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Gli obblighi di Regioni ed enti locali dopo la legge n. 243/2012

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Il 25 marzo 2011 i capi di Stato o di Governo degli Stati mem-bri dell’Unione economica e monetaria ed altri Stati dell’Unione europea, riunitisi per il Consiglio europeo di primavera, approva-rono il c.d. Patto Euro-Plus1, un atto normativo che pose le basi

anche per la negoziazione del Trattato sulla stabilità, il coordina-mento e la governance nell’unione economica e monetaria (Tscg)2,

meglio conosciuto come Fiscal compact, firmato il 2 marzo 2012 da venticinque Stati membri dell’Unione europea. Alla lettera c) del Patto si legge: «Gli Stati membri partecipanti si impegnano a rece-pire nella legislazione nazionale le regole di bilancio dell’Ue fissate nel Patto di stabilità e di Crescita (...). L’esatta forma della regola sarà decisa da ciascun paese, ma dovrebbe garantire la disciplina di bilancio a livello sia nazionale sia subnazionale»3.

Dal momento che, con il summenzionato atto di diritto inter-nazionale pattizio, gli Stati hanno infine stabilito di incorporare le norme del c.d. Patto di stabilità e Crescita (Psc) «preferibilmente» nelle Carte costituzionali degli Stati membri (art. 3, §2 Tscg), appa-re ragionevole pensaappa-re che non debba esseappa-re solo lo Stato a rispet-tarle, ma anche le articolazioni interne, tra cui rientrano gli enti lo-cali e le Regioni. Pur non contenendo alcuna esplicita disposizione in tal senso, il Trattato, nel riferirsi alle posizioni di bilancio che ogni Stato parte deve rispettare, fa riferimento all’intera pubblica amministrazione (art. 3 §1 Tscg), nel novero della quale sono com-prese, oltre agli enti previdenziali e assistenziali, anche le ammini-strazioni locali e regionali. Che i vincoli di bilancio stabiliti dal Trattato debbano impegnare anche gli enti locali e le Regioni si de-sume, peraltro, dalla lettera del commissario agli Affari economici e monetari e vicepresidente della Commissione europea, Olli Rehn, contenente la richiesta di chiarimenti al ministro dell’economia e

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delle finanze italiano del 4 novembre 20114. In essa la Commissione

europea chiede conto di come l’Italia intenda dare attuazione all’obbligo del c.d. pareggio di bilancio per gli enti locali e le Re-gioni5. Che un obbligo di questo tipo sia senz’altro contenuto nel

Trattato sembra potersi desumere anche a partire da una interpre-tazione sistematica, dal momento che, senza un vincolo che imbrigli tutti i comparti interni di uno Stato parte, il requisito del c.d. pa-reggio di bilancio risulterebbe privo di significato.

Infine, atteso che il Trattato non impone soltanto la incorpora-zione di buona parte delle regole di bilancio del diritto Ue6, ma

af-ferma anche che «si applica nella misura in cui è compatibile con i trattati su cui si fonda l’Unione europea e con il diritto dell’Unione europea», è possibile riferirsi all’art. 2 del Protocollo n. 12 sulla Procedura per disavanzi eccessivi (Pde) per gli Stati membri dell’Unione Europea, il quale specifica che «per pubblico, si inten-de la pubblica amministrazione, vale a dire l’amministrazione stata-le, regionale o locale». Se è vero dunque che tutti gli enti che com-pongono lo Stato debbono concorrere al miglioramento del saldo del conto consolidato della pubblica amministrazione, il Trattato, come d’altra parte il diritto Ue, presuppone anche un obbligo di coordinamento della finanza pubblica tra tutti gli enti dello Stato parte. Tale obbligo di coordinamento finanziario, condizionato dall’ordinamento sovranazionale, è stato riconosciuto in Italia, an-cor prima della novella costituzionale di cui si tratterà, in alcune sentenze della Corte costituzionale7, nelle quali la Consulta ha

rammentato che il principale istituto di coordinamento della finan-za pubblica, ossia il c.d. Patto di stabilità interno, «nasce dall’esigenfinan-za di assicurare la convergenza delle economie degli Stati membri dell’Unione europea verso specifici parametri, comuni a tutti e condivisi a livello europeo in seno al Patto di stabilità e di Crescita»8.

Nel dare attuazione agli obblighi internazionali derivanti dal Trattato9, la legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 110 ha riscritto

non soltanto l’art. 81 Cost. attinente all’equilibrio del bilancio dello Stato, bensì anche gli art. 97 e 119 Cost. stabilendo che, a decorrere dall’esercizio finanziario 2014, «le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico» (art. 97 co. 1 Cost.) e, in particolare, che «i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e

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di spesa nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari dovuti all’ordinamento dell’Unione europea» (art. 119 co. 1 Cost.). Inol-tre, il legislatore ha ricondotto alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la materia dell’«armonizzazione dei bilanci pubblici» (art. 117 co. 2 lett. e), assegnata alla competenza concorrente dalla legge co-stituzionale 18 ottobre 2001 n. 3.

All’art. 81 co. 6 Cost. il legislatore costituzionale ha infine di-sposto il rinvio ad una legge di contabilità c.d. rinforzata, la legge 24 dicembre 2012 n. 24311, la disciplina «[de]le norme

fondamenta-li e i criteri volti ad assicurare l’equifondamenta-librio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbli-che amministrazioni». In particolare, in base alla legge costituziona-le n. 1/2012, la costituziona-legge di attuazione avrebbe inter alia dovuto disci-plinare: «la facoltà dei Comuni, delle Province, delle Città metro-politane, delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano di ricorrere all’indebitamento, ai sensi dell’articolo 119, sesto comma, secondo periodo, della Costituzione, come modifica-to dall’articolo 4 della presente legge costituzionale» (art. 5 co. 2 lett. b) l. cost. n. 1/2012); «le modalità attraverso le quali lo Stato, nelle fasi avverse del ciclo economico o al verificarsi degli eventi eccezionali di cui alla lettera d) del presente comma, anche in dero-ga all’articolo 119 della Costituzione, concorre ad assicurare il fi-nanziamento, da parte degli altri livelli di governo, dei livelli essen-ziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali» (art. 5 co. 1 lett. g) l. cost. n. 1/2012); «le modalità attraverso le quali i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano concorrono alla sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche ammini-strazioni» (art. 5 co. 2 lett. c) l. cost. n. 1/2012).

Nell’individuare come contenuti necessari della futura discipli-na attuativa gli aspetti sopra citati, l’art. 5 della legge costituziodiscipli-nale n. 1/2012 offre uno schema alquanto sintetico di come i rapporti finanziari tra Stato, Regioni ed enti locali debbano essere intesi: è lo Stato a definire, in caso sia di fasi avverse del ciclo economico sia di eventi eccezionali, le modalità per finanziare le prestazioni e le fun-zioni fondamentali degli altri enti di governo; è lo Stato a discipli-nare i casi in cui è permesso (e non soltanto le modalità attraverso le quali è concesso) agli enti locali e alle Regioni indebitarsi per fi-nanziare spese di investimento; è ancora lo Stato a disciplinare le

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modalità per assicurare che gli enti locali e le Regioni concorrano al raggiungimento degli obiettivi di indebitamento negoziati con lo Stato. Tale assetto si spiega innanzitutto sulla base del fatto che è lo Stato ad essere responsabile nell’ordinamento internazionale per le violazioni degli obiettivi di finanza pubblica, anche di quelle even-tualmente cagionate dalle Regioni o dagli enti locali12. Ha destato

tuttavia qualche perplessità che il legislatore statale, seppur con la maggioranza qualificata di cui all’art. 81 co. 6 Cost., si sia ascritto il potere di definire che cosa si intenda per «norme fondamentali e criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bi-lanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni». A questo proposito, secondo alcuni, l’art. 81 co. 6 Cost. creerebbe una nuova ‘super-competenza’ in capo al legisla-tore statale; l’art. 5 della legge costituzionale n. 1/2012 non circo-scriverebbe infatti il potere del legislatore, ma si limiterebbe a defi-nire i contenuti necessari della futura legge rinforzata, senza esclu-dere che ve ne possano essere anche di eventuali13. Altri autori, pur

non negando che vi possano essere contenuti eventuali, sostengono che essi non sarebbero afferenti alla causa propria della legge e sa-rebbero perciò modificabili con legge ordinaria; a sua volta, una legge ordinaria non potrebbe invece disciplinare le materie di cui all’art. 5 della legge costituzionale, pena la violazione di norma in-terposta, rectius della riserva di legge rinforzata di cui all’art. 81 co. 6 Cost.14.

