzionalmente in ogni situazione in cui si ravvisi una lesione della dignità umana.

In relazione ai trattamenti sanitari l’autodeterminazione si esplicita come autodeterminazione del paziente, specie nelle situazioni in cui maggiormente necessita di tutela, riguardo al consenso/rifiuto di ogni intervento medico sul proprio corpo che egli ritiene lesivo della propria dignità, futile o tale da configurarsi quale inutile ‘accanimento terapeutico’, anche se da

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ciò può conseguire la sua morte per il decorso naturale della malattia.

La sottile linea di confine tra riconoscere efficacia vincolante al testamento biologico, quale ne sia il contenuto, e legittimare l’eutanasia, fattispecie sicuramente più irta di problematiche implicazioni morali ed etiche, fa comprendere il motivo delle aspre critiche di cui il testamento biologico fu fatto oggetto fin dal suo nascere.

Le questioni giuridiche sul testamento biologico hanno infatti riguardato, innanzitutto, il suo fondamento di legittimità cioè l’autodeterminazione individuale terapeutica intesa come diritto riguardo alle scelte terapeutiche che parve affermare un “dogma” della volontà del paziente che avrebbe la piena disponibilità della sua vita (e della sua morte). Tale problematicità non sussiste invece per le Direttive anticipate5 che non implicano

necessariamente una volontà del paziente non suscettibile di limitazioni, perché nelle DAT si chiedono alcuni trattamenti e se ne rifiutano altri, ma soprattutto non richiama una scelta “sulla vita” ma solo “sui trattamenti sanitari”. La questione problematica riguarderebbe semmai la vincolatività per il personale medico al rispetto di tale volontà, in assenza della quale l'efficacia delle DAT sarebbe lasciata alla discrezionalità di altri. L’espressione dichiarazioni anticipate di trattamento è spesso preferita anche per °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

5 Per i seguenti profili definitori e le distinzioni cfr. C. Casini – M. Casini – M.L. Di

Pietro, Testamento biologico. Quale autodeterminazione?, Società editrice fiorentina, Firenze, 2007; L. Iapichino, Testamento biologico e direttive anticipate. Le disposizioni in previsione dell’incapacità, Milano, IPSOA, 2005; G.Spoto, Direttive anticipate, testamento biologico e tutela della vita in Europa e dir. privato, 2005.

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il significato meno cogente del termine “dichiarazioni” rispetto a malattia o evento traumatico, possono essere effettuate da un “direttive”. Questo tipo di documento, quale che ne sia la denominazione, mira a reagire al fenomeno della “medicalizzazione” delle fasi finali della vita e agli enormi progressi della medicina e della scienza.

Le scelte terapeutiche, anche relative alla fase terminale della vita, sono scelte “personalissime” del soggetto capace che eccezionalmente, in ipotesi di incapacità sopravvenuta per malattia o evento traumatico, possono essere effettuate da un fiduciario (proxy), in quanto, in mancanza, i desideri del malato non sarebbero per nulla ascoltati e rispettati.

Nei vari ordinamenti che hanno già legiferato in materia di testamento biologico si prevedono infatti due modalità di contestualizzare una volontà che non può più essere attuale: a) la redazione di un testamento di vita e b) il conferimento della procura sanitaria ad un fiduciario, delegato, che dovrà garantire l’esatta ricostruzione della volontà del malato.

Numerose rimangono in ogni caso le questioni giuridiche di tipo applicativo che il testamento biologico pone anche riguardo a forma, contenuto, vincolatività e tutte le questioni connesse alla distanza temporale tra il momento della sua stesura e quello in cui dovrebbe trovare applicazione.

1.3. Il “diritto di morire”: eutanasia e suicidio medicalmente assistito.

In questi ultimi anni il tema dell’eutanasia, anch’essa figlia dei progressi compiuti dalla tecnologia medica, da cui derivano

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numerosi interrogativi etici che si riverberano nel diritto con tutte le loro incertezze, è tornato in primo piano nel dibattito sulle questioni di fine-vita riaccesosi in seguito ad alcune decisioni dei giudici. Ciò si deve alla prospettazione di casi giudiziari “limite” in cui il diritto, nel suo formante giudiziario, è chiamato il più delle volte a definire i margini di liceità o di illiceità del momento patologico della vicenda in cui la morte consegue a un determinato trattamento sanitario richiesto o rifiutato.

Come è stato spesso sottolineato da autorevole dottrina esiste una stretta vicinanza tra il testamento biologico e la fattispecie problematica dell’eutanasia, certamente più irta di implicazioni etiche, giuridiche, umane e perfino religiose.

«I confini tra “lasciar morire” (interrompere l’accanimento terapeutico delle cure di fine-vita), “aiutare a morire” (con dosi sempre più elevate di oppiacei) e “provocare il morire” (somministrando un farmaco o un’iniezione letale) sono realmente molto sottili. Tutte queste opzioni sfociano infatti nella morte del paziente chiesta o cercata solo perché la sofferenza ha toccato limiti insopportabili che sviliscono ogni dignità umana»6.

Testamento biologico ed eutanasia nascono entrambi dal voler dare risposta a quei pazienti che, affetti da una malattia inguaribile e irreversibile, invocano il permesso di morire, o meglio di interrompere una vita torturata e non più voluta”.

