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Il divorzio e il referendum abrogativo del 1974

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE Laurea Magistrale in “Storia e civiltà”

Tesi di laurea

“Il 1974 e il divorzio: DC e PC allo scontro”

Candidata: Relatore:

Samantha Ferrari Prof. Alberto Mario Banti

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A tutti i libri che in questi anni mi hanno tenuto compagnia,

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3 SOMMARIO

Introduzione _________________________________________________________________ 5

Capitolo 1 L’Italia dal dopoguerra agli anni sessanta _________________________________ 8

1. L’Italia del dopoguerra: tra sviluppo economico e conservatorismo sociale _________ 8 2. La famiglia come vincolo indissolubile: la centralità della donna moglie-madre _____ 12 2.1. La famiglia nel Codice civile del 1942 __________________________________ 20 3. La virilità maschile è solo un retaggio del passato? ___________________________ 23 3.1. Mascolinità tra tradizione e sviluppo ___________________________________ 24 4. La fine degli anni sessanta e la svolta femminista ____________________________ 26

Capitolo 2 - Il 1970: la svolta ___________________________________________________ 28

1. Il diritto di famiglia in Europa e la cultura giuridica sul divorzio __________________ 28 1.1. Lo scioglimento del matrimonio _______________________________________ 29 2. La proposta Fortuna -Baslini diventa legge: 11 dicembre 1970 __________________ 32 3. L’Italia e gli altri paesi divorzisti: somiglianze e differenze ______________________ 39 4. Il post 1970: le conseguenze della legge sulla società: il divorzio come minaccia alla stabilità _________________________________________________________________ 44

Capitolo 3. Il referendum abrogativo sul divorzio ___________________________________ 50

1. L’introduzione del referendum nell’ordinamento italiano _______________________ 50 1.1. I padri della Repubblica e il referendum ________________________________ 51 2. La battaglia referendaria: lo scudocrociato e la sinistra ________________________ 54 2.1. 1974: lo scontro frontale per il referendum ______________________________ 56 3. La linea Fanfani e la Santa Sede _________________________________________ 61 4. La controffensiva comunista _____________________________________________ 65 5. L’uso della propaganda ________________________________________________ 74 6 12 maggio 1974 : la vittoria del NO: Riflessioni e conseguenze _________________ 85

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4 Conclusione ________________________________________________________________ 88

Appendice _________________________________________________________________ 91

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Introduzione

Il 2014 è un anno molto importante perché ricorrono anniversari di eventi destinati a cambiare il corso della storia del mondo ma anche dell’Italia. Cento anni fa scoppiava la prima guerra mondiale che ridefinì interamente il quadro politico-istituzionale europeo delineando nuovi rapporti di forza tra i vari paesi del vecchio continente. Quarant’anni fa, nel 1974 in Italia il dibattito sul divorzio e sul referendum abrogativo per eliminare la legge Fortuna-Baslini che lo istituiva, riempiva le pagine dei quotidiani nazionali catalizzando l’attenzione di tutto il paese.

L’obiettivo di questo lavoro è sia ricostruire le posizioni politiche dei due schieramenti in campo Dc e Pci, sia analizzare le strutture retoriche di famiglia, mascolinità e femminilità ovvero il ruolo della donna come moglie -madre, che emergono dalla vivace discussione che prelude al referendum.

I videogiornali dell’epoca realizzati dall’istituto Luce e da altri enti come la Settimana Incom, hanno fornito un quadro dettagliato e preciso sulla società del periodo. Inchieste pubbliche e interviste realizzate principalmente in aree urbane come Milano, Roma e Torino, dimostrano l’interesse degli italiani per la questione referendaria. Mettendo a confronto le testate nazionali di orientamento democristiano e comunista, appare evidente il diverso modo di servirsi della stampa. Se le testate di orientamento cattolico, “L’Osservatore Romano”, “Civiltà cattolica” scrissero poco sul referendum del 12 maggio preferendo rimanere un po’ nell’ombra fino a pochi momenti prima della consultazione, “L’Unità” pubblicò numerosi articoli e interventi degli esponenti del partito comunista in particolar modo del segretario Enrico Berlinguer. Analizzare il dibattito sul referendum confrontando le posizioni del fronte divorzista e di quello antidivorzista, è stato utile per avere un quadro più dettagliato della battaglia

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Nel primo capitolo, attraverso uno sguardo “sociologico” sulla realtà italiana, si ripercorrono brevemente i cambiamenti politici e socio-culturali che, dal secondo dopoguerra ai primi anni settanta, hanno attraversato il paese portandolo dopo la rivoluzione del ’68, a risentire l’ondata di modernità e protesta generale. L’Italia seppur in coda e gradualmente, stava cambiando. La ventata di cambiamento colpì soprattutto le donne che, con i crescenti movimenti femministi, maturavano una maggiore coscienza di sé iniziando a desiderare una vita diversa da quella domestica. Il divorzio, già presente in altri paesi europei, era un elemento centrale per l’emancipazione

Nel secondo capitolo, si analizza il 1970, anno della svolta. Il 1° dicembre di quell’anno infatti, dopo numerosi rinvii e polemiche, la legge sul divorzio proposta dagli onorevoli Fortuna e Baslini, diventa realtà. L’introduzione del divorzio è stato un duro colpo per la Chiesa che vedeva minacciata l’istituzione famiglia da sempre difesa con forza. La legge ha avuto non pochi effetti sulla società portando ad una progressiva presa di coscienza da parte dell’individuo, dei propri diritti e possibilità di scelta anche per la sospensione del vincolo matrimoniale non più indissolubile. La democrazia cristiana, sotto la spinta dello stesso Vaticano, si impegnò per la battaglia successiva: lo scontro referendario di quattro anni dopo.

Il terzo capitolo focalizza l’attenzione sul referendum abrogativo del 1974 che con la vittoria del fronte divorzista, ha permesso il mantenimento della legge Fortuna-Baslini. Attraverso articoli pubblicati sui quotidiani nazionali di entrambi gli schieramenti e servendosi soprattutto di filmati video, si ricostruiscono i dibatti precedenti al 12 maggio 1974 focalizzando l’attenzione sull’uso della propaganda visiva. L’uso della televisione come mezzo per rivolgersi agli elettori, è stata un’incredibile novità. Parlando di legge Fortuna–Baslini e di schieramento pro o contro divorzio, conoscere il testo di legge e i protagonisti del dibattito è necessario per capire meglio la questione esaminata. Il testo

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integrale della legge e i profili degli esponenti politici del periodo, sono proposti nell’appendice.

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Capitolo 1 L’Italia dal dopoguerra agli anni sessanta

1. L’Italia del dopoguerra: tra sviluppo economico e conservatorismo sociale

Nell’immediato secondo dopoguerra, con il nuovo assetto istituzionale repubblicano, in un clima di generale restaurazione e crescita diffuso in tutti i paesi ex combattenti, anche l’Italia conobbe il boom economico, un periodo di progresso, sviluppo economico e produttivo che portò alla diffusione di beni di consumo di massa prima soltanto immaginati. Conobbe soprattutto uno sviluppo sociale e culturale: lo sguardo al futuro prevedeva anche questo: una ridefinizione dei ruoli sociali, delle strutture e delle idee condivise. Nel vortice di cambiamento vi era anche la revisione della tanto decantata e raccontata virilità del maschio italiano che, dopo la fine della guerra, con la fine del mito militarista, l’esaltazione della forza e della supremazia tipica di ogni retorica nazionalista, faticava a trovare una propria posizione in quella nuova società.

Come osserva Sandro Bellassai.