Come si cercherà di dimostrare, una delimitazione tra contenu-ti necessari e contenucontenu-ti eventuali, benché convincente in teoria, può incontrare notevoli difficoltà nella prassi, dal momento che l’art. 5 della legge costituzionale n. 1/2012 è talmente vago nell’indicare le materie da disciplinare con legge rinforzata da consentire che il contenuto della medesima legge abbia barriere più o meno mobili a seconda delle scelte del legislatore del momento. A ciò si deve ag-giungere che è lo stesso legislatore della legge rinforzata a privare di esclusività la legge in ordine ad alcuni contenuti individuati dalla legge costituzionale, ammettendo che, sia pur in sintonia con i principi della legge rinforzata, determinati ambiti15 possano essere

disciplinati anche dalla semplice legge ordinaria o persino da un d.p.c.m. In altre parole, il legislatore della legge rinforzata, preso atto che la vaghezza della lettera dell’art. 5 lascia alcuni margini di flessibilità nella disciplina della materia16, ha finito per allargarne

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ulteriormente le maglie, permettendo di ‘esternalizzare’ alla legge ordinaria la disciplina di alcuni contenuti, agevolmente riconduci-bili al novero delle materie di cui all’art. 5. L’unico criterio per sta-bilire se la disciplina di un determinato ambito debba o meno esse-re coperta dalla riserva di legge rinforzata, dovesse-rebbe esseesse-re desu-mibile dalla lettera dell’art. 81 co. 6 Cost., che parla di ‘norme e criteri fondamentali’. A prescindere dalla differenza terminologica tra norme e principi17, si potrebbe dire che nella legge rinforzata

debbano essere disciplinati i principi fondamentali di coordinamen-to della finanza pubblica afferenti alle materie di cui all’art. 5, quali-ficabili come tali secondo l’interpretazione datane dalla Corte costi-tuzionale. Ciò, tuttavia, non risolve ancora il problema se tutti i principi fondamentali rientranti nelle materie ricordate debbano trovare spazio nella legge o se possano rimanerne fuori alcuni e, in tal caso, quali.

Diversa è invece la questione, cui anche si cercherà di rispon-dere in questa sede, se la novella costituzionale, anche per il tramite della legge rinforzata, sia suscettibile di estendere i poteri dello Sta-to nel suo ruolo di coordinamenSta-to della finanza pubblica fintanSta-to da legittimare forme di compressione più stringente dell’autonomia finanziaria ed organizzativa degli enti locali e delle Regioni o se, invece, i limiti costituzionali vigenti a presidio delle autonomie sia-no destinati a rimanere.

1. Quale pareggio di bilancio per gli enti locali e le Regioni? A tal fine occorre partire dall’analisi delle disposizioni che hanno dato attuazione all’art. 5 della l. n. 1/2012 e segnatamente dagli art. 9-11 del capo IV (rubricato ‘Equilibrio dei bilanci delle Regioni e degli enti locali’) della legge n. 243/2012. Innanzitutto, la legge stabilisce un doppio criterio affinché i bilanci degli enti locali e delle Regioni possano considerarsi in equilibrio ai sensi dell’art. 119 co. 1 Cost., ossia se esiste un saldo non negativo tra entrate e spese finali18 e tra entrate e spese correnti (incluse le quote di

capi-tale delle rate di ammortamento dei prestiti assunti) in termini di competenza e di cassa a livello di singolo ente territoriale in fase di previsione e in fase di rendiconto (co. 1 lett. a e b).

Tale criterio ricalca la lettera di alcuni articoli del Tuel19 ed in

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quale stabilisce che, nel redigere il bilancio di previsione, gli enti locali debbano osservare, inter alia, il principio del pareggio finan-ziario di parte corrente in termini nominali. A sua volta, l’art. 199 Tuel disciplina il mantenimento del pareggio finanziario di parte capitale. Non diverso il tenore dell’art. 193 Tuel, in base al quale il principio del pareggio finanziario va assicurato anche «durante le gestioni e nelle variazioni del bilancio». Altrimenti detto, le spese correnti, unitamente agli stanziamenti per il rimborso dei prestiti, debbono essere finanziate con le entrate correnti. Questo criterio sembra apparentemente valere anche per il nuovo art. 9 co. 1, il quale, tuttavia, tralascia di prendere in considerazione (o forse am-mette) che, tanto all’art. 162 co. 6 Tuel quanto in altre leggi ordina-rie, continuino ad essere previste ‘eccezioni’ che consentono il fi-nanziamento delle spese correnti attraverso, ad esempio, i proventi delle concessioni edilizie (art. 10 co. 4-ter della legge n. 35/2013) o le alienazioni patrimoniali per gli enti locali in predissesto (art. 3-bis del d.l. n. 174/2012)20. Senza contare che l’art. 10 co. 3 consente il

ricorso all’indebitamento senza condizioni per il rimborso dei pre-stiti, non corrispondendo quindi al vero quanto sostenuto, ossia che quello stabilito per gli enti locali e le Regioni sarebbe «un vincolo ben più stringente dell’obiettivo del ‘saldo strutturale’ per il bilan-cio dello Stato, in quanto comporta la restituzione dei titoli in sca-denza senza possibilità di rinnovarli»21.

Diverse sono, invece, le statuizioni in materia contabile conte-nute nel Patto di stabilità interno 2013-2015. In particolare, l’art. 31 co. 3 della legge n. 183/2011 (legge di stabilità 2012) stabilisce che, ai fini del Patto, il saldo finanziario degli enti locali è quello tra entrate e spese finali calcolato in termini di competenza mista22. Il

mancato riferimento al saldo di parte corrente nel Patto, considera-to soltanconsidera-to ai fini della virtuosità, si deve ricondurre al fatconsidera-to che, contrariamente a quanto stabilito dall’art. 6 della legge costituzio-nale n. 1/2012, che inizialmente aveva stabilito l’entrata in vigore della legge e quindi anche delle sue disposizioni attuative fin dal 1o gennaio 2014, le norme di cui al Capo IV della legge rinforzata si applicano soltanto a partire dall’esercizio finanziario 2016. Tale rinvio ha sollevato alcuni dubbi di costituzionalità, dal momento che alla legge rinforzata non sarebbe consentito derogare a disposi-zioni contenute in una legge costituzionale23. D’altra parte, le

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sottolineato che «è opportuno che l’ente attui sin d’ora una gestio-ne finanziaria diretta ad assicurare l’equilibrio di parte corrente»24

e, ancora, che i criteri di cui alla legge rinforzata «permeano co-munque anche l’attuale ordinamento in termini di rispetto degli equilibri fondamentali dell’ente territoriale»25. Al di là di quanto

stabilito in sede di Patto, la Corte dei conti sembra cioè suggerire che gli enti locali debbano adeguarsi a principi che proprio così nuovi non sarebbero, in quanto già cristallizzati nel Tuel.

Una differenziazione del saldo obiettivo è comunque operata con riferimento alle categorie degli enti virtuosi e degli enti non virtuosi di cui al d.l. n. 98/2011, così come modificato dall’art. 1 co. 428 della legge n. 228/2012 (legge di stabilità 2013)26. Per gli enti

virtuosi sarà sufficiente raggiungere un saldo finale pari a zero; vi-ceversa, per gli enti non virtuosi saranno applicate percentuali più alte, anche se, sulla base di una clausola di salvaguardia, queste non potranno essere più elevate di un punto percentuale rispetto a quel-le originarie (art. 31 co. 2 della quel-legge di stabilità 2012)27. La scelta

del legislatore di imporre vincoli più stringenti – o più leggeri – per alcuni enti sulla base di criteri di virtuosità non pare eccedere i limi-ti definilimi-ti dalla legge rinforzata qui in esame, ma anzi trova riscon-tro in essa ed in particolare all’art. 9 co. 5, laddove è espressamente consentito alla legge dello Stato prevedere «ulteriori obblighi» in capo agli enti locali e alle Regioni anche «tenendo conto di parame-tri di virtuosità». Anche per il futuro, dunque, sarà la legge ordina-ria a provvedere in tal senso, senza alcuna necessità di modificare la legge rinforzata.

