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Il "nuovo" concordato in appello: verso una gestione delle impugnazioni a macchia di leopardo?

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κτῆμα ἐς αἰεί

(Tucidide)

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~ 1 ~

INDICE

INTRODUZIONE ... 4

CAPITOLO I LA GIUSTIZIA PENALE NEGOZIATA NELLA LOGICA DELLA RIDIMENSIONE DEI TEMPI PROCESSUALI 1. Il problema dell’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari: il principio della «ragionevole durata del processo»... 8

2. Un problema definitorio: la problematica determinazione del concetto di tempo «ragionevole» ... 12

3. La costituzionalizzazione del principio della «ragionevole durata» ... 15

4. Il contenimento dei tempi processuali dal codice Rocco al codice Vassalli ... 18

5. Lo sviluppo della giustizia penale negoziata come rimedio all’ipertrofia del giudizio dibattimentale ... 22

6. La giustizia penale negoziata nel diritto comparato ... 30

6.1. L’esperienza di common law ... 30

6.2. Il sistema francese ... 33

6.3. Il sistema tedesco ... 35

(3)

~ 2 ~

CAPITOLO II

LA NEGOZIALITÀ NEL GIUDIZIO DI SECONDO GRADO: IL CONCORDATO SUI MOTIVI D’APPELLO

1. L’evoluzione giuridica del concordato sui motivi di appello ... 38 1.1. Le origini dell’istituto ... 38 1.2. La dichiarazione di illegittimità costituzionale per

eccesso di delega ... 43 1.3. L’abrogazione del 2008 ... 46 2. La dimensione originaria dell’istituto ... 49

2.1. (Segue): La proposizione dell’accordo e i soggetti

legittimati alla stipulazione ... 49 2.2. (Segue): I poteri del giudice ... 51 2.3. (Segue): L’irrevocabilità dell’accordo ... 53 3. L’improprio ed equivoco uso del termine “patteggiamento in

appello” ... 55

CAPITOLO III

LA RIFORMA ORLANDO: IL “RITORNO ALLE ORIGINI”

1. Premessa ... 59 2. Il nuovo art. 599-bis c.p.p. ... 61 3. Le linee-guida delle Procure Generali ... 67 4. Verso una gestione delle impugnazioni a macchia di

(4)

~ 3 ~

BIBLIOGRAFIA... 75 GIURISPRUDENZA ... 83

(5)

~ 4 ~

INTRODUZIONE

«Nell’ordinamento giuridico vi sono istituti assai singolari, i quali, più che nascere dalla tecnica o dalla pura fantasia del legislatore, sembrano scaturire direttamente dalla logica del sistema […] anche quando le scelte di politica legislativa procedono a sopprimerli espressamente, sembrano comunque servare un flebile ma tenace spiritus di vita sotto le macerie dell’abrogazione. Senza dissolversi del tutto in ragione dell’abolitio legis, paiono ritirarsi in uno stato di esistenza latente […] pronti a risorgere e spiccare nuovamente il volo verso anche inediti e più promettenti sviluppi applicativi, alla stregua della fenice, capace di rinascere dalle proprie ceneri, più pura e più forte di prima»1.

Le parole di Francesco Callari sintetizzano perfettamente la travagliata evoluzione di un istituto «negletto»2, il c.d.

1

CALLARI, Il concordato sui motivi di appello e il mito della fenice, in Cass.

pen., fasc. 12, 2015, cit., p. 4640

2 L’espressione è di SPANGHER, Storia di un istituto negletto: le alterne

sorti del “patteggiamento in appello”, in AA.VV, Le nuove norme sulla sicurezza pubblica, a cura di Lorusso, Padova, 2008

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concordato sui motivi di appello3 o patteggiamento in appello, che ha conosciuto sorti alterne all’interno del nostro ordinamento.

Ideato dal legislatore del 1988 come meccanismo di deflazione del carico giudiziario in grado di appello – in linea con le scelte di massima semplificazione operate dalla legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81 per il nuovo codice di procedura penale – l’istituto rispondeva all’intento di stimolare le parti a concentrare il devolutum, scremando tutti quei motivi di carattere “tuzioristico” che finivano per intasare il gravame. Il concordato sui motivi di appello ha dapprima subito una significativa riduzione delle sue potenzialità semplificative ad opera di una sentenza demolitoria della Corte Costituzionale, per poi essere definitivamente abrogato da una «scelta istintiva, a sfondo sensazionale e poco meditata»4 del legislatore del 2008 (anche se, malgrado l’abrogazione, la negoziazione sui motivi ha continuato ad essere praticata nella prassi, specie presso alcune Corti d’appello).

3

La denominazione “concordato sui motivi d’appello”, che non compare negli originari artt. 599 commi 4 e 5 e 602 comma 2 c.p.p., è stata proposta per la prima volta da PISANI, Il pubblico ministero nel nuovo

processo penale: profili deontologici, in Riv. dir. proc., 1989, p. 191

4

SURACI, Il concordato sui motivi di appello, in AA.VV., La riforma

Orlando. Modifiche al codice penale, codice di procedura penale e ordinamento penitenziario, a cura di Spangher, Pisa, 2017, cit., p. 248

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~ 6 ~

Mutatis mutandis, a quasi dieci anni dall’abrogazione, è la

riforma Orlando a reintrodurre – con una disposizione autonoma, l’art. 599-bis – il concordato sui motivi di appello nell’ordinamento vigente, con rilevanti profili di novità rispetto alla previgente disciplina.

Il presente elaborato, articolato in tre capitoli, si pone l’obiettivo di ripercorre l’evoluzione del concordato sui motivi di appello, al fine di mettere in luce quelli che sono stati – e che tutt’oggi sono – i punti di criticità di un siffatto istituto di matrice negoziale.

Il primo capitolo ha ad oggetto la giustizia penale negoziata, con particolare riferimento alle esigenze di celerità processuale e di deflazione del carico giudiziario.

Le logiche di negotiated justice che hanno animato la codificazione del 1988 rappresentano, infatti, il principale elemento di novità del Codice Vassalli.

Il secondo capitolo ripercorre la “storia” del concordato in appello, dalla sua introduzione all’abrogazione del 2008, e ne ricostruisce le linee essenziali.

Il terzo capitolo, infine, prende in esame l’istituto come reintrodotto dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, ponendo l’accento sui profili di novità dell’art. 599-bis, in particolare su quella parte della nuova formulazione dell’articolo che impone

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~ 7 ~

al Procuratore Generale presso la Corte d’appello di indicare i criteri idonei ad orientare la valutazione di tutti i pubblici ministeri del distretto rispetto al concordato.

La disposizione, infatti, delegando al potere regolamentare delle singole Procure la definizione delle linee-guida in tema di applicazione del concordato, pone evidenti problemi di omogeneità nell’esercizio dell’azione penale.

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~ 8 ~

CAPITOLO I

LA GIUSTIZIA PENALE NEGOZIATA NELLA

LOGICA DELLA RIDIMENSIONE DEI TEMPI

PROCESSUALI

SOMMARIO: 1. Il problema dell’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari: il principio della «ragionevole durata» del processo – 2. Un problema definitorio: la problematica determinazione del concetto di tempo ragionevole - 3. La costituzionalizzazione del principio della «ragionevole durata» – 4. Il contenimento dei tempi processuali dal codice Rocco al codice Vassalli – 5. Lo sviluppo della giustizia penale negoziata come rimedio all’ipertrofia del giudizio dibattimentale – 6. La giustizia penale negoziata nel diritto comparato – 6.1. L’esperienza di common law – 6.2. Il sistema francese – 6.3. Il sistema tedesco – 6.4. Il sistema spagnolo

1. IL PROBLEMA DELL’ECCESSIVA DURATA DEI

PROCEDIMENTI GIUDIZIARI: IL PRINCIPIO DELLA «RAGIONEVOLE DURATA» DEL PROCESSO

Il rapporto che intercorre tra giustizia e tempo è da sempre problematico, in quanto «il processo è un’entità che, per sua natura, è destinata a svolgersi nel tempo e la domanda di

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giustizia – sia quella che proviene dalle parti interessate, sia quella che proviene dalla collettività – è anche domanda di giustizia tempestiva»1.