La nuova società laica fondata sul consumo tendeva a screditare le grandi pompe retoriche, sebbene nelle dinamiche del consumo di massa la dimensione simbolica non fosse affatto irrilevante, gli apostoli del marketing tendevano a presentare quel mondo come un paradiso davvero terrestre, molto concreto e quasi agnostico. Proprio il nuovo scenario dei consumi, e più in generale la situazione complessiva di un accresciuto benessere, di tassi di occupazione molto alti, di nuove ampie opportunità di mobilità sociale, svolsero per più aspetti quella funzione di integrazione sociale di massa che era già stata propria del virilismo nazionalista, militarista, fascista, rendendone così in buona parte superflui i connotati illiberali e violenti, ma anche gli anacronismi retorici.1

1

Sandro Bellassai, L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Carocci, Roma, 2011, p.100

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Nella grande trasformazione prodotta dal boom economico, il vertiginoso aumento dei consumi privati ha avuto un ruolo cruciale nel ridefinire l’identità di genere ma soprattutto quella nazionale. Tra gli anni cinquanta e i sessanta, i beni di consumo “moderni” certificavano l’appartenenza ad un mondo civilizzato. Il boom oltre a produrre una ridefinizione dei consumi e della società, modificava la concezione e il modo di vivere la storia. La storia infatti, perse il proprio “carattere ciclico che aveva avuto nelle culture popolari del passato”, non era più vissuta nel suo fisso immobilismo e fatalismo ma iniziò ad essere percepita come un’occasione di rivalsa e riscoperta.

La diffusione del fenomeno migratorio interno e la progressiva urbanizzazione, fu per molte masse contadine, la grande novità sociale di quegli anni: uscire dalla miseria era finalmente realtà. L’avvento degli immigrati meridionali nelle mecche del benessere settentrionali, modificò non poco la tradizionale struttura di famiglia patriarcale che se prima era animata da sacrifici e difficoltà, ora faceva a gara per stare al pari con la moda, i costumi di massa e le innovazioni dei consumi.

Ad essere maggiormente “colpite“ furono le donne che grazie al contatto con una realtà più moderna e progredita, soprattutto dopo la diffusione della televisione, iniziarono a maturare una maggior coscienza di sé, delle proprie potenzialità e qualità, ma soprattutto rivendicarono il riconoscimento dei loro diritti, primo fra tutti quello di una maggiore parità con l’uomo.

Nonostante l’innalzamento del tenore di vita,una maggior apertura sociale, un vertiginoso boom industriale, come più volte è stato sostenuto da sociologi, la mentalità era difficile da cambiare: la donna doveva stare al proprio posto: accudire i figli e il marito, badare alla cura della casa servendosi dei nuovi ed efficienti elettrodomestici. Non c’è che dire, la donna era il principale target pubblicitario del boom. Le prime rèclame erano rivolte a lei: pubblicizzavano vestitini comodi e pratici, ideali per portare i figli al parco o a scuola e gli strani

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“marchingegni meccanici” per il lavoro di casa. L’idea di donna che veniva veicolata, era quella della perfetta casalinga e moglie-madre di famiglia, ma mai quella di donna in quanto tale nella sua individualità.

L’avvento di una gioventù bruciata, di giovani ragazze “bruciate” perché troppo interessate ad acquisire una posizione sociale autonoma ed indipendente, riportò alla ribalta la, fino a quel momento, un po’ addormentata esaltazione della virilità maschile, che venne ridefinita ed aggiornata. Pur mantenendo il proprio ruolo centrale nella vita della società e nella gestione della famiglia, l’uomo venne “ingentilito diventando un consumatore ideale di prodotti voluttuari2” come capi d’abbigliamento e prodotti cosmetici per la cura della persona (dopo barba, saponi e perché no acqua di colonia). I linguaggi mediatici, negli anni sessanta apparivano in gran numero orientati a ricostruire un’immagine “del maschile autorevole insistendo spesso su un’associazione tra virilità tradizionale e caratteristiche moderne della mascolinità”.

Una componente importante per definire la nuova virilità era il successo . “Chi non correva per il successo, o chi non vi arrivava , risultava praticamente un fesso, un antiquato, un moralista rompiscatole”.3 Se da un lato l’uomo

impegnato e in carriera era espressione di stabilità nella realtà familiare, dall’altro riproponeva un’idea di fisse gerarchie spesso aggressive e prevaricatrici: uomini delusi dai tempi trovavano nella scalata sociale un modo per affermarsi, pronti a sacrificare tutto e tutti , ma impauriti dalle nuove donne indipendenti e agguerrite nella rivendicazione dei propri diritti. Una nuova donna interessata a competere con l’uomo nella vita comunitaria, nel mondo del lavoro, era una minaccia alla mascolinità e virilità da poco ricostituita

Era necessario soffocare ogni sentimento emancipazionista ristabilendo i tradizionali ruoli di genere per non rompere i precari equilibri tra uomo e donna.

2

Ibid., p.116

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Gli effetti del boom economico furono indelebili: il PIL crebbe enormemente, le famiglie italiane al pari di quelle europee si muovevano sull’onda del progresso e dello sviluppo,di una maggior civiltà ; la cultura sociale rimase pressoché intatta. Si dovranno aspettare gli ultimi attimi degli anni sessanta con la diffusione dei movimenti femministi prima in Europa e nel nostro paese poi, per sentire la voce delle donne che rivendicavano propri diritti , un posto nella veloce società dei consumi che tanto aveva trasformato l’Italia.

E per quanto riguarda la virilità del maschio italiano? Al culmine del favoloso boom, il virile uomo italiano tratteggiato dalla propaganda, aveva perso la sua essenza, la sua fama e il suo mistero.

Il “mitico gallo italiano era diventato prima un misero pollo , poi un cappone dall’infelice destino riproduttivo e infine, ancor più miseramente, quasi una gallina.”4

Il fantasma della femminilizzazione aleggiava ancora.

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2. La famiglia come vincolo indissolubile: la centralità della donna moglie-madre

La centralità della famiglia nella vita degli individui e più in generale nello sviluppo sociale, è stata riconosciuta da numerosi studi sociologici e storici, come la chiave di volta per comprendere la storia, la crescita, il progresso e la politica del nostro paese5. Peter Nichols, corrispondente da Roma del “Times”, nel 1973 descrisse la famiglia italiana come “il più celebre capolavoro della società italiana attraverso i secoli, il baluardo, l’unità naturale, il dispensatore di tutto ciò che lo Stato nega, il gruppo semisacro, il vendicatore, il remuneratore”.6 Paul Ginsborg, riportando i risultati di un’inchiesta condotta dall’

”Economist” nel maggio 1990, ha messo in luce come la famiglia italiana all’estero venisse riconosciuta un “importante valore universale7” anche dal

punto di vista economico:

nucleo duraturo della società italiana. Essa spiega la mancanza di spirito pubblico, se non del concetto stesso di bene pubblico […] Spiega la mafia, la famiglia più grande di ogni altra. Dagli Agnelli in giù, gli italiani amano mantenere il controllo dei propri affari all’interno della famiglia8

L’immagine proposta dall’ ”Economist” è un po’ troppo polemica ed incisiva. Janet Finch, nota studiosa di sociologia della famiglia, nel 1989, commentando i risultati di un’ indagine condotta sulle strutture sociali di sette paesi, concludeva che :

fra tutti i Paesi studiati, l’Italia si distingue per un modello particolarissimo di relazioni sociali. Per gli italiani, i rapporti con i parenti e amici sono parte integrante della vita quotidiana. Più

5

Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica, 1° vol, Einaudi, Torino, 1989, p.132

6

Peter Nichols, Italia, Italia, Londra, 1973, p.227 cit in Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a

oggi. Società e politica, 1° vol, Einaudi, Torino, 1989, p.132

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che altrove tendono a far visita o telefonare quotidianamente ai parenti e avere rapporti con un “migliore amico” Particolarmente importanti sono i rapporti tra genitori figli.9

La maggior parte delle inchieste e ricerche condotte prendevano in esame una particolare tipologia di famiglia: quella tradizionale patriarcale, che nonostante fosse riconducibile alla fine dell’Ottocento e ai primi attimi del ‘900, aveva radici così profonde da continuare ad influenzare la società italiana contemporanea. A partire dall’immediato secondo dopoguerra, i costumi cambiarono leggermente con la diffusione delle famiglie nucleari composte dai coniugi e da uno o due figli. In Italia, come nella maggior parte dei paesi europei, si è assistito ad una drastica riduzione del numero dei figli rispetto al passato. A favorire questa trasformazione, ha svolto un ruolo cruciale la dirompente modernizzazione del paese che ha contribuito a modificare le strutture socio-culturali ridefinendo i confini tra pubblico e privato, tra famiglia e società esaltando sempre più la dimensione privatistica, intima dell’esistenza. Nonostante la famiglia stesse cambiando le sue strutture e dinamiche, rimaneva il nucleo centrale della società a cui tutto era rivolto.