Per le Regioni, invece, le principali norme in materia contabile sono contenute nel d.lgs. 28 marzo 2000 n. 76 e segnatamente nell’art. 5, nel quale è sancito il principio dell’equilibrio, secondo il quale per ogni bilancio annuale il totale dei pagamenti autorizzati non può essere superiore al totale delle entrate di cui si prevede la riscossione, sommato alla presunta giacenza iniziale di cassa (co. 1). Se le spese superano le entrate, il disavanzo va coperto da mutui o da altre forme di indebitamento autorizzate con la legge di appro-vazione del bilancio (co. 2). Ai fini del Patto di stabilità interno, continua a valere la regola del tetto massimo alle spese finali28,

an-che se, a partire dall’esercizio finanziario in corso, il saldo obiettivo, anziché seguire il criterio di cassa, è stato ridefinito dall’art. 1 co. 451 della legge n. 228/2012 (legge stabilità 2013) in termini armo-nizzati secondo canoni euro-compatibili, ovvero seguendo una

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regi-strazione delle poste che segue il criterio della competenza economica o finanziaria usato in sede europea per il calcolo dell’indebitamento netto. Benché anche per le Regioni l’obbligo di rispettare le norme della legge rinforzata scatti a partire dal 2016, come ricordato sem-pre dalle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti29, ad

esse si applica il principio di copertura finanziaria già vigente nel nostro ordinamento prima della novella dell’art. 81 Cost., anticipa-to nei suoi nuovi profili costituzionali dall’art. 19 della legge di con-tabilità n. 196/2009 e già costantemente riconosciuto dalla Corte costituzionale in numerose pronunce30, in base al quale «le leggi e i

provvedimenti che comportano oneri, anche sotto forma di minori entrate, a carico dei bilanci delle amministrazioni pubbliche devono contenere la previsione dell’onere stesso e l’indicazione della coper-tura finanziaria riferita ai relativi bilanci, annuali e pluriennali».

A tal proposito, vale la pena ricordare che, con la sentenza n. 70/2012, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costitu-zionale per violazione del previgente art. 81 co. 4 Cost. della legge di bilancio della Regione Campania, che prevedeva la copertura finanziaria di alcuni capitoli di spesa in sede preventiva attraverso la contabilizzazione di un avanzo di amministrazione non accertato e verificabile soltanto a seguito della procedura di approvazione del bilancio consuntivo dell’esercizio precedente31. La novità della

sen-tenza consiste nell’aver sostanzialmente anticipato l’applicazione del nuovo combinato disposto dell’art. 81 co. 3 Cost. e dell’art. 119 co. 1 Cost., rectius nell’aver interpretato in maniera estensiva il pre-vigente art. 81 co. 4 allargando alla legge di bilancio il principio di copertura, benché il dettato costituzionale ante reformam stabilisse l’obbligo di copertura per le leggi altre da quelle di bilancio32.

In conclusione, secondo alcuni autori33, a differenza del

bi-lancio dello Stato e, più in generale, del bibi-lancio complessivo delle pubbliche amministrazioni – rilevante ai fini del rispetto dell’Obiettivo di medio termine europeo (Omt) – per quanto con-cerne il bilancio degli enti locali e delle Regioni – rilevante solo in-direttamente ai fini dell’Omt, ossia soltanto in quanto porzione del complesso delle pubbliche amministrazioni – la legge non conside-ra il saldo struttuconside-rale (art. 81 co. 1 e 2), ovvero il saldo corretto per il ciclo e le misure una tantum, ma, fatte salve le previsioni del suc-cessivo art. 10, si limita a vietare tout court il ricorso all’indebitamento e a disporre che gli avanzi di amministrazione siano, come regola

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generale, utilizzati per l’abbattimento del debito degli enti locali e delle Regioni (art. 9 co. 3). Altri autori34 offrono un’interpretazione

diversa del vincolo, che si deve ad una lettura combinata dei co. 1 e 2 dell’art. 9. Dal momento che gli eventuali disavanzi, anche quelli accumulati con indebitamento lecito di cui all’art. 10, vanno colma-ti nello spazio di un triennio, la norma imporrebbe, non diversa-mente dallo Stato, il rispetto di un equilibrio di medio-lungo termi-ne e non un vero e proprio pareggio contabile. In effetti, anche a livello di bilancio statale, alcune voci si erano levate35 per

denuncia-re l’introduzione nella Carta di un padenuncia-reggio rigorosamente contabi-le, senza cioè leggere il nuovo art. 81 co. 1 in combinazione con il successivo secondo comma. Allo stesso modo, sembrerebbe oppor-tuno leggere unitamente i commi 9-11 della legge rinforzata, addi-venendo così a un’interpretazione più elastica del vincolo, effetti-vamente alleggerito dalla previsione di due principali eccezioni: il potere di indebitamento degli enti locali e delle Regioni, ancorché limitato alle sole spese di investimento36, (art. 10 co. 1) e il concorso

dello Stato nel finanziamento dei livelli essenziali e delle funzioni fondamentali nelle fasi avverse del ciclo e in caso di eventi eccezio-nali (art. 11). A ciò si aggiunga anche che l’indebitamento è ammes-so senza condizioni per finanziare le spese di rimborammes-so dei prestiti risultanti dal bilancio di previsione (art. 10 co. 3).

2. Gli enti locali, le Regioni e il ricorso al mercato: un

indebita-mento condizionato

Per quanto concerne l’indebitamento, la legge rinforzata non ne dà una definizione, apparendo infatti sufficiente riferirsi all’art. 1 co. 18 della legge n. 350/2003 (legge finanziaria 2004) così come modificato dall’art. 1 co. 16-19 del d.l. n. 112/2008 convertito in legge n. 133/2008, attuativa della riforma costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, la quale ha introdotto il nuovo art. 119 co. 6 Cost. Esso stabilisce che, per indebitamento degli enti locali e delle Regioni, debbano intendersi le operazioni che comportino risorse aggiuntive e mai quelle che consentono di superare una momentanea carenza di liquidità o che consentono di realizzare spese per le quali è già prevista un’adeguata copertura finanziaria.

A decorrere dal 1 gennaio 2016, le forme di indebitamento di cui alla legge ordinaria sopra ricordata, sono ammissibili solo nella

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misura in cui: a) finanzino spese per investimento e non di natura corrente (art. 10 co. 1); b) siano contestualmente adottati piani di ammortamento per il rimborso del prestito (art. 10 co. 2); c) siano raggiunte intese a livello regionale che garantiscano un saldo non negativo dell’intero comparto, Regione inclusa (art. 10 co. 3). Si tratta di un limite all’accesso degli enti locali e delle Regioni al mer-cato dei capitali non sconosciuto all’ordinamento37, ma anzi

rien-trante nella materia del coordinamento della finanza pubblica che l’art. 117 co. 3 Cost. attribuisce alla potestà legislativa concorrente delle Regioni, vincolandola però al rispetto dei principi fondamen-tali stabiliti dalla legge dello Stato. Si tratta di capire se, anche in questo caso, il legislatore statale si sia limitato a fissare principi fondamentali o non abbia piuttosto ecceduto i limiti del coordina-mento.

La prima condizione (1) costituisce soltanto una riproposizione della disciplina costituzionale vigente, rectius dell’art. 119 co. 6 Cost. L’art. 1 co. 19 della legge n. 350/2003 aveva già specificato che cosa si dovesse intendere per investimenti ai fini dell’art. 119 co. 6 Cost. Essa ha disciplinato nel dettaglio ogni singola categoria di spesa per investimento, circoscrivendone il novero a tutte quelle operazioni che mirino all’accrescimento diretto del patrimonio dell’ente pubblico. Tale definizione, insieme con quella di ‘indebi-tamento’, fu oggetto di ricorso di legittimità costituzionale da parte di alcune Regioni e Province autonome, le quali lamentarono una lesione della loro autonomia finanziaria, in ragione del fatto che la nozione di investimento non avrebbe richiesto alcuna norma di det-taglio in quanto principio da interpretarsi esclusivamente alla luce del suo significato economico. In secundis, il coordinamento della finanza pubblica non avrebbe consentito allo Stato di intervenire su una potestà legislativa regionale preesistente se non per dettare principi fondamentali, ma non certo norme di dettaglio38. La Corte

costituzionale, nella sentenza n. 425/200439, stabilì che le nozioni di

‘indebitamento’ e di ‘spesa di investimento’ non sono «nozioni il cui contenuto possa determinarsi a priori, in modo assolutamente univoco, sulla base della sola disposizione costituzionale» e che, ai fini del coordinamento della finanza pubblica e della tutela dell’unità economica della Repubblica, non è ammissibile che «ogni ente, e così ogni Regione, faccia in proprio le scelte di concretizza-zione delle nozioni di indebitamento e di investimento ai fini

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pre-detti». Conferma le statuizioni qui riportate anche l’art. 10 co. 1 della legge rinforzata, la quale stabilisce che il finanziamento di spe-se di investimento è conspe-sentito soltanto nei limiti del medesimo articolo e della legge dello Stato, in questo modo facendo salvo il potere statale di disciplinare, anche con legge ordinaria e non solo con modifiche alla legge rinforzata de qua, la materia dell’indebitamento per spese di investimento degli enti locali e delle Regioni nella mi-sura in cui ciò si renda necessario per «far valere un vincolo di ca-rattere generale, che deve valere in modo uniforme per tutti gli en-ti». Ciò significa che rientrerà pur sempre nella discrezionalità del legislatore ordinario estendere o restringere il novero delle spese per investimenti e dare una definizione più o meno elastica del con-cetto di indebitamento.