Il giudizio, per poter essere considerato esito di un processo giusto, non solo deve essere reso nel rispetto dei principi di indipendenza, imparzialità e precostituzione del giudice, ma deve anche essere pronunciato in un tempo ragionevole. Il «tempo ragionevole» diviene il parametro cui rapportare, in termini di effettività, non solo la tutela dell’individuo sotto accusa, ma anche il bisogno di giustizia della persona che, offesa dal reato, verrebbe lesa ulteriormente dal ritardo nella conclusione del processo, traducendosi tale ritardo in una sorta di denegatio iustitiae2.

Non si può disconoscere, inoltre, che lo svolgimento del processo in tempi ragionevoli rappresenti non soltanto un diritto delle parte, ma anche un’obiettiva esigenza di buona amministrazione della giustizia.

L’eccessiva durata del processo implica, in primo luogo, un problema di cattiva amministrazione della giustizia, comportando uno spreco di risorse, uomini e mezzi che potrebbero essere utilmente impiegati in altri processi.

1

CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, Milano, 1982, cit. p. 205

2

AIMONETTO, La «durata ragionevole» del processo penale, Torino, 1997, p. 1

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~ 10 ~

In secondo luogo, determina una negazione delle istanze di prevenzione generale, poiché la minaccia della sanzione penale si affievolisce proporzionalmente alla durata dei processi: la previsione di una pena certa e pronta ha un potenziale deterrente maggiore rispetto alla minaccia di una pena severa3.

La celerità non costituisce, tuttavia, un valore assoluto e intangibile, dovendo contemperarsi con altri principi, di pari o superiore dignità.

Non bisogna, cioè, perseguire la «celerità per la celerità»4: in un sistema processuale come il nostro – improntato ai caratteri del sistema accusatorio e, quindi, maggiormente attento a quelle che sono le garanzie dei diritti fondamentali dell’individuo sottoposto a processo – se da un lato è importante garantire che il procedimento si svolga in tempi brevi, dall’altro lato è altrettanto importante garantire che il processo si svolga in modo da rispettare diritti fondamentali quali il diritto alla difesa e al contraddittorio.

La «ragionevolezza», coniugata alla celerità, assicura «la necessità di un equilibrio nel quale siano contemperate armoniosamente, per un verso l’istanza di una giustizia

3

In questo senso KOSTORIS, La ragionevole durata del processo, a cura di E. Kostoris, Torino, 2005, p. 3

4

CONSO, “Tempo e giustizia”: un binomio in crisi, in Costituzione e

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~ 11 ~

amministrata senza ritardi e, per altro verso, l’istanza di una giustizia non frettolosa e sommaria»5.

Il rapporto tra giustizia e tempo, in definitiva, trova composizione solo nel contemperamento tra opposte e irrinunciabili esigenze: la giustizia si realizza con il massimo di conoscenza nel tempo più breve6.

5

TROKER, Il valore costituzionale del «giusto processo», in AA.VV., Il

nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, a cura di

Civinini-Verardi, Milano, 2001, cit., p. 49

6

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~ 12 ~

2. UN PROBLEMA DEFINITORIO: LA PROBLEMATICA DETERMINAZIONE DEL CONCETTO DI «TEMPO RAGIONEVOLE»

Abbiamo parlato, fino ad ora, di ragionevolezza dei tempi processuali come di una garanzia ineludibile del sistema processuale.

Ma quand’è che i tempi processuali possono dirsi «ragionevoli»?

La nozione di «ragionevole durata» del processo è un concetto elastico e non assoluto: poiché la durata di un procedimento viene a dipendere da molteplici circostanze che possono variamente combinarsi fra loro, è impossibile predeterminare, con assoluta precisione, i tempi del procedimento penale. Il concetto di «ragionevolezza» deve esser necessariamente contestualizzato e relativizzato per poter verificare se l’eccessivo protrarsi del processo sia o meno giustificato. I giudici di Strasburgo hanno elaborato quattro «criteri di relativizzazione»7 dal cui esame complessivo è possibile valutare se il processo ha avuto una durata ragionevole:

1) la condotta delle parti;

2) il comportamento delle autorità competenti; 3) la complessità del caso;

7

CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, vol. II, 3° ed., Milano, 1984, p. 265

(14)

~ 13 ~ 4) “posta in gioco”.

CONDOTTA DELL’IMPUTATO.

In campo penale vige il principio secondo cui sull’imputato non incombe alcun onere di collaborazione attiva con gli organi del processo contro di lui.

Tale principio non legittima, tuttavia, ogni condotta dilatoria od ostruzionistica dell’imputato, come la fuga, la latitanza o un utilizzo improprio, a fini dilatori, di quei comportamenti che costituiscono estrinsecazione del diritto di difesa dell’imputato (ripetuto mutamento del difensore, continue ed ingiustificate richieste di rinvio, frequenti cambiamenti di domicilio ecc.)8.

COMPORTAMENTO DELLE AUTORITÀ.

Deve essere valutato secondo il criterio che solo situazioni eccezionali e transitorie possono esimere lo Stato dalla responsabilità per la violazione del dovere di organizzare con efficienza l’amministrazione della giustizia9

.

COMPLESSITÀ DELLA CAUSA.

Viene ravvisata nella natura dell’accusa, nell’espletamento di perizie, nell’ampiezza della documentazione da esaminare, nella necessità di compiere atti investigativi all’estero o,

8

Corte eur., 19 ottobre 1999, Gelli c. Italia, § 38

9

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~ 14 ~

comunque, di cooperare con un paese straniero, nell’istaurazione di un procedimento incidentale, nell’elevato numero degli accusati e dei testi da assumere, nella sussistenza di un vincolo di pregiudizialità.

Nessuno di questi elementi è decisivo considerato singolarmente, ma occorre valutare la durata globale della procedura alla luce dell’insieme di questi fattori.

POSTA IN GIOCO.

Parametro che prende in considerazione quegli interessi, in gioco nel procedimento, di un’importanza tale da dover essere risolti con una particolare celerità.

Si tratta di quei casi in cui un’eccessiva lentezza potrebbe comportare gravi conseguenze sul godimento, ad esempio, del diritto alla salute o sul godimento del diritto alla libertà personale.

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~ 15 ~

3. LA COSTITUZIONALIZZAZIONE DEL PRINCIPIO DELLA «RAGIONEVOLE DURATA»

Se nel sistema processuale statunitense la tematica relativa alla durata dei procedimenti trova il proprio fondamento normativo nel Bill of Rights del 1791, il cui VI Emendamento prevede espressamente che in ogni processo penale l’accusato gode del diritto a un processo speedy – cioè rapido – nel nostro ordinamento, in principio, il diritto alla durata ragionevole del processo non costituiva oggetto di protezione specifica né da parte della normativa ordinaria né da parte delle disposizioni costituzionali.

La Corte costituzionale, con sentenza n. 202 del 1985, aveva esplicitamente affermato che «la problematica dei tempi processuali non trova eco nella Carta costituzionale».

L’unica eccezione era rappresentata dall’art. 13, 5 comma della Costituzione, il quale, però, affrontava soltanto in maniera indiretta il tema.

Imponendo alla legge di stabilire i limiti massimi di carcerazione preventiva, l’articolo finiva per prendere in considerazione soltanto l’imputato in vinculis, senza affatto preoccuparsi dei tempi processuali, in quanto all’imputato veniva garantito non già il diritto ad un processo in tempi congrui, bensì il riacquisto della libertà qualora la durata del processo si fosse prolungata eccessivamente.

