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Sviluppo,industrializzazione e validazione mediante metodologia Six-Sigma-DMAIC di un perforatore one-way con cono Luer lock e del tubo presenti nel set per terapia intravenosa

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Academic year: 2021

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(1)

Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN INGEGNERIA

BIOMEDICA

Sviluppo, industrializzazione e

validazione mediante metodologia

Six-Sigma-DMAIC di un perforatore one-

way con cono Luer lock e del

tubo presenti nel set per terapia

intravenosa

Relatori:

Prof. Giovanni Vozzi

Ing. Marco Mantovani

Candidato:

Aleandro Savalli

(2)

Indice

Introduzione

4

Capitolo 1: Sistema per terapia intravenosa

6

1.1 Terapia intravenosa 6

1.1.1 Origine dei fluidi intravenosi 7

1.1.2 Soluzioni in uso 7

1.1.3 Osmolarità 8

1.1.4 Velocità di infusione 9

1.2 Set per infusione 11

1.3 Normative di riferimento 14

1.3.1 ISO 594 – Conical fitting with a 6%(Luer) taper for syringes,

needles and certain other medical equipment 14

1.3.2 ISO 80369 Small-bore connectors for liquids and gases in healthcare

applications 15

1.3.3 ISO 1135 – Transfusion/infusion equipment for medical use 16

1.4 Stato dell’arte 17

1.5 Azienda Elcam Medical 18

1.6 Obiettivo del lavoro di tesi 20

Capitolo 2: Materiali e metodi di lavorazione

22

2.1 I polimeri 22

2.1.1 Il polivinilcloruro 25

2.1.2 Acrilonitrile butadiene stirene (ABS) 27

2.2 Processi di lavorazione 27

2.2.1 Stampaggio ad iniezione 28

2.2.1.1 Pressa ad iniezione 28

2.2.1.2 Ciclo di stampaggio 30

2.2.1.3 Parametri principali di stampaggio 32

2.2.1.4 Problemi di stampaggio 33

2.2.1.5 Software per analisi FEM e MoldFlow 33

2.2.2 Estrusione 34

2.2.2.1 Sistema per controllo del tubo di Nirox srl 37

Capitolo 3: Metodologia Six-Sigma DMAIC

40

3.1 Six-Sigma 40

3.2 Metodologia DMAIC 42

3.3 Variabilità nei processi produttivi 45

3.4 Strumenti per l’analisi Six-Sigma DMAIC 45

3.4.1 Strumenti di Inferenza Statistica 45

3.4.2 La Carta di Controllo 48

3.4.3 Design of Experiments (DOE) 49

(3)

3.5 Capability di Processo

Capitolo 4: Validazione dei processi produttivi

4.1 Introduzione

4.2 Tipologie di validazione

4.3 Fasi della validazione di processo

Capitolo 5: Progettazione del design del nuovo perforatore

5.1 Criteri di scelta del design

5.2 Simulazione del processo di stampaggio del perforatore

5.2.1 Analisi della confidenza di riempimento 5.2.2 Analisi del tempo di riempimento 5.2.3 Analisi degli intrappolamenti d’aria

5.3 Analisi sottosquadro

5.4 Simulazione mediante metodo degli elementi finiti (FEM)

5.5 TRS dello stampo

Capitolo 6: Validazione del processo di stampaggio del perforatore

e controllo statistico del tubo estruso

6.1 Validazione del perforatore one-way

6.1.1 Protocollo di validazione: VMP & PFMEA 6.1.2 Molding IQ (Qualifica di installazione) 6.1.3 Molding OQ (qualifica operativa) 6.1.4 Molding PQ (qualifica delle prestazioni)

6.2 Controllo statistico del tubo estruso

Capitolo 7: Conclusioni e sviluppi futuri

Bibliografia

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74

74 74 75 77 90 96

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102

(4)

Introduzione

Il presente lavoro di tesi si inserisce all’interno del progetto di sviluppo, industrializzazione e vali- dazione di un nuovo perforatore one-way con cono Luer lock femmina che fa parte del set medico utilizzato per la terapia intravenosa.

La terapia intravenosa consiste nella somministrazione di sostanze direttamente nell’apparato circo- latorio, attraverso un dispositivo di accesso vascolare (ago o catetere) inserito in una vena. E’ pos- sibile somministrare numerose sostanze compresi liquidi, elettroliti, nutrienti, prodotti del sangue e farmaci, ottenendo un sostegno vitale e una nutrizione adeguata quando l’alimentazione per via enterale è compromessa.

In ambito industriale l’ottimizzazione dei processi produttivi mediante metodi statistici consente di ottenere prodotti di alta qualità, che quindi risultano conformi ai requisiti prestabiliti. Per rimanere competitivi sul mercato occorre seguire in modo rigoroso ciò che viene stabilito da International Organization for Standardization (ISO). La ISO è la federazione mondiale di organismi nazionali di standardizzazione e rappresenta la più grande organizzazione a livello mondiale per la definizione di norme tecniche.

L’accoppiamento nel set per terapia intravenosa tra perforatore e connettore Luer lock maschio, fino a poco tempo fa, è stato regolato dalla normativa ISO 594.

A causa dell’aumento dei casi di lesioni a danno dei pazienti o addirittura morte, riconducibili a malfunzionamenti dei connettori, nella maggior parte dei casi a “misconnection”, è stato necessario revisionare la normativa ISO 594 al fine di ridurre al minimo tali eventi; con questa normativa ve- niva introdotto un unico design del connettore utilizzato in parecchie applicazioni spesso incompa- tibili tra loro. A fronte di queste problematiche la ISO 594 è stata sostituita con la nuova normativa ISO 80369, che si pone come obiettivo di rappresentare il documento di riferimento per la

produzione e lo sviluppo di connettori Luer , riportando tutte le procedure necessarie per prevenire “misconnection” e specificando il tipo di connettore da utilizzare per una determinata applicazione medica.

Il lavoro di tesi è stato eseguito presso Elcam Medical Italy S.p.A con sede a Carpi (MO), un’azienda specializzata nella formatura e nell’assemblaggio di componenti per dispositivi medici e prodotti personalizzati su specifiche del cliente. Produce una vasta gamma di componenti monouso per emo- dialisi, terapia intravenosa, trasfusione, cardiochirurgia, anestesia e rianimazione.

Il presente lavoro si pone l’obiettivo di analizzare ciascuna fase della progettazione e validazione dei seguenti componenti:

(5)

1. Industrializzazione del perforatore che segue la nuova normativa ISO 80369, nello specifico, per il cono Luer lock femmina, ISO 80369-7 (applicazioni di terapia intravenosa) e, per la punta del perforatore, ISO 1135-4 (set di trasfusione monouso alimentati per gravità) e validazione del proces- so verificando la conformità delle quote CTQs (Critical to Qualities).

2. Statistical Process Control della produzione del tubo utilizzato nel set monitorando in real-ti-

me sia il diametro interno che esterno.

Dopo aver introdotto una panoramica sullo stato dell’arte (Capitolo 1) e sui materiali e metodi di lavorazione impiegati (Capitolo 2), verrà descritta la metodologia Six-Sigma DMAIC (Define-Mea-

sure-Analyze-Improve-Control) al fine di migliorare la qualità dei processi produttivi (Capitolo 3).

Nel Capitolo 4 verranno illustrate le modalità e le fasi di validazione di un processo produttivo. Saranno presentate le scelte progettuali e le loro modalità di verifica simulando il processo di stam- paggio con analisi Moldflow ed il comportamento meccanico-strutturale con analisi ad elementi fini- ti FEM (Capitolo 5). Mediante l’utilizzo di protocolli validativi, Validation Protocol (VP),

Installation Qualification (IQ), Operational Qualification (OQ), Performance Qualification (PQ), è

stato validato il processo produttivo del perforatore; tramite il DOE (Design of Experiments) sono stati individuati sia i parametri di stampaggio di maggiore influenza che il miglior set di valori dei parametri stessi, ottimizzando in questo modo il processo produttivo.

E’ stato effettuato un controllo statistico di processo in real-time durante la produzione del tubo impiegato per il set (Capitolo 6).

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Sistema per terapia intravenosa

1.1 Terapia intravenosa

La terapia intravenosa consiste nella somministrazione di liquidi o farmaci direttamente nel flusso sanguigno, attraverso un dispositivo di accesso vascolare (ago o catetere/cannula) inserito in una vena periferica o centrale. E’ possibile somministrare numerose sostanze compresi liquidi, elettroli- ti, nutrienti, prodotti del sangue e farmaci, ottenendo un sostegno vitale e una nutrizione adeguata quando l’alimentazione per via enterale è compromessa.