La problematica dell’eutanasia7 in tutta la sua assorbente

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6 U.Veronesi, in Il diritto di non soffrire, cure palliative, testamento biologico ed

eutanasia, Mondadori, 2011.

7 F. Giunta, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione

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dimensione pregiuridica, legata a filo doppio all’importanza del bene della vita umana, induce tuttavia a riflettere sull’opportunità di rendere il morire un processo meno doloroso.

«Eutanasia è la parola che incombe come rivendicazione estrema del diritto dell’individuo a decidere della propria morte, ma incombe anche come timore che, rinunciando al valore assoluto della vita si perda ogni chiaro riferimento morale e svanisca il senso profondo dell’esistenza umana»8.

Il dibattito sull’eutanasia, come su molte questioni bioetiche, è di difficile soluzione in quanto non è facile trovare accordo unanime, a volte neanche sul significato del termine. Concetti come autonomia e dignità umana vengono utilizzati sia da chi è contrario all’eutanasia che da chi è a favore. Così la tutela della dignità umana è sia l’argomento a sostegno della legittimazione dell’eutanasia pietosa ma anche, in un orientamento contrario, la dignità umana e l’indisponibilità della vita impongono che essa non possa essere legittimata. Ciò dipende dal fatto che l’eutanasia rappresenta un caso limite e ogni situazione eutanasica è tipicamente una situazione non ordinaria che è impossibile assimilare ad altre. Secondo parte della dottrina essa dovrebbe non trovare regolamentazione per la sua imprevedibilità ed eccezionalità, se si osserva che, seppure con il movente della pietà, è una condotta connessa alla morte di una persona che già

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8 S.Amato, Eutanasie, Il diritto di fronte alla fine della vita, G.Giappichelli editore,

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spesso nel caso concreto trova sanzione penale nell’ordinamento. “Giuridificare” sull’eutanasia significa innanzitutto “tipizzare” i comportamenti qualificabili come eutanasici. La maggiore problematicità che il diritto incontra nel voler regolamentare l’eutanasia è proprio che essa non si presta ad essere identificata in un modello unico di comportamenti.

«La vaghezza semantica del termine eutanasia lo rende inadatto a una immediata utilizzazione nel linguaggio giuridico.

Il primo compito del giurista è quello di comprendere i possibili significati di tale termine per ricondurli ad una valutazione giuridica, anche se diversificata, delle azioni riconducibili sotto la fattispecie dell’eutanasia »9.

È necessario innanzitutto dare una definizione di eutanasia. “Eutanasia” deriva dal greco “ευθανασία”, che significa “buona morte” ed è intesa nel senso di morte procurata volontariamente per porre fine alle sofferenze del malato. La parola ha tuttavia assunto questo significato solo in epoca moderna. Fu il filosofo F. Bacone in un suo scritto del 1605 a utilizzare per primo tale termine con un significato pietistico, come accompagnamento indolore del malato nella fase terminale della vita.

L’interesse sociale per l’eutanasia pietosa si ha solo in epoca moderna. Nell’antichità pare piuttosto che vi fosse la tendenza ad una sorta di eutanasia imposta dalla società che avvertiva come un peso i malati incurabili e gli invalidi ritenuti dannosi per

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9 F. D’Agostino, Diritto ed eutanasia, rivista Bioetica,n. 1, 1999, pp. 94-108

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l’economia della società. Di certo “l’eutanasia sociale” confinalità utilitaristiche era praticata nella società spartana, nel mondo romano arcaico, in cui il rapporto tra gruppo sociale e singolo appartenente era fondato sulla predominanza assoluta dell’interesse sociale, verso il quale il singolo era solo funzionale. Con l’avvento del Cristianesimo e la concezione di “sacralità della vita” quale dono di Dio, si giunge invece ad una grave condanna morale dell’eutanasia.

L’eutanasia utilitaristica-collettivista riemerge in forma estremizzata nei regimi totalitari del XX secolo: è tristemente noto che durante il regime nazista si eseguivano sperimentazioni eugenetiche sui prigionieri dei campi di concentramento finalizzati alla selezione razziale.

L’eutanasia pietistica individuale, sintomo di una sensibilità nuova verso il sofferente, compare solo in età moderna, in cui si afferma quella concezione laica dell’uomo come unico referente delle proprie scelte che porterà più tardi alla centralità della persona umana delle moderne Costituzioni. L’epoca contemporanea, contraddistinta da una forte spinta verso la relativizzazione dei valori, gli scenari aperti dallo straordinario progresso tecnologico e dalla biomedicina portano all’affermazione di sempre maggiori spazi di autodeterminazione individuale riguardo alla propria vita e al proprio corpo.

In relazione alla complessa casistica dell’eutanasia individuale, che è quella confinante con il testamento biologico, la dottrina ha elaborato una serie di categorie utili ai fini della trattazione giuridica. Presupposti fattuali sono: a) la condizione dell’infermo; b) lo stato di sofferenza insopportabile, che spesso è associata alla

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fase terminale di una malattia mortale; c) la motivazione della condotta cioè la pietà nei confronti della vittima.