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~ 16 ~

Sono le fonti internazionali a riconoscere, per prime, come il diritto ad essere giudicati in un termine ragionevole sia uno degli elementi che concorrono a garantire un «giusto processo».

Il principio trova infatti riconoscimento sia nell’art. 6, paragrafo 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – ai sensi del quale «ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole per la determinazione della fondatezza dell’accusa elevata a suo carico» – sia nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, il cui art. 14 n. 3 lett. c), afferma che «ogni individuo accusato di un reato ha diritto […] ad essere giudicato senza ingiustificato ritardo».

E’ soltanto con la riforma dell’art. 111 della Costituzione, operata con legge costituzionale del 23 novembre 1999 n. 2, che la previsione contenuta nell’art. 6 della CEDU entra a fare parte anche del nostro ordinamento costituzionale.

La nuova formulazione dell’art. 111 rappresenta l’intervento legislativo più importante in materia di processo e giurisdizione.

Con la modifica di tale articolo, il Parlamento ha introdotto cinque nuovi commi, di cui i primi due consacrano i principi del giusto processo («La giurisdizione si attua mediante il giusto processo, regolato dalla legge. Ogni processo si svolge

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nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata») a cui ogni processo, non soltanto quello penale, deve ispirarsi per poter aspirare ad essere qualificato come «giusto».

A questa duplicità delle fonti normative corrisponde una radicale diversità di prospettiva.

Mentre la norma sovranazionale si configura come un diritto soggettivo, rivolgendosi alla persona e riconoscendole un diritto immediatamente tutelabile davanti alla Corte europea (al pari di quanto avviene nel modello statunitense, la cui peculiarità consiste nel configurare lo speedy trial,

analogamente a quanto avviene per altre garanzie previste nel

Bill of Rights, in termini di vero e proprio diritto soggettivo), la

norma costituzionale si atteggia in termini di garanzia oggettiva, limitandosi ad affidare al legislatore il compito di assicurare tale garanzia10.

La Costituzione affida, in buona sostanza, al legislatore il compito di produrre una normativa idonea a consentire il celere svolgimento dei processi e, di riflesso, attribuisce ai giudici della Consulta il potere di dichiarare incostituzionale

10

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~ 18 ~

ogni disposizione da cui conseguono tempi eccessivamente lunghi11.

4. IL CONTENIMENTO DEI TEMPI PROCESSUALI DAL CODICE ROCCO AL CODICE VASSALLI

L’ideologia che sta alla base del processo penale incide inevitabilmente sulla durata del suo svolgimento, in quanto la metodologia che, di volta in volta, si sceglie per l’accertamento penale, riflette in misura maggiore o minore l’interesse a pervenire ad una decisione in tempi ragionevoli12.

Esiste una stretta correlazione tra regime politico e sistema processuale13: in un processo che si ispira al modello accusatorio i tempi saranno molto più brevi rispetto ad un accertamento di tipo inquisitorio che, al contrario, non privilegia la rapidità.

Il sistema inquisitorio – basato sul principio di autorità, per cui la verità è tanto meglio accertata quanto più potere viene dato al soggetto inquirente – è il metodo di accertamento proprio dei regimi totalitari.

11 D’AIUTO, Il principio della «ragionevole durata» del processo penale,

Napoli, 2007, p. 86

12

KALB, Il processo per le imputazioni connesse, 2° ed., Torino, 1995

13

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La caratterista principale di questo tipo di sistema è data dal principio del cumulo dei poteri processuali: tutte le funzioni processuali si cumulano in capo al giudice inquisitore, a cui è affidato il compito di ricercare la verità, senza che alle parti sia riconosciuto alcun potere.

In un sistema di questo tipo l’esigenza di assicurare al processo un tempo ragionevole è marginale poiché, per definizione, l’accertamento di tipo inquisitorio non considera come inderogabili principi quali l’immediatezza, l’oralità e la concentrazione, che assicurano che ci sia un accettabile divario temporale tra fatto e giudizio.

Il sistema accusatorio – basato sul principio dialettico, per cui la verità può essere accertata tanto meglio quanto più le funzioni processuali sono riportare tra soggetti con interessi antagonisti – è il modello di accertamento proprio dei sistemi politici di tipo democratico-garantista.

Caratterizzato dal principio della cosiddetta «separazione delle funzioni processuali» e maggiormente attento ai diritti dell’imputato, la metodologia scelta da questo modello processuale conduce sicuramente ad una durata più ridotta dei tempi processuali.

La storia del processo penale, nel nostro paese, è stata caratterizzata dalla propensione ora verso modelli di stampo inquisitorio, ora verso modelli di impronta accusatoria.

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Il codice italiano del 1930 avrebbe dovuto essere un codice ispirato al cosiddetto sistema processuale misto – in quanto si proponeva di esaltare i caratteri della inquisitorietà nella fase istruttoria, circoscrivendo quelli della accusatorietà nel successivo dibattimento14 – ma che in realtà ha finito per ispirarsi ad un sistema squisitamente inquisitorio.

Per questo motivo, sotto il vigore del codice abrogato, l’esigenza di assicurare lo svolgimento del processo in tempi ragionevoli non era stata avvertita.

Esigenza che, invece, rappresenta il «leit motive» della riforma del codice di procedura penale.

La legge-delega 16 febbraio 1987, n° 81, si apre con un preambolo: «il codice deve attuare i principi della Costituzione e deve, inoltre, adeguarsi alle norme delle Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona ed al processo penale».

Per quanto riguarda i «principi della Costituzione», occorre ricordare come all’epoca, nel nostro testo fondamentale, non ci fosse alcuna norma che tutelasse direttamente i tempi processuali.

14 D’AIUTO, op. cit., p. 67

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~ 21 ~

Tuttavia, facendo riferimento alle norme internazionali di origine convenzionale, il legislatore non ha trascurato di tenere presente gli imperativi di tempestività e rapidità derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici.

Dopo il preambolo, la legge-delega prosegue con l’elencazione di una serie di principi e criteri direttivi, alcuni dei quali attinenti la rapidità del processo penale.

Tra questi criteri è richiamato, in primis, il criterio della «massima semplificazione nello svolgimento del processo con l’eliminazione di ogni atto o attività non essenziale», di cui costituiscono diretto corollario le direttive n. 45 (applicazione della pena su richiesta delle parti) e n. 53 (giudizio abbreviato).

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~ 22 ~

5. LO SVILUPPO DELLA GIUSTIZIA PENALE NEGOZIATA COME RIMEDIO ALL’IPERTROFIA DEL GIUDIZIO DIBATTIMENTALE

Non deve stupire che la giustizia penale «alla perenne ricerca di formule idonee a garantire una maggiore efficienza nella definizione dei carichi giudiziari, sia irresistibilmente orientata verso l’elaborazione – ed il sempre più massiccio impiego – di modelli processuali di matrice consensuale»15.

Per giustizia consensuale» si fa riferimento a tutte quelle ipotesi in cui i soggetti del procedimento o del processo stipulano un accordo il cui contenuto, pur essendo variabile, presenta sempre la caratteristica di incidere, alterandola in misura maggiore o minore, sulla normale modalità di definizione e conclusione del processo16.

Anche nel sistema delineato dal legislatore del 1930 esistevano già alcuni procedimenti alternativi all’iter ordinario, ma diverse erano le finalità sottese a tali istituti.

Il codice Rocco, nel configurare i giudizi speciali non si spingeva oltre a: A) giudizio direttissimo, B) decreto penale e C) giudizio immediato per i reati commessi in udienza.