Chiara Saraceno, a questo proposito, parlando di “vita privata” ha scritto:

Se da un lato, la costruzione di una casa e l’arrivo degli elettrodomestici favorisce una maggior privatezza delle attività familiari, che non devono più avvenire in pubblico a motivo della mancanza di spazi e di strumenti, ed anche una maggiore individuazione degli spazi di ciascuno entro la famiglia, dall’altro la frequenza scolastica divenuta normale nell’ultima generazione espone la famiglia e ciascun membro a modelli di comportamento, a norme ed anche tipi di giudizio solo parzialmente analoghi al tradizionale controllo della comunità10

Il simbolo per eccellenza della vita privata familiare nel Novecento, era la casa con la sua organizzazione interna, i ruoli dei suoi abitanti e i loro diritti. La struttura delle abitazioni domestiche, non sempre agevoli e spaziose dove spesso bisognava condividere con altre famiglie i servizi igienici esterni, portava

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Chiara Saraceno “La famiglia: i paradossi della costruzione del privato, in Marzio Barbagli e David Kertzer ( a cura di), Storia della famiglia in Europa. Il Novecento, Laterza, Roma - Bari, 2005, p.34

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ad un innalzamento della promiscuità con i propri vicini che divenivano testimoni delle vicende più intime e private di una famiglia e di un individuo: ogni litigio familiare diveniva immediatamente di pubblico dominio. La ristrettezza degli spazi provocava una certa promiscuità all’interno della famiglia: le camere da letto erano condivise e lo stesso la sala da bagno: lavarsi e vestirsi veniva fatto negli spazi comuni.

In un generale processo di rafforzamento e legittimità della vita della famiglia, dell’affettività, si è delineata quella che Saraceno ha definito “religione domestica”, un insieme di regole, norme e valori condivisi che hanno ridefinito i rapporti familiari: quelli di coppia e di generazione.

Analizzando lo sviluppo della vita familiare nel corso del Novecento, emerge la tendenza ad una sempre maggior autonomia nella vita di coppia dei coniugi che divengono sempre più reciproci confidenti con cui “in teoria si condivide tutto, da cui ci si può aspettare sostegno e comprensione”11

. La democratizzazione nei rapporti familiari, è avvenuta in tempi e con modalità differenti in base al ceto sociale: in una famiglia in cui la donna viveva soltanto all’interno delle mura domestiche senza svolgere attività lavorative esterne, spesso prevaleva un modello gerarchico dove le identità di genere erano sempre più marcate: alla donna spettava la cura dei figli e del marito, senza badare alla gestione economica e finanziaria della famiglia che dipendeva dall’uomo. Nelle famiglie in cui la donna era più indipendente perché impegnata in un ambiente lavorativo diverso da quello casalingo, la disparità tra i coniugi era meno marcata: la gerarchia era meno sentita e a prevalere era il modello dell’intimità e della condivisione.12

Come ha fatto notare Chiara Saraceno, ciò che spiega queste trasformazioni, è l’importanza attribuita all’amore e all’innamoramento nel matrimonio:

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Ibid., p.62

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se ancora all’inizio del secolo (primi anni del ‘900) il matrimonio era un affare di famiglia, nel senso che un matrimonio ben fatto doveva innanzitutto passare dal consenso dei genitori; ed anche quando erano i singoli a decidere erano molto diffuse motivazioni di ordine pratico (“era un bravo lavoratore/lavoratrice”), o morale (“era una brava persona, una persona seria”), man mano che si procede nel secolo motivazioni di tipo affettivo e di attrazione fisica erano sempre più frequenti e soprattutto legittime.13

Se l’idea dell’innamoramento come precondizione essenziale alla creazione di ogni unione familiare era ormai diffusa e comunemente condivisa, il trattamento della sessualità era ancora tabù. La democratizzazione e la ridefinizione delle identità di genere era ancora lontana. Il modello della “donna per bene”prevedeva che ella si sottomettesse totalmente all’uomo il quale doveva istruirla. La centralità del maschio nei rapporti familiari e intimi era indiscussa; la donna era moglie e madre e poi, soltanto dopo, donna individuo.

La sessualità, ambito del privato e dell’intimità, per tutto il Novecento, soprattutto dopo le numerose iniziative dei movimenti femministi, è stata oggetto di dibattiti ed interventi volti a sensibilizzare l’opinione pubblica: il target erano le donne: era la loro sessualità ad essere regolamentata. Chiara Saraceno a questo proposito ha scritto:

Mentre vengono costruite come soggetti privati per eccellenza, e custodi del privato stesso, come madri e mogli, le donne sono oggetto del più sistematico discorso e regolamentazione pubblica mai avvenuto prima: attraverso una serie di divieti, restrizioni “protezioni”( nel campo del lavoro innanzitutto ma anche in quello della politica e dell’agire economico), ma anche una serie di prescrizioni di compiti e comportamenti relativamente a che cosa è una “buona moglie” una “buona madre”una “buona donna di casa”. Si può parlare a questo proposito di una vera pedagogia della famiglia.14

La centralità della sessualità e poi in seguito dell’amore e dell’affettività nella vita di coppia, ha un’importanza fondamentale. La mancanza di un’intesa fisica e dell’innamoramento tra i coniugi, non legittima l’unione matrimoniale che

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perdendo i suoi pilastri, non ha più ragion d’essere, dunque deve essere interrotta. Le trasformazioni culturali e comportamentali che hanno caratterizzato tutti gli anni sessanta e la prima metà dei settanta, hanno dato il via ad una maggior sensibilizzazione dell’opinione pubblica ma soprattutto a proposte legislative. L’obiettivo era riformulare i rapporti di famiglia tra i coniugi e tra genitori e figli abbandonando l’austerità e le strutture gerarchiche del passato, in nome di una maggiore uguaglianza, cooperazione e condivisione15 L’istituzione famiglia e ancor più il matrimonio come vincolo indissolubile dal Concordato del 1929, al Codice Rocco del 1942 fino a giungere al nuovo diritto di famiglia del 1975, sono stati oggetto di un’intensa regolamentazione legislativa che ne ha modificato le strutture, le dinamiche e regole. Giunti a questo punto, prima di arrivare alle trasformazioni legislative degli anni ’70, mi pare opportuno qualche accenno al matrimonio “concordatario” tanto combattuto nel 1974 durante la campagna sul divorzio, di cui di seguito riporto il testo integrale, e al Codice civile del 1942:

Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto del matrimonio, che è base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili.

Le pubblicazioni del matrimonio come sopra saranno effettuate, oltre che nella chiesa parrocchiale, anche nella casa comunale.

Subito dopo la celebrazione il parroco spiegherà ai coniugi gli effetti civili del matrimonio, dando lettura degli articoli del codice civile riguardanti i diritti ed i doveri dei coniugi, e redigerà l’atto di matrimonio, del quale entro cinque giorni trasmetterà copia integrale al Comune, affinché venga trascritto nei registri dello stato civile.

Le cause concernenti la nullità del matrimonio e la dispensa dal matrimonio rato e non consumato sono riservate alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici.

I provvedimenti e le sentenze relative, quando siano divenute definitive, saranno portate al Supremo Tribunale della Segnatura, il quale controllerà se siano state rispettate le norme del

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diritto canonico relative alla competenza del giudice, alla citazione ed alla legittima rappresentanza o contumacia delle parti.