La prima grande distinzione che si sottolinea spesso è tra: eutanasia volontaria e non volontaria in cui rileva la richiesta del soggetto o la sua mancanza (che rappresenta la forma più problematica a cui spesso si vorrebbero assimilare molti casi). All’interno di queste due grandi categorie si suole poi fare la distinzione fra:

1) eutanasia passiva (letting die) che consiste nell’omissione o nell’interruzione del trattamento terapeutico. La causa diretta della morte è dunque la malattia e non la condotta umana;

2) eutanasia attiva (mercy killing), consistente invece nel cagionare la morte del paziente con un comportamento attivo. Nell’eutanasia passiva l’omissione del soggetto che tiene tale comportamento si inserisce in un processo verso la morte già avviatosi a causa della malattia e quindi la morte è la conseguenza di una malattia di cui il soggetto (sia esso il medico o no), avendone l’obbligo ed i mezzi, non ha impedito l’evolversi naturale;

nell’eutanasia attiva invece la condotta del soggetto è il fattore causale unico o concorrente con altri, dell’evento mortale, e quindi la morte è conseguenza della sua azione.

All’interno della categoria dell’eutanasia attiva si suole fare un’ulteriore distinzione tra eutanasia diretta ed indiretta.

2a) eutanasia diretta l’intervento del soggetto (un medico o un terzo) è mirato a provocare o accelerare la morte; nella maggior parte dei casi ciò avviene somministrando sostanze tossiche o iniezioni letali.

(22)

2b) eutanasia indiretta invece avviene somministrando al paziente dei farmaci analgesici (quasi sempre oppiacei) con la consapevolezza di accelerarne la morte, essendo questo l’effetto collaterale di tali sostanze.

La linea di discrimine tra liceità ed illiceità dell’eutanasia indiretta è spesso giocata sul “principio del doppio effetto già elaborato

dalla dottrina cattolica10 per fornire un criterio di valutazione

morale delle azioni umane in cui la prevedibilità della conseguenza negativa poteva generare un dilemma etico.

Una dottrina minoritaria distingue poi all’interno dell’eutanasia indiretta fra l' “aiutare a morire” che si ha con la sedazione nella fase terminale fino al momento della morte e l' “aiuto nel morire” che consiste nelle cure palliative e terapia del dolore da considerarsi anzi doverose.

Altra dottrina distingue invece semplicemente l’eutanasia tra: eutanasia propria ed eutanasia impropria.

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10 Il “principio del doppio effetto” è attribuito a S. Tommaso che l’avrebbe formulato

per spiegare l’ammissibilità morale della legittima difesa. cfr. D.Price, Euthanasia, pain relief and double effect, 17 Legal Stud., 1997, p.325.

onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1748-121X.1997.tb00410.x/abstract

Tale principio afferma che se da un’azione umana sortiscono due conseguenze, una positiva e una negativa, quest’ultima è moralmente ammissibile se l’azione non è in sé immorale e sia stata iniziata con l’intenzione di provocare solo la conseguenza positiva, pur se quella negativa era prevedibile; l’effetto negativo non sia la causa diretta dell’azione e tra motivazione e gravità della conseguenza negativa vi sia proporzionalità.

(23)

Nell’eutanasia impropria ricadrebbero anche i casi di:

• eutanasia passiva sui malati terminali non in grado di pronunciarsi sul proseguimento o meno della terapia, che viene comunemente prospettata come “sospensione dell’accanimento terapeutico”

• eutanasia indiretta sempre sui malati terminali. L’eutanasia propria comprenderebbe invece soltanto l’eutanasia attiva su soggetto consenziente. Questa ipotesi secondo tale orientamento dottrinale è infatti quella in cui va considerata la posizione di debolezza anche psicologica del malato consenziente quindi l’eutanasia attiva su consenziente si configura come una violenza su soggetti deboli; così in alcuni ordinamenti essa, a certe condizioni, non è perseguita penalmente, quasi che causare la morte di un uomo per motivi di pietà renda la condotta socialmente “meno deplorevole” e le scelte individuali riguardo alla propria morte rientrino in un ambito di privacy. Secondo altra dottrina l’eutanasia è come una sorta di “suicidio razionale”11.

L’analisi comparatistica dei diversi ordinamenti della tradizione giuridica occidentale con riferimento alla fattispecie dell’eutanasia fa emergere il ruolo decisivo giocato dal consenso di chi la subisce e del movente pietistico di chi compie atti eutanasici.

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11 M.Mori, Su alcuni problemi concernenti l’eutanasia, Transizione, n.3, 1985, p. 86;

cfr. F. Giunta, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica, in Riv. It. dir. proc. pen., Milano, 1997; F. D'Agostino, cit. pp.98-108.

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Il consenso rinvia all’ampiezza dell’autodeterminazione terapeutica, cioè se essa possa configurarsi come diritto inviolabile dei pazienti, gravemente sofferenti per malattie dall’esito sicuramente infausto, a disporre della propria vita o meno. Posto che il bene della vita ha sicuramente sempre rilevanza costituzionale, il nodo da sciogliere per il legislatore, nell’opzione tra liceità o illiceità dell’eutanasia, è sempre nell’alternativa tra il tipo di tutela che l’ordinamento dà alla vita . L’analisi comparatistica in riferimento all’eutanasia - ma anche sul suicidio assistito che è tuttavia una fattispecie distinta - è utile al fine di stabilire se i vari ordinamenti presi in esame riconoscono un “diritto di morire” come diritto individuale assoluto di autodeterminazione.