15

MARCOLINI, Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale

negoziata, Milano, 2005, cit., p. 1

16

BONINI, Limiti sistematici ed opzioni ricostruttive della negozialità nella

(24)

~ 23 ~

L’elemento comune a tutti questi procedimenti non era tanto quello dalla necessità di pervenire a soluzioni acceleratorie o deflative del dibattimento, quanto quello dell’esigenza di intimidire l’imputato.

L’elaborazione di un cospicuo catalogo di procedimenti speciali – collocati con intento «pedagogico»17

nel Libro VI del nuovo codice, prima del libro dedicato al giudizio – è strettamente connessa alle scelte di fondo operate dal legislatore del 1987, tant’è che l’attuale codice di rito penale è stato definito come il «codice delle scelte»18.

La specialità di tali procedimenti va osservata in relazione al procedimento ordinario: le deviazioni che si riscontrano tendono tutte a semplificare i meccanismi processuali o ad abbreviare la durata del processo mediante forme di definizione anticipata rispetto alle forma del giudizio dibattimentale.

In particolare:

 il giudizio abbreviato consente di definire il procedimento di primo grado nell’udienza preliminare;  l’applicazione su richiesta delle parti determina un

immediato epilogo processuale;

17

CHIAVARIO, Movimenti di riforma del processo penale e protezione dei

diritti dell’uomo, in Doc. giust., 1992, p. 1196

18

DELLA MONICA, Opzioni di strategia processuale e scelta del rito, in La

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~ 24 ~

 i giudizi direttissimo e immediato consentono, a determinate condizioni, di evitare l’udienza preliminare;  il procedimento per decreto ha una struttura del tutto autonoma, già conosciuta peraltro nel codice del 1930.

Mentre alcune differenze rispetto al modello ordinario sono collegate ai caratteri oggettivi del processo (evidenza della prova, arresto in flagranza o intervenuta confessione dell’imputato), altre si basano sulla volontà delle parti (è questo il caso del giudizio abbreviato e della applicazione della pena su richiesta delle parti).

L’entrata in vigore del codice di rito del 1988 ha segnato un passaggio fondamentale nella storia del nostro ordinamento processuale, determinando il passaggio da un sistema processuale misto ad uno improntato al modello accusatorio, ove un ruolo fondamentale è attribuito al dibattimento.

«Se accettiamo come valido e fermo il sistema accusatorio» si legge nella relazione al progetto preliminare «allora dobbiamo considerare che il dibattimento è il momento essenziale del processo».

Il problema è che se tale impostazione risulta ineccepibile sul piano dei principi, incontra però delle insormontabili difficoltà a livello pratico: l’inflazione dei dibattimenti avrebbe inevitabilmente finito per compromettere la rapidità di

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~ 25 ~

definizione dei processi, ripercuotendosi non solo sul diritto dell’individuo ad un equo processo «entro un termine ragionevole», ma anche sull’effettività del diritto di punire dello Stato e sul piano della rapidità e dell’efficienza della sanzione punitive, in funzione di prevenzione dei fenomeni criminali. Il sistema dell’amministrazione della giustizia penale non potrebbe reggere se la maggior parte dei processi non potesse concludersi con itinerari processuali diversi da quello ordinario. Non a caso, proprio l’assenza di un’articolata gamma di riti differenziati e la conseguente concentrazione nella fase dibattimentale della verifica di ogni accusa che avesse superato il vaglio dell’istruttoria formale, era stata denunciata come una delle principali cause dell’eccessiva lentezza della macchina processuale creata dal codice del 193019.

Il nuovo sistema poteva funzionare solo a patto che si fosse riusciti a far pervenire al dibattimento soltanto una piccola parte di processi.

Per questo motivo già nella legge-delega n. 81 del 1987 era previsto il ricorso a particolari procedimenti speciali, al fine di garantire strumenti più agili di contrasto alla criminalità e la migliore funzionalità del rito ordinario, ipotizzato, in tale ottica, come residuale rispetto ai riti differenziati.

19

Cfr. GREVI, Il problema della lentezza dei procedimenti penali: cause,

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~ 26 ~

Nella relazione al progetto preliminare del codice si legge «ai “riti differenziati” è affidata in gran parte la possibilità di funzionamento del procedimento ordinario, che prevede meccanismi di formazione della prova particolarmente garantiti, e quindi non suscettibili di applicazione generalizzata, per evidenti ragioni di economia processuale […] soprattutto ai riti abbreviati è affidata la funzione di evitare il passaggio dalla fase dibattimentale di un gran numero di procedimenti secondo uno schema di deflazione comune a tutti i sistemi che si ispirano al modello accusatorio […] le deviazioni, che nei procedimenti speciali si riscontrano rispetto al modello del procedimento ordinario, tendono tutte a semplificare i meccanismi processuali o ad abbreviare la durata del processo mediante forme di definizione anticipata rispetto alle forme del giudizio dibattimentale».

L’adozione dei riti differenziati funge da filtro di fronte all’ipertrofia del diritto penale, realizzando un doppio risparmio processuale: alla semplificazione del singolo procedimento speciale adottato, si accompagna «l’economia globale dei tempi processuali a beneficio del sistema nel suo complesso»20.

In conclusione, la riforma processuale del 1988 è connotata da una forte logica dispositiva, tant’è che con riferimento ai riti

20

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speciali si è parlato di un diritto dell’imputato a “difendersi negoziando”21

(soprattutto il giudizio abbreviato e l’applicazione su richiesta delle parti hanno rappresentato i riti in cui riversare la logica della giustizia penale negoziata). I riti su base negoziale hanno, tuttavia, incontrato più di un ostacolo nel nostro ordinamento, a causa dell’apparente dissidio con taluni dei principi fondanti la nostra Costituzione, quali l’obbligatorietà dell’azione penale e la soggezione del giudice solo alla legge.

Si rende necessario, pertanto, stabilire in quali termini sia possibile riconoscere una discrezionalità all’azione delle parti processuali, individuando i limiti di disponibilità degli interessi sottesi alla vicenda processuale.

Nel nostro ordinamento vige, come regola generale, il principio di obbligatorietà dell’azione penale, sancito dall’art. 112 della Costituzione, il cui fondamento va ricercato nella basilare esigenza di uguaglianza.

E' innegabile che l'accordo tra accusa e difesa su cui si fondano i procedimenti speciali rappresenti una rilevante novità del sistema processuale inaugurato con il codice Vassalli, tuttavia, nella relazione al progetto preliminare si specifica che «proprio la scelta di un sistema di tipo

21

PISANI, Negozi processuali e sistema parallelo, in «Italian syle»: figure e

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~ 28 ~

accusatorio non può non comportare anche maggiori poteri nella posizione delle parti e la possibilità per le stesse - su un piano di parità - di decidere dello sviluppo del rito processuale».

La legge-delega ha perciò ritenuto di attribuire rilevanza alle pattuizioni delle parti, delineando gli istituti disciplinati nella direttiva n. 45 (applicazione della pena sulla richiesta delle parti) e n. 53 (giudizio abbreviato).

Per sollecitare le parti ad accedere a tali forme di conclusione del processo – che se da una parte consentono di contrarre i tempi processuali, dall’altra parte implicano, per loro natura, la rinuncia di talune garanzie procedurali che soltanto l’iter ordinario può assicurare – sono previsti, come contrappeso, dei benefici premiali che vanno dalla riduzione del quantum pena, alla mancanza di pubblicità dell’udienza, all’inappellabilità della sentenza.

Tale rinuncia trova, oggi, una copertura costituzionale all’art. 111 della Costituzione, 5 comma, (come riformato dalla legge costituzionale n. 2 del 1999) che contempla il consenso dell’imputato quale condizione legittimante la formazione della prova senza contraddittorio.

Emblematiche, sotto il profilo della legittimazione, sono due sentenze (n. 115 del 9 maggio 2004 e n. 219 del 9 luglio 2004) con cui la Corte Costituzionale ha legittimato il legislatore ad

(30)

~ 29 ~

adottare modelli di definizione alternativa del processo, invocando a vessillo la ragionevole durata del processo.

