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Sindrome Cardio-Renale: variazioni della funzione cardiaca e renale nel lungo periodo in pazienti con grave insufficienza sistolica del ventricolo sinistro

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Academic year: 2021

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1 INDICE 1. RIASSUNTO ... 2 2. INTRODUZIONE... 4 3. LO SCOMPENSO CARDIACO ... 6 4. LA SINDROME CARDIO-RENALE ... 30

5. SCOPO DELLA TESI ... 47

6. MATERIALI E METODI ... 48

7. RISULTATI ... 51

8. DISCUSSIONE... 92

9. CONCLUSIONI ... 99

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1. RIASSUNTO

In un gruppo di 57 pazienti con insufficienza cardiaca sistolica cronica grave (EF < 35%), sintomatici per scompenso cardiaco, sono stati valutati i parametri ecocardiografici di funzione cardiaca e la funzione renale (espressa da creatininemia e filtrato glomerulare calcolato con formula MDRD) all'inizio ed alla fine di un follow-up medio di 7 anni. L'analisi nel tempo ha permesso di distinguere 3 gruppi di pazienti in base all’andamento della funzione renale: 25 pazienti con funzione renale conservata (MDRD > 60 ml/min/1.73 mq) sia alla prima visita che al termine del follow-up (Gruppo 0); 8 pazienti con funzione renale normale all'arruolamento, ma con insufficienza renale al termine del periodo di osservazione (Gruppo 1) e 24 pazienti con disfunzione renale già al primo controllo (Gruppo 2).

All’arruolamento l'età media era significativamente diversa nei tre gruppi (60 vs 69 vs 71 anni) mentre dal punto di vista clinico-strumentale soltanto la NYHA e le dimensioni dell'atrio sinistro mostravano differenze significative nei confronti diretti tra gruppi: la classe NYHA risultava più elevata nei pazienti del gruppo 2 rispetto al gruppo 0 (2,16 ± 0,85 vs 2,75 ± 0,73; p=0,012), ed anche l’area dell’atrio sinistro risultava maggiore nei pazienti con insufficienza renale (25,6 ± 11,69 vs 28,04 ± 7,67; p=0,04).

Alla fine del follow-up, particolarmente lungo se si considera la gravità dei pazienti inseriti in questo studio, la mortalità totale era del 22,8% con differenze significative nei tre gruppi: 30,77% nel gruppo 0, 23,08% nel gruppo 1 e 46,15% nel gruppo 2.

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I parametri di funzionalità cardiaca e renale nel gruppo 0 non mostravano differenze significative rispetto alla prima visita, mentre negli altri due gruppi si osservava un peggioramento dei parametri clinico-strumentali.

Nella popolazione esaminata da questo studio la prevalenza di insufficienza renale è risultata molto elevata già all’arruolamento, ed è aumentata nel corso del follow-up. Infatti al gruppo di pazienti con disfunzione renale ab initio si devono aggiungere anche gli 8 pazienti che hanno sviluppato l’insufficienza renale durante il periodo di osservazione. Per cui nel corso del follow-up, durato in media 7 anni, la prevalenza di insufficienza renale è passata dal 42% al 56%.

I confronti diretti tra gruppi hanno dimostrato come il quadro clinico, e in particolare la classe NYHA, fosse significativamente peggiore nei pazienti con insufficienza renale, ad indicare come la disfunzione renale sia responsabile di un aumento della morbilità nei pazienti affetti da insufficienza cardiaca.

Si è inoltre osservato un peggioramento del quadro clinico-strumentale nel gruppo di pazienti che hanno sviluppato l’insufficienza renale nel corso del follow-up.

La mortalità globale (22% in 7 anni) è risultata inferiore rispetto a quella attesa, ma nettamente più elevata nei pazienti con insufficienza renale e predetta anche dalla cachessia e dall’iponatriemia.

In accordo con la letteratura, quindi, anche l'analisi dei nostri dati mostra che la funzione renale è un fattore prognostico importante nei pazienti con scompenso cardiaco.

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2. INTRODUZIONE

Lo scompenso cardiaco e l’insufficienza renale sono patologie comuni nella popolazione generale, spesso associate tra loro. La disfunzione renale è una complicanza comune e progressiva dello scompenso cardiaco cronico, con un decorso spesso altalenante e dipendente dalle condizioni cliniche generali del paziente e dalle variazioni dei piani terapeutici. La coesistenza di alterazioni della funzionalità renale in pazienti con scompenso cardiaco cronico determina un significativo aumento della mortalità, della morbilità e della complessità nella gestione terapeutica.