Appare utile ricordare in questa sede che l’art. 3 co. 19 della legge n. 350/2003 vieta il ricorso all’indebitamento per finanziare conferimenti volti alla ricapitalizzazione di aziende o società finaliz-zata al ripiano di perdite. Nonostante il conferimento rientri di norma nel novero delle spese di investimento consentite, in tal caso esso assume le vesti di ripianamento di perdite di gestione di socie-tà partecipate dall’ente locale, cui spesso accade l’Ente abbia ester-nalizzato una o più funzioni al fine di eludere i vincoli del Patto di stabilità interno40. A questo proposito, va rammentato che la

pro-posta di legge costituzionale A.C. n. 459641, poi parzialmente

con-fluita, insieme con altre cinque, nel disegno di legge di revisione costituzionale approvato dal parlamento, conteneva una norma molto simile a quella della legge ordinaria, suscettibile di elevarla a rango costituzionale42. L’art. 3 co. 1 della proposta avrebbe infatti

sostituito l’art. 119 co. 6 Cost. con il testo seguente:

I Comuni e le Città metropolitane non possono ricorrere all’indebitamento per finanziare nuove spese correnti o diminuzioni di entrate. È esclusa la garanzia del Stato sui debiti da essi contratti. Essi possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese per investimenti infrastrutturali con esclusione dei conferimenti di capitale a società partecipate.

Non è chiaro per quale ragione, ma il legislatore costituzionale ha scelto infine di sopprimere la disposizione, continuando a lascia-re alla legge ordinaria la facoltà di derogalascia-re a tale norma.

Agli enti locali e alle Regioni è inoltre concesso di finanziare spese di investimento con gli avanzi di amministrazione degli

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eser-cizi precedenti (art. 9 co. 3), i quali non vengono conteggiati ai fini dell’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche. Gli avanzi vanno, tuttavia, prioritariamente destinati all’estinzione del debito e solo secondariamente al finanziamento di spese di investi-mento senza la creazione di indebitainvesti-mento. L’art. 9 co. 3 rappre-senta una misura di flessibilità ulteriore rispetto a quanto sancito dal testo costituzionale, anche se già contemplata dalla legge ordi-naria ed in particolare dal combinato disposto degli art. 186 e 187 co. 2 lett. d) Tuel, che stabilisce la facoltà da parte degli enti locali, e in via analogica anche per le Regioni43, di destinare a spese di

in-vestimento gli avanzi che sono stati accertati a consuntivo. Il legisla-tore rinforzato ha scelto di dare a questa facoltà una particolare resistenza all’abrogazione, privilegiandola rispetto ai possibili utilizzi del risultato di amministrazione presunto (art. 187 co. 3), tra cui rien-trano il reinvestimento delle quote accantonate per l’ammortamento (art. 187 co. 2 lett. a), la copertura dei debiti fuori bilancio (art. 187 co. 2 lett. b) il finanziamento delle spese di funzionamento non ri-petitive in qualsiasi periodo dell’esercizio finanziario e per le altre spese correnti solo in fase di assestamento del bilancio (art. 187 co. 2 lett. c). Tale facoltà degli enti locali e delle Regioni rischia co-munque di prestarsi ad abusi, come segnalato in alcune delibere delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, le quali hanno affermato il principio di utilizzo vincolato dell’avanzo di amministrazione rispetto alle allocazioni stabilite dall’art. 187 co. 2 Tuel, ponendo un freno al suo impiego per ripianare perdite d’esercizio relative alle partecipazioni societarie comunali44. In

que-sto senso, la modifica dell’art. 119 co. 6 Cost., così come proposta nel già citato disegno di legge costituzionale A.C. n. 4596, avrebbe consentito di adeguare la disciplina costituzionale all’orientamento dei giudici contabili. Al fine di evitare un utilizzo improprio dei saldi positivi, il legislatore non prevede una sanzione, ma sceglie di raccordare l’utilizzo dei risultati di amministrazione per spese di investimento con le disposizioni di cui all’art. 10 della legge rinfor-zata, il quale subordina il ricorso all’indebitamento per spese di investimento al raggiungimento di un’intesa con la Regione, in mo-do tale da non compromettere il rispetto del macro-obiettivo.

Infine, occorre ancora menzionare il fatto che la facoltà di in-debitamento degli enti locali e delle Regioni è ulteriormente ristret-ta da altre norme ordinarie oltre a quelle già ricordate, quali ad

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esempio l’art. 204 co. 1 Tuel, così come modificato dall’art. 8 della legge n. 183/2011, il quale stabilisce che il ricorso all’indebitamento per gli enti locali è ammesso soltanto nella misura in cui l’importo degli interessi passivi, sommati agli oneri già contratti, non superi il 6 percento delle entrate correnti per l’esecizio finanziario 2013 e il 4 percento a partire dal 201445. Deroghe a questi limiti sono

previ-ste, invece, per i c.d. debiti fuori bilancio. Analoghi limiti sono fis-sati dal medesimo art. 8 della legge n. 183/2011 per le Regioni a statuto ordinario46. A ciò si aggiunga che, ai sensi dell’art. 30 co. 7

della legge n. 183/2011, così come modificato dall’art. 1 co. 439 della legge n. 228/2012, il ricorso all’indebitamento è altresì vietato per quegli enti locali e quelle Regioni che abbiano violato il Patto di stabilità interno nell’esercizio precedente. Come si è già avuto mo-do di ripetere, la legge rinforzata de qua non è l’unica fonte deputa-ta a disciplinare i limiti all’indebideputa-tamento. Essa si limideputa-ta a fissarne alcuni, dotandoli di maggiore resistenza all’abrogazione, lasciando invece che altri, inquadrabili tra le norme di coordinamento finan-ziario c.d. dinamico, possano essere modificati a seconda della con-giuntura47. D’altronde, è lo stesso art. 9 co. 5 a far salvo che il

legi-slatore ordinario, «nel rispetto dei principi della presente legge», possa prevedere ulteriori obblighi in capo agli enti locali e alle Re-gioni al fine di assicurare il loro concorso al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica.

La seconda condizione (2), individuata dalla legge rinforzata all’art. 10 co. 2, riprende la formula del nuovo art. 119 co. 6 Cost. e sancisce che, per poter ricorrere all’indebitamento, gli enti locali e le Regioni debbono contestualmente adottare «piani di ammorta-mento di durata non superiore alla vita utile dell’investiammorta-mento, nei quali sono evidenziate l’incidenza delle obbligazioni assunte sui singoli esercizi finanziari futuri nonché le modalità di copertura degli oneri corrispondenti», i quali non possono essere in alcun modo essere posti a carico dello Stato. Come evidenziato dall’art. 9 co. 1 lett. b), le entrate finali dell’ente dovranno essere sufficienti anche per rimborsare le obbligazioni assunte con il ricorso all’indebitamento. In altre parole, nonostante il ricorso al mercato dei capitali, l’ente deve comunque garantire l’equilibrio nel medio periodo, coprendo il disavanzo negli esercizi successivi48. Ciò è

chiarito anche dalla relazione al disegno di legge costituzionale n. 4620 del governo, in base alla quale gli enti locali e le Regioni deb-bono «garantire un equilibrio intertemporale tra il disavanzo