I detti provvedimenti e sentenze definitive coi relativi decreti del Supremo Tribunale della Segnatura saranno trasmessi alla Corte di Appello dello Stato competente per territorio, la quale, con ordinanze emesse in Camera di Consiglio, li renderà esecutivi agli effetti civili ed ordinerà che siano annotati nei registri dello stato civile a margine dell’atto di matrimonio. Quanto alle cause di separazione personale, la Santa Sede consente che siano giudicate dall’autorità giudiziaria civile.16

Il Codice Civile approvato in piena età fascista, nell’ottica di Mussolini era indispensabile per rinsaldare i rapporti tra lo Stato (laico) italiano e la Santa Sede ponendo definitivamente fine alla “questione romana” iniziata dopo la proclamazione di Roma capitale del Regno nel 1870. I Patti Lateranensi prima e il Codice Civile poi, attribuivano sempre maggior potere alla Chiesa in materia di matrimonio: l’aspetto temporale e quello spirituale erano un tutt’uno. Con il crollo del fascismo e l’introduzione di una nuova Costituzione Repubblicana, la questione della legislazione della famiglia era ancora aperta. Il matrimonio doveva ancora essere concordatario? Il problema del Concordato e della disciplina dei casi di matrimonio, tornarono alla ribalta alla fine degli anni sessanta con la proposta di legge per lo scioglimento dell’unione matrimoniale e poi l’introduzione dell’istituto del divorzio nel 1970. Nel dibattito successivo all’ approvazione della legge Fortuna Baslini, alla diffusione di “sentimenti divorzisti” nel paese, in vista del referendum abrogativo, il mondo cattolico si preparava alla battaglia usando come arma di difesa la tutela della famiglia italiana che rischiava di essere spezzata dal divorzio. Le riviste di orientamento cattolico e ancor più i quotidiani di partito, presero parte al dibattito impegnandosi in una campagna moralizzatrice a vasto raggio.

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Il testo integrale dell’art.34 è tratto dal sito internet www.vatica.va/roman-curia/segreteria distato. Le sottolineature sono state introdotte da me per mettere in evidenza i punti salienti della normativa che saranno il centro del dibattito durante la campagna referendaria.

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La “Civiltà Cattolica”, una tra le riviste cattoliche più antiche e radicate nel panorama culturale italiano, a più riprese dal 1970 prese parola esprimendo il pensiero della Santa Sede, sull’indissolubilità del matrimonio e sull’importanza di una riformulazione del diritto di famiglia. Nel numero del 13 giugno 1971, Salvatore Lener17, strenuo difensore dell’unità della famiglia, rifletteva sulla controversia in parlamento riguardo al matrimonio concordatario: in aula infatti si discuteva se il matrimonio celebrato in chiesa dovesse ancora avere effetti civili rendendo necessario il ricorso al tribunale della Sacra Rota per ottenere l’annullamento, o se cancellare definitivamente l’idea dell’indissolubilità rendendo più facile l’interruzione delle unioni. La questione era complessa. Lener scriveva:

Poiché le radici della presente controversia affondano nella storia dei secolari conflitti tra Stato e Chiesa anche in riguardo all’istituto matrimoniale, giova richiamare qui i risultati di precedenti nostri scritti. Prima e fondamentale verità da tener presente è che la società coniugale costituisce un’istituzione originaria, non creata dal diritto positivo né degli stati , né delle religioni. Nei diversi contesti storici tale istituzione ha ricevuto ulteriori determinazioni dalle consuetudine gentilizie, dal costume sociale, dalle leggi delle comunità politiche e religiose. Là dove queste ulteriori determinazioni o strutture esterne risultano scandite in organici complessi di norme giuridico - positive, si parla di istituto matrimoniale […] Sul terreno storico-politico, mentre l’ottocentesco Stato di diritto si va trasformando nello Stato contemporaneo radicalmente democratico e sociale, la perdita dello Stato pontificio, lungi dal far diminuire, porta a far riconoscere e precisare sempre più la sovranità della Chiesa nel proprio ordine; in quell’ordine in cui, fra l’altro il matrimonio fra battezzati è sacramento e come tale autonomamente regolato dal diritto canonico. Il suffragio universale conferisce poi, ai cittadini la forza di far valere legittimamente, nell’ordine dello stato, la propria libertà di religione anche per quanto riguarda l’istituzione matrimoniale. Se gli stati non rinunciano al matrimonio civile per

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Salvatore Lener è stato un gesuita e giurista italiano per diverso tempo docente di diritto internazionale a Roma all’Ateneo Pontificio Lateranense. Prese parola su La civiltà cattolica focalizzandosi prima sui rapporti tra Stato e Chiesa, sull’importanza dei Patti Lateranensi, e poi, negli anni settanta, si è esposto in difesa della famiglia come unità indissolubile di sentimenti e valori che dovevano essere tutelati e difesi.

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tutti i cittadini devono pur fare i conti con quello canonico come unico valido per i cittadini cattolici, e fare concessioni o venire a patti con la Chiesa.18

Dopo un excursus, qui riportato in parte, sulle radici del dibattito, Salvatore Lener ben chiariva che con il Concordato, lo Stato fascista riconosceva il sacramento cristiano del matrimonio come istituto base della famiglia: il parallelismo tra l’istituto matrimonio e i precetti canonici in questo caso è evidente.

Nel linguaggio concordatario aggiunse Lener:

matrimonio vale come atto e non pure come vincolo, o effetto tipico e inseparabile dell’atto medesimo. Con atto di matrimonio si intende il documento dell’avvenuta celebrazione […] Nel sistema concordatario, purché il matrimonio convalidato fosse ancora da trascrivere o già regolarmente trascritto, si sarebbe anche potuto prescindere da ulteriori formalità intese a certificare pur nell’ordine dello Stato l’avvenuta convalidazione.19

Salvatore Lener, alla fine del suo intervento mise ben in chiaro che la Chiesa conservava dai tempi del Concordato, la propria competenza e libertà di scelta,sulle cause di separazione dei coniugi: i fedeli infatti potevano rivolgersi per lo scioglimento della propria unione ai tribunali ecclesiastici senza ricorrere a quelli civili. Le due istituzioni erano separate ma andavano di pari passo nella gestione dei rapporti familiari e matrimoniali degli italiani.

Dopo aver ribadito l’importanza dell’indissolubilità del vincolo, Lener sostenne la necessità di una riforma del diritto di famiglia e di un tribunale apposito che la legiferasse. Nel marzo 1970 in La riforma del diritto di famiglia affermava:

La riforma del diritto di famiglia risponde ad una duplice esigenza: l’una di carattere storico, costituta dalle profonde e generali trasformazioni delle realtà sociali in genere e di quelle connesse alle strutture della società domestica; l’altra di carattere costituzionale, in quanto i

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Salvatore Lener, Il matrimonio nell’articolo 34 del Concordato, 13 giugno 1970 “La Civiltà cattolica”, pp.335-337

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principi fondamentali di tale diritto non sono stati elevati in Italia a tale rango, ma pur determinati in modo adeguato al tempo presente e, si direbbe, alle proprie aspettative future.20

Lener sosteneva che un buon diritto di famiglia moderno ed aggiornato attento alle esigenze dei vari membri, poteva essere una valida alternativa al divorzio. Se si fosse mantenuto il principio dell’indissolubilità del vincolo, si poteva accettare un’estensione dei casi di nullità del matrimonio e il riconoscimento di eventuali figli illegittimi. L’introduzione del divorzio cambiava tutto:

ma una volta introdotto il divorzio, il nuovo contesto normativo è caratterizzato dalla presenza di tale istituto, tali riforme prendono tutt’altra portata, una portata ambigua se non decisamente pericolosa. Poiché se ne escludi i pochi ma rumorosi fanatici del divorzio, anche i divorzisti più seri e responsabili riconoscono che il divorzio è un disvalore, è un male minore che in certe condizioni della società bisogna accettare, è chiaro che ogni riforma andava considerata in funzione di freno alle cause del divorzio e di contenimento delle conseguenze che tale breccia ha aperto nel principio dell’unità e stabilità della famiglia. 21

2.1 La famiglia nel Codice civile del 1942

Le innovazioni del Codice civile22, non erano numerose. La struttura autoritaria della famiglia di cui il marito era il capo veniva ripresa cancellando però la tanto dibattuta autorizzazione maritale che imponeva alle donne la volontà paterna quasi sempre in contrasto con la propria23. La disciplina penale della sottrazione agli obblighi di assistenza familiare veniva potenziata: Il marito infatti, se la moglie abbandonava il tetto coniugale e rifiutava di tornare, era legittimato a non offrirle alcuna assistenza economica e a richiedere il controllo su beni della

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Salvatore Lener, La civiltà cattolica, La riforma del diritto di famiglia, marzo 1970, p.527

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Ibid, pp.530-531

22

Il Codice civile fascista, approvato con R.D. del 16 marzo 1942, è il codice civile tutt’ora vigente. Il modello di riferimento usato a cui si è fatto ricorso è il Bürgerliches Gesetzbuchdel del 1900 che ha avuto un’importanza cruciale nello sviluppo della scienza giuridica italiana Il codice civile del 1942, a differenza di quelli coevi europei, conteneva sia la disciplina del diritto civile che quella del diritto commerciale, che nei codici precedenti erano in distinti.