La via endovenosa consente una rapida somministrazione del farmaco perché si evita la fase di as- sorbimento necessaria con le altre vie di somministrazione e consente la somministrazione in infu- sione continua, mantenendo in questo modo un dosaggio terapeutico costante nel sangue. Si ricorre all’infusione per vari motivi:

• somministrazione di farmaci che non possono entrare a contatto con l’apparato gastroenteri co;

• ripristinare l’equilibrio elettrolitico;

• nutrizione adeguata quando è compromessa l’alimentazione per via enterale.

Oltre alla metodica per infusione, alcuni farmaci possono anche essere somministrati attraverso un bolo endovenoso: il liquido viene iniettato in un’unica dose in vena, generalmente con una siringa; ciò garantisce l’introduzione di una dose concentrata di principio attivo direttamente nel circolo sistemico ed un rapido effetto terapeutico. Si elimina il rischio di complicazioni legate al posiziona- mento di un ago a permanenza, come avviene con l’infusione, ma si tratta di una manovra potenzial- mente pericolosa e spesso irritante sulle pareti interne dei vasi sanguigni.

La terapia intravenosa può causare complicanze come emorragia, infiltrazione, infezioni, sovrado- saggio, squilibrio elettrolitico ed embolia. Ulteriori complicanze locali possono manifestarsi a causa di alcuni fattori intrinseci alle soluzioni e ai farmaci, quali l’osmolarità e il pH. Prima di sommini- strare la terapia intravenosa occorre dunque verificare, sulla base della prescrizione, le caratteristiche delle soluzioni e le indicazioni relative ai tempi e alle modalità di infusione.

(7)

La regione terapeutica (Figura 1.1) è quella zona in cui il farmaco garantisce l’effetto desiderato. Un metodo standard di somministrazione (come iniezioni o pillole) comporta fluttuazioni delle concen- trazioni del farmaco all’interno della regione terapeutica; invece attraverso l’infusione si ha un’indu- zione continua di farmaco che riduce di conseguenza le fluttuazioni e porta ai benefici terapeutici desiderati.

1.1.1 Origine dei fluidi intravenosi

William Brooke O’Shaughnessy era un medico irlandese famoso per il suo lavoro scientifico ampio in farmacologia.

O’ Shaughnessy ha stabilito i principi della terapia intravenosa attraverso la sua attenta osservazione e analisi dei fluidi corporei dei suoi pazienti e della sua proposta razionale di “correttezza

fisiologica”. Il dottor Thomas Latta, un medico britannico, è stato ispirato dalla logica di

O’Shaughnessy. Latta osservò che le vittime del colera avevano perso gran parte del contenuto di acqua dal loro sangue; il rifornimento di questo in combinazione con “sali ossigenati” è stato visto come chiave per il recupero del paziente.

Latta eseguì la prima rianimazione endovenosa terapeutica nel maggio del 1832 con infusioni di una soluzione fatta in casa, un miscuglio ipotonico acquoso di sodio, cloruro e bicarbonato. Iniettando ciò che ha descritto come “volumi abbondanti” di questa soluzione, con l’uso di una siringa e di un tubo d’argento, è riuscito a ravvivare 8 dei 25 pazienti che ha infuso.

La terapia fluida per via endovenosa non è riuscita ad ottenere una diffusa accettazione durante la sua vita; nonostante ciò questa terapia ha rappresentato un nuovo capitolo della storia medica, la- sciando un segno profondo sul campo che avrebbe salvato innumerevoli vite a venire.

1.1.2 Soluzioni in uso

Le soluzioni disponibili per la somministrazione endovenosa si definiscono cristalloidi o colloidi a seconda del loro contenuto e producono effetti diversi quando vengono infuse. Occorre precisare che ogni soluzione che viene infusa si distribuisce nei vari comparti del corpo in modo diverso, a secon- da delle sostanze contenute. Il corpo umano è composto per il 60% da acqua suddivisa in due grandi aree funzionali separate fra loro dalla membrana cellulare: il liquido intracellulare (67% del volume totale di acqua) e il liquido extracellulare (30% del volume totale di acqua).

Il liquido extracellulare a sua volta è diviso in altri due comparti: liquido intravascolare e liquido interstiziale.

I liquidi e gli elettroliti somministrati per via endovenosa passano direttamente nel plasma (spazio del liquido extracellulare), vengono assorbiti in base alle caratteristiche del liquido e allo stato di idratazione del paziente. I liquidi più comunemente infusi sono il destrosio e la soluzione fisiologica, entrambe sono soluzioni cristalloidi.

• Cristalloidi

Sciogliendo i cristalli, come i sali e gli zuccheri, in acqua si creano i cristalloidi. Non contengono proteine e altri soluti ad alto peso molecolare e si distribuiscono esclusivamente nei due comparti del liquido extracellulare; rimangono nello spazio intravascolare solo per un breve periodo prima di diffondersi attraverso la parete dei capillari nei tessuti. A causa di questa azione è necessario somministrare 3 litri di soluzione cristalloide per ogni litro di perdita di sangue. Sono esempi di

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soluzioni cristalloidi: la soluzione fisiologica, il ringer lattato ed il destrosio. I cristalloidi sono raccomandati quando in caso di rianimazione occorre infondere liquidi per via endovenosa; in tale condizione va somministrata una soluzione cristalloide che contenga sodio in un range che va da 130 a 154 mmol/ litro con un bolo di 500 ml in circa 15 minuti.

• Colloidi

Contengono molecole di grandi dimensioni, come le proteine, che non passano facilmente la mem- brana capillare, pertanto i colloidi restano nello spazio intravascolare per lunghi periodi.

Queste molecole di grandi dimensioni aumentano la pressione osmotica nello spazio intravascolare provocando in tal modo il passaggio del fluido dallo spazio interstiziale e intracellulare allo spazio intravascolare; per questo motivo i colloidi sono spesso indicati come espansori del volume ematico. I colloidi sono costosi, hanno un’emivita breve e richiedono refrigerazione. Per queste ragioni non sono comunemente utilizzati in ambito pre-ospedaliero.

Sono esempi di soluzioni colloidi: l’albumina al 5% e al 20% ed i sostituti del plasma.

1.1.3 Osmolarità

Esprime la concentrazione di una soluzione, specificando il numero di particelle in essa disciolte indipendentemente dalla carica elettrica e dalle dimensioni. L’osmolarità è espressa in osmoli per litro (osmol/l o OsM) oppure, quando la soluzione è particolarmente diluita, in milliosmoli per litro (mOsM/l). Il suo valore esprime la concentrazione della soluzione, ma non dice nulla sulla natura delle particelle in essa contenute. Due soluzioni con uguale osmolarità avranno lo stesso contenuto numerico di particelle e le medesime proprietà colligative (stessa tensione di vapore, stessa pressione osmotica e stessa temperatura di congelamento ed ebollizione).

Il pH, la conducibilità elettrica e la densità potrebbero tuttavia essere differenti, perché dipendono dalla natura chimica dei soluti e non solo dal loro numero.

Le soluzioni infusionali sono distinte in isotoniche, ipertoniche e ipotoniche in base alla loro osmo- larità confrontata con quella plasmatica:

• Le soluzioni isotoniche, come la soluzione fisiologica (NaCl allo 0,9%) o il destrosio

al 5%, hanno un’osmolarità vicina a quella plasmatica (tra 240 e 340 mOsm/l). Tali

soluzioni sono in equilibrio con il flusso sanguigno e non incidono sul movimento dei liquidi verso e dalle cellule endoteliali delle vene. Per tale ragione essi sono i diluenti più comuni per numerosi farmaci somministrati per via endovenosa (per esempio la vancomicina).

• Le soluzioni ipotoniche, come per esempio l’acqua distillata sterile, hanno un’osmolarità inferiore a 250-260 mOsm/l. Tali soluzioni, quando entrano nel flusso sanguigno, causano il movimento dell’acqua nelle cellule endoteliali della vena; il risultato può essere un’irritazione della vena o una flebite, se le cellule attirano troppa acqua fino a scoppiare. Per questa ragione, l’acqua distillata sterile e le altre soluzioni ipotoniche non sono generalmente infusioni adatte di per sé, ma possono essere utilizzate per diluire i farmaci ipertonici, specialmente nelle persone che hanno una quantità di liquidi in circolo limitata, come i bambini e i neonati.