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dell’anno di realizzazione dell’investimento e i successivi avanzi ne-cessari per ammortizzarlo»49. Di per sé, la nuova norma costituzionale,

dettagliata dalla legge rinforzata, non pare restringere l’autonomia fi-nanziaria degli enti locali e delle Regioni più di quanto non av-venisse prima della legge n. 1/2012. Limiti temporali alla durata dell’ammortamento erano già inquadrabili nel novero dei principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica di cui all’art. 117 co. 3 Cost., in quanto funzionali a preservare gli equili-bri di bilancio e il rispetto dei saldi obiettivo. La norma di cui all’art. 10 co. 2 della legge rinforzata va comunque posta in relazio-ne con le disposizioni di legge ordinaria in materia. In particolare, l’art. 204 co. 2 lett. a) Tuel, così come modificato dall’art. 1 co. 68 della legge 30 dicembre 2004 n. 311 (legge finanziaria 2005), stabi-lisce che l’ammortamento non può avere durata inferiore ai cinque anni, al fine di evitare che le spese annuali per il rimborso siano troppo onerose per il bilancio dell’ente, ma esso non deve neanche avere durata superiore ai trent’anni (art. 62 del d.l. n. 112/2008), ivi comprese le eventuali operazioni di riscadenzamento del prestito ammesse dalla legge, al fine di evitare che gli enti locali diluiscano eccessivamente nel tempo la restituzione del prestito. L’art. 10 co. 2 evita di individuare una durata diversa da quelle già previste dalla legge ordinaria, ma stabilisce comunque un parametro suscettibile di essere interpretato in maniera elastica, dal momento che la ‘vita utile dell’investimento’ può avere durata anche più che trentennale. La terza condizione (3) stabilita dal legislatore per l’accensione del debito da parte degli enti locali e delle Regioni consiste nella previa conclusione di intese in ambito regionale che «garantiscano, per l’anno di riferimento, l’equilibrio della gestione di cassa finale del complesso degli enti territoriali della regione interessata, com-presa la medesima regione» (art. 10 co. 3). Ciò significa che, affin-ché un ente territoriale possa ricorrere all’indebitamento, oltre alla soddisfazione delle condizioni sub a) e sub b), è necessario che un altro ente locale, oppure la Regione o Provincia autonoma, consegua un saldo positivo corrispondente all’ammontare dell’indebitamento. Per ‘enti territoriali’ sembrano doversi intendere solo quelli indivi-duati all’art. 9 co. 1, rectius gli enti di cui all’art. 114 co. 1 Cost. Una lettura sistematica consiglierebbe, invece, di annoverare tra gli enti territoriali di cui alla disposizione de qua tutti gli enti operanti nell’ambito del sistema di finanza pubblica allargata, ossia i Comuni

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sopra i mille abitanti (ex art. 31 co. 1 della legge n. 183/2011), le Province, le Regioni, nonché gli enti locali commissariati, le aziende speciali e le società in house degli enti locali50.

L’art. 10 co. 3 della legge rinforzata ricalca la lettera della di-sposizione della legge costituzionale n. 1/2012 e stabilisce succin-tamente le modalità della procedura concertativa che, ex art. 10 co. 5, saranno oggetto di un decreto del presidente del Consiglio dei ministri (d.p.c.m.), adottato d’intesa con la Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica: ogni anno, gli enti lo-cali dovranno comunicare alla Regione o alla Provincia autonoma di appartenenza il saldo finale e di parte corrente che prevedono di conseguire insieme con il tipo di investimenti da realizzare attraver-so il ricorattraver-so al mercato dei capitali. Dal momento che il comma 5 parla di «criteri e modalità di attuazione del presente articolo», non è chiaro se le Regioni, a loro volta, dovranno comunicare l’esito del-la compensazione al Ministero dell’economia e delle finanze (Mef) e se quest’ultimo potrà o meno autorizzare le intese51. Dal tenore

letterale dell’art. 10 e, come si dirà innanzi, le Regioni sembrano poter amministrare questa fase del coordinamento in autonomia. E’ quindi lecito dedurne che il decreto definirà soltanto i principi fon-damentali della procedura concertativa, eventualmente stabilendo doveri informativi nei confronti della Ragioneria generale dello Sta-to e stabilendo le conseguenze in caso di mancaSta-to raggiungimenSta-to delle intese, senza invadere l’autonomia organizzativa degli enti lo-cali e delle Regioni, ma lasciando viceversa proprio alle Regioni l’esercizio del potere regolamentare di dettaglio. Viceversa, se il decreto dovesse recare una precisa disciplina della procedura (ad es. in materia di restituzione delle quote) e prevedere eventuali po-teri autorizzatori in capo al Mef, bisognerebbe innanzitutto do-mandarsi se l’utilizzo di una fonte secondaria avente natura sostan-zialmente normativa52, senza previa intesa in sede di Conferenza

Stato-Regioni o di Conferenza unificata, sia lo strumento adeguato per l’esercizio del coordinamento della finanza pubblica.

Secondo la Regione Friuli Venezia-Giulia e la Provincia auto-noma di Trento, l’autorizzazione all’adozione di un decreto integre-rebbe in ogni caso una violazione del principio risultante dall’art. 117 co. 6 Cost. per cui sarebbe preclusa l’adozione di regolamenti statali nelle materie regionali53. Due sono le possibili obiezioni alla

doglianza de qua. In primo luogo, trattandosi di un decreto che, dovendo disciplinare criteri e modalità delle intese, avrebbe

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conte-nuto sostanzialmente normativo e non regolamentare e non sarebbe quindi passibile di ledere l’art. 117 co. 6 Cost. In secondo luogo, anche se fosse riconosciuta natura regolamentare al decreto, la giu-risprudenza costituzionale ha giudicato ammissibili i regolamenti statali nelle materie di competenza regionale, se espressione di una legittima funzione dello Stato e segnatamente quella di dettare principi fondamentali del coordinamento finanziario. Ora, se il de-creto contenesse esclusivamente obblighi informativi delle Regioni nei confronti della Ragioneria generale dello Stato, il coordinamen-to statale si limiterebbe ad una mera raccolta ed esame di dati ai fini di verifica contabile di rispetto dei macro-obiettivi e potrebbe quindi dirsi espressione di una funzione legittima. Nel caso in cui lo Stato disponesse una disciplina dettagliata della procedura da os-servarsi in ciascuna Regione, invece, la legittimità parrebbe dubbia. Nondimeno, ha sostenuto la Corte costituzionale in passato, essa dovrebbe misurarsi con il «carattere ‘finalistico’ dell’azione di coordinamento (che) esige che al livello centrale si possano colloca-re non solo la determinazione delle norme fondamentali che colloca- reggo-no la materia, ma altresì poteri puntuali (...) di ordine amministrati-vo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo»54. In

altre parole, la giurisprudenza costituzionale ammette che lo Stato possa intestarsi anche l’esercizio di funzioni amministrative di coordinamento finanziario55.

Orbene, per quanto riguarda la prima obiezione, riguardante la natura non regolamentare dell’atto, va detto che alcuni autori ten-dono comunque a considerare contrario alla ratio della riforma co-stituzionale del Titolo V il tentativo del legislatore statale di inter-venire con fonte formalmente secondaria in materie di competenza regionale56. Altri autori considerano che l’atto sostanzialmente

normativo sia viziato da irragionevolezza o eccesso di potere57. Per

quanto attiene, invece, la seconda obiezione, riesce difficile ricon-durre la disciplina dei criteri e delle modalità di funzionamento del-le intese tra i principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica ai sensi del combinato disposto dell’art. 117 co. 3 e dell’art. 119 Cost., dal momento che essi possono dirsi tali soltanto in quanto perseguano istanze di carattere unitario58. Trattandosi di

intese da raggiungere espressamente in ciascuna Regione, sulla base di valutazioni che incidono sull’autonomia finanziaria degli enti locali e delle Regioni stesse, non sembra ammettersi alcuna

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disci-plina dettagliata da parte dello Stato il quale, peraltro senza previo coinvolgimento della Conferenza Stato-Regioni-Province autonome nella sua definizione, rischierebbe di violare l’autonomia organizza-tiva delle Regioni. Al più, il decreto, per evitare una declaratoria di illegittimità costituzionale, potrebbe limitarsi a fissare termini e do-veri di informazione nei confronti della Ragioneria generale dello Stato.