I modelli teorici entro i quali spazia l’opzione politica possono tener conto sia del consenso che del movente pietistico come elementi congiunti e ritenerli:

1. comunque irrilevanti al fine di distinguere l’eutanasia come fattispecie autonoma rispetto ai reati verso la persona già previsti nell’ordinamento;

2. tali da giustificare un’attenuazione delle pene previste per i reati in cui manchi il movente pietistico.

Oppure considerare uno solo degli elementi che entrano in gioco nell’eutanasia come preponderante e ritenere che:

3. esso sia idoneo ad escludere l’antigiuridicità o la punibilità della condotta (in tal caso è il movente a fare la differenza); 4. esista un diritto individuale assoluto di autodeterminazione terapeutica ad ottenere l’eutanasia (prevale qui il consenso).

(25)

I primi tre modelli fanno rientrare comunque l’eutanasia nell’ambito delle condotte penalmente rilevanti mentre l’ultimo modello riconduce l’eutanasia nell’ambito dell’autonomia privata e del diritto civile, per cui è semmai il medico che non rispetta la volontà eutanasica del paziente a dover rispondere degli eventuali danni causati.

I modelli concreti adottati dagli ordinamenti della Western Law Tradition si collocano sempre fra i due modelli teorici intermedi che rappresentano soluzioni tendenti a mitigare o escludere la responsabilità penale di chi compie atti eutanasici, mentre i modelli teorici estremi configurano o una piena responsabilità penale di omicidio (seppure talvolta nella fattispecie con pene attenuate) o agli antipodi si riconosce un “diritto di morire” per eutanasia come pretesa assoluta, che finora non ha trovato riconoscimento in nessuno degli ordinamenti occidentali, neppure in quelli più permissivi in materia di autodeterminazione individuale terapeutica, che pongono pur sempre dei limiti.

Una definizione a parte va invece riservata al suicidio assistito da intendersi come aiuto medico portato a un soggetto che ha deciso di morire ricorrendo al suicidio.

Differisce dall'eutanasia per il fatto che l'atto finale di togliersi la vita, assumendo le sostanze necessarie in modo autonomo e volontario, è compiuto interamente dal soggetto stesso. Saranno tuttavia i medici e il personale della clinica, in cui spesso tale suicidio avviene, ad assistere la persona per tutti gli aspetti organizzativi quali ricovero, preparazione delle sostanze e gestione tecnico/legale post mortem.

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atto da non perseguire penalmente seppure di innegabile disvalore morale. In alcuni contesti sociali anzi esso era configurato come reato, atto di vile sottrazione ai propri doveri sociali e talvolta sanzionato con la confisca dei beni. Il diritto ha ritenuto da sempre che rientri nei suoi compiti predisporre i mezzi necessari per contrastare e dissuadere le persone dal suicidio, ma si discusse se tra tali mezzi dovesse rientrare anche la sanzione penale.

I giureconsulti romani, pur dichiarando lecito il suicidio, lo punivano quando esso risultava di pregiudizio ai cittadini (come nel caso di suicidio del servo), alla repubblica (nel suicidio del militare), al fisco (il suicidio del colpevole di un reato punito con la confisca dei beni).

Nei tempi moderni la disputa è continuata ma con prevalenza della tendenza a non incriminare il suicidio. Il suicidio non è punibile, non perché del bene della vita si possa liberamente disporre, ma per la riconosciuta inefficacia intimidativa della pena nell'animo di coloro che sono predisposti ad attentati contro la propria vita. Se è configurabile poi un'ipotesi delittuosa nell'azione sulla propria persona compiuta a danno altrui, è convinzione, quasi generalizzata, che non sia giuridicamente ammissibile l'incriminazione di un fatto compiuto esclusivamente sulla propria persona e a danno proprio.

Anche laddove si escluda la punibilità del suicidio, il legislatore tuttavia prevede in genere dei reati che col suicidio possono avere un qualche rapporto: l’istigazione o l’incoraggiamento al suicidio e l’omicidio di un soggetto consenziente.

Tutte le considerazioni fatte per l’eutanasia sui possibili modelli teorici possono ripetersi per quanto riguarda il suicidio

(27)

medicalmente assistito.

In tema di suicidio assistito infatti i modelli teorici sono:

 Previsione di una fattispecie autonoma incriminatrice dell’assistenza al suicidio, con una pena edittale ridotta rispetto al comune reato contro la persona;

 Depenalizzazione o irrilevanza penale dell’assistenza al suicidio;

 Previsione di un “diritto ad essere assistiti nel suicidio”. Una considerazione che va comunque fatta è che il ricorso al suicidio dopo una diagnosi di malattie ad esito infausto, sempre che il malato sia in condizioni di perpetrarlo autonomamente, è abbastanza frequente e inoltre nel suicidio “non assistito” non è infrequente che la morte non sia immediata o indolore, proprio a causa delle scarse conoscenze mediche.

L’analisi comparatistica tra ordinamenti della Western Legal Tradition porta a distinguere, anche per il suicidio assistito, tra: ordinamenti solo “tendenzialmente impositivi”, in quanto laddove l’aiuto o assistenza al suicidio è previsto tra i reati contro la persona si opta per il primo tra i modelli teorici in quanto il motivo pietistico fa la differenza; e ordinamenti solo “tendenzialmente permissivi”, in cui si adotta il secondo modello teorico.