Lo scompenso cardiaco è una patologia tipica dell’anziano: colpisce circa il 10% degli uomini e l’8% delle donne sopra i 60 anni e l’incidenza aumenta con l’età.1

Si stima che negli Stati Uniti circa 5,1 milioni di persone presentino uno scompenso cardiaco clinicamente evidente e la prevalenza è in continua crescita, anche a causa del progressivo invecchiamento della popolazione.

Nonostante i tassi di sopravvivenza siano aumentati notevolmente negli ultimi anni, grazie ai miglioramenti nelle possibilità terapeutiche, la mortalità assoluta resta stabile intorno al 50% a 5 anni dalla diagnosi.2 Lo scompenso cardiaco è la prima causa di ricovero nei pazienti sopra 65 anni ed è ormai chiaro che le interazioni fisiopatologiche tra cuore e reni svolgono un ruolo rilevante nella progressione della patologia cardiaca. Dal registro ADHERE (Acute Decompensated Heart Failure National

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cardiaca scompensata, emerge che in molti casi l’insufficienza renale è presente come comorbidità: nel 27,4% dei casi in forma lieve, nel 43,5% dei casi in forma moderata e nel 13.1% dei casi in forma grave.3 Lo studio ESCAPE (Evaluation Study of Congestive Heart Failure and

Pulmonary Artery Catheterization Effectiveness) dimostra che il 40% dei

pazienti con ADHF sviluppa un deterioramento della funzionalità renale durante il ricovero, con conseguente peggioramento dell’outcome.4

Le interazioni fisiopatologiche tra cuore e reni sono note ormai da tempo, nonostante la precisa definizione e classificazione sia stata effettuata solo nel settembre del 2008 ad opera di una Consensus Conference organizzata dall’ADQI (Acute Dialysis Quality Initiative). Il gruppo di esperti ha portato alla definizione di una ―nuova‖ entità clinica, definita Sindrome Cardio-Renale.5

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3. LO SCOMPENSO CARDIACO

Lo scompenso cardiaco è lo stato fisiopatologico nel quale il cuore è incapace di mantenere una gittata cardiaca adeguata alle richieste metaboliche dei tessuti, o può farlo solo con pressioni di riempimento elevate.1 Le linee guida dell’American College of Cardiology/American Heart Association per la valutazione e il trattamento dell’insufficienza cardiaca cronica dell’adulto hanno definito la malattia come una ―sindrome clinica complessa che può dipendere da qualsiasi alterazione strutturale o funzionale del cuore che compromette la capacità del ventricolo di riempirsi o di espellere sangue‖.2

Le manifestazioni cliniche più importanti sono la dispnea da sforzo, l’astenia e la ritenzione idro-salina, la quale può condurre a congestione polmonare o splancnica e all’insorgenza di edemi periferici. Quasi tutti i segni e sintomi sono aspecifici e quindi di fondamentale importanza per la diagnosi è la ricerca di un’alterazione cardiaca sottostante. Il riconoscimento della patologia cardiaca che ha determinato il quadro di scompenso è importante non solo per la diagnosi, ma anche per la corretta gestione terapeutica dei pazienti, in quanto il trattamento potrà essere medico o chirurgico a seconda della causa scatenante.

Qualsiasi condizione che determini un’alterazione della struttura del ventricolo sinistro o della sua funzione può predisporre il paziente a sviluppare lo scompenso cardiaco. Nei Paesi industrializzati la malattia coronarica risulta la causa predominante, responsabile di circa il 60-75 % dei casi, sia nel sesso maschile che femminile. A questi casi contribuiscono in larga parte anche l’ipertensione e il diabete mellito. Altre cause di scompenso cardiaco sono le miocarditi virali,

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l’esposizione a sostanze tossiche come l’alcool o farmaci chemioterapici (ad esempio doxorubicina o trastuzumab) e le cardiomiopatie dilatative. Anche le patologie valvolari possono essere chiamate in causa come agenti eziologici dello scompenso cardiaco, in quanto determinano un sovraccarico cronico del miocardio, che può portare con il passare del tempo ad uno scompenso.

a) Classificazione

I tentativi di classificazione di questo eterogeneo gruppo di quadri clinici sono stati numerosi. Le più recenti Linee Guida internazionali concordano nel distinguere due categorie di scompenso in base al valore della frazione di eiezione del ventricolo sinistro. Si distingue quindi una forma con frazione di eiezione ridotta (inferiore al 40% secondo le Linee Guida dell’American Heart Association) ed una con frazione di eiezione preservata.