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Piero Melograni (a cura di), La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, Laterza, Roma - Bari, 1988, p.664

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moglie: l’obiettivo era fornire al marito”uno strumento legale di coercizione indiretta accordato[al marito]24 per la reintegrazione del rapporto coniugale”25. Tener legata la donna alla casa familiare era necessario per portare avanti il suo ruolo di madre e moglie quindi di indiscussa regina del focolare domestico. Per quanto riguardava i figli erano riconosciuti soltanto quelli nati dall’unione matrimoniale. I figli adulterini erano riconosciuti se un coniuge all’atto del concepimento non era ancora sposato, se l’atro coniuge era deceduto e se non vi erano figli legittimi. In presenza di figli naturali,gli adulterini potevano essere riconosciuti soltanto con il consenso dei figli naturali e dopo l’accettazione del Consiglio di Stato.

Il Codice Civile del 1942 in realtà era già vecchio non introduceva infatti, alcuna innovazione precisa. I principi autoritari e di gerarchia venivano ripresi e innalzati dalla propaganda di regime. La centralità dell’uomo era ancora all’ordine del giorno. L’organizzazione “verticistica della famiglia” si fondava su un’idea conservatrice e un po’ bigotta che cancellava l’individualità dei coniugi, soprattutto della moglie, come persona. La sposa doveva essere illibata; l’aver nascosto la perdita della verginità poteva essere usata dal marito come pretesto per richiedere la separazione.

Con il crollo del fascismo, l’avvio della Repubblica e l’introduzione della Costituzione repubblicana, la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29 comma 1) viene riformata. Il compito dello Stato è difenderla riconoscendo e tutelando i diritti (in quanto individui) dei suoi componenti. L’istituzione famiglia deve fondarsi sull’uguaglianza in particolar modo tra i coniugi che devono avere gli stessi diritti e doveri verso l’altro coniuge e i figli. Nonostante i numerosi miglioramenti giuridici e istituzionali che tutelavano la famiglia nella sua globalità come istituzione, non si faceva

24

L’annotazione tra le parentesi quadre è stata introdotta da me per rendere più comprensibile la spiegazione.

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Ivi. Con reintegrazione del rapporto coniugale si intende la restaurazione dell’unione prima interrotta con l’abbandono della casa da parte della moglie.

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minimamente menzione alla possibilità di sciogliere definitivamente il vincolo matrimoniale. L’Italia non era ancora “pronta” per diventare divorzista. La legge sul divorzio si otterrà il 1° dicembre 1970 con non poche difficoltà e reticenze.

I numerosi tentativi delle varie parti politiche per “barattare” la legge sul divorzio con la riformulazione del diritto di famiglia, fu inutile. Il divorzio non venne abrogato e per una legislazione nuova sull’istituto famiglia, si dovrà attendere il 1975 quando verrà ridefinito il suo regime patrimoniale , e verrà estesa la patria potestà sui figli, anche alla madre.

La centralità della famiglia nei provvedimenti legislativi e nel tessuto sociale è indiscussa; i dibattiti, le proposte per modificarla e cercare di migliorarla continuano ancor’oggi.

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3. La virilità maschile è solo un retaggio del passato?

Come è già stato sottolineato, il periodo tra gli anni cinquanta e i settanta, è stato per tutte le società occidentali ricco di straordinari mutamenti in tutti gli ambiti della vita pubblica e privata. La crescita economica e lo sviluppo, ridefinirono la sfera privata dove i modelli tradizionali venivano abbandonati e screditati. I movimenti femministi, sorti negli Stati Uniti e poi in Europa, misero in discussione l’assetto tradizionale delle relazioni e delle identità di genere. La dirompente modernizzazione assestò un duro colpo alla mascolinità tradizionale che si vedeva nuovamente minacciata come decenni prima, con il crollo del mito autoritario. I tradizionalisti, ancorati alle proprie idee, dovettero assistere alla progressiva “femminilizzazione della società” ovvero all’ascesa delle donne nel mondo del lavoro dove ricoprirono posizioni professionali fino a pochi decenni prima soltanto immaginate.

Il tramonto della virilità e della centralità dell’uomo stava forse sopraggiungendo? A differenza del periodo precedente, le possibilità di ristabilire il mito della mascolinità erano piuttosto ridotte. Le nuove generazioni di donne erano poco disponibili ad accettare la totale subalternità a cui dovevano sottostare. Sandro Bellassai sostiene che accanto alla centralità femminile nella società e nella vita pubblica, vi era un altro aspetto molto importante:

un aspetto rigidamente patriarcale delle identità e delle relazioni di genere era fondamentalmente inconciliabile con un’espansione illimitata dei beni di consumo. E questa come sappiamo era destinata a diventare la nuova frontiera del potere (maschile, naturalmente) nelle società industriali avanzate della seconda metà del Novecento.26

La ridefinizione dell’identità maschile andava di pari passo con la diffusione di beni di consumo e di nuovi stili di vita che incisero non poco sui due capisaldi

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tradizionali : “l’incondizionata subordinazione delle donne, il mantenimento della stabilità della tradizione”.27 L’uomo nuovo prospettato dalla modernità doveva

essere tollerante, saper stare al mondo e guardare al futuro mantenendo sempre il proprio controllo e supremazia. Nella metà degli anni settanta, la “riforma della mascolinità” venne messa in discussione dalla critica sempre più marcata dell’ordine patriarcale. La supremazia dell’uomo era vista dai movimenti femministi, puro retaggio del passato da abbandonare . L’ipotesi virilista, “essenza stessa della mascolinità novecentesca, ricevette l’ultimo decisivo colpo mortale”28

3.1 Mascolinità tra tradizione e sviluppo

Nel corso degli anni sessanta, mano a mano che si delineava una cultura industriale e la secolarizzazione della società in cui tutto veniva ridefinito, gli uomini ma soprattutto il mondo femminile, accoglieva positivamente la definizione delle nuove identità di genere. Le donne ad esempio, iniziarono a desiderare di affermarsi come individui grazie al declino del modello patriarcale e della dura moralità che questo modello imponeva. La donna diveniva consumatrice dimostrando sempre più interesse per il bello e per la cura della propria persona. La cura di sé, non doveva essere malvista perché disdicevole ma anzi veniva riconosciuta come “parte delle naturali esigenze dell’individuo in una società finalmente civile”29

.

Nel corso degli anni cinquanta e sessanta, sempre un maggior numero di uomini si dimostrò favorevole a prendere le distanze da un modello conservatore delle relazioni di genere aprendosi alla modernità. Che cosa era scattato nel genere maschile per portarlo ad abbracciare il cambiamento? Da tempo immemorabile gli uomini avevano guardato con non poca diffidenza ai

27 Ivi 28 Ivi 29 Ibid, p.108

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cambiamenti per paura di perdere la propria centralità: l’equilibrio patriarcale era l’essenza stessa della virilità.