Il terzo modello non è ancora stato adottato, dato che anche negli ordinamenti in cui è stato effettivamente depenalizzato non trova tutela un generale “diritto di morire” come diritto ad essere

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assistiti nel suicidio cui corrisponde un obbligo del medico all’assistenza12.

Il dibattito sulle questioni di fine-vita può essere affrontato sia dalla prospettiva della filosofia morale che da quella del diritto. La dottrina nell’affrontare tale tema pone spesso l’accento o solo sul significato “morale” di tale diritto o solo su quello “legale”. In realtà il riconoscimento di spazi di autodeterminazione individuale riguardo alle scelte nel momento finale della vita, trattandosi della morte di una persona umana in cui si deve tener conto della richiesta di una morte dignitosa, non può derivare né da una prospettiva esclusivamente morale né dalla prospettiva esclusivamente giuridica, ma nella prospettiva dei “nuovi diritti”.

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12La Corte Europea dei diritti dell’uomo in una recente sentenza del 2013, caso Gross

c. Svizzera ha avuto modo di asserire la situazione “anomala” della Svizzera rispetto al suicidio assistito. In realtà i giudici di Strasburgo fondano la decisione sulla sussistenza di un diritto della signora pluriottantenne, non malata terminale , ad ottenere dai medici la dose di farmaci letali richiesta sul mancato rispetto dell’art.8 della CEDU [Diritto al rispetto della vita privata e familiare], cioè riconducono il diritto di morire in un ambito di privacy. Secondo i giudici il corollario di tale diritto è “l’obbligo dello Stato di garantire l’effettivo rispetto della vita privata”. La Corte censura dunque la Svizzera per non aver definito”legislativamente” le linee guida sul suicidio assistito (e anche sull’eutanasia) perché seppure esistono linee guida dell’Accademia delle scienze mediche (SAMS) che chiariscono la situazione di“terminalità del malato“ in cui è possibile ottenere assistenza al suicidio dal medico, esse formalmente non sono che norme deontologiche interne, non legge dello Stato dato il carattere non governativo dell’Accademia, cfr. E.Vigato,Il suicidio assistito in Svizzera. La Corte europea dei diritti dell’uomo “invita” a prendere posizione anche sull’eutanasia delle persone sane, rivista Diritto pubblico comparato ed europeo, fasc.III, 2013,pp.960-962; infra: la legislazione sul fine-vita in Svizzera;

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Ė proprio sulla differenza tra “diritto di morire” come diritto fondante dell’eutanasia e del suicidio assistito e “diritto all’autodeterminazione terapeutica in pazienti divenuti incapaci” su cui si fonda invece il testamento biologico, che l’orientamento choice differenzia tra queste fattispecie. L’orientamento pro-life nega una differenza sostanziale tra permettere il rifiuto o l’interruzione dei “mezzi di sostentamento vitale” e legittimare l’eutanasia, sostenendo l’argomento del “pendio scivoloso” (slippery slope theory)13 verso la legittimazione di qualsiasi forma

di eutanasia.

Tanti sono i problemi teorici e applicativi che animano ancora un acceso dibattito sul testamento biologico nei Paesi in cui non ha trovato ancora riconoscimento giuridico.

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13 Si sostiene contra la“fallacia dello slippery slope”: il pendio scivoloso è un

ragionamento che si presenta ingannevolmente come un sillogismo ipotetico per modus tollens (cioè in cui la seconda premessa è una proposizione il cui valore di verità non è ricavato deduttivamente ma accolto sulla base di un'evidenza empirica) ma in realtà nessuna delle implicazioni logiche del ragionamento ha fondamento in quanto non lo ha la proposizione di partenza. Così "L'eutanasia è pericolosa. Si comincia col dare la morte a quelli che la chiedono. Poi a quelli che presumibilmente la chiederebbero. Poi a quelli che dovrebbero chiederla. Poi a quelli che la meritano."

(30)

1.4. Sviluppi delle tecniche biomediche e dibattito bioetico: dalla bioetica al biodiritto.

Le scoperte in campo medico-scientifico della seconda metà del secolo scorso hanno certamente reso possibile un miglioramento della qualità della vita e un considerevole incremento della sua durata, grazie alla possibilità di diagnosticare e trattare malattie fino a poco tempo prima ritenute incurabili e di rallentare il decorso di malattie degenerative.

Il sempre maggiore superamento del paradigma naturalistico ha tuttavia fatto sorgere la necessità di stabilire delle regole di condotta, non solo morali, etiche e religiose ma soprattutto giuridiche riguardo alle nuove possibilità di intervento sulla vita e sulla morte (trapianto di organi, procreazione assistita, tecniche di respirazione e alimentazione-idratazione artificiale , etc.).

Una medicina sempre più invasiva e ad elevato potenziale lesivo dei diritti umani fondamentali, cui si è affiancato un parallelo mutamento del clima culturale di fondo, sono da individuare tra le cause del nascere delle domande crescenti rivolte all’etica prima e poi anche al diritto.