1. HF con EF ridotta (HFrEF)

In circa la metà dei pazienti con ridotta frazione di eiezione è presente ipertrofia del ventricolo sinistro. Le cause preponderanti sono la malattia coronarica e l’infarto miocardico acuto, ma anche altre condizioni patologiche possono determinare l’ipertrofia o la dilatazione del ventricolo sinistro con conseguente riduzione della funzionalità.

2. HF con EF preservata (HFpEF)

Si stima che la prevalenza della forma di scompenso con EF preservata sia di circa il 50%. I criteri usati per definire questa forma di scompenso sono diversi e includono la presenza di segni e sintomi tipici, l’evidenza

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di EF normale o preservata e la dimostrazione ecocardiografica di alterazioni della funzione diastolica del ventricolo sinistro. La causa prevalente in questa forma è rappresentata dall’ipertensione, responsabile dall’60 all’89% dei casi.

b) Stadiazione

Per suddividere i pazienti con scompenso cardiaco in base alla severità del quadro clinico sono stati proposti due diversi sistemi classificativi: la classificazione della NYHA (New York Heart Association) suddivide i pazienti in quattro classi in base alla capacità di esercizio, ed è pertanto una classificazione funzionale, basata sulla gravità dei sintomi dei pazienti; quindi nel corso della storia naturale della malattia si può assistere ad una variazione del quadro clinico, con miglioramenti o peggioramenti e di conseguenza anche la classe NYHA può variare.

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La stadiazione dell’ACCF/AHA (American College of Cardiology Foundation/American Heart Association) si basa sulla valutazione dei fattori di rischio e delle anomalie strutturali cardiache. Gli stadi sono quindi progressivi: una volta che il paziente è passato ad uno stadio più elevato non si può osservare una regressione del quadro clinico.

c) Valutazione clinica dello scompenso cardiaco

La diagnosi di scompenso cardiaco è clinica e si basa su un’accurata anamnesi e su un esame obiettivo completo, volti alla ricerca dei principali segni e sintomi. Nella tabella sottostante sono indicati i criteri di Framingham, utili per la diagnosi di scompenso cardiaco, che risulta confermata quando sono presenti almeno un criterio maggiore e uno minore.

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10 Criteri Maggiori

 Dispnea parossistica notturna

 Turgore giugulare

 Ortopnea

 Crepitii polmonari

 Cardiomegalia

 Edema polmonare acuto

 Terzo tono

 Edema polmonare all’RX torace

 Perdita di peso > 4,5 kg in 5 giorni in risposta al trattamento dell’insufficienza cardiaca

Criteri Minori

 Edema bilaterale arti inferiori

 Tosse notturna

 Dispnea per attività ordinarie

 Epatomegalia

 Soffusione pleurica

 FC > 120 bpm

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d) Patogenesi

Lo scompenso cardiaco può essere considerato come una patologia progressiva nella quale un evento scatenante (index event) danneggia il miocardio, con conseguente perdita del funzionamento dei miociti, oppure altera la capacità del muscolo cardiaco di generare forza contrattile, impedendo quindi una normale contrazione del cuore. Il fattore scatenante può essere un evento acuto, come un infarto miocardico, oppure può essere un fattore cronico come nel caso di un sovraccarico cronico di pressione o di volume. In altri casi il trigger può essere ereditario, come nelle cardiomiopatie genetiche. A prescindere dalla causa scatenante la conseguenza del danno miocardico è la perdita della normale capacità contrattile ventricolare.

In risposta alle alterazioni della contrattilità cardiaca si mettono in atto una serie di meccanismi compensatori che sembrano in grado di sostenere e regolare la funzionalità del ventricolo sinistro per mesi o anni. L’elenco di questi sistemi di compenso comprende: il sistema

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renina-angiotensina-aldosterone (RAA), il sistema nervoso simpatico, i peptidi natriuretici, le prostaglandine e l’ossido nitrico. L’attivazione dei sistemi neuro-ormonali, adrenergici e infiammatori determinano dei cambiamenti adattativi del miocardio, ai quali ci si riferisce collettivamente con il termine di ―rimodellamento del ventricolo sinistro‖.