La grande trasformazione del boom dimostrò invece che il distanziamento dalla tradizione, non significava obbligatoriamente perdere la propria supremazia, né tanto meno femminilizzarsi. Gli uomini iniziarono gradatamente a comprendere e a convincersi che la modernizzazione della società e dei suoi individui, non erano una minaccia alla mascolinità come spesso si era temuto. Essere al passo con i tempi era necessario per integrarsi in una società che condannava gli atteggiamenti rigidamente patriarcali perché refrattari e rallentanti il progresso. Nonostante si fosse più moderni, più all’avanguardia e il virilismo classico fosse solo un ricordo, i rapporti gerarchici di potere rimasero inalterati: i piani più alti della sfera pubblica, del potere erano (e spesso ancor’oggi lo sono) appannaggio maschile.30

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4 La fine degli anni sessanta e la svolta femminista

Come in molti paesi occidentali (Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna), il neofemminismo si diffuse nella seconda metà degli anni sessanta come movimento collettivo destinato a lasciare il segno. Come scrisse Mariella Gramaglia” il femminismo in Italia venne dopo il 1968 ma andò oltre”31

. I movimenti delle donne inizialmente si proposero come gruppi di riflessione critica sull’autoritarismo e sulla natura patriarcale della società, per poi imporsi sulla scena politica degli anni settanta lottando per ottenere l’integrazione della donna nelle istituzioni, nella politica ed in genere nei centri di potere. Le femministe degli anni settanta denunciavano la logica maschile che governava l’intero sistema di rapporti pubblici e privati in una società creata a “immagine e somiglianza dell’uomo”32

dove le donne avevano poche concrete possibilità di realizzarsi. Secondo i movimenti femministi, per smontare definitivamente la chiusura patriarcale della società, era necessario impostare una linea politica d’azione nuova: una politica delle donne per le donne attenta ad ogni aspetto della vita e dell’individualità femminile troppo spesso rimasta inascoltata. Una delle peculiarità del movimento si riassumeva nella formula: partire da sé. La critica femminista alla società tradizionale influenzò l’opinione pubblica maschile e femminile riguardo alle identità e relazioni di genere. La loro influenza sulla vita politica e quella sociale era indiscussa: la costante pressione sulle forze politiche e sulle istituzioni pubbliche portò alla legge sul divorzio, alla riforma del diritto di famiglia (1975 dove veniva prevista l’uguaglianza tra i coniugi), alla legge sull’aborto nel 1978.

La profonda influenza sul senso comune favorì un ridimensionamento dei rapporti interpersonali e delle identità di genere portando a rivedere la

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M. Gramaglia, Il 1968. Il venir dopo e l’andar oltre del movimento femminista in Ascoli e Altri, La

questione femminile, cit. in Paul Ginsborg, Storia d’Italia,cit., p.494

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mascolinità, la virilità e la supremazia maschile. Per diversi uomini, a dire il vero una ristretta minoranza, la critica neofemminista all’ordine patriarcale, non rappresentava una minaccia incombente ma un interessante spunto di riflessione per rivedere alcuni aspetti della mascolinità virilista spesso vissuta come troppo rigida e limitante. I gruppi femministi italiani avanzavano richieste differenti: “Rivolta femminile denunciò il matrimonio e la famiglia come il luogo della dominazione maschile, “Lotta comunista” lanciò lo slogan “salario alle casalinghe”, l’Udi il movimento delle donne comuniste pose l’accento sull’intervento dello Stato per alleviare l’oppressione delle donne. Uno dei movimenti più influenti fu il MLD il movimento di liberazione delle donne italiane strettamente legato al Partito radicale. Il MLD unì alle richieste di eguaglianza anche quelle che avrebbero potuto rafforzare l’autonomia delle donne (ad esempio il diritto a controllare il proprio corpo attraverso contraccettivi gratuiti e la liberalizzazione dell’aborto)”.33

Analizzando il neo femminismo degli anni settanta appare ben chiaro come questo movimento abbia cambiato gli uomini perché ha cambiato le donne.

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Capitolo 2 - Il 1970: la svolta

1. Il diritto di famiglia in Europa e la cultura giuridica sul divorzio

L’ ”istituzione” famiglia, nell’arco del Novecento, è stata oggetto di interesse di numerosi giuristi che posero le basi per un coeso e definito diritto di famiglia; l’obiettivo era preservare la centralità della famiglia nella società e tutelare i suoi membri. La sua caratteristica principale, è il variare da una “cultura giuridica” all’altra mantenendo però delle caratteristiche comuni. A partire dagli anni sessanta infatti, le legislazioni di tutti i paesi dell’Europa occidentale, iniziarono a modificarsi: la privatizzazione e l’individualizzazione del matrimonio (la scelta matrimoniale, la gestione della vita coniugale e l’educazione dei figli, iniziava ad essere una libera scelta e non più un’ imposizione) e delle relazioni familiari, erano alle porte: Paola Ronfani ha messo ben in luce che i diritti di famiglia europei, fin dai primi attimi del Novecento, fecero proprio il principio della laicità del matrimonio rendendo obbligatoria la celebrazione della cerimonia, di fronte all’ufficiale di stato civile . Un altro elemento di novità era una maggior libertà nella scelta del coniuge; la storia del matrimonio come “continua liberazione34

si è interrotta con l’avvento dei regimi fascisti che vietarono unioni matrimoniali tra persone appartenenti a razze diverse. I legislatori europei, partendo dal modello patriarcale ed istituzionale di famiglia, presero in considerazione le unioni legittime: il concubinato era considerato contrario all’ordine pubblico, alla morale e al buon costume, l’adulterio era severamente punito se commesso dalla donna: l’obiettivo era tutelare la certezza della paternità. L’esclusiva tutela della famiglia legittima, la condanna della sessualità extraconiugale, provocarono una inequivocabile discriminazione tra figli legittimi e adulterini che

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Paola Ronfani, Il diritto di famiglia in Europa , in M. Barbagli e David Kertzer ( a cura di), Storia della

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non potevano in alcun modo essere riconosciuti. Il dogma della legittimità rimase un continuum in tutti i paesi europei fino alla fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta quando le ferree discriminazioni iniziarono ad essere meno marcate; per il pieno riconoscimento dell’uguaglianza tra i figli legittimi e non bisognerà attendere l’inizio degli anni novanta.35

1.1….Lo scioglimento del matrimonio

Le leggi sul divorzio, sono un elemento fondamentale per meglio comprendere le trasformazioni della regolamentazione giuridica sulla famiglia. Nella prima metà del Novecento numerosi paesi introdussero proposte legislative per facilitare il ricorso al divorzio e quindi la sua diffusione. In Inghilterra ad esempio, nel 1923 una legge dava la possibilità alle donne di ricorrervi in caso di adulterio del marito, crudeltà, malattie mentali incurabili e abbandono del tetto coniugale per un periodo successivo ai tre anni. L’introduzione di proposte legislative divorziste nei paesi cattolici era ritenuta impensabile. Il modello proposto era quello del divorzio-fallimento visto come una conseguenza della rottura della vita coniugale dove era scomparso l’indispensabile fondamento affettivo. Il divorzio consensuale in cui l’accordo dei coniugi è sufficiente per sciogliere il vincolo matrimoniale, a differenza di oggi, fino a quasi un secolo fa, non era contemplato tranne in Belgio che lo introdusse alla fine dell’ottocento . L’innovazione di questo modello sta nel fatto che da un lato rispecchia l’idea del matrimonio come un impegno che può cessare in ogni momento, dall’altro mette ben in evidenza l’idea della “regolazione” del matrimonio direttamente da parte dei coniugi (sarà un fondamento centrale nella cultura contemporanea sul divorzio).