Venendo al merito dell’art. 10, come nota Morgante, «la for-mulazione testuale della norma non contempla la possibilità di compensazioni tra gli obiettivi di equilibrio di bilancio dello Stato centrale e quelli riferiti alle singole amministrazioni territoriali», né, peraltro, tra i target di bilancio di Regioni diverse o Province auto-nome. In questo senso, il compito primario delle Regioni e delle Province autonome è di assicurare il proprio concorso e quello de-gli enti collocati sul proprio territorio alla sostenibilità del debito pubblico, come stabilito dall’art. 12 co. 1 della legge rinforzata. Per far ciò il legislatore attribuisce alla Regione o alla Provincia auto-noma un potere di coordinamento della finanza pubblica di cui all’art. 117 co. 3 Cost., limitatamente alla individuazione di spazi finanziari per gli enti che intendano fare ricorso all’accensione di debito per realizzare investimenti59. Da un lato, si tratta di una

ulte-riore compressione dell’autonomia finanziaria dell’ente, il quale risulta vincolato nella sua autonomia di spesa anche dalla disponibi-lità di spazi finanziari da individuare soltanto entro i confini della Regione; dall’altro, si tratta di garantire che i diversi comparti re-gionali possano raggiungere l’obiettivo predeterminato in maniera efficace ed efficiente. Non a caso, il meccanismo è previsto dalla legge ordinaria come forma di flessibilizzazione del Patto di stabili-tà interno e non certo come suo irrigidimento (v. infra)60.

Prima di comprendere che tipo di flessibilizzazione dell’obiettivo contempli l’art. 10, occorre interrogarsi se il potere di coordina-mento regionale rechi con sé anche un potere di ‘armonizzazione dei bilanci pubblici’, stante il fatto che una decennale giurispru-denza della Corte costituzionale ha finito per sfumare in un’endiadi le due materie61, rectius funzioni62, garantendo allo Stato un forte

potere unificante, nonostante fossero attribuite entrambe alla pote-stà legislativa concorrente delle Regioni63. Oggi, tuttavia, con

l’ascrizione soltanto della seconda alla potestà legislativa esclusiva dello Stato (art. 117 co. 2 lett. e)64 tocca a chi studia il diritto offrire

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Nel caso di specie, agli enti locali e alle Regioni è fatto obbligo di assicurare l’equilibrio del saldo di un aggregato e quindi, si potreb-be dire, i bilanci degli enti locali di una Regione andrebpotreb-bero resi armonici con quelli degli altri enti pubblici, in modo da rispettare i macro-obiettivi di finanza pubblica. Se questa fosse l’interpretazione da darsi dell’art. 10 co. 3 sulla base del nuovo art. 119 co. 6 Cost., allo Stato rimarrebbe quanto meno il potere di disciplinare la pro-cedura, oltre che un potere autorizzatorio ed eventualmente anche un potere sostitutivo, in caso di mancato raggiungimento dell’intesa.

In realtà, per distinguerla sostanzialmente dal coordinamento, la materia dell’’armonizzazione dei bilanci pubblici’ andrebbe ri-condotta esclusivamente ad operazioni di omogeneizzazione dei criteri contabili per la stesura dei bilanci pubblici65 o alla disciplina

sulle procedure e sui presupposti di riscossione e interpretata non come sub specie del coordinamento66, segnatamente come

sinoni-mo di regole finali di coordinamento, funzionali al raggiungimento dell’equilibrio finanziario ad ogni livello di governo. Detto altri-menti, ascrivere ‘l’armonizzazione dei bilanci pubblici’ alla potestà legislativa esclusiva dello Stato sembra potersi giustificare sulla base della necessità di tutelare ‘l’unità giuridica o economica della Re-pubblica’, dal momento che, in assenza di identici schemi di bilan-cio o regole contabili ovvero in caso di frammentazione dei metodi di rendicontazione e pagamento, sarebbe oltremodo difficile per la Repubblica rispettare i vincoli di finanza pubblica previsti dalla Carta e condizionati dai Trattati unionali, oltreché dal recente

Fi-scal Compact67.

Viceversa, il ‘coordinamento della finanza pubblica’ può essere concretamente esercitato anche dalle autonomie, atteso che, in os-sequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui all’art. 118 co. 1 Cost., può spettare alle Regioni e le Province autonome adeguare alle realtà locali le regole della finanza pubbli-ca, consentendo l’individuazione degli strumenti concreti, atti a raggiungere gli obiettivi fissati dallo Stato ovvero di rispettare i li-miti complessivi di spesa o di indebitamento68, in questo caso la

rimodulazione delle forme di compensazione orizzontale e verticale di avanzi e disavanzi tra enti locali e tra Regioni. A differenza degli autori, che vedono nell’imputazione alla potestà legislativa esclusiva dello Stato dell’’armonizzazione dei bilanci pubblici’ un ulteriore passo verso la centralizzazione di ogni decisione in materia di

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fi-nanza pubblica69, la costituzionalizzazione delle intese a livello

re-gionale, adeguatamente attuata, è stata giudicata come tentativo del legislatore di coinvolgere le Regioni e le Province autonome nel ruolo di intermediatori del coordinamento finanziario di cui all’art. 117 co. 3 Cost.70.

La regionalizzazione del Patto di stabilità interno, cui si accen-nava, è una misura di flessibilizzazione del Patto, rectius di modifica dei saldi programmatici di cui al Patto, volta a consentire agli enti locali di effettuare i pagamenti per le spese di investimento già im-pegnate, oltreché intesa ad affrontare le situazioni di forte difficoltà finanziaria di alcuni enti. La regionalizzazione – verticale o orizzon-tale – aveva trovato, già a partire dall’approvazione del d.l. n. 112/2008 e del d.l. n. 5/2009 una prima disciplina nella legge ordi-naria. Norme con carattere ordinamentale furono adottate a più riprese nel 2010 e nel 201171 alla stregua di norme congiunturali,

dettate cioè da un’esigenza temporanea o emergenziale, come l’utilizzo del decreto legge pare dimostrare. Nondimeno, la Corte dei conti ha ritenuto che la regionalizzazione del Patto di stabilità abbia sortito buoni risultati per gli enti locali, giacché, «tra gli enti che hanno partecipato alle forme di compensazione regionale la percentuale di inadempienza è decisamente più contenuta (1,6 per cento), mentre si attesta al 9,5 per cento tra i comuni che non han-no aderito ad alcuna forma dei Patti di solidarietà»72.

L’attuale tentativo di ‘ordinamentalizzazione’ non si è esaurito in una mera enunciazione di principio in sede di riforma costitu-zionale, anche se l’attuazione sembra seguire ancora canali, per così dire, ‘congiunturali’, dal momento che è proseguita l’opera di strati-ficazione normativa ed è mancata, invece, una riforma che, in ap-plicazione dell’articolo 17 co. 1 lett. c) della legge di delega 5 mag-gio 2009 n. 42 sul federalismo fiscale, riconducesse «entro un im-pianto unico (...) sia le caratteristiche di base del sistema di finan-ziamento sia le regole valide per il concorso di tutte le realtà territo-riali agli obiettivi di finanza pubblica». Un primo passo in direzione di tale riforma è il passaggio al c.d. Patto regionale integrato, uno strumento fino ad oggi utilizzato soltanto dalle autonomie speciali in forza del comma 6 dell’art. 77-ter del d.l. n. 112/2008 e previsto per le Regioni a statuto ordinario dall’art. 32 co. 17 della legge n. 183/201173, che consentirà anche alle Regioni ordinarie di

negozia-re dinegozia-rettamente con il Ministero dell’economia e delle finanze (Mef) le modalità di raggiungimento dei propri obiettivi finanziari

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(esclu-sa la componente (esclu-sanitaria) e, previa inte(esclu-sa con i Consigli delle au-tonomie locali (Cal), di quelli degli enti locali siti sul proprio terri-torio, abbandonando la contrattazione multilaterale tipica della Conferenza Stato-Regioni-Province autonome e lasciando loro de-cidere in autonomia sulla disciplina di premi, sanzioni e sui mecca-nismi di monitoraggio. La Regione o Provincia autonoma che con-corda il Patto sarà responsabile del mancato rispetto degli obiettivi attraverso un maggior concorso nell’anno successivo a quello di riferimento, in misura pari alla differenza tra l’obiettivo complessi-vo e il risultato conseguito. Dato il tenore dell’art. 10 della legge rinforzata, che parla di ‘conclusione’ dell’intesa su base regionale e non menziona in alcun modo il ruolo del Mef, sembra che il legisla-tore abbia inteso rifarsi proprio al modello del Patto regionale inte-grato per disegnare la nuova norma. In assenza di un decreto della Ragioneria generale dello Stato che disciplini termini e modalità della concertazione74, l’entrata in vigore di tale sistema, che

impo-sterà su base bottom-up l’intero sistema delle compensazioni, è sta-ta posticipasta-ta al 2014, dal momento che, spiega la circolare del Mef del 5 febbraio 2013, «non sono ancora disponibili le informazioni necessarie per poter calcolare il saldo obiettivo delle Regioni coe-rente con i criteri europei e al netto della gestione sanità». Il che appare quanto meno curioso, se, come si è visto, già dal 2013, il saldo obiettivo delle Regioni ai fini del Patto di stabilità dovrebbe essere calcolato in termini eurocompatibili. Per il resto, se il Patto regionale integrato dovesse effettivamente dare attuazione alla di-sposizione costituzionale, si porrebbe un problema di duplicazione di atti amministrativi, atteso che la legge rinforzata rinvia all’approvazione di un d.p.c.m, mentre la legge n. 183/2011 ad un decreto del Mef. A questo proposito, quindi, una maggiore chiarezza da parte del legislatore sulla natura delle intese sarebbe stata d’uopo.