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• Le soluzioni ipertoniche hanno invece un’osmolarità superiore a 300-310 mOsm/l con valori che raggiungono anche 500-1.000 mOsm/l e richiamano acqua dalle cellule dei vasi endoteliali nel lume vascolare, causando il loro restringimento e l’esposizione della membrana ad ulteriori danni (flebiti chimiche, irritazioni, trombosi). Tra le soluzioni fortemente ipertoniche ci sono per esempio la soluzione glucosata al 20% (1.112 mOsm/l) e il bicarbonato all’8,4% (2.000 mOsm/l). L’osmolarità delle soluzioni ipertoniche può provocare danni all’endotelio della vena, inne- scando un processo infiammatorio e lo sviluppo di flebite. Solitamente queste soluzioni non sono diluenti adatti. In letteratura è dimostrato che le soluzioni ipertoniche che superano i 600 mOsm/l possono indurre una flebite chimica in una vena periferica entro 24 ore. Una soluzione ipertonica può essere infusa in modo sicuro attraverso una vena centrale; il grande volume di sangue in una vena centrale diluisce la soluzione, abbassando la sua osmolarità. Invece in una vena periferica il volume di sangue non è adeguato per garantire un’emodiluizione significativa; di conseguenza la soluzione ipertonica attira l’acqua dalle cellule endoteliali della vena, provocando una contrazione e lasciando la vena vulnerabile a flebiti, inflitrazioni e trombosi.

L’osmolarità è dunque uno dei possibili fattori che possono provocare una flebite chimica. Natu- ralmente è necessario considerare l’osmolarità non soltanto del farmaco, ma anche del diluente. E’ importante che l’osmolarità dei farmaci somministrati sia inferiore alle 600 mOsm/l.

1.1.4 Velocità di infusione

La velocità di infusione delle soluzioni somministrate per via endovenosa dipende da diversi fattori tra cui:

• l’osmolarità: le soluzioni ipertoniche vanno infuse lentamente per il loro effetto di ri- chiamo di liquidi nello spazio intravascolare;

• i principi attivi (per esempio chemioterapici, antibiotici, anime, eparina) o elettroliti (come il potassio) contenuti nella soluzione che necessitano di un controllo attento della velocità con pompa d’infusione;

• le condizioni del paziente: le persone anziane, cardiopatiche rischiano il sovraccarico per cui la velocità di infusione deve essere ridotta e controllata scrupolosamente.

• il calibro dell’accesso venoso;

• le condizioni del sito;

• il volume complessivo di soluzione da infondere

Una pompa da infusione permette un controllo preciso della velocità di infusione e della quantità totale di fluido da infondere all’ora e nell’arco delle 24 ore. Tuttavia in tutti quei casi in cui non è

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necessario un preciso controllo della velocità di infusione o comunque una qualche variazione della stessa non avrebbe gravi conseguenze, come anche in tutti quei casi in cui la pompa non è disponibi- le, la flebo è spesso lasciata fluire semplicemente posizionando il sacchetto al di sopra del livello del paziente ed utilizzando il morsetto per regolare la velocità.

L’infusione per gocciolamento sfrutta la variazione di pressione con l’altezza per ottenere un fluido a pressione superiore rispetto alla pressione sanguigna all’interno della vena secondo la legge di Stevino:

Δp = ρg Δh (1.1)

dove Δp è la pressione idrostatica esercitata dalla colonna di fluido (Pa), direttamente proporzionale a ρ (densità di fluido in kg/m^3 , g (accelerazione di gravità 9,81 m/s^2) e Δh (altezza del punto considerato in m).

Figura 1.2: Infusione con pompa (sinistra) e per gocciolamento (destra)

Se il farmaco da somministrare è irritante, è possibile rallentarne l’infusione, prevedendo la sua som- ministrazione per un periodo più lungo e aumentando in questo modo il tempo per l’emodiluizio-ne. Un’infusione rapida aumenta il rischio di flebite, in quanto riduce il tempo dell’emodiluizione e consente alla soluzione molto concentrata (ipertonica) di venire a contatto con la tunica intima della vena.

In genere l’infusione in una vena centrale richiede un’ora, mentre in una vena periferica è consigliato aumentare il tempo di infusione a due ore.

Negli adulti, per la somministrazione in vena periferica si raccomanda una concentrazione non su- periore ai 5 mg per ml di diluente ed una velocità di infusione minore di 10 mg/min. Concentrazioni maggiori, tra 10 e 20 mg/ml, dovrebbero essere infuse in una vena centrale.

(11)

1.2

Set per infusione

Un set per infusione per via endovenosa di sostante liquide è costituito da diversi componenti, cia- scuno avente una specifica funzione; sono realizzati in materiale biocompatibile, nella maggior parte dei casi vengono prodotti con materiali termoplastici.

In base al tipo di impiego i componenti del set possono avere geometrie diverse. La realizzazione di qualunque componente deve tener conto delle normative vigenti.

Un set standard è costituito (Figura 1.3) dai seguenti componenti:

•contenitore sterile (bottiglia di vetro, bottiglia di plastica o sacchetto di plastica) pre-ri- empito di fluidi;

• un connettore, denominato perforatore (spike), che permette di perforare la chiusura in gomma della bottiglia di fluido;

• una camera di gocciolamento (drip chamber) in plastica trasparente dove gocciola l’infusione; mediante questo componente la soluzione è in grado di fluire una goccia alla volta consentendo in questo modo di individuare la portata del flusso ed ridurre il rischio di formazione di bolle d’aria;

• un lungo tubo sterile con un morsetto (roller clamp) per regolare o interrompere il flusso;

• un ultimo connettore che permette il collegamento con un ago o l’accoppiamento con un’altra linea di infusione sulla stessa vena.

Figura 1.3: Set per infusione per via endovenosa

Il connettore terminale del set è collegato ad un dispositivo per l’accesso endovenoso. Il dispositivo può essere utilizzato sia per ottenere sangue, come campione da inviare in laboratorio per esecuzione dati, sia per la somministrazione di farmaci e/o fluidi.

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Esistono, in generale, tre diversi dispositivi:

•Ago ipodermico

Il modo più semplice per reperire un accesso venoso è quello di passare un ago cavo attraverso la cute posizionandolo direttamente in vena. Questo ago può essere collegato ad una siringa ed essere usato sia per aspirare sangue sia per iniettare il suo contenuto nel torrente venoso. Lo stesso ago può essere collegato ad un catetere di varia lunghezza e quindi a qualsiasi sistema desiderato di raccolta o infusione.

Il sito più comodo per eseguire la puntura venosa è spesso il braccio, specialmente le vene posizionate sul dorso della mano.

In realtà può essere utilizzata qualsiasi vena identificabile.

Figura 1.4: Ago ipodermico

• Catetere venoso periferico

Questo è il metodo di accesso endovenoso più utilizzato sia in ospedale sia nelle attività sanitarie in ambito pre-ospedaliero. Un catetere venoso periferico è costituito da un bre- ve catetere di pochi centimetri di lunghezza, inserito attraverso la cute in una vena peri- ferica, vale a dire una qualsiasi vena non localizzata all’interno del torace o dell’addome. Questo è di solito un dispositivo a forma di cannula sormontante un ago (agocannula), cioè un dispositivo in cui un tubicino di plastica flessibile cannula viene montato sopra un ago di metallo trocar. Una volta che la punta dell’ago e la cannula si trovano all’inter- no della vena, il trocar viene ritirato e scartato in un contenitore rigido per aghi usati, e la cannula viene fatta avanzare all’interno della vena nella posizione considerata più appropriata e sicura.

Con questa tecnica può essere utilizzata ogni vena periferica accessibile, anche se il braccio e la mano sono le sedi di posizionamento più frequenti. La gamba ed i piedi vengono utilizzati in misura molto minore.

Se la cannula non è posizionata correttamente, o la vena è particolarmente fragile a rom- persi, il sangue può fuoriuscire nei tessuti circostanti. Se si utilizza una cannula di questo tipo per somministrare farmaci si provoca inevitabilmente uno stravaso del farmaco che può portare a edema, causando dolore e danni ai tessuti, e nel caso di alcuni farmaci addirittura a necrosi.

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La cannula non può essere lasciata in sede per un tempo indeterminato a causa del ri- schio di infezione nel punto di inserimento della cannula.

Figura 1.5: Catetere in vena periferica della mano

• Catetere venoso centrale

Le linee di infusione endovenose centrali sfruttano un catetere posizionato all’interno di una grande vena, di solito la vena cava superiore o la vena cava inferiore, o l’atrio destro del cuore. Questo posizionamento presenta diversi vantaggi rispetto ad una linea endo- venosa periferica:

– Si possono somministrare liquidi e farmaci che sarebbero troppo irritanti per le vene periferiche a causa della loro concentrazione o della composizione chimica. Que- sti includono alcuni farmaci chemioterapici.

– I farmaci raggiungono il cuore immediatamente, e sono distribuiti rapidamente al resto del corpo.

– I sanitari sono in grado di misurare la pressione venosa centrale ed altre variabili fisiologiche attraverso la linea di infusione.