La logica negoziale che connota il codice di rito dell’ 1988 si spinge poi oltre il giudizio abbreviato e applicazione su richiesta delle parti, trovando espressione anche nell’accordo delle parti sui motivi di appello22.

22

MONTAGNA, Profili soggettivi, oggettivi e temporali dei procedimenti

speciali nell’evoluzione legislativa e nella prassi, in AA.VV., La giustizia penale differenziata. I procedimenti speciali., Torino, 2010, p. 84

(31)

~ 30 ~

6. LA GIUSTIZIA PENALE NEGOZIATA NEL DIRITTO COMPARATO

Negli ordinamenti contemporanei è in atto, già da tempo, un fenomeno di superamento dei sistemi processuali a schema unico, tramite l’inserimento di riti deflativi e/o meccanismi archiviativi secchi o sub condicione23.

Per questo motivo è utile effettuare una valutazione comparatistica, tanto più se si considera lo stesso legislatore, nella relazione al progetto preliminare del codice del 1988, palesa l’intento di rifarsi al modello statunitense del plea

bargaining24..

6.1. L’esperienza di common law

Negli Stati Uniti la maggior parte del carico giudiziario trova il proprio sbocco in meccanismi non giudiziali: pare, infatti, che la maggior parte delle condanne siano il frutto di quella di quella forma di contrattazione tra accusa e difesa (plea

bargaining) con cui l’imputato si impegna a dichiararsi

23 GAMBINI, Poteri dispositivi delle parti e giudice nei modelli a schema

negoziale: riflessioni comparative, in Dir. pen. e proc., fasc. 4, 2004, p. 495

24

FANCHIOTTI, Il Patteggiamento “allargato” nella prospettiva comparata:

dal sistema statunitense ai modelli europei e sovranazionali, in Patteggiamento “allargato” e giustizia penale, a cura di F. Peroni, Torino,

(32)

~ 31 ~

colpevole, rinunciando al processo, in cambio di vantaggiose concessione da parte del Prosecutor25.

Il plea bargaining è l’istituto a cui si è ispirato il legislatore delegante del 1987 per presentare le finalità dei procedimenti26: se da una parte i padri del nuovo codice non hanno mai mancato di sottolineare la centralità del dibattimento – una centralità che aveva il precipuo compito di qualificare il passaggio da un sistema di tipo misto a un processo eminentemente accusatorio – dall’altra parte hanno strizzato l’occhio all’esperienza dei paesi anglosassoni, consapevoli che l’inflazione dei dibattimenti avrebbe, per forza di cose, finito per compromettere la riforma.

«L’esperienza dei paesi anglosassoni» si legge nella relazione al progetto preliminare «insegna che è ritenuto del tutto incongruo e antieconomico prevedere il passaggio alla fase dibattimentale in caso di ammissione da parte dell’imputato delle proprie responsabilità, cioè in situazioni in cui l’unico aspetto controverso può essere la determinazione in concreto della pena […] ove l’imputato rinunci alla celebrazione del dibattimento, deve perciò essere incentivata la sua propensione ad avvalersi dei riti semplificati».

25

GAMBINI MUSSO, Il «plea bargaining» tra common law e civil law, Milano, 1985, p. 2

26

ARRU, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in Trattato di

(33)

~ 32 ~

Il nucleo fondamentale del plea bargaining consiste in una dichiarazione con cui l’accusato si assume la responsabilità dei fatti che gli sono contestati, rinunciando a provare la propria innocenza in un dibattimento pubblico davanti a una giuria (jury trial) in cambio una serie di benefici, previamente negoziati con la pubblica accusa27.

Oggetto della contrattazione può essere la charge bargaining, con la quale il prosecutor si impegna a dare una qualificazione giuridica meno grave al fatto ammesso dall’accusato o a desistere da una o più imputazioni.

Un’altra forma di contrattazione può riguardare la sentence

bargaining, con cui l’accusa si impegna a richiedere al giudice

l’applicazione di un trattamento sanzionatorio più benevolo nel

quantum o nella species, oppure a chiedere la concessione di

particolari modalità esecutive della pena o di altri benefici penitenziari.

Poiché gli accordi possono riguardare qualsiasi tipo di reato ed è anche possibile la commistione tra le due versioni di negoziato (mixed agreement), le parti finisco per avere a loro disposizione una tipologia di accordi assai vasta e modulabile in base ad ogni esigenza.

Se questo tipo di discrezionalità si confà poco ad un ordinamento come il nostro – ove il principio di obbligatorietà

27

(34)

~ 33 ~

dell’azione penale è sancito dall’art. 112 della Costituzione – risulta invece perfettamente consona in sistema caratterizzato dall’assenza del principio di obbligatorietà dell’azione penale, in cui il vero artefice del sistema processuale, il Public

Prosecutor, tende più che altro ad agire in termini di efficienza,

sacrificando, a volte, persino esigenze di giustizia sostanziale. In sintesi il plea bargaining è lo strumento che consente di realizzare l’aspirazione comune ad ogni ufficio dell’accusa: pervenire in tempi brevi e con il minimo dispendio delle risorse ad un numero di condanna il più elevato possibile28.

Quanto al giudice, in questo sistema viene relegato al ruolo di “terzo” che, quasi sempre, si limita a sanzionare l’accordo.

6.2. Il sistema francese

L’ordinamento processuale francese non contempla il principio di obbligatorietà dell’azione penale: il ministère publique, assunta la notizia di reato, non ha l’obbligo di esercitare l’azione penale ma dispone dell’alternativa tra l’archiviazione, l’esercizio dell’azione penale e la c.d. “troisième voie” che può assumere la forma dell’archiviazione condizionata o meritata (classement sous condition), o della composition pénale 29.

28

GAMBINI MUSSO, op. cit., p. 36

29

(35)

~ 34 ~

Le misure alternative all’esercizio dell’azione penale hanno alla base una sorta di “contratto” tra pubblico ministero e indagato: il legislatore francese, dinanzi al crescere della criminalità, ha scelto di valorizzare la volontà del colpevole nella fase dell’esercizio dell’azione penale – che rappresenta il primo passo verso l’entrata nel sistema giudiziario – con lo scopo di fornire una risposta penale in un lasso di tempo ragionevole, come dettato dall’art. 6 della C.E.D.U30

.

L’art. 41-1 c.p.p. disciplina i casi di archiviation sans suite, mentre gli l’art. 41-2 c.p.p. disciplina la composition pénale. Le varie forme di archiviazione condizionata sono applicabili a qualsiasi fatto di reato, anche se un limite scaturisce dalla previsione di una serie di criteri ai sensi dei quali queste misure possono essere applicate solamente a certe condizioni: devono essere in grado di assicurare la riparazione del danno causato alla vittima, di mettere fine alle conseguenze dannose causate dall’illecito e devono contribuire alla rieducazione dell’autore dei fatti.

La composition pénale, applicabile ai reati puniti con la reclusione nel massimo a 5 anni, è percorribile solo prima dell’esercizio dell’azione.

30

PRADEL, Il ruolo della volontà dell’autore di reato nella decisione

dell’esercizio dell’azione penale. Un’analisi di diritto francese, in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc. 4, 2004, p. 949 - 950

(36)

~ 35 ~

Il ministère public propone all’indagato, a sua libera discrezione, l’adempimento di una o più misure fra quelle elencate,, mentre il risarcimento della vittima, se identificata, è sempre d’obbligo.

Il presunto autore del reato, che può farsi assistere da un avvocato, deve riconoscere la propria responsabilità e, da ultimo, l’accordo così verbalizzato deve ottenere la convalida del presidente del tribunale.