Nel frattempo, comunque, per l’esercizio finanziario 2013, l’art. 1 co. 433 della legge n. 228/2012 ha esteso le disposizioni in materia di Patto regionalizzato orizzontale e verticale e in materia di Patto regionale verticale incentivato fino al 2014, introducendo l’erogazione di contributi statali a favore delle Regioni che cedano spazi finanziari anche alle Province (e non soltanto ai Comuni, co-me avveniva sino ad oggi) che intendano favorire lo smaltico-mento dello stock di residui passivi in conto capitale75. Va infine segnalato

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dall’art. 4-ter del d.l. n. 16/2012, che consente la rimodulazione degli spazi finanziari tra Comuni appartenenti a Regioni diverse. L’art. 1 co. 6 della legge n. 135/2012 ne ha sospeso l’efficacia per l’esercizio finanziario 2013, in attesa forse di una sua soppressione, non appena il Patto regionale integrato sarà entrato in vigore76.

Come rimarcato dalla Corte dei conti77, nel corso dell’anno

succes-sivo alla sua introduzione, non sono stati approntati infatti mecca-nismi adeguati per il coordinamento della c.d. ‘bidimensionalità’ creata dalla coesistenza tra il Patto orizzontale regionalizzato e quello nazionale. Senza contare che, nell’unico anno di vigenza del Patto, la partecipazione dei Comuni è stata modesta e una percen-tuale pari a quasi il 20 percento dei Comuni che hanno acquisito quote nell’ambito del patto orizzontale nazionale non ha comunque rispettato i parametri del Patto di stabilità . È forse anche per que-ste ragioni che il Patto orizzontale nazionale non ha ricevuto coper-tura costituzionale nella novella dell’art. 119 co. 6 Cost., il quale riconosce esclusivamente intese tra enti locali situati nel territorio di una Regione o di una Provincia autonoma.

3. L’indebitamento in forma ‘mediata’ per la correzione degli effetti

del ciclo e per gli eventi eccezionali

Una delle principali differenze che intercorrono tra le norme costituzionali in materia di bilancio statale e quelle concernenti il bilancio degli enti locali e delle Regioni riguarda alcuni profili dell’autonomia finanziaria di questi ultimi, atteso che allo Stato è consentito definire, per così dire, in maniera autonoma le modalità di deviazione temporanea dall’obiettivo in caso di fasi avverse del ciclo economico ovvero al verificarsi di eventi eccezionali (art. 81 co. 2 Cost.), così come definiti dall’art. 6 della legge rinforzata, mentre nel caso degli enti locali e delle Regioni, come recita l’art. 11 della legge rinforzata, riprendendo l’art. 5 della legge costituzio-nale n. 1/2012, è lo Stato stesso a fissare le modalità della deviazio-ne o meglio a concorrere «al finanziamento dei livelli essenziali del-le prestazioni e deldel-le funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali» (art. 11 co. 1 prop. 1) attraverso la creazione di un fondo straordinario ad hoc, alimentato da una parte dalle risorse ottenute con il ricorso all’indebitamento consentito dalla necessità di cor-reggere il ciclo. L’ammontare di tali risorse andrà determinato ogni

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anno in sede di approvazione del documento di economia e finanza (Def), tenendo conto della quota di entrate proprie di Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Province autonome in-fluenzata dall’andamento del ciclo economico (art. 11 co. 1 prop. 2), mentre, nel caso in cui lo scostamento dall’obiettivo sia stato autorizzato dal parlamento, l’ammontare delle risorse messe a di-sposizione dal fondo potrà tenere conto degli effetti degli eventi eccezionali sugli enti locali e sulle Regioni (art. 11 co. 2). La distri-buzione delle risorse seguirà ad un d.p.c.m., adottato dopo aver sentito la Conferenza permanente per il coordinamento della finan-za pubblica e aver ottenuto il parere delle Commissioni Bilancio e Finanze dei due rami del Parlamento (art. 11 co. 3).

L’aspetto di maggiore interesse della disciplina dettata dall’art. 11 riguarda il concorso dello Stato al finanziamento dei livelli es-senziali delle prestazioni (Lep), di cui all’art. 117 co. 2 lett. m) e delle funzioni fondamentali di cui all’art. 117 co. 2 lett. p) limitata-mente a quel particolare tipo di funzioni che ineriscano ai diritti civili e sociali. Finora le funzioni fondamentali degli enti locali sono state determinate in via provvisoria dalla legge delega n. 42/2009 all’art. 21 co. 2 e sgg., mentre la disciplina dei Lep è ricostruibile a partire da diversi atti normativi, tra cui si ricordano i d.p.c.m. sui livelli essenziali di assistenza sociosanitaria (Lea) del 14 febbraio e del 29 novembre 2001, recentemente modificati dal d.l. n. 158/2012 (c.d. Decreto Balduzzi) convertito in legge n. 189/2012, oltrechè della legge n. 328/2000, la quale ha individuato anche i livelli es-senziali di assistenza sociale (Liveas), a oggi non ancora fatti ogget-to di disciplina apposita da parte del legislaogget-tore post-riforma del 2001. Per il calcolo del finanziamento delle funzioni e dei Lep la legge delega n. 42/2009 ha previsto il criterio del fabbisogno stan-dard. I principi guida per calcolarlo sono stati fissati nel decreto legislativo n. 216/2010 per i Comuni e nel decreto legislativo n. 68/2011 per le Regioni. A oggi, tuttavia, la complessa procedura di calcolo continua a non essere completata78; in assenza di essa, anche

il riparto delle risorse del fondo di cui all’art. 11 della legge rinfor-zata non sembra poter aver luogo.

La competenza di cui all’art. 117 co. 2 lett. m), ascritta alla po-testà legislativa esclusiva dello Stato ed idonea ad investire tutte le materie79, riveste un ruolo di importanza non trascurabile nel

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avver-se del ciclo economico o al verificarsi di eventi eccezionali che le domande di riconoscimento dei diritti, in particolare, di quelli so-ciali hanno una notevole espansione e rischiano perciò di collidere con valori di natura costituzionale, tra i quali l’equilibrio finanziario del bilancio e la sostenibilità del debito pubblico80.

Nel caso di specie, la legge rinforzata parla espressamente di ‘concorso’ al finanziamento, ovvero di una partecipazione dello Sta-to al finanziamenSta-to dei livelli essenziali di prestazioni e funzio-ni fondamentali inerenti i diritti civili e sociali, la cui erogazione sull’intero territorio nazionale è considerata indefettibile, anche qualo-ra la priorità dell’indirizzo politico governativo sia dettata dall’obbligo costituzionale del rispetto dei vincoli di finanza pubblica di cui all’art. 81 Cost. Il finanziamento deve provenire tanto dagli enti locali e dalle Regioni, quanto dallo Stato, il quale, tuttavia, sembra prima facie poter intervenire soltanto qualora gli enti locali e le Re-gioni non siano essi stessi in grado di garantire la tutela dei diritti civili e sociali ricadenti nelle materie di propria competenza. Una tale lettura sarebbe peraltro conforme a quanto previsto dall’art. 8 della legge delega n. 42/2009, il quale stabilisce che, per le spese riguardanti i Lep e le funzioni fondamentali, debba intervenire il futuro fondo perequativo verticale, alimentato con una parte dei tributi erariali in compartecipazione, soltanto nella misura in cui i tributi propri degli enti locali e delle Regioni non siano sufficienti a coprire il fabbisogno quantificato in base ai c.d. costi standard. Conseguentemente, gli art. 14 e 15 del decreto legislativo n. 68/2011 hanno stabilito che le Regioni devono assicurare l’erogazione delle prestazioni comprese nei livelli essenziali di sanità, assistenza, istru-zione e trasporto pubblico locale con risorse proprie.