Le linee infusive endovenose centrali comportano rischi di sanguinamento, infezione, cancrena, tromboembolia ed embolia gassosa. Sono generalmente di più difficile inser- zione in quanto le vene centrali non sono palpabili e richiedono personale infermieristi- co esperto nel loro posizionamento.

Strutture circostanti alcune vene centrali, come la pleura e la carotide possono essere danneggiate durante la procedura con il rischio conseguente di pneumotorace o incan- nulazione dell’arteria.

(14)

1.3

Normative di riferimento

Con l’acronimo ISO si intende la International Organization for Standardization, la quale rappresenta la più grande organizzazione a livello mondiale per la definizione di norme tecniche.

L’organizzazione è nata nel 1947 a Ginevra, e i suoi membri sono gli organismi nazionali di standar- dizzazione di 164 paesi del mondo.

Le norme ISO sono numerate ed hanno un formato del tipo ISO nnnn:yyyy – titolo, dove nnnn sta ad indicare il numero della norma, yyyy l’anno di pubblicazione (talvolta omesso) ed il titolo nel quale viene descritta in sintesi la norma.

1.3.1 ISO 594 – Conical fitting with a 6% (Luer) taper for syringes, needles and

certain other medical equipment

La ISO 594 viene pubblicata nel 1986 con l’obiettivo di rappresentare la linea guida principale per la progettazione ed industrializzazione di ogni tipo di connettore Luer per applicazioni medicali. Costituisce la normativa per i connettori conici al 6% (Luer Lock) e specifica i requisiti per siringhe ipodermiche, aghi ed alcune attrezzature mediche come set per infusione e trasfusione. La parte della normativa che riguarda i requisiti consiste in cinque punti:

1– Gauging: vengono definiti gli strumenti utilizzati (gauges) per i test;

2– Test di Tenuta in liquido: viene presentato il “Test Method” per verificare la tenuta della connessione Luer nel caso di trasporto di liquido con una determinata pressione. 3– Test di Tenuta in aria: viene presentato il “Test method” per verificare la tenuta della connessione Luer nel caso di trasporto di gas medicali con una determinata pressione. 4– Test della Forza di separazione: viene definito il “Test Method” per verificare che il connettore Luer rimanga connesso con il riferimento se sottoposto ad una forza assiale. 5– Test di Rottura dovuta a stress: viene definito il “Test Method” per verificare che il connettore non subisca rotture dopo una connessione di 48h.

Le normative della ISO 594 che regolano il perforatore one-way con cono Luer Lock sono 2: • Per le quote da rispettare per quanto riguarda la conicità si fa riferimento alla ISO 594-1 (Conical fitting with a 6% Luer taper for syringes, needles and certain other medical equipment)

•Per le quote da rispettare per quanto riguarda la filettatura si fa riferimento alla ISO 594-2 (Conical fitting with a 6% Luer taper for syringes, needles and certain other medi- cal equipment: lock fittings)

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Sono sorte problematiche relative alla definizione di un unico design per molteplici applicazioni, spesso incompatibili tra loro; ciò ha portato ad un aumento dei casi di miss connection, per la mag- gior parte dovuti ad errore umano, in cui l’operatore collega erroneamente sistemi diversi tra loro. Di recente è stato collegato un accesso per terapia intravenosa ad una sacca per nutrizione enterale che ha portato al decesso del paziente.

La ISO 594, che definisce un unico design per le diverse applicazioni dei connettori Luer, è stata sostituita dalla nuova ISO 80369 che stabilisce diversi design in base all’applicazione.

1.3.2 ISO 80369 - Small-bore connectors for liquids and gases in healthcare applications

La normativa ISO 80369 si pone l’obiettivo di sostituire la normativa ISO 594 per ridurre la pro- babilità di disconnessioni durante l’utilizzo dei connettori Luer, rappresentando il riferimento da considerare nella progettazione dei connettori Luer con design diverso in base al tipo di applicazione medica.

La normativa si divide in otto parti: nella prima vengono descritti i requisiti generali e nelle altre vengono riportate le specifiche tecniche per le diverse applicazioni; l’ultima sezione è costituita dai test methods.

Figura 1.7: Rappresentazione schematica della ISO 80369

• ISO 80369-2 Connectors for breathing systems and driving gases application: riguarda applicazioni di ventilazione artificiale e distribuzione di gas medicali.

• ISO 80369-3 Connectors for enteral applications: per applicazioni di nutrizione enterale (nutrizione artificiale che prevede la somministrazione di alimenti attraverso il posizionamento di una sonda nell’apparato digerente).

• ISO 80369-4 Connectors for urethral and urinary applications: per applicazioni uretrali ed urinarie.

• ISO 80369-5 Connectors for limb cuff inflation applications: per il collegamento di sfigmomanometri, nei sistemi di misurazione non invasiva della pressione, per il bracciale con lo strumento di misura.

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• ISO 80369-6 Connectors for neuraxial applications: per applicazioni neuroassiali, per l’iniezione di sostanze anestetiche durante terapia epidurale o intracale.

• ISO 80369-7 Connectors with 6% (Luer) taper for intravascular or hypodermic

applica- tions: Luer lock con 6% di conicità per applicazioni intravascolari e

ipodermiche, in particolare per terapia infusionale (somministrazione di soluzioni e farmaci tramite vena) e trasfusionale.

Figura 1.8: Normativa ISO 80369

1.3.3 ISO 1135 – Transfusion/infusion equipment for medical

use

La normativa ISO 1135 specifica i requisiti per i set di trasfusione/infusione monouso alimentati per gravità per uso medico al fine di garantire la loro compatibilità con i contenitori per il sangue e i suoi derivati e l’attrezzatura intravenosa.

(17)

Figura 1.9: ISO 1135-4 per la punta del perforatore

1.4

Stato dell’arte

Sul mercato dei componenti ad uso medico esiste un’ampia gamma di perforati (spike). Di seguito si riportano alcuni tipi di perforatore prodotti in azienda.

Figura 1.10: spike per trasfusione Figura 1.11: spike per trasferimento di

miscele per soluzione

Figura 1.12: spike per sacca con luer lock Figura 1.13: spike a due vie per tubo Ø

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I perforatori, in base al tipo di applicazione medica, differiscono tra loro per forma, geometria e ma- teriale con cui vengono prodotti.

I materiali principalmente utilizzati per la realizzazione dei perforatori sono: • Polivinilcloruro (PVC);

• Acrilonitrile-Butadiene-Stirene (ABS); • Polipropilene (PP);

• Policarbonato (PC).

Tutti questi materiali soddisfano la specifica richiesta dalla normativa ISO 594, appartenendo alla categoria dei materiali polimerici rigidi o semirigidi.

1.5 Azienda Elcam Medical

Elcam Medical è un’azienda, di proprietà del Kibbtz Bar’Am in Israele, leader mondiale nel comparto della componentistica in materiale plastico utilizzata in campo biomedicale per il controllo dei flussi nei dispositivi per infusione.

L’azienda Elcam Medical ha acquisito nel 2009 la Injectech di Denver in Colorado e nel 2010 la Lucomed S.p.a di Carpi in Italia, divenuta quindi Elcam Medical Italy.

Figura 1.14: Azienda Elcam Medical Italy

Elcam Medical è un’azienda specializzata in quattro grandi aree cliniche:

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• cardiologia e radiologia

• sistemi per l’iniezione ed il rilascio di farmaci.

Elcam Medical Italy è un’azienda specializzata nella formatura e nell’assemblaggio di componenti per dispositivi medici e prodotti personalizzati su specifiche del cliente. Produce una vasta gamma di componenti monouso per emodialisi, terapia intravenosa, trasfusione, cardiochirurgia, anestesia e rianimazione.

In particolare svolge attività di:

• produzione di componenti stampati e pre-assemblati per la fabbricazione di dispositivi medici, anche su specifiche ed esclusive del cliente;

• produzione e distribuzione di dispositivi medici monouso in forma di: – sistemi di drenaggio post-operatorio e accessori;

– cateteri di drenaggio post-operatorio e accessori; – cannule e tubi di aspirazione intraoperatoria; – linee emodialisi e accessori;

– sistemi tubolari;

– prodotti monouso per dialisi, infusione, trasfusione, drenaggio;

• produzione di dispositivi medici e di semilavorati, su specifiche del cliente.

Gli ambienti di produzione Elcam Medical Italy sono costituiti da quattro clean rooms, aree asettiche all’interno delle quali viene monitorata elettronicamente sia la sovra-pressione che la temperatura e l’umidità, e vengono tenuti costantemente sotto controllo il grado di pulizia ed il livello di contami- nazione microbiologica.

Le clean rooms sono tutte classificate, in accordo con la normativa EN ISO 14644-1, “ISO Class 8”, progettate e realizzate secondo le più moderne tecniche costruttive e in grado di soddisfare le esigen- ze qualitative e quantitative della propria clientela.