L'esperienza infatti rende trasparente l’ambivalenza del progresso tecnico. A fronte del dilagare di una cultura nella quale l’enorme successo della tecnica alimenta la tentazione di un eccessivo tecnicismo e l’affermazione di una forma di prometeismo che ritiene eticamente legittimo tutto quanto è tecnicamente possibile,

(31)

si sviluppò la riflessione bioetica14 intorno alle pesanti ricadute

che ciò comporta sul piano umano. Il tema dell’ambivalenza del progresso scientifico, e dei possibili rischi di una ricerca scientifica lasciata a se stessa, non è nuovo, anzi era stato uno dei fili conduttori della filosofia del ‘900. Tale questione si evidenzia con maggior forza, assumendo i connotati di movimento di opinione, solo nel periodo in cui si suole porre la nascita della bioetica. I principali fattori che spiegano, non solo la nascita, ma anche la “tenuta” della bioetica e la sua specifica novità rispetto alla tradizionale etica medica15 sono stati i progressi della

biomedicina ma anche il mutamento di clima culturale, avviatosi negli Stati Uniti dalla metà degli anni ’60 ed estesosi a macchia d’olio soprattutto nei Paesi della Western Legal Tradition, che ha portato all’affermarsi di una nuova etica, che rifiuta “ogni assoluto” ed afferma il principio di “qualità della vita”. Dal dibattito bioetico nato in conseguenza ai nuovi scenari che apre la biomedicina emergono, oltre alle questioni di inizio-vita, le questioni di fine-vita di cui tratta il presente lavoro.

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°° 14 Il termine Bioetica compare per la prima volta nel saggio "Bioethics: Bridge to the

Future" del 1970 dell'americano Van Rensselaer Potter. La bioetica, nell'idea del suo

fondatore, dunque, rappresenta un tentativo di sanare la separazione tra scienza della natura (biologia) e scienza dello spirito (etica), per prospettare un avvenire vivibile per l'uomo e tracciare un "ponte verso il futuro". Nel 1978 però l’Encyclopedia of

Bioethics a cura di A. Hellegers e P. Ramsey definisce la bioetica come "quella parte

della filosofia morale che ha per oggetto e ambito l'intervento dell'uomo sull'uomo in campo biomedico”

15 Cfr. C.Casonato, Introduzione al biodiritto. La Bioetica nella prospettiva del diritto

costituzionale comparato,Università di Trento Quaderni del dipartimento, 2006.

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Le possibilità di dilatare il momento della morte naturale di pazienti che versano in condizione di indefettibile terminalità, ma soprattutto la possibilità di prolungamento oltre misura di una vita meramente biologica dipendente da macchine salva vita, che comporta una dequalificazione della vita personale “biografica” e una grave lesione della dignità umana, alimenta le paure dell’uomo post-moderno.

La necessità di dar voce alla volontà di tali pazienti ha suggerito l’idea del testamento biologico contenente volontà anticipate di trattamento, che restituisce all’individuo la scelta tra possibilità, oltre che di fare, anche di poter non fare o smettere di fare16. L’età

della tecnica è un’epoca storica caratterizzata infatti anche da un

novum radicale, una forte spinta verso la secolarizzazione:

movimenti di opinione sgretolano la società monoetica di un tempo, in cui esisteva una sola idea di bene per tutti i membri, proponendo una società di gruppi aggregati intorno a valori nuovi e diversi. Ė l’era di un progresso tecnologico senza precedenti in concomitanza con “la fine delle grandi narrazioni morali”17 e la

relativizzazione dei valori portanti della società. Questo è anche il contesto culturale in cui il diritto viene investito di un ruolo nuovo: non solo quello di riconoscere spazi di libertà sempre maggiori, eliminando divieti inadeguati a cogliere i mutamenti avvenuti nella società come nel mondo della scienza, ma anche di °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°° 16 Cfr. A.Nicolussi, Testamento biologico e problemi del fine vita. Verso un

bilanciamento di valori o un nuovo dogma della colontà? In Europa e diritto privato,

fasc. II, 2013, p. 458..

(33)

stabilire limiti all’agire tecnico, per evitare che esso possa incidere su altre libertà ed altri diritti.

Un biodiritto18 che si fondi su libertà e dignità personale è il modo

migliore per affrontare seriamente le nuove e difficili sfide che la scienza pone al diritto.

«Il biodiritto non deve essere una disciplina fra le tante. È una sorta di risposta spontanea a un problema di libertà che la scienza pone agli individui e ai legislatori»19.

La “giuridificazione” in un ambito che viene convenzionalmente qualificato come biodiritto, comportando il dover affrontare problemi che toccano le radici stesse del nostro essere, la vita e la morte, èinnegabilmente più problematica che in ogni altro luogo dell’agire politico.

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18 Sul compito strumentale del diritto alla bioetica: cfr.S.Rodotà: Trattato di biodiritto,

Il governo del corpo, tomo I, (a cura di S.Rodotà e P.Zatti);

contra: cfr. F. D’Agostino, Dalla bioetica al biodiritto (alla biopolitica), www.bologna.chiesacattolica.it/ivs/scuola-diocesana/pdf/2006; F. D’Agostino afferma che la bioetica risponde al codice bene/male, il biodiritto a quello del giusto/ingiusto, dunque operano su spazi distinti

(34)

Un campo del tutto nuovo, quello dei cc.dd. diritti bioetici, catalogati tra i diritti di quarta generazione20 si apre alla riflessione

giuridica.