I commentatori hanno accostato l’istituto della composition

pénale al plea bargaining, angloamericano sulla base della

constatazione che entrambi gli istituti ruotano intorno alla dichiarazione di colpevolezza dell’imputato, anche se la

composition pénale si discosta sicuramente dal plea bargaining per la maggiore rigidità delle forme31.

6.3. Il sistema tedesco

Anche nel sistema processuale tedesco – caratterizzato dalla assenza di una norma di rango costituzionale che stabilisca il principio di obbligatorietà dell’azione penale – è stata avvertita l’esigenza di pervenire a forme semplificate di definizione del processo.

31

(37)

~ 36 ~

Tra le forme di giustizia negoziata vanno ricordate, in primis, le c.d. archiviazioni “meritate”: esse consentono al pubblico ministero, raccolta l’autorizzazione del giudice e il consenso dell’imputato, di disporre l’archiviazione, subordinandola però all’adempimento, da parte dell’imputato, di una serie di obblighi e prescrizioni a favore della vittima o della collettività32.

Inoltre, nella prassi giudiziaria tedesca, si è diffuso il ricorso alle c.d. intese formali (informelle Absprachen), «finalizzate unicamente all’accelerazione della proceduta mediante l’omissione di tramiti ritenuti inutili nel caso concreto, ma anche volte alla determinazione consensuale della piattaforma probatoria, per mezzo dell’acquisizione di determinati elementi o della rinuncia ad assumerne di ulteriori e diversi»33.

Le parti o il difensore prendono l’iniziativa e sottoscrivono un accordo con l’accusa che vede lo scambio tra una pena più lieve e la confessione34.

La procedura delle intese formali è stata è stata sottoposta all’esame della Corte Costituzionale federale tedesca che ha stabilito che le intese non contrastano con i principi del giusto processo, perché si fondano sulla necessità – ugualmente

32

MARCOLINI, op. cit., p. 55

33

MARCOLINI, op. cit., cit., p. 57

34

(38)

~ 37 ~

meritevole di tutela – di protezione della sicurezza dei cittadini e nella fiducia di questi nella effettività della azione delle istituzioni35.

6.4. Il sistema spagnolo

Tra gli istituti di giustizia negoziata può sicuramente inserirsi anche la conformidad spagnola.

Si tratta di un istituto risalente agli anni ’80 del diciannovesimo secolo, inizialmente consistente nell’adesione unilaterale da parte dell’imputato all’accusa formulata dal pubblico ministero, senza alcuna contropartita palese.

Il profilo premiale è stato regolarizzato con una legge del 2002 che prevede la riduzione della pena fino ad un terzo e la fissazione del tetto della pena negoziabile, individuato in sei anni di detenzione36.

35 MARCOLINI, op. cit., p. 58 36 FANCHIOTTI, op. cit., p. 145

(39)

~ 38 ~

CAPITOLO II

LA NEGOZIALITÀ NEL GIUDIZIO DI SECONDO

GRADO: IL CONCORDATO SUI MOTIVI DI

APPELLO

SOMMARIO: 1. L’evoluzione giuridica del concordato sui motivi di appello – 1.1. Le origini dell’istituto – 1.2. La dichiarazione di illegittimità costituzionale per eccesso di delega – 1.3. L’abrogazione del 2008 – 2. La dimensione originaria dell’istituto – 2.1. La proposizione dell’accordo ed i soggetti legittimati alla stipulazione – 2.2. (Segue): I poteri del giudice – 2.3. (Segue): L’irrevocabilità dell’accordo – 3. L’improprio ed equivoco uso del termine “patteggiamento in appello”

1. L’ EVOLUZIONE GIURIDICA DEL CONCORDATO SUI MOTIVI DI APPELLO

1.1. Le origini dell’istituto

Il concordato sui motivi di appello è stato definito dalla dottrina come uno degli istituti più innovativi e controversi del codice

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~ 39 ~

del 19881: in linea con le logiche di negotiated justice e gli obiettivi di «massima semplificazione» del processo penale, elevati a canone informatore del nuovo codice, l’istituto rispondeva all’esigenza di ampliare le ipotesi di giustizia penale negoziata2 e di deflazionare il carico giudiziario degli organi di impugnazione3.

Originariamente disciplinato dagli artt. 599, 4 e 5 comma c.p.p. e 602, 2 comma c.p.p., si tratta di un paradigma consensuale di definizione del processo penale che trova riconoscimento in fase di impugnazione, consentendo alle parti di concordare sull'accoglimento, totale o parziale, dei motivi di impugnazione, con rinuncia contestuale agli altri motivi.

Inedito fino alla codificazione del 1988, l’istituto è stato plasmato dal legislatore delegato sulla scorta delle direttive dettate dalla legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81 per l’emanazione del nuovo codice.

In particolare sono due le direttive a cui dobbiamo fare riferimento.

1 CAPRIOLI, La definizione concordata del processo d’appello dopo

l’intervento della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1991,

p.626

2

TRANCHIA, DI CHIARA, Appello (dir. proc. pen.), in Enc. dir, Agg. III, p.212

3

BARGIS, Impugnazioni, in Compendio di procedura penale, a cura di Conso, Grevi, Padova, 2000, p. 786

(41)

~ 40 ~

La direttiva n. 1 si apriva sancendo l’esigenza per il nuovo codice di procedura penale di «attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale».

Proseguiva, inoltre, richiedendo che fossero attuati, nel processo penale, i caratteri del sistema accusatorio, tra i quali veniva richiamato, in primis, il principio della massima semplificazione nello svolgimento del processo, con eliminazione di ogni atto o attività non essenziale.

La direttiva n. 93 auspicava, specificatamente per l’appello, «un procedimento in camera di consiglio nel contraddittorio tra le parti qualora l’impugnazione abbia esclusivamente per oggetto la specie o la misura della pena, la concessione delle circostanze attenuanti generiche o l’applicabilità di sanzioni sostitutive, o la concessione di benefici di legge».

Il 4 comma dell’art. 599 c.p.p. consentiva alla Corte d’appello di provvedere in camera di consiglio anche quando le parti, nelle forme previste dall’art. 589 c.p.p. per la rinuncia all’impugnazione, ne facessero richiesta dichiarando di concordare sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello, con rinuncia agli altri eventuali motivi.

Se i motivi dei quali veniva chiesto l’accoglimento comportavano una nuova determinazione della pena, il

(42)

~ 41 ~

pubblico ministero, l’imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria indicavano al giudice anche la pena sulla quale erano d’accordo.

Qualora giudice avesse ritenuto di non poter accogliere, allo stato, la richiesta, ordinava la citazione a comparire al dibattimento (art. 599, 5 comma c.p.p.).

In questo caso la richiesta e la rinuncia perdevano effetto, ma potevano essere riproposte nel dibattimento ai sensi dell’art. 602, 2 comma c.p.p.

La struttura dell’istituto si articolava, pertanto, in tre momenti fondamentali4:

1) l’accordo delle parti;

2) la proposta di accoglimento fatta al giudice; 3) il provvedimento finale.

La possibilità di patteggiare il devolutum era stata introdotta dal legislatore facendo leva su un’interpretazione estensiva del punto n. 93 della legge-delega.

Nella relazione al progetto preliminare fu chiarito che – pur dovendosi prendere atto che le ipotesi in cui era possibile celebrare il giudizio di appello con le forme del rito camerale, ai sensi della legge-delega, costituivano un’elencazione tassativa – la ratio che aveva suggerito tale innovazione ne

4 CAPRIOLI, op. cit. , p. 626

(43)

~ 42 ~

consentiva l’impiego anche nei casi in cui il dibattimento pubblico si fosse appalesato inutile (ossia qualora le parti avessero raggiunto un accordo sull’accoglimento dei motivi di appello o di alcuni tra essi, con contestuale rinuncia agli altri) 5. La genesi del concordato in appello affonda le proprie radici in esigenze eminentemente pratiche6, configurandosi sia come mezzo di neutralizzazione di una prassi distorta piuttosto diffusa in ambito di impugnazioni, sia come strumento di accelerazione dei tempi processuali.