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Figura 1.15: Camera bianca Elcam Medical Italy

1.6

Obiettivo del lavoro di tesi

L’ obiettivo del lavoro di tesi è quello di sviluppare, industrializzare e validare i processi produttivi di due componenti utilizzati nel set per terapia intravenosa:

• il perforatore (spike) one way con Luer lock; • il tubo che connette i vari componenti.

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Nello specifico i punti affrontati saranno:

• Studio delle fasi di progettazione del perforatore one way con cono Luer lock femmina (presenza di una filettatura esterna all’altezza del cono) seguendo le specifiche presenti nella normativa ISO 80369-7 (connettori per applicazioni intravenose e ipodermiche); • Studio del processo di validazione mediante metodologia Six-Sigma-DMAIC del perfo- ratore one way con cono Luer lock femmina;

• Controllo statistico del processo di produzione del tubo impiegato nel set per terapia intravenosa.

Il roller con cui è assemblato il ruotino, la camera di gocciolamento, il connettore Luer lock femmina ed il connettore Luer lock maschio, a cui si connette il perforatore, sono già validati e prodotti secon- do le normative specifiche.

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Materiali e metodi di lavorazione

Nel presente capitolo verranno descritti i materiali polimerici impiegati per la produzione dei com- ponenti del set per la terapia intravenosa ( polivinilcloruro per il tubo ed acrilonitrile butadiene stirene per il perforatore).

Successivamente verranno spiegati i metodi di lavorazione dei materiali polimerici con particolare attenzione al metodo di produzione adottato per la realizzazione del perforatore (processo di stam- paggio ad iniezione) e del tubo impiegato nel set (processo di estrusione).

2.1 I polimeri

I materiali polimerici, detti anche materie plastiche o resine sintetiche, sono sostanze formate da molecole organiche molto grandi, macromolecole, derivanti dall’unione, mediante legami chimici, di piccole unità di base per la sintesi dei polimeri chiamate monomeri; non sempre l’unità ripetitiva della catena polimerica corrisponde al monomero dal quale si sintetizza il polimero. Il numero di le- gami che un monomero può formare con altri monomeri nella formazione di un polimero è indicato come funzionalità (f ) del monomero.

La funzionalità del monomero è determinante nella fase di polimerizzazione e va ad influenzare la struttura che assumerà il polimero una volta formato:

• Nel caso di monomero con funzionalità uguale a due, il polimero risultante avrà una struttura a singola catena lineare; un esempio è il LLDPE, polietilene lineare a bassa densità, che ha una catena sostanzialmente lineare, con un numero significativo di brevi ramificazioni. Questo tipo di struttura rende il polimero solubile in solventi ed estrema- mente sensibile alla temperatura; i polimeri a struttura lineare rammolliscono veloce- mente con l’aumentare della temperatura, fino alla liquefazione;

• Nel caso di monomero con funzionalità maggiore di 2, si possono avere polimeri a struttura ramificata o reticolata, in cui le ramificazioni formano delle maglie chiuse (Fi- gura 2.1).

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I monomeri che compongono un polimero possono essere di una o più specie, questo permette di introdurre un’ulteriore classificazione dei materiali polimerici:

• Si definiscono omo-polimeri, quei polimeri che sono costituiti dalla ripetizione di una sola unità strutturale;

• Si definiscono co-polimeri, quei polimeri che sono costituiti dalla presenza di unità strutturali di tipo diverso.

In relazione alla loro natura i polimeri possono essere classificati in: • Polimeri naturali organici, ad esempio cellulosa e caucciù;

• Polimeri artificiali, ottenuti dalla modificazione di polimeri naturali, come l’acetato di cellulosa;

• Polimeri sintetici, ossia polimerizzati artificialmente ,ad esempio PVC.

I materiali polimerici sono molto importanti in campo biomedicale poiché rappresentano circa il 45% dei biomateriali e sono utilizzati in molteplici applicazioni come sistemi a rilascio di farmaci, componenti di consumo, materiali per protesi, impianti e dispositivi extracorporei. I vantaggi dei materiali polimerici sono molteplici:

• Facilità di lavorazione nei processi industriali, per la produzione in svariate forme come membrane, fili, fibre, spugne e microsfere;

• Costi di produzione contenuti;

• Dispongono di proprietà fisiche e meccaniche estremamente interessanti per applica- zioni biomediche.

Un’ulteriore suddivisione dei materiali polimerici può essere sviluppata rispetto al tipo di processo di polimerizzazione con cui sono prodotti, si distinguono:

• Polimeri per addizione, ovvero prodotti con il processo di polimerizzazione per addi- zione, con questo processo si ottengono polimeri con la stessa composizione del mono- mero, per lo più termoplastici, il monomero deve contenere un doppio legame C = C che si apre, trasformandosi in un legame semplice, mentre le valenze liberatesi si saturano vicendevolmente per formare la catena polimerica. Un esempio è il polietilene (PE). • Polimeri per condensazione, ovvero prodotti con processo di polimerizzazione per policondensazione, questo particolare processo di polimerizzazione avviene fra molecole del monomero o dei monomeri che devono contenere due gruppi reattivi; nella reazione

(24)

vengono eliminate molecole semplici come H2O, NH3, HCL e quindi la composizione del polimero è diversa da quella dei prodotti di partenza.

Infine è possibile suddividere i materiali polimerici, in base alle proprietà termiche, in: • Polimeri Termoindurenti:

I materiali polimerici termoindurenti o resine termoindurenti hanno una struttura molecolare reti- colata formata da legami covalenti primari. Alcune resine termoindurenti sono reticolate per mezzo del solo calore oppure attraverso combinazioni di calore e pressione. Altre ancora possono venire reticolate attraverso una reazione chimica che avviene a temperatura ambiente (termoindurenti a freddo). Benchè i prodotti in resina termoindurente possano ammorbidirsi per effetto del calore, i legami covalenti del reticolo impediscono loro di ritornare allo stato fluido che esisteva prima della reticolazione.

I materiali termoindurenti, perciò, non possono venire nuovamente riscaldati e quindi fusi come succede per i termoplastici. Questa caratteristica costituisce per i materiali termoindurenti un grosso svantaggio, perché gli scarti di produzione non possono essere riciclati e riutilizzati.

Generalmente i materiali termoplastici vengono scelti, per la realizzazione di un progetto tecnologi- co, per uno o più dei seguenti vantaggi:

- Elevata stabilità termica; - Elevata rigidezza;

- Elevata stabilità dimensionale;

- Resistenza al creep e alla deformazione sotto carico; - Basso peso;

- Elevate proprietà di isolamento elettrico e termico.

I polimeri termoindurenti vengono usati come materiali da stampaggio, nel settore degli adesivi, in quello delle vernici e degli smalti e trovano utilizzo come isolanti degli aerei. I due polimeri termoin- durenti più noti sono il poliuretano (PU) e il teflon (o politetrafluoroetilene PTFE); quest’ultimo viene utilizzato nell’industria chimica per la realizzazione di guarnizioni e parti destinate al contatto con agenti corrosivi.

• Polimeri Termoplastici:

I polimeri termoplastici costituiscono ad oggi la stragrande maggioranza dei materiali polimerici utilizzati a livello industriale. I polimeri termoplastici sono costituiti da lunghe catene lineari o poco ramificate, non reticolate; queste catene allo stato fuso sono completamente indipendenti tra loro, e quindi possono facilmente scorrere le une sulle altre, mentre una volta solidificate instaurano legami secondari di Van der Walls tra di loro, che conferiscono la rigidità al polimero.

Quindi è sufficiente riscaldare un polimero termoplastico per rompere i legami secondari e farlo passare da stato solido a liquido, questo conferisce a questi materiali la capacità di essere

lavoratipiù volte e quindi di essere riciclati; Questa caratteristica viene ampiamente sfruttata nei

processi di stampaggio ad iniezione, dove gli scarti di processo (le materozze) vengono riutilizzati.

(25)

degli atomi o delle molecole che lo costituiscono, o semicristallini.

I polimeri amorfi al di sotto della temperatura di fusione hanno catene intrecciate e attorcigliate (groviglio statistico), presentano una certa resistenza ed elasticità e se non sono caricati mantengono la loro forma.

I polimeri semicristallini sono invece costituiti da zone cristalline (in cui le catene polimeriche sono disposte in maniera ordinata, seguendo tutte la stessa orientazione) intervallate da zone amorfe.

La formazione di un reticolo ordinato e quindi di zone cristalline è fortemente influenzato dalla velo- cità di raffreddamento, nel passaggio da stato liquido a solido; se questo avviene molto lentamente, si favorisce la cristallizzazione del polimero ovvero la formazione di una struttura in cui le macromole- cole assumono una disposizione sterica ordinata e periodica.