Ai giorni nostri si parla di biodiritti nelle aree più diverse. In particolare, i diritti rivendicabili in rapporto ai progressi della biomedicina e delle biotecnologie sono individuati anche come diritti connessi alla sfera del biodiritto, cioè delle “dimensioni giuridiche relative alle c.d. scienze della vita (life scieces) e della cura della salute dell’essere umano”21.

Il biodiritto è appunto un ambito nuovo in cui al diritto non si chiede di disciplinare gli effetti scaturenti dal fatto-naturale rilevante (nascita, malattia, morte) ma di dettare norme che

regolino l’assetto e l’organizzazione del fatto - determinato artificialmente dalla scienza, capace d’incidere direttamente su destini, scelte, progetti di vita degli individui.

I diritti bioetici impongono infatti all’interprete di ripensare metodi d’indagine, criteri ermeneutici utilizzati e categorie giuridiche di riferimento in cui la relazione tra principi fondamentali e valori si pone in una luce del tutto nuova.

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20 Norberto Bobbio (L’età dei diritti, 1990, pp. 13 – 15). In tale opera egli per primo

evidenzia la catalogabilità dei diritti umani in generazioni successive, sostenendo l’origine storico- conflittuale di tutti i diritti umani. Tale teoria di Bobbio, in sintonia con quella di autorevoli filosofi, sociologi e giuristi occidentali del secondo dopoguerra si pone come antitetica alla concezione universalistica giusnaturalistica che vede un fondamento assoluto dei diritti umani. Secondo Bobbio è invece i diritti nascono in seguito al riconoscimento di quelle aspettative e richieste sociali compatibili con gli standard di razionalità delle culture occidentali moderne.

21 Tale definizione di biodiritto in C. Casonato, Introduzione al biodiritto, Torino

(35)

Le risposte sul piano del diritto sostanziale dipendono dalla scelta politica e bioetica (cioè da ciò che è oggetto della cd. biopolitica) tra personalismo, utilitarismo o autonomia22

Certamente la materia bioetica trova il diritto impreparato.

Già la difficoltà a definire e delimitare l’oggetto del biodiritto è problematica dato il continuo mutamento del paradigma biologico dovuto ad una scienza biomedica e agli sviluppi delle biotecnologie ad essa applicabili in continua evoluzione.

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22 Personalismo: afferma la centralità della persona come valore assoluto. Si

distinguono due correnti: una cattolica e l'altra laica. Nella riflessione bioetica, la prospettiva personalistica ritiene la persona in ogni momento del suo esistere e la dignità di ogni persona umana in ogni istante della vita, dal concepimento alla morte naturale sono valori fondamentali. Dal valore oggettivo di ogni persona umana, unità di corpo e spirito, unica e indisponibile deriva il principio della difesa della vita

biologica, in quanto intangibile e indisponibile.

Utilitarismo: teoria che fonda la morale sull'utilità, identificandole. Afferma che la vera utilità dell'individuo non può non accordarsi sempre con la utilità generale: pensare prima di tutto al proprio interesse è una condizione della natura umana: la moralità consiste nel riconoscere che il maggiore utile per il singolo coincide con

l'utile altrui.

Autonomia: l’autonomia privata è il potere dei privati di regolare liberamente i propri interessi e decidere della propria sfera giuridica, nel rispetto di limiti e obblighi stabiliti dall’ordinamento. In base al rapporto tra sogg. privato e ordinamento giur., l’a.privata viene definita o come “potere riconosciuto” ai privati ovvero come” libertà originaria”, fenomeno anzitutto sociale,preesistente a qualunque tipo di riconoscimento giuridico. Si distingue inoltre tra autonomia individuale e autonomia collettiva, a seconda se si voglia fare riferimento alla libertà del singolo ovvero ad un potere, attribuito a gruppi di singoli soggetti.

(36)

Ciò spesso riacutizza la diffidenza del diritto nei riguardi della medicina, considerata più come una minaccia che un’attività benefica, come dimostra l’evoluzione verso una medicina difensiva in cui acquisire il consenso del paziente venne ritenuto indispensabile a premunire il medico contro la minaccia sempre incombente di pesanti risarcimenti per danni, causati da interventi non espressamente concordati, che ha caratterizzato per lungo tempo la giurisprudenza.

Tale rapido mutamento del paradigma biologico nel campo delle scienze della vita che fa sorgere la riflessione bioetica è la premessa per una riflessione giuridica e poi eventualmente politica che si presentano perciò logicamente consequenziali. Quindi il diritto rispetto alla scienza medica si presenta in ritardo “fisiologico”. Ben diverso dal ritardo “patologico” del diritto e della politica in materia di biodiritto evidenziabile in alcuni ordinamenti e difficilmente riferibile alla novità delle questioni bioetiche, dato che esse ormai non presentano più un carattere di novità assoluta ed imprevedibile, ben potendo prevedersi quali potrebbero essere in tempi relativamente brevi gli sviluppi futuri della ricerca scientifica. Tale ritardo è spesso dovuto, specie negli ordinamenti di civil law, ad una iniziale riluttanza ad affrontare tali temi nell’errata convinzione che, dovendo il giudice limitarsi all’applicazione della legge, non potessero aversi sentenze che di fatto accogliessero richieste di atti al limite dell’eutanasia. A ciò va aggiunta una reciproca diffidenza tra scienza medica e diritto per cui la dottrina temeva quasi di perdere di “scientificità” e rigore nell’affrontare e risolvere i conflitti che si pongono nella medicina e le questioni “nuove” che chiamano fortemente in

(37)

causa anche la morale individuale.