«Non si trattava necessariamente di un meccanismo pattizio, destinato alla applicazione di una pena ridotta, ma di un istituto finalizzato essenzialmente a concentrare al massimo l’oggetto devoluto al giudice dell’impugnazione, così da scarnificare le non infrequenti impugnazioni “alluvionali”, in cui ogni singolo, astratto punto della decisione di primo grado è sottoposto a critiche e petita più o meno de demolitori, secondo logiche defatigatorie o curialmente “tuzioristiche”»7

.

Le parti venivano stimolate a tenere un comportamento responsabile e leale, attraverso l’abbandono dei motivi

5

GAETA, MACCHIA, L’appello, in Trattato di procedura penale, diretto da Spangher, V, Impugnazioni, Milano, 2009, p. 588

6

TRANCHIA, DI CHIARA, op. cit. p. 212

7

(44)

~ 43 ~

pretestuosi e il riconoscimento, tramite accordo, di solo quelli con qualche effettivo spessore8.

In questo modo si otteneva, da un lato, la riduzione del thema

decidendum – con conseguente maggiore speditezza dell’iter

processuale – dall’altro, una riduzione dei casi di ricorso per Cassazione, poiché la valorizzazione delle volontà delle parti restringeva inevitabilmente il novero delle questioni sollevabili davanti alla suprema Corte9.

1.2. La dichiarazione di illegittimità costituzionale per eccesso di delega

Gli intenti pratici e le potenzialità semplificative10 dell’istituto finirono, ben presto, per essere ridotti da un intervento, per alcuni opinabile11, della Corte Costituzionale, ispirata forse da un percettibile senso di avversione rispetto alle categorie negozial-processuali12.

8

TONINI, Manuale di procedura penale, XVI edizione, Giuffrè, p. 929

9

CALLARI, Il concordato sui motivi di appello e il mito della fenice, in Cass.

pen., fasc. 12, 2015, p. 4641

10

GALANTINI, Note in tema di patteggiamento sui motivi di appello, in

Cass. pen., 1994, p. 2577

11

In senso critico alla declaratoria della Consulta, GARAVELLI, Commento

all’art. 599 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale,

coordinato da CHIAVARIO, Agg., vol. I, Torino, 1993, p. 416 - 417

12

(45)

~ 44 ~

Con sentenza n. 435 del 1990, i giudici della Consulta hanno dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 599, 4 e 5 comma e 602, 2 comma c.p.p., in quanto eccedenti i limiti della legge delega, nella parte in cui consentivano «la definizione del procedimento nei modi ivi previsti anche al di fuori dei casi elencati nel comma 1 dell’art.599 c.p.p.».

L’iter argomentativo della Corte muoveva dal rilievo che l’adozione del rito camerale, al di fuori dei casi tassativamente indicati dalla direttiva n. 93, costituisse una violazione dei criteri direttivi tracciati dal legislatore delegante (in violazione degli artt. 76 e 77 Cost.).

L'ambito di applicabilità del 4 comma dell'art. 599 c.p.p. era, infatti, ben più ampio di quello disciplinato nel comma 1 dello stesso articolo, in quanto la res iudicanda, quale risultava dall'accordo, poteva arrivare fino in punto di responsabilità. Gli argomenti contenuti nella relazione al progetto preliminare, di cui si è già detto nel paragrafo precedente, non furono reputati convincenti, in quanto la direttiva n. 93, che delimitava così rigorosamente i casi in cui poteva adottarsi il rito camerale, era da configurarsi come una norma di dettaglio più che un principio o criterio direttivo, tanto che il 1 comma dell'art. 599 c.p.p. ne è la sostanziale riformulazione.

Secondo il parere dei giudici «la ratio della direttiva, quale emerge dal testo normativo e dai lavori preparatori, è bensì

(46)

~ 45 ~

quella di accelerare la definizione del processo con l’adozione di un rito abbreviato, ma a patto che siano in discussione questioni attinenti alla pena e non alla responsabilità […] ritenere che l’accordo tra le parti possa far travalicare tale limite significa supporre che il legislatore delegante abbia inteso derogare indiscriminatamente, nella materia degli appelli, al generale principio della pubblicità della trattazione del merito dei procedimenti penali, che ha rilievo fondamentale in quanto consente a qualunque cittadino di verificare le ragioni e i modi dell’amministrazione della giustizia»13

.

Ad essere eccepita, in sostanza, non fu la costituzionalità in sé del concordato sui motivi in appello, quanto il venire meno della pubblicità dell’udienza.

La pronuncia non mancò di suscitare perplessità dal momento che, se la ratio posta a fondamento della sentenza della Corte Costituzionale poteva essere condivisa per l’ipotesi dell’accordo prima del dibattimento di appello di cui all’art. 599, 4 comma, c.p.p., non altrettanto poteva dirsi per l’ipotesi in cui l’accordo fosse intervenuto durante il dibattimento, dal momento che la definizione concordata del processo in fase dibattimentale (art. 602, 2 comma c.p.p.) non andava ad

13

(47)

~ 46 ~

incidere in alcun modo sulla pubblicità del dibattimento che la pronuncia della Corte intendeva tutelare14.

Lo spazio operativo del concordato sui motivi d’appello venne recuperato con legge 19 gennaio 1999, n. 14 che – consapevole del fatto che la dichiarazione di illegittimità costituzionale non aveva posto in discussione la costituzionalità in sé del concordato – ripristinò la norma eccedente la delega, recependo in questo modo le censure avanzate dalla dottrina che chiedevano di “correggere” l’errore della Corte Costituzionale15.

Tornava così ad essere pienamente ammissibile qualsiasi tipo di concordato, finanche in punto di responsabilità dell’imputato16

.

1.3. L’abrogazione del 2008

A sancire l’epilogo di questa ipotesi di negotiated justice è stato il d.l. 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di pubblica sicurezza), convertito con modifiche dalla legge 25

14

CATALANO, L’accordo sui motivi di appello, Milano, 2001, p. 60-61

15

SPANGHER, Ritorno alle origini per il patteggiamento in appello in Dir.

Pen. Processo, 1999, 2, p. 144

16

CONSO, GREVI, Compendio di Procedura penale, edizione VIII, 2016, CEDAM, p.862

(48)

~ 47 ~

luglio 2008, n. 125, che ha abrogato , sic et simpliciter, i commi 4 e 5 dell’art.599 e il comma 2 dell’art.602 c.p.p.

Le ragioni17 addotte dal legislatore a sostegno dell’intervento abrogativo, ed indicate nella relazione illustrativa del provvedimento legislativo, furono essenzialmente due: intento precipuo del legislatore era stato quello di eliminare dall’ordinamento un istituto non solo considerato responsabile di un’eccessiva mitigazione della risposta sanzionatoria, ma anche ritenuto responsabile di disincentivare le parti a ricorrere al patteggiamento in primo grado, vanificando così le finalità deflattive per cui era stato introdotto18.

Gli imputati, in buona sostanza, sarebbero stati indotti a non presentare la richiesta di applicazione della pena in udienza preliminare perché certi di poter comunque ottenere una riduzione della sanzione in appello, ma a quel punto – essendosi già celebrato il dibattimento – l’economia processuale risultava già compromessa.