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Il progressivo cambio di rotta dei giuristi che iniziarono a concepire il divorzio non più come una colpa (perché non si era tenuto fede all’impegno assunto in precedenza) ma come una libera scelta, l’idea di matrimonio “come preposto a soddisfare i bisogni affettivi degli sposi piuttosto che non come una struttura di diritti e obblighi”36

, delinea il contesto in cui si collocheranno le riforme degli anni sessanta - settanta tese a liberare il divorzio dal peso della colpa, degli obblighi e stereotipi che fino a quel momento lo avevano caratterizzato. La legislazione francese del 1975 da questo punto di vista risultava emblematica: introduceva l’idea di divorce à la carte.37 Jean Carbonnier, l’ideatore intendeva

proporre un sistema pluralistico che mettesse in evidenza gli effetti sul piano matrimoniale in base al tipo di divorzio scelto: “per evitare che il divorzio per rottura della vita comune possa costituire una sorta di ripudio, viene posto a carico del richiedente l’obbligo di mantenere l’ex coniuge”38

. La grande innovazione introdotta dal modello francese era la possibilità di non ricorrere ad udienze in tribunale che comportavano perdita di tempo e denaro. Il raggiungimento di un accordo consensuale tra i coniugi con l’aiuto dei legali, non rendeva necessaria la procedura giudiziaria. La dichiarazione congiunta di voler interrompere l’unione matrimoniale era sufficiente ad avviare le procedure di divorzio. Il modello francese risultava avanti anni luce rispetto ad altre legislazioni come quella italiana dove i tempi di attesa sono incredibilmente lunghi. Nei primi anni ottanta, la progressiva estensione del modello di divorzio consensuale in tutte le legislazioni dei paesi dell’Europa occidentale (l’Irlanda lo ha introdotto nel 1997), andava di pari passo con la riduzione del divorzio per colpa, nonostante permanesse in Austria, Belgio, Svizzera, Danimarca e Norvegia. I continui interventi legislativi, dopo aver definito come divorziare, si trovarono di fronte la spinosa questione di gestire le conseguenze soprattutto patrimoniali, che la scelta divorzista comportava: il mantenimento del coniuge e

36 Ibid., p.190 37 Ibid., p.214 38 Ivi

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degli eventuali figli . Alcune legislazioni moderne, partendo dall’idea che ogni coniuge deve essere responsabile di se stesso al momento del divorzio, capace quindi di provvedere ai propri bisogni, non prevedono un aiuto economico all’altro coniuge (in genere il marito alla moglie ) se non in caso di estrema necessità. In quest’ottica, i coniugi, se durante la vita matrimoniale erano tra di loro interdipendenti, nel momento del divorzio diventano totalmente indipendenti tranne per ciò che riguarda i figli: il coniuge non affidatario infatti deve provvedere in parte al loro mantenimento.

Le soluzioni che i vari paesi hanno elaborato nel corso del tempo per regolare le conseguenze patrimoniali del divorzio , sono state numerose ma non sono ancora arrivate ad un risultato soddisfacente : il graduale impoverimento delle donne divorziate con figli è un dato costante. La pratica del divorzio per la lentezza legislativa, per le difficoltà economiche incombenti, rischia di minare la scelta di molte persone soprattutto donne che avendo difficoltà a mantenersi, nonostante vogliano divorziare, non agiscono. La totale libertà nella scelta divorzista forse non è stata ancora raggiunta.39

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2. La proposta Fortuna -Baslini diventa legge: 11 dicembre 1970

La questione del divorzio, che ancor oggi con la discussa proposta del divorzio breve è oggetto di polemiche, rappresenta sia uno dei più importanti momenti di rottura e di crisi dell’Italia repubblicana, sia una delle più grandi conquiste sociali. Come ha ben chiarito Gian Battista Scirè:

È con il divorzio che, dopo le prove della contestazione studentesca, del dissenso religioso, dell’autunno operaio, la società civile irrompe con forza e consapevolezza sulla scena politica italiana dimostrando, tra l’altro, di essere ben più avanti della propria classe dirigente e della politica, riguardo alla valutazione della tematica dei diritti civili intesa come fondamentale termometro del livello di democrazia di un paese.40

A partire degli anni settanta in Italia si assistette ad un progressivo cambiamento della mentalità nei confronti del matrimonio religioso che, pur mantenendo un ruolo centrale nella formazione della famiglia e della società, andava di pari passo con i matrimoni civili. L’introduzione del divorzio nel nostro paese è il risultato di una lunga battaglia civile iniziata nel lontano 1965, tra gruppi radicali e femministi affiancati dai partiti tradizionali (PSI, PCI), e il fronte cattolico sostenuto dall’MSI e ovviamente dalla Santa Sede e dal pontificato di Papa Paolo VI . Prima di arrivare al 1965 anno di apertura delle polemiche per l’introduzione della legge, mi pare opportuno fare luce sulle prime proposte di legge che dall’Italia unita in poi hanno animato la discussione politica nazionale senza mai trovare una concreta applicazione.

Il primo progetto di legge presentato dopo l’unificazione era quello del deputato Salvatore Morelli, Disposizioni concernenti il divorzio, risalente al 1878. Salvatore Morelli sosteneva che “la famiglia non è la fine, la famiglia è mezzo, ed essa come tale, deve rispondere a scopi molto elevati, e quando manca al suo compito per effetto del suo organamento, è debito del legislatore farle

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Gian Battista Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, chiesa , società civile dalla legge al referendum

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subire opportune modifiche”41. Morelli, facendo riferimento alla Francia e alla protestante Inghilterra, asseriva che “Tutte le nazioni civili hanno il divorzio”. Si potrebbe pensare che Morelli considerasse l’Italia un paese con uno scarso livello di civiltà? Se tale livello era definito in base ai rapporti di famiglia e alla modernità dell’istituzione matrimonio, può darsi. Nel 1880, anno della sua morte Morelli, presentava per la quarta volta al parlamento la proposta di legge sul divorzio. La visione politica di Morelli era di straordinaria apertura. Egli sosteneva infatti che la politica non dovesse circoscrivere il proprio interesse alle sole questioni internazionali o istituzionali, ma anche alle relazioni familiari tra i singoli individui. Dalle proposte di Morelli si deve aspettare il 1902 per un altro tentativo di riforma da parte del governo Zanardelli che sfumò poco dopo con l’intervento di Vittorio Emanuele III che ribadì l’indissolubilità del vincolo matrimoniale. Il re infatti, per mantenere in equilibro i non sempre facili rapporti con la Chiesa, prese pubblicamente posizione sostenendo la centrale importanza della famiglia nello sviluppo della società e nella crescita dei figli in nome del progresso della nazione. Una chiara presa di posizione del sovrano era più che sufficiente per interrompere qualunque proposta legislativa ritenuta “sconveniente”.

Dopo la fase giolittiana di silenzio legislativo, nel 1920 la sinistra socialista radicale presentò un nuovo progetto di legge bloccato sul nascere con l’avvento del fascismo. Durante il regime l’argomento venne abbandonato; nel 1929 si siglarono i Patti lateranensi dove non fu inserito il vincolo dell’Indissolubilità. Il Concordato infatti, pur stabilendo il centrale ruolo della Chiesa nella dottrina matrimoniale, nella gestione e nella celebrazione delle unioni che dovevano avvenire di fronte ad un membro del clero e che avevano validità anche per lo stato, non sanciva l’indissolubilità. Dobbiamo ricordare che sciogliere il vincolo matrimoniale era possibile ricorrendo al tribunale della Sacra Rota. Ottenere lo scioglimento era difficile e molto spesso le richieste non venivano accolte.

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La questione divorzio ricomparve sulla scena nell’immediato dopoguerra quando per volontà di alcuni deputati democristiani, si propose l’introduzione dell’art. 34 del concordato che conferiva alla Chiesa un ampio potere in materia matrimoniale, nella nuova Costituzione; l’indissolubilità del matrimonio, nonostante il disappunto cattolico, non venne dichiarata.42 Il silenzio in materia di divorzio dei primi governi centristi democristiani, venne interrotto nel giugno 1954 con la proposta di legge del deputato socialista Renato Sansone: si parlava di “piccolo divorzio”43

: si poteva ricorrere al divorzio in casi particolarmente drammatici: reclusione per un periodo superiore a dieci anni di uno dei coniugi, tentativo di uccisione di un coniuge, separazione legale da più di 15 anni e dichiarazione di malattia inguaribile. Ancora una vota però la proposta rimase pura teoria; intromissioni, diffidenze e disappunti fecero scemare la discussione. Nella metà degli anni sessanta, i segnali di cambiamento sociale e culturale già in atto all’estero, si manifestarono anche in Italia: il numero delle separazioni legali infatti, tra i ceti medio alti era aumentato vertiginosamente segno tangibile che il modello della ”felice” famiglia tradizionale stava volgendo al termine o quanto meno stava affievolendosi. Gian Battista Scirè ha messo ben in luce che a dare una spinta alla questione del divorzio per quanto riguardava la battaglia sui diritti civili, la rivendicazione del rispetto della propria autonomia e individualità ma soprattutto la difesa della libertà di coscienza, fu il manifesto del movimento femminista americano Mistica della femminilità dove l’autrice Betty Friedan metteva in discussione il ruolo tradizionale e subordinato della donna nella famiglia schiacciata dal giogo maritale, e nella società. L’importanza del libro fu emblematica e dette l’avvio sull’onda dei momiventi femministi americani e nord-europei, alla nascita in Italia di movimenti femministi che rivendicavano la parità di diritti con l’uomo: il divorzio ovviamente era una delle tante battaglie.