La motivazione originaria del biodiritto, il suo luogo genetico, è però la tutela della "vita offesa" da una medicina sempre più invasiva: nel biodiritto la vita è bisognosa delle difese che vengono dalle regole. Questa considerazione è necessaria se non si vuole che il dibattito politico rischi di divenire sterile contrapposizione tra posizioni, tutte supportate da valide argomentazioni, di chi in una prospettiva pro-life, sostiene che la vita e i modi in cui si gestisce e si organizza socialmente attraverso il diritto prescindono dalle trasformazioni della scienza, della tecnica e della società, essendo stabilmente ed immutabilmente ancorati al valore supremo, pregiuridico ed indisponibile del bene della vita e chi, in una prospettiva

pro-choice, considera invece che queste trasformazioni non sono estranee alla vita, ma la modificano e la articolano in maniera così pervasiva da imporre come ragionevoli maggiori spazi all’autodeterminazione dell'individuo23.

Temi caldi del dibattito intorno ai biodiritti sono i valori a cui devono ispirarsi le scelte pubbliche e la condotta individuale, il rapporto fra lo Stato e le confessioni religiose, il pluralismo, il bilanciamento di interessi, il principio di non contraddizione, l’autodeterminazione.

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23 Cfr. C.Casonato, Introduzione al biodiritto. La Bioetica nella prospettiva del diritto

costituzionale comparato,Università di Trento Quaderni del dipartimento, 2006. http://eprints.biblio.unitn.it/1311/2/Carlo_Casonato_Introduzione_al_biodiritto.pdf;

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1.5. L'autodeterminazione

Il termine “autodeterminazione” ricorre spesso nel dibattito odierno su temi bioetici, ma viene anche utilizzato nel linguaggio comune come un concetto che in genere ha contenuto politico-rivendicativo, derivandolo dal concetto originario di autodeterminazione dei popoli, come diritto fondamentale che assume rilevanza giuridica soprattutto nel diritto internazionale. Oggi si parla di “diritto” o di “principio” di autodeterminazione individuale, contrapponendolo all’autodeterminazione in senso collettivistico.

Nel dibattito intorno alle questioni bioetiche di fine-vita, sorto a seguito di casi giuridici legati a vicende drammatiche prospettatesi negli ultimi anni che hanno avuto una larga eco nell’opinione pubblica, si fa riferimento ad un diritto all’autodeterminazione “terapeutica”. Non è solo in ambito bioetico o con riferimento alle questioni di inizio o della fine della vita che entra in gioco l’autodeterminazione.

Emerge piuttosto una domanda collettiva, diffusa e crescente, diretta al riconoscimento del diritto di autodeterminazione dell’individuo, divenuta la frontiera a cui le concezioni individualiste di stampo liberale tendono incessantemente, con la volontà di rendere il soggetto sempre più padrone della propria vita. In tale prospettiva l’individuo come persona diviene il centro propulsore degli interessi culturali e giuridici, il centro di ogni decisione.

L’autodeterminazione è andata consolidandosi negli ultimi anni quale concetto-chiave, attraverso cui interpretare le Costituzioni e aggiornare il catalogo dei diritti individuali.

(39)

Il concetto di autodeterminazione spesso ha condotto alla creazione di nuovi diritti, talvolta espressamente inseriti nelle Carte dei diritti24 ma più frequentemente elaborati dalle corti e dai

tribunali. L’inserimento di tali diritti nelle costituzioni si deve anzi principalmente all’intervento delle Corti costituzionali e supreme, che, chiamate a pronunciarsi su temi del dibattito biogiuridico, fondano le loro decisioni sull’autodeterminazione (anche quando il testo costituzionale non vi faccia espresso riferimento).

Questa evoluzione è stata da alcuni criticata come un uso/abuso da parte dei giudici, in quanto comporta che ogni distinzione tra desideri privati e diritti fondamentali tende a dissolversi. L’autodeterminazione gioca sempre più un ruolo decisivo nelle decisioni giudiziali su diritti o posizioni soggettive controverse: dalla interruzione di gravidanza alla procreazione assistita, dal consenso informato al testamento biologico e all’eutanasia, ma usata anche per asserire un coinvolgimento dei soggetti incapaci in provvedimenti che li riguardano.

L’autodeterminazione a cui si fa riferimento in tema di testamento biologico è l’autodeterminazione individuale riguardo alle cure. L’impatto che le nuove tecnologie biomediche hanno soprattutto nei confronti della tenuta di molti principi e diritti costituzionali impone, dinanzi alle crescenti istanze di nuovi diritti, un’attenta

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24Le carte dei diritti si sono oramai ingigantite fino a includere i diritti fino alla quarta

generazione e la giurisprudenza delle Corti, nazionali ed europee, arricchisce ancor più la lista. Non è infrequente leggere espressioni come “i diritti delle generazioni future”, “i diritti riproduttivi”, “il diritto a morire”, “il diritto ad avere un figlio” e la lista potrebbe continuare.

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Un secondo file contiene l’elenco dei prodotti venduti dal gestore e, per ciascuno, il numero di esemplari di cui ogni distributore che abbia in vendita tale