La cristallizzazione è tuttavia ostacolata dall’aggrovigliamento delle catene macromolecolari, che tendono a raggiungere una configurazione casuale e reciprocamente interpenetrata (random coil). Anche nei casi più favorevoli, la cristallizzazione non è mai completa (fino a 95-96%) e neppure perfettamente regolare, con il risultato che esisteranno al più polimeri semicristallini aventi

morfologie cristalline e amorfe reciprocamente interconnesse. Le zone cristalline sono caratterizzate dalla loro temperatura di fusione (TM) e da una densità propria ρc (chiaramente maggiore della

corrispettivaρa della regione amorfa) calcolabile dai parametri reticolari della cella cristallina

unitaria. TM rappresenta la più alta temperatura teorica alla quale le regioni cristalline possono esistere, ma nella realtà la fusione di tali porzioni avviene in un certo intervallo di valori. I polimeri amorfi, e le zone amorfe dei polimeri semicristallini, sono caratterizzati dalla temperatura di

transizione vetrosa (TG) alla quale passano dallo stato vetroso (duro e rigido) allo stato gommoso (tenero e grandemente deformabile). Tale transizione corrisponde all’inizio della possibilità di movimento delle catene polimeriche che, al di sotto di TG, sono “congelate” in una disposizione fissa. Sia TM sia TG aumentano al crescere della rigidità delle catene e delle forze di attrazione intermolecolari.

I materiali termoplastici sono ampiamente utilizzati in pratica medica. Trovano applicazione nella realizzazione di sacche per soluzioni infusionali, impianti come valvole cardiache artificiali e

articolazioni, componenti monouso (raccordi, siringhe, tubi). Il motivo principale per cui trovano così largo impiego è sicuramente la garanzia di igiene, nonché il fatto di essere dei materiali in grado di soddi- sfare la richiesta di biocompatibilità del settore medicale.

Alcuni esempi di polimeri termoplastici sono il polivinilcloruro (PVC), il polistirene (PS), il polipro- pilene (PP), il policarbonato (PC), l’acrilonitrile butadiene stirene (ABS) e il polietilene (PE).

Di seguito tra i polimeri termoplastici verranno approfonditi i materiali PVC ed ABS che realizzano rispettivamente il tubo ed il perforatore per il set medico.

2.1.1 Il polivinilcloruro (PVC)

Il polivinilcloruro (PVC) è una materia plastica sintetica largamente usata per l’elevata resistenza chimica e la capacità di essere mescolato con additivi per fabbricare un gran numero di prodotti con svariate proprietà fisiche e chimiche.

Grazie all’elevata biocompatibilità e alla possibilità di essere sterilizzato, il PVC è utilizzato anche in ambito biomedicale, principalmente per la realizzazione di contenitori per la conservazione del sangue, pellicole per il confezionamento degli strumenti chirurgici, cateteri, cannule e componenti per somministrazioni intravenose.

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Il polivinilcloruro è un polimero la cui unità ripetitiva è illustrata in Figura 2.2.

A causa della presenza dell’ingombrante gruppo cloruro laterale, il polimero risulta essenzialmente amorfo e non è in grado di ricristallizzare.

Figura 2.2: Unità strutturale ripetitiva del polivinilcloruro

Le intense forze coesive tra le catene polimeriche nel PVC sono dovute principalmente ai forti momenti dipolo generati dagli atomi di cloro. I grossi atomi elettronegativi di cloro causano impedi- mento sterico e repulsione elettrostatica che riducono la flessibilità delle catene del polimero. Questa immobilità molecolare causa difficoltà nella lavorazione dell’omo-polimero: il PVC può essere quindi utilizzato solo in poche applicazioni senza ricorrere all’impiego di plastificanti e altri additivi; questi ultimi sono necessari per poter lavorare il PVC ma condizionano fortemente le caratteristiche di biocompatibilità. Per preservare la biocompatibilità, vengono di solito utilizzati plastificanti partico- lari quali alcuni poliesteri, l’ASE (alkylsulphonic phenyl ester), il tri-octyl-tri-mellitate (TOTM), il DINCH (diisonocyclohexane dicarboxylate), l’ATBC (acetyltribul citrate) e il DEHTP (diethylhexyl- terphtalate).

2.1.1.1 Composti in miscela

Come già spiegato, il polivinilcloruro viene comunemente utilizzato con l’aggiunta di additivi: • I plastificanti conferiscono flessibilità ai materiali polimerici. Sono generalmente com- posti ad alto peso molecolare scelti in modo da essere completamente miscibili con il materiale di base. In genere si usano esteri dell’acido ftalico.

• Gli stabilizzanti termici vengono aggiunti per prevenire la degradazione termica du- rante la lavorazione e possono anche allungare la vita del prodotto finito. Possono essere interamente organici o inorganici, ma in genere sono composti organometallici a base di stagno, piombo, calcio e zinco.

• I lubrificanti aiutano lo scorrimento del fuso dei composti del PVC durante la lavorazio- ne e prevengono l’adesione alle superfici metalliche. Cere, esteri, grassi e saponi metallici sono i lubrificanti più comunemente usati.

• I riempitivi come il carbonato di calcio vengono aggiunti soprattutto per abbassare i costi finali del PVC al peso.

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2.1.2 Acrilonitrile butadiene stirene

(ABS)

L’ABS è un materiale polimerico ottenuto per copolimerizzazione di tre monomeri: l’acrilonitrile, il butadiene e lo stirene (Figura 2.3).

L’acrilonitrile conferisce resistenza termica e chimica, il butadiene determina la resistenza e la duttili- tà della gomma, mentre allo stirene si associa la brillantezza superficiale, la facilità di lavorazione e il basso costo.

Figura 2.3: Unità ripetitive di stirene, butadiene e acrilonitrile

L’ABS è un materiale termoplastico amorfo; risulta tenace, resiliente e facilmente lavorabile. Oltre ai puri polimeri in ABS esistono anche i polyblend di ABS, ovvero miscele di ABS con cloruro di poli- vinile o policarbonato.

L’ABS presenta buone caratteristiche meccaniche: è rigido e tenace anche a basse temperature (sino a -40°C), possiede elevata durezza ed elevata resistenza all’urto. Con l’aggiunta di fibre di vetro si aumenta il modulo elastico e la resistenza meccanica, a discapito però della tenacità. Per quanto riguarda le condizioni ambientali e d’uso, l’ABS presenta una buona resistenza termica, tanto che può essere utilizzato da circa -45°C sino a +185°C.

È un materiale sicuro dal punto di vista fisiologico, una volta polimerizzato il materiale risulta com- pletamente atossico.

L’ABS può essere lavorato con buona facilità per iniezione (la temperatura della massa fusa va da 200 a 240°C e può raggiungere anche i 270°C per i tipi speciali) ed estrusione (la temperatura di tale lavorazione va da 180 a 220°C; è possibile anche l’estrusione-soffiaggio di corpi cavi, a temperature

di160 -180 °C).

L’ABS, se confrontato con altri polimeri, è estremamente resistente all’impatto, è facilmente colora- bile, consente anche di ottenere tinte metallizzate; quando è stabilizzato, resiste bene alle radiazioni UV.

2.2 Processi di lavorazione

I processi maggiormente utilizzati per i materiali termoplastici sono: • Stampaggio ad iniezione

• Estrusione

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In questo lavoro di tesi, il processo di stampaggio ad iniezione ed il processo di estrusione hanno permesso la realizzazione rispettivamente del perforatore e del tubo.

2.2.1 Stampaggio ad iniezione

Lo stampaggio ad iniezione è un processo industriale in cui il materiale termoplastico (in granuli) viene trasformato in un manufatto con una forma ben definita.

Questo processo di stampaggio consiste nell’iniezione ad alta pressione del materiale fuso in una cavità stampo e dopo le fasi di mantenimento e raffreddamento nell’estrazione del pezzo finito. Lo stampaggio ad iniezione presenta numerosi vantaggi:

• Consente la produzione di prodotti finiti, cioè prodotti che non hanno bisogno di lavo- razioni aggiuntive e che presentano geometrie piuttosto complesse;

• I materiali possono essere lavorati con una notevole precisione dimensionale con tolle- ranze molto strette;

• Possibilità di ottenere elevati volumi di produzione. Il processo di stampaggio ha anche i seguenti svantaggi:

• Prevede un oneroso investimento iniziale per acquistare pressa, stampo e attrezzature ausiliarie;

• Necessità di avere più stampi in base a ciascuna parte da realizzare; • Difficoltà di lavorare parti con grandi variazioni di spessore.

2.2.1.1 Pressa ad iniezione

Il macchinario (detto pressa ad iniezione) che permette l’operazione di stampaggio ad iniezione è costituito da un gruppo iniezione collegato a un gruppo chiusura.