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Gian Battista Scirè, Il divorzio in Italia, cit., p.18

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Sull’argomento rimando a Gian Battista Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, chiesa società civile dalla

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E’ in questo caldo clima culturale che si giunse al 1965 e all’ inizio della battaglia legislativa in parlamento per poi giungere al dicembre 1970. II giovane Partito Radicale, nato nel 1962, vedeva nel divorzio la possibilità per sperimentare e mettere in atto il proprio metodo di lotta politica per rivendicare la difesa dei principali diritti civili. Marco Pannella, Gianfranco Spadaccia e Angiolo Bandinelli, per focalizzare ancor più il loro impegno nella battaglia divorzista, nel dicembre 1965 fondarono la LID (Lega italiana per l’istituzione del divorzio) un’organizzazione politica aperta a tutti i cittadini interessati al problema di qualunque appartenenza politica. Tra gli aderenti vi era Loris Fortuna che poco prima (il 1°ottobre) aveva presentato in parlamento il suo progetto di legge insieme al collega liberale Antonio Baslini44, teso a regolare lo scioglimento del matrimonio: Casi di scioglimento del matrimonio. La proposta di legge si differenziava dalla precedente (Sansone - Nenni) perché più morbida nel definire i casi in cui ricorrere al divorzio: condanna del coniuge con sentenza definitiva per ergastolo o superiore a cinque anni, per reati come incesto, istigazione alla prostituzione, sfruttamento dei minori e abbandono del tetto coniugale o separazione legale da almeno cinque anni. Il problema del divorzio non dipendeva solo da difficoltà legislative ma anche e soprattutto politiche: come ha ben messo in luce Scirè:

rispetto al 1958, la composizione parlamentare e il quadro politico del 1965 erano indubbiamente diversi. La maggioranza democristiana antidivorzista era meno consistente e l’ago della bilancia era rappresentato, in questo caso, dai socialisti, stavolta al governo. Infatti, dopo la presa di posizione dei socialisti, della Lid e dei radicali, molto dipendeva da ciò che avrebbe scelto di fare il Partito Comunista. Berlinguer, in perfetta continuità con la linea tracciata da Togliatti, morto un anno prima , fece intendere subito che una iniziativa sul divorzio avrebbe indebolito la posizione storica del Pci sulla questione cattolica.45

Fortuna però, seguendo i suggerimenti del collega Nenni, non presentò al giudizio e al vaglio del parlamento la sua proposta: non era ancora il giusto

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momento politico. La proposta come ben si può immaginare, mise in allarme il fronte scudo crociato e il Vaticano che si mosse per contrastare le diffusione di idee che potevano minare le basi della società fondata sul modello tradizionale di matrimonio; con il divorzio la famiglia sarebbe stata minacciata dal libero amore, dalla totale mancanza di valori e moralità. La posizione delle forze politiche in campo era spesso complessa: nonostante il Pci di Berlinguer non avesse dimostrato una chiara adesione alla legge per mantenere “buoni” rapporti con la Santa Sede, Nilde Jotti, prendeva pubblicamente posizione in favore del divorzio: mettendo in relazione la proposta di scioglimento del matrimonio con una generale riorganizzazione del diritto di famiglia, la Jotti, ribadiva l’impegno e il sostegno del Pci se la legge avesse ottenuto un buon fine: la legge non passò: per volontà di un deputato socialista fu rinviata all’unanimità. 46

La Chiesa si era opposta, la maggior parte dei leader comunisti non riconoscevano l’impellente necessità della legge e la Dc era rimasta nell’ombra non prendendo parola nel dibattito, preferendo un profondo silenzio. Nell’intricata discussione la questione del divorzio si era sovrapposta all’ancor più complicata revisione del Concordato auspicata anche da alcune fila del mondo cattolico. Nell’agosto 1966, la Segreteria di stato vaticana, aveva indirizzato all’ambasciatore italiano in Vaticano, una nota riservata in cui si riteneva che l’approvazione della legge Fortuna – Baslini, fosse una violazione delle norme concordatarie. La nota era rivolta al premier scudocrociato Aldo Moro che tentò di rimandare la proposta di legge sul divorzio con un accordo con Nenni: si decise di “scambiare” il divorzio con un rinnovato diritto di famiglia (dove il divorzio però non era contemplato). L’accordo tra Nenni e Moro risultò fallimentare e non fu sufficiente a indirizzare i voti delle parti politiche: si arriverà in parlamento profondamente divisi.47 L’aprile 1967 ha un’importanza cruciale:

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durante un’assemblea generale della Cei (Congregazione episcopale italiana), si discusse e si approvò la proposta di ricorrere ad una mobilitazione dell’opinione pubblica con un referendum abrogativo, se la minaccia della legge Fortuna fosse diventata realtà. La scelta referendaria si sarebbe rivelata un’arma a doppio taglio: anziché essere di aiuto alla chiesa, l’avrebbe condotta verso la sconfitta.48

Il 1967 si chiudeva con le polemiche e le lotte tra i vari partiti: da un lato la spaccatura nella Dc tra il fronte antidivorzista (di cui in seguito Fanfani sarà la punta di diamante) di Luigi Ledda e la sinistra democristiana più favorevole, dall’altro sul fronte laico Fortuna e altri liberali che speravano in un ricompattamento del fronte divorzista. Le elezioni del 1968, l’impegno per la imminente campagna elettorale, dimostravano ancora una volta la “debolezza” politica, di presa di posizione e di azione della Dc che era schiacciata tra le continue richieste di una linea precisa da parte del Pci e del Psi ma anche (e soprattutto) dalla Chiesa che spingeva il partito verso lo scontro frontale del divorzio. Ancora nel 1968 le posizioni all’interno del partito erano poco chiare e definite: Mariano Rumor ribadiva l’opposizione del partito al divorzio ma evitava l’argomento referendum; Giulio Andreotti e altri tra cui Flaminio Piccoli non si esposero preferendo rimanere in attesa; altri riconoscevano la necessità di accettare la maggioranza divorzista del paese e di adeguare quindi le decisioni politiche del partito. In parlamento, oltre al dibattito sulla legge, si discuteva l’introduzione nell’ordinamento giuridico,dell’istituto referendario49

. Il referendum era un esempio democratico di consultazione pubblica in cui il popolo era chiamato ad esprimersi su questioni di rilevanza sociale, politica e culturale. Gli unici scudocrociati a proporre il referendum abrogativo per la legge Fortuna-Baslini, furono Oscar Luigi Scalfaro e Paolo Emilio Taviani.

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I rapporti tra il mondo cattolico e il fronte laico erano peggiorati non soltanto per la lotta divorzista ma anche per i continui tentativi di rivedere e cancellare il concordato, vincolo che legava gli italiani ai dogmi ecclesiastici sul vincolo matrimoniale. A Milano infatti, nel maggio 1969 venne istituito un comitato per l’abolizione del concordato. Il comitato, attraverso l’organizzazione di manifestazioni pubbliche voleva avvicinare il popolo allo scottante dibattito in atto, istruendolo su un possibile referendum abrogativo della legge. La battaglia per la legge stava volgendo al termine e finalmente meno di un anno dopo, il 1° dicembre 1970 il divorzio venne introdotto nell’ordinamento giuridico italiano grazie all’appoggio del Psi, Pci, Partito social democratico e Partito repubblicano.

Il fronte cattolico aveva perso: di li a poco sarebbe iniziata la lunga lotta e il dibattito per l’abolizione della legge Fortuna-Baslini. Per lo scontro frontale si dovrà aspettare il 12 maggio 1974 giorno del referendum.

Figura

Figura 1 Amintore Fanfani  152
Figura 2 Mariano Rumor 153
Figura 3 Ciriaco De Mita 154
Figura 4 Aldo Moro  156
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