Parte della dottrina ha sostenuto che l’abolizione del concordato sarebbe stata determinata unicamente da quella logica «reattiva e sensazionale tipica della legislazione di

17 Gli argomenti a sostegno dell’intervento abrogativo sono stati ritenuti

«poco persuasivi» da parte della dottrina, v. GAETA, MACCHIA, op. cit., p.593

18

BISCARDI, La scomparsa del patteggiamento in appello, in AA.VV., Il

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~ 48 ~

emergenza, sorretta dal fine di rendere più severi i trattamenti sanzionatori e certa l’esecuzione della pena»19

e che «Il legislatore del 2008, sospinto più dall’esigenza di una reazione immediata correlata all’allarme sociale determinato dalle contingenza che da un’attenta valutazione sul piano della sistematica e sul versante degli effetti, ha trascurato di considerare che l’istituto che si andava ad abolire, sebbene dotato di una innegabile connotazione negoziale, consentiva di conseguire significativi risultati sul medesimo terreno dai riti deflativi collocati nel precedente segmento processuale senza, tuttavia, assicurare alcuna forma di beneficio premiale addizionale»20.

In realtà l’insuccesso del negozio processuale si palesava proprio sul piano della pena, che subiva eccessiva riduzioni “ai limiti della legalità”, con gravi effetti sulla congruità della politica criminale21.

19

GAITO, L’appello, in DOMINIONI, CORSO, GAITO, SPAGNHER, DEAN, GARUTI, MAZZA, Procedura penale, Torino, 2010, p. 776

20

SURACI, Il concordato sui motivi di appello, in AA.VV., La riforma

Orlando. Modifiche al codice penale, codice di procedura penale e ordinamento penitenziario, a cura di Spangher, Pisa, 2017, p. 249

21

In questo senso MARANDOLA, Il ritorno del concordato sui motivi di

appello, in AA.VV., Le recenti riforme in materia penale, a cura di Baccari,

(50)

~ 49 ~

2. LA DIMENSIONE ORIGINARIA DELL’ISTITUTO

2.1. La proposizione dell’accordo ed i soggetti legittimati alla stipulazione

I soggetti legittimati a stipulare l’accordo erano le parti processuali in senso stretto: all’intesa non potevano partecipare la persona offesa dal reato che fosse costituita parte civile, né gli enti e le associazioni rappresentativi di interessi offesi da reato di cui all’art. 91 c.p.p., ai quali il codice riconosce diritto di presenza nel processo e non anche la veste di parte.

Protagonisti dell’accordo erano quindi il pubblico ministero, l’imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria22.

Le forme per la proposizione dell’accordo erano quelle prescritte dall’art. 589 c.p.p. – richiamato esplicitamente dal 4 comma dell’art. 599 c.p.p. – per la rinuncia all’impugnazione. L’accordo poteva essere presentato personalmente dalle parti ovvero a mezzo del difensore munito di procura speciale ad

hoc, che ai sensi dell’art. 122 c.p.p. doveva contenere la

determinazione dell’oggetto per cui era conferita e dei fatti ai quali si riferiva.

22

(51)

~ 50 ~

Qualora il difensore dell’appellante avesse “patteggiato” la pena, rinunciando agli altri motivi di gravame, munito di procura speciale rilasciata dall’imputato non in riferimento al procedimento de quo, ma ad un altro procedimento – pure pendente presso lo stesso ufficio e fissato per la stessa udienza dibattimentale – l’accordo era nullo23

.

Quanto al potere del difensore di accordarsi con il pubblico ministero, era stato affermato che «poiché non può conferirsi valore alla dichiarazione del difensore non munito di mandato

ad hoc, si verifica nullità anche quando, in sede di appello, il

difensore, non munito di procura conferita a lui personalmente, abbia patteggiato la pena, rinunciando agli altri motivi di gravame. La natura del particolarissimo atto dispositivo, in vista del quale i poteri sono – con la procura – conferiti, comporta che la scelta del professionista delegato a raggiungere l’accordo con l’organo dell’accusa debba ritenersi effettuata intuitu personae; ciò porta ad escludere che il delegato possa procedere alla nomina di un suo sostituto»24. Venne sostenuta, altresì, l’inammissibilità della richiesta di patteggiamento formulata all’udienza dal difensore privo di procura, benché alla presenza dell’imputato25

.

23

Cass. pen. sez. IV, 5.2.1992, n. 6117

24

Cass. pen. sez. V, 5.3.1999, n. 4253

25

(52)

~ 51 ~

Tale orientamento è stato poi superato da successive pronunce che hanno ammesso la validità e l’efficacia della rinuncia all’impugnazione anche quando effettuata da difensore privo di specifico mandato, qualora l’imputato fosse stato presente all’udienza ove la rinuncia era presentata, valendo tale presenza come implicita ratifica della volontà espressa26.

2.2. (Segue): I poteri del giudice

Il giudice di appello, di fronte all’accordo delle parti, se decideva di accogliere la richiesta emetteva una sentenza di eguale contenuto, mentre se riteneva di non accogliere, allo stato, la richiesta, ordinava la citazione a comparire al dibattimento, con conseguente perdita di efficacia della domanda e della rinuncia, che potevano però essere riproposte nel dibattimento ex art. 602 c.p.p.

Il giudice godeva di piena libertà e autonomia valutativa, non essendo «semplice notaio di altrui volontà né mero garante della legalità formale di altrui scelte: ma vigile strumento di

26

(53)

~ 52 ~

verifica anche della rispondenza sostanziale di queste determinazioni ai precetti della normativa penale»27.

Il giudice, in definitiva, poteva accogliere o respingere l’accordo che gli veniva proposto, ma non poteva modificarlo28

, tanto che nel secondo comma dell’art. 602 c.p.p. si precisava che «la richiesta e la rinuncia ai motivi non hanno effetto se il giudice decide in modo difforme dall’accordo».

La richiesta concordata tra difesa e pubblico ministero in ordine alla misura finale della sanzione vincolava il giudice nella sua integrità, in quanto «la richiesta accolta deve essere basata, oltre che sulla esatta qualificazione del fatto, anche sulla condivisione di ogni altra circostanza influente sul calcolo della pena medesima, senza che il giudice possa prendere in considerazione elementi diversi da quelli prospettati»29.

Tuttavia, «in virtù del favore che il codice del 1988 manifesta verso soluzioni “negozial-processuali” della vicenda dibattimentale, è da ritenere che, nel rispetto della concordata pena-base e della misura finale di essa, non sussista violazione del precetto dell’art. 599, 5 comma, c.p.p., ove il giudice, nell’applicazione della pena indicata dalle parti e

27

BARTOLINI, L’accordo sui motivi di impugnazione. Primi casi di applicazione degli artt. 599 e 602 del nuovo codice di procedura penale, in Arch. e. proc. pen., 1990, p. 70

28

GRILLI, L’appello nel processo penale, Padova, 2001, p. 329

29

(54)

~ 53 ~

ritenuta del tutto congrua al reato giudicato, precisi gli elementi a base della richiesta, esercitando i necessari poteri correttivi, purché non esorbitanti il rapporto tra il chiesto ed il pronunciato»30.

2.3. (Segue): L’irrevocabilità dell’accordo

Mentre non sussistevano dubbi sulla revocabilità dell’accordo per mutuo consenso, poiché le «istanze di economia processuale cedono di fronte alle esigenze di conservazione della fisionomia essenziale di un istituto strutturato sulla base di un presupposto – l’accordo delle parti – che viene ad essere neutralizzato dal perfezionarsi di un contrarius consensus»31, il tema diveniva meno agevole quando era una sola parte a volere revocare il consenso prestato.

L’irrevocabilità unilaterale dell’accordo rispondeva a quegli obiettivi di durata ragionevole dei tempi del gravame, sancita formalmente dall’art. 111 Cost.32

La giurisprudenza33, dopo aver chiarito che l’accordo sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello, con

30

Cass. pen. sez. VI, 25.1.1994, n. 3380

31

CATALANO, op cit., p. 97

32

PERONI, Il recesso unilaterale dal concordato sulla pena: tra logica

dispositiva e indefettibilità dei tempi ragionevoli del processo, in Cass. pen.,

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