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Gruppo iniezione

Consente di plastificare ed iniettare il polimero nello stampo. Il polimero in forma granulare è inseri- to attraverso la tramoggia all’interno del cilindro riscaldato da resistenze che consentono di regolar- ne la temperatura. Il materiale così riscaldato è trascinato in avanti dal movimento rotatorio della vite punzonante che scorre nel cilindro ed in seguito è iniettato attraverso l’ugello con un movimento di avanzamento della stessa vite. L’unità idraulica della pressa ha il compito di regolare i movimenti della vite sia in fase di plastificazione che in quella di iniezione.

Gruppo chiusura

Ha la funzione di tenere chiuso lo stampo durante tutta la fase di iniezione e di mantenimento in pressione e di aprirlo al momento dell’estrazione.

Gli elementi principali del gruppo di chiusura sono il semi-stampo fisso collegato all’unità di inie- zione, la parte mobile dello stampo collegata alla chiusura a ginocchiera, le centraline per il raffred- damento, gli estrattori per l’espulsione del prodotto finito o eventuali manipolatori esterni, il motore per la regolazione del gruppo di chiusura.

Figura 2.5: Schema di una pressa

Stampo

Lo stampo rappresenta il cuore dello stampaggio ad iniezione; contiene, infatti, le impronte che da- ranno la forma al prodotto finito, oltre ai canali di alimentazione, al sistema di raffreddamento, agli estrattori. Fondamentalmente è costituito da due parti: una piastra mobile (maschio) ed una piastra

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Figura 2.6: Lo stampo

2.2.1.2 Ciclo di stampaggio

Il tipico ciclo di stampaggio può essere diviso nelle seguenti fasi sequenziali (Figura 2.7): • Riempimento (filling): il granulato miscelato viene caricato nel cilindro di plastificazio- ne mediante la tramoggia; la vite punzonante, attraverso la sua rotazione con movimento indietro, consente la plastificazione del materiale riscaldato per attrito all’interno del cilindro facendolo avanzare verso la zona di iniezione. Uno spostamento rapido in avanti della vite forza il polimero fuso attraverso l’ugello nella cavità dello stampo chiuso, dove assumerà la forma desiderata. Durante l’iniezione del materiale si ottiene circa l’85% del peso del pezzo: il completamento al 100% avviene nella successiva fase;

• Impaccamento-mantenimento (packing-manteinance): una volta che la cavità è riempi- ta, inizia la fase di impaccamento-mantenimento, durante la quale si continua a iniettare materiale così da compensare il ritiro dovuto alla solidificazione del polimero nello stam- po. L’impaccamento continua fino al congelamento del punto di iniezione (gate). Si tratta di una fase delicata poiché influenza pesantemente le deformazioni post stampaggio; • Raffreddamento (cooling) e plastificazione (plastication): finita la fase di impaccamen- to, il materiale all’interno continua a raffreddarsi fino a quando anche il punto più caldo raggiunge la temperatura di estrazione. La fase di raffreddamento è gestita da centraline che fanno circolare il fluido (generalmente acqua) all’interno dello stampo, il quale è dotato di una opportuna canalizzazione di raffreddamento e di inserti con elevata con- ducibilità termica. In contemporanea al raffreddamento, la vite continua a ruotare per plastificare il materiale all’interno del cilindro, e convoglia il polimero fuso nella parte anteriore, pronto per essere iniettato al ciclo successivo;

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• Apertura dello stampo ed espulsione del pezzo (mold opening and part ejection): quando il materiale si è raffreddato a sufficienza lo stampo si apre e il pezzo viene espulso mediante estrattori opportunamente posizionati nello stampo in modo tale da non compromettere la qualità del pezzo.

Figura 2.7: Fasi dello stampaggio ad iniezione

Il ciclo di lavoro è governato principalmente dal tempo di raffreddamento che richiede un tempo superiore rispetto a quello delle altre fasi della lavorazione; in figura 2.8 è riportato un grafico che mostra l’influenza di ogni fase sul tempo ciclo totale.

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Figura 2.8: Ciclo di stampaggio

2.2.1.3 Parametri principali di stampaggio

• Temperatura della camera d’iniezione : temperatura del cilindro all’interno del quale avviene la plastificazione del granulo;

• Velocità di iniezione : velocità massima lineare della vite con cui la dose è iniettata all’in- terno dello stampo;

• Cuscino: è la quota di materiale che non entra nello stampo; è fondamentale affinché la vite di iniezione non vada a battuta durante la sua corsa di avanzamento;

• Pressione di mantenimento o post pressione : compressione (per un determinato tempo) di altro materiale, proveniente dal cuscino, nelle cavità dello stampo in modo da com- pensare i ritiri di solidificazione del materiale all’interno delle cavità dovuto al raffredda- mento;

• Temperatura dell’acqua di raffreddamento : temperatura della circolazione forzata dell’acqua nel circuito di raffreddamento dello stampo, necessaria per la solidificazione del materiale termoplastico;

• Tempo di raffreddamento : tempo in cui i componenti sono forzati a rimanere nelle cavità prima di essere espulsi, in modo da ottenere una corretta solidificazione.

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2.2.1.4 Problemi di stampaggio

I principali difetti che si possono riscontrare nei componenti stampati sono:

- Linee di giunzione: si formano a seguito dell’incontro di flussi di fuso provenienti da di- rezioni diverse, e costituiscono dei punti di debolezza e possibile rottura del componente a causa della scarsa inter-diffusione delle molecole.

- Risucchi e vuoti: sono causati dal ritiro del fuso durante la fase di raffreddamento. - Tensioni e deformazioni: si possono presentare a causa della distribuzione non uni- forme di temperatura di raffreddamento; particolarmente critiche risultano le zone con variazioni di spessore e con angoli pronunciati.

- Bruciature: derivano dal surriscaldamento del polimero durante la fase d’iniezione. - Bave: piccole sporgenze di materiale dovute spesso ad una velocità d’iniezione troppo alta.

Risulta necessario settare in modo ottimale i parametri di stampaggio per eliminare o minimizzare, a livelli qualitativamente accettabili, questi difetti di stampaggio.

2.2.1.5 Software per analisi FEM e Mold Flow

Durante la fase di progettazione degli stampi, spesso sono utilizzati software di simulazione agli elementi finiti per determinare il design ottimale e quindi ridurre al minimo la presenza dei difetti nei prodotti finiti.

Nella fase di progettazione e sviluppo del nuovo perforatore sono stati impiegati questi software per testare la qualità del riempimento delle cavità dello stampo durante la fase d’iniezione del fuso, e per valutare le possibili deformazioni dei componenti, sottoposti a stress meccanico, nei punti considera- ti critici per la funzionalità dei componenti.

I software utilizzati sono stati:

• Software Autodesk Simulation Moldflow; • Tool di SolidWorks per analisi FEM.

Autodesk Simulation Moldflow

Autodesk Simulation Moldflow fa parte del pacchetto Autodesk Simulation; offre soluzioni per la prototipazione digitale e per la design optimization dei componenti.

Questo software simulando la fase di iniezione del materiale fuso, dentro le cavità dello stampo, permette di predire il comportamento reologico del materiale, valutando cosi il grado di riempimen- to del componente, evidenziando possibili incompletezze e minimizzando le probabilità di ottenere pezzi non conformi.

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Tool di SolidWorks per analisi FEM

Il tool di SolidWorks per analisi FEM fornisce un metodo rapido per analizzare il comportamento meccanico dei componenti, partendo dal disegno 3D ed utilizzando varie tipologie di mesh

2.2.2 Estrusione

L’estrusione occupa una posizione preminente per versatilità e vastità d’impiego. È un’operazione tecnologica che opera in continuo e in condizioni stazionarie per produrre diversi tipi di manufatti caratterizzati da sezioni simmetriche o asimmetriche che si ripetono identicamente lungo l’asse di estrusione. È così possibile ottenere estrusi a sezioni simmetriche come quelle circolari (tubi cavi o pieni) e rettangolari (lastre e film) oppure a sezioni asimmetriche (travi a C, L, T, ecc.).

Il processo di estrusione presenta numerosi vantaggi tra cui la possibilità di un processo continuo, portate elevate, possibilità di modellazione del prodotto finale e costi contenuti. Per contro però ci sono alcuni svantaggi da tenere in considerazione come gli alti costi di messa a punto del sistema e la sua rigidità.

La macchina con cui operare il processo di estrusione prende il nome di estrusore. Ne esistono vari tipi come gli estrusori monovite, bivite, estrusori di degasaggio e a cascata.