Un’altra lettura della disposizione di cui all’art. 11 sembra in-vece definire il concorso statale non in termini di facoltà, ma di ob-bligo, per cui allo Stato sarebbe consentito definire soltanto il

quo-modo del finanziamento, ma non l’an81. Quest’ultima

interpretazio-ne sembra doversi preferire, in particolare alla luce del successivo art. 12 co. 2 della legge rinforzata, che, in ossequio ad un preteso canone di reciprocità, pone in capo agli enti locali e alle Regioni un obbligo speculare di concorso alla sostenibilità del debito pubblico di tutta la pubblica amministrazione nelle fasi favorevoli del ciclo economico, imponendo il versamento di un contributo, in una mi-sura fissata da un d.p.c.m. (si veda infra cap. 5).

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Una prima riflessione in ordine a possibili censure di costitu-zionalità dell’art. 11 va dedicata alla natura del fondo de quo rispet-to al fondo perequativo previsrispet-to dall’art. 119 co. 3 Cost. e agli ulte-riori interventi speciali a favore degli enti locali e delle Regioni volti ad agevolare, tra l’altro, l’effettivo esercizio dei diritti della persona di cui all’art. 119 co. 5 Cost. Dinanzi alla perdurante inerzia del legislatore delegato, che non ha ancora definito i criteri del funzio-namento del fondo perequativo che dovrà finanziare integralmente le funzioni fondamentali del sistema delle autonomie e i Lep defini-ti dalla legge delega n. 42/2009, la perequazione a favore degli endefini-ti locali e delle Regioni continua ad attuarsi, oltre che attraverso i fondi sperimentali di riequilibrio per Comuni e Province82, anche

attraverso lo strumento dei fondi vincolati o degli stanziamenti ad hoc, la cui istituzione, sin dalla legge costituzionale n. 3/2001, è stata vietata dalla Corte costituzionale nell’ambito di materie e fun-zioni la cui disciplina spetti alla legge regionale in via residuale o concorrente83. Secondo la Corte, nelle more di una disciplina

attua-tiva dell’art. 119 co. 3 Cost., finanziamenti statali al sistema delle autonomie rischierebbero infatti di diventare «uno strumento indi-retto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittima-mente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria compe-tenza». Fermo restando il divieto, la Corte costituzionale ha am-messo tuttavia che provvisoriamente si possano fare salvi fondi a destinazione vincolata, nella misura in cui, inter alia, garantiscano la continuità dell’erogazione di prestazioni inerenti a diritti costitu-zionali ovvero per evitare che la loro caducazione provochi un pre-giudizio per i diritti fondamentali84.

Ciò premesso, la Corte ha escluso altrove che l’art. 117 co. 2 lett. m) Cost. possa essere interpretato estensivamente, nel senso di includere anche il finanziamento dei livelli essenziali e non solo la loro determinazione85, dal momento che al legislatore statale, per

rispettare l’autonomia finanziaria degli enti locali e delle Regioni cui all’art. 119 co. 4 Cost., è fatto obbligo, una volta definiti i livelli di tutela dei diritti, di attribuire alle Regioni e agli enti locali gli strumenti finanziari per farvi fronte86. Tra gli strumenti per il

finan-ziamento integrale di funzioni e Lep rientra, però, oltre ai tributi propri e alle compartecipazioni, anche il fondo perequativo. Si

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trat-ta, come rilevato87, di una contraddizione tra l’art. 117 co. 2 lett. m)

Cost. e l’art. 119 Cost., ossia tra la necessità che lo Stato finanzi i livelli essenziali delle prestazioni e le funzioni fondamentali che ha determinato, da un lato e il divieto di vincolo posto agli stanzia-menti statali, a presidio dell’autonomia finanziaria degli enti locali e delle Regioni, dall’altro. Una contraddizione che pare forse solo mitigata dall’art. 5 co. 1 lett. g) della legge costituzionale n. 1/2012, in base al quale la legge rinforzata potrebbe regolare le modalità attraverso le quali lo Stato concorre al finanziamento dei Lep e del-le funzioni fondamentali, anche in deroga all’articolo 119 Cost.

Altra questione è se, in un contesto di fase avversa o evento ec-cezionale, il godimento del nucleo essenziale dei diritti fondamenta-li in maniera uniforme sul territorio della Repubbfondamenta-lica richieda sforzi tali da giustificare una temporanea ‘chiamata in sussidiarietà’ da parte dello Stato. A questo proposito, all’art. 11 nessun cenno è fatto alla necessità che il riparto delle risorse faccia seguito anche ad intese nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni-Province auto-nome e, per quanto riguarda le funzioni fondamentali, della Confe-renza Stato-Città-Autonomie locali o della ConfeConfe-renza unificata. L’art. 11 co. 3 si limita a richiedere di «sentire» la Conferenza per il coordinamento della finanza pubblica, che tuttavia è un organo soltanto parzialmente rappresentativo delle autonomie, atteso che, ex art. 34 co. 2 del d.lgs. n. 68/2011, in essa non siedono tutti i rap-presentanti delle Regioni. Per il resto, come stabilito dall’art. 9 co. 2 lett. a) della legge n. 281/1997, la Conferenza unificata esprime un parere sul documento di programmazione economica e finanziaria (oggi Def), ai sensi del quale il riparto deve avvenire. Un parere della Conferenza è cosa ben diversa dall’intesa. Come stabilito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 10/201088, in presenza di

par-ticolari situazioni congiunturali che mettano a repentaglio l’effettività di un diritto fondamentale, è concesso allo Stato prescindere dall’utilizzo di idonei strumenti di coinvolgimento delle Regioni e delle Province autonome. Nondimeno, va segnalato che la riparti-zione del fondo che dovrà avvenire con d.p.c.m. appare come un’attività normativa che precede logicamente la fase emergenziale e, come tale, toccando una ‘concorrenza di competenze’89,

andreb-be completata nel senso indicato dalla giurisprudenza costituziona-le, ossia previo accordo con gli enti locali e con le Regioni sullo schema di decreto90.

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Infine, va rammentato che quello dell’art. 11 non è un semplice fondo recante specifici stanziamenti vincolati, bensì un fondo volto a garantire l’erogazione di quei Lep e l’esercizio di quelle funzioni che saranno interessate anche dal futuro fondo perequativo vertica-le di cui all’art. 119 co. 3 Cost. Sembra prima facie potersi ravvisare una sorta di duplicazione ex ante degli strumenti perequativi, uno per le fasi favorevoli del ciclo e uno per le fasi avverse. Diversamen-te, occorrerebbe ricondurre lo schema di fondo apprestato dall’art. 11 della legge rinforzata de qua alla fattispecie prevista dall’art. 119 co. 5 Cost., dal momento che il concorso statale, il cui obiettivo pare essere proprio di «favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona», ha luogo solo nelle fasi avverse del ciclo economico, rec-tius assolve a finalità di perequazione e di garanzia ulteriori e spe-ciali rispetto al normale esercizio91. In questo caso, tuttavia, il fondo

potrebbe stanziare risorse soltanto per alcune categorie di enti loca-li o Regioni, il che sarebbe controintuitivo rispetto all’esigenza di garantire uniformi livelli essenziali di prestazione su tutto il territo-rio nazionale92, a meno di non stabilire che lo Stato concorra al

fi-nanziamento dei livelli essenziali soltanto per quegli enti locali e per le Regioni che non siano in grado di garantirli. Alternativamente, si potrebbe ancora configurare il concorso dello Stato come una mo-dalità di intervento sostitutivo a tutela dell’unità economica della Repubblica ex art. 120 co. 2 Cost., il quale appare tuttavia ammis-sibile solo in caso di inerzia (ma non di incapienza finanziaria) da parte degli enti locali e delle Regioni nell’assicurare i Lep fissati dal-lo Stato.

Un giudizio sulla piena conformità costituzionale del nuovo fondo potrà essere offerto soltanto una volta che, come osservato dalla Corte dei conti nella delibera approvata in vista dell’audizione parlamentare sul disegno di legge rinforzata93, il legislatore ne

illu-stri modalità e criteri di funzionamento, tra cui, parrebbe logico aspettarsi, anche il novero delle funzioni convolte dall’intervento, caratteristiche e qualità delle prestazioni destinate ad essere finan-ziate nelle fasi avverse o in caso di eventi eccezionali e la dimensio-ne quantitativa delle risorse messe a disposiziodimensio-ne dallo Stato. Tut-tavia la legge rinforzata rinvia ad un d.p.c.m. esclusivamente per il riparto delle risorse e non anche per l’individuazione di modalità e criteri di funzionamento del fondo. Nondimeno, come si è visto in precedenza per l’art. 10, è probabile che il legislatore si sia

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