Il tipo di estrusore più utilizzato per la lavorazione delle materie termoplastiche, nonché l’estrusore utilizzato per la produzione del tubo in questione, è l’estrusore monovite. La struttura di tale estruso- re è mostrata in Figura 2.9:

Figura 2.9: Estrusore monovite

Il materiale, in forma granulare o di polvere polimerica, viene inserito nella tramoggia e da qui, ancora allo stato solido, passa per gravità, attraverso l’apertura di alimentazione, nel cilindro dove è

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di una fonte di alimentazione costante ha un impatto negativo sulla stabilità della prestazione dell’e- strusore.

La vite ruota, con accoppiamento molto preciso, all’interno del cilindro. Il movimento della vite è generato e regolato da un sistema motore-riduttore con giunto di sicurezza.

La vite, ruotando all’interno del cilindro, trascina il materiale verso la matrice; durante il percorso il polimero è reso fluido dall’azione simultanea dell’attrito e delle fasce riscaldanti a temperatura con- trollata, il cui intervento è regolato dalle termocoppie.

La vite è la parte più importante dell’estrusore ed è caratterizzata da una tipica geometria che prevede la presenza di tre zone; esistono comunque viti con geometria diversa da quella classica. Le tre zone della vite classica corrispondono a diverse caratteristiche fisiche del polimero, secondo le quali si possono individuare nell’estrusore le seguenti zone (Figura 2.10):

1. Zona di alimentazione (feeding zone): è la zona vicino alla tramoggia nella quale il materiale entra nel cilindro, viene trasportato e fonde; è la zona con il minimo diametro del nocciolo della vite;

2. Zona di compressione o di plastificazione (plastication zone): è la zona centrale nella quale il materiale fuso viene compresso e quindi pressurizzato; in tale zona il diametro del nocciolo della vite varia linearmente;

3. Zona di dosaggio o di pompaggio (pumping zone): è la zona vicino alla matrice, il materiale fuso viene omogeneizzato e dosato; è la zona con il massimo diametro del nocciolo della vite.

Figura 2.10: Zone di funzionamento della vite dell’estrusore

Lungo la vite si genera quindi un profilo di pressione crescente dalla tramoggia verso la filiera. Sotto la tramoggia la pressione è uguale a quella atmosferica, cosi come all’uscita della filiera. All’ingresso della filiera deve esserci invece la pressione necessaria per espellere il polimero nelle date condizioni di temperatura e portata.

E inoltre importante la presenza del circuito di raffreddamento utile per impedire sia il prematuro rammollimento del granulato nella tramoggia, che potrebbe portare al blocco del flusso al suo inter- no, sia il surriscaldamento del polimero in condizioni di lavoro non ottimizzate.

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fluidifi-cati e corpi estranei.

A questo punto il polimero, ridotto in forma di liquido molto viscoso, viene estruso attraverso una filiera di formatura (matrice) che gli conferisce la forma desiderata. Se la sezione del pezzo che si vuole ottenere è cava, sarà presente un’anima che riprodurrà il profilo della cavità interna e sarà inol- tre possibile agire sulla cavità interna insufflando aria a pressione controllata.

Oltre all’estrusore, l’attrezzatura con cui produrre il tubo per il set si compone di altre apparecchiatu- re come mostrato in Figura 2.11.

Figura 2.11: Impianto di estrusione

All’uscita dalla matrice il prodotto viene raffreddato mediante aria o mediante vasche di raffredda- mento ad acqua e trainato lungo la direzione d’uscita per mezzo di rulli posti a una certa distanza dalla testa d’estrusione, provocandone un allungamento. Il raffreddamento deve avvenire in modo uniforme per limitare le distorsioni nel pezzo.

La velocità di trascinamento dei rulli può essere settata manualmente (loop aperto) o regolata in base al valore del calibratore laser mediante controllo in loop chiuso in retroazione negativa: si confronta il valore misurato dal laser (diametro esterno del tubo) con il valore target e, sulla base della differen- za tra i due valori, viene regolata in modo automatico la velocità del traino.

È bene evidenziare che quando il componente esce dalla matrice di estrusione presenta ancora una consistenza molle e raffreddandosi aumenta di volume. Questo effetto è noto come rigonfiamento, quindi nella fase di progettazione delle matrici di estrusione bisogna porre molta attenzione a questo fenomeno e bisogna tenerne conto anche nella fase di setting del laser di controllo.

Successivamente l’estruso così generato, passa alla raccolta per essere avvolto in bobine, ad esempio nel caso dei tubi, o tagliato in spezzoni tramite una taglierina.

Per la produzione del tubo del set è stato utilizzato l’estrusore monovite della Friul Filiere riportato nella Figura 2.12.

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Figura 2.12: Estrusore monovite Friul Filiere

2.2.2.1 Sistema per controllo del tubo di Nirox srl

Uno dei problemi che può ridurre la qualità del tubo per uso medico prodotto attraverso il processo di estrusione è la eccessiva variabilità dello spessore di parete lungo la sezione.

Il sistema di ispezione del tubo di Nirox permette la misura dello spessore di parete; esso è costituito da:

• Il sensore ottico interferometrico e multi-canale permette di misurare con la massima accuratezza lo spessore di parete;

• La fixture, costituita da 4 sonde, consente l’integrazione immediata delle teste ottiche sulla linea di produzione con meccanismi di regolazione semplificata;

• Il pannello operatore visualizza le misure ottenute, gli andamenti temporali delle varie grandezze e la rappresentazione grafica della centratura del prodotto;

• Il modulo di reportistica registra i dati di misura e li compone secondo una cadenza temporale impostabile in documenti di riepilogo con informazioni statistiche di base a cui si aggiungono gli indici di processo.

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Il sensore ottico per la misura di spessore di parete è basato sull’interferometria. Il materiale viene illuminato con una sorgente ottica ad ampio spettro; parte del fascio incidente viene riflessa all’in- terfaccia aria-materiale (componente r1) e parte del fascio che attraversa il materiale viene riflessa in corrispondenza dell’ interfaccia di uscita (materiale-aria) generando la componente r2. La testa ottica integrata consente di raccogliere le componenti r1 ed r2 e di farle interferire tra di loro. Com- binando lo spessore ottico con l’indice di rifrazione tipico del materiale si ottiene lo spessore fisico.

Figura 2.13: Schematizzazione del funzionamento del sistema Nirox

Dalla lettura dello spessore di parete e conoscendo il diametro esterno del tubo mediante un calibra- tore laser è possibile risalire al dato del diametro interno.

Il software ViewThick permette di visualizzare l’andamento nel tempo di tutte le grandezze misura- te; i dati vengono analizzati in un report in cui è presente la statistica delle grandezze calcolate con i relativi indici di capacità di processo.

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Metodologia Six-Sigma DMAIC

3.1 Six-Sigma

Il Six Sigma è una metodologia di miglioramento della qualità aziendale.

Il suo nome deriva da “Sigma”, che nel mondo della statistica indica la misura della varianza di un processo ovvero l’oscillazione di un parametro rispetto alla media (la deviazione standard) e da “Sei” che è il livello massimo di qualità raggiungibile applicando questa metodologia (più sigma ci sono, infatti, più il processo è stabile e quindi meno soggetto alla varianza).

Un processo con una qualità di sei sigma indica tassi di precisione del 99,99966% che è convertibile in non più di 3,4 difetti per milione di elementi prodotti.

Allo stato dell’arte il Six Sigma rappresenta la metodologia di problem solving più efficace per migliorare qualunque ambito di business e qualunque prestazione.

La metodologia Six Sigma nasce negli USA negli anni 80, grazie al lavoro di Mikel Harry che in quegli anni lavorava in Motorola.

L’ approccio introdotto da Harry si basava su alcune considerazioni preliminari: - un processo aziendale è assimilabile ad un sistema complesso del quale è

necessario comprendere gli ingressi, le uscite ma soprattutto i parametri di controllo; - la comprensione dei processi deve passare da uno studio statistico dei dati in modo da garantire che il fenomeno sia realmente compreso e non si seguano solo delle intuizioni nate dall’esperienza;

- ogni processo che non sia controllato o monitorato con continuità tende a degradare le proprie prestazioni nel tempo;

- una metodologia si può considerare efficace per un’azienda solo se fornisce dei risultati economici percepibili anche nel breve e medio periodo.

Da questi presupposti si è sviluppato il primo embrione della metodologia Sei Sigma il cui obiettivo era quello di rappresentare un approccio rigoroso ma agile per lo sviluppo di azioni di miglioramen- to.

I punti principali che caratterizzano la metodologia Six Sigma sono: • Approccio basato sui dati

Il Sei Sigma spinge verso la ricerca dei fattori realmente influenti sul processo, cercando di ridurre i rischi legati ad una sbagliata valutazione del processo stesso. In questa ottica i dati rappresentano la chiave per la comprensione dei processi.

• Controllo del processo

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