Il rimodellamento si verifica come risposta ad una serie di complessi eventi che avvengono a livello cellulare e molecolare ed includono: l’ipertrofia dei miocardiociti; alterazioni nelle proprietà contrattili dei miociti; perdita progressiva dei miociti per necrosi, apoptosi e autofagia; desensibilizzazione beta-adrenergica; anormale funzione energetica e alterato metabolismo; riorganizzazione della matrice extracellulare con perdita della struttura collagenica organizzata che circonda i miociti e conseguente rimpiazzo con una matrice interstiziale di collagene che non è in grado di fornire un adeguato supporto strutturale alle cellule muscolari. Gli stimoli biologici alla base di questi cambiamenti includono lo stiramento meccanico dei miociti, i neuro-ormoni circolanti (come angiotensina II, noradrenalina), le citochine pro-infiammatorie e altri peptidi e fattori di crescita. Il concetto centrale è quindi che una prolungata sovraesposizione a queste molecole biologicamente attive contribuisce alla progressione dell’insufficienza cardiaca in virtù degli effetti deleteri che esse esercitano sul cuore e sul sistema circolatorio. Il rimodellamento ventricolare si riferisce alle variazioni di massa, volume e forma che avvengono a carico del ventricolo sinistro in seguito a danni cardiaci o ad alterazioni del carico emodinamico. Il rimodellamento può contribuire in modo indipendente alla progressione

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dello scompenso cardiaco in virtù dei carichi meccanici generati dai cambiamenti nella geometria ventricolare. Ad esempio il passaggio ad una forma più sferica comporta un aumento della tensione parietale, che crea ex novo un carico meccanico nel cuore scompensato. In aggiunta all’aumento del volume telediastolico, si ha anche un assottigliamento delle pareti e il ventricolo inizia a dilatarsi. Il progressivo assottigliamento della parete, sommato all’aumento del post-carico determinato dalla dilatazione, porta ad un mismatch funzionale del post-carico, che può contribuire a sua volta alla riduzione della gittata sistolica. Un secondo problema importante determinato dal cambiamento nella geometria ventricolare è che i muscoli papillari vengono spinti lateralmente, così da causare insufficienza della valvola mitrale e sviluppo di reflusso funzionale, che comporta a sua volta un ulteriore aumento del post-carico emodinamico.

e) Diagnosi

La diagnosi di scompenso cardiaco è relativamente semplice quando il paziente si presenta con i classici segni e sintomi. Tuttavia il quadro clinico risulta aspecifico e di conseguenza la chiave per la diagnosi è di avere un alto indice di sospetto clinico, in particolare per i pazienti ad alto rischio. Quando i pazienti si presentano con segni e sintomi riferibili all’insufficienza cardiaca dovrebbero essere eseguiti ulteriori test.

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Esami ematochimici

La valutazione laboratoristica dei pazienti con insufficienza cardiaca di nuova insorgenza deve comprendere i seguenti esami: emocromo completo, elettroliti, azotemia, creatinina, enzimi epatici ed analisi delle urine. In pazienti selezionati deve essere valutata la presenza di diabete mellito, di dislipidemia e di disfunzioni tiroidee.

In aggiunta alle analisi laboratoristiche di routine anche altri biomarcatori sono utili per la diagnosi e il monitoraggio dei pazienti con scompenso cardiaco, in quanto possono riflettere vari aspetti fisiopatologici dell’insufficienza cardiaca, come l’aumentato stress parietale, le alterazioni emodinamiche, l’infiammazione, il danno miocardico, l’up-regulation neuro-ormonale e il rimodellamento ventricolare.

Il BNP o il suo equivalente di clivaggio ammino-terminale (NT-proBNP) sono molecole prodotte dai cardiomiociti in risposta a numerosi triggers, tra cui lo stiramento miocardico. Nei pazienti ambulatoriali o nei pazienti con scompenso acuto il dosaggio del BNP e dell’NT-proBNP è utile per supportare la diagnosi clinica e per stabilire la prognosi e la severità del quadro clinico.6,7

Esami strumentali

Un ECG di routine a 12 derivazioni è sempre raccomandato.2 Il ruolo fondamentale è quello di valutare il ritmo cardiaco, la presenza di ipertrofia o di un precedente infarto miocardico (presenza o assenza di onde Q).

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L’RX del torace fornisce informazioni utili riguardo alle dimensioni e alla forma del cuore, così come lo stato della circolazione polmonare e può identificare cause non cardiache dei sintomi del paziente.

L’ecocardiogramma Doppler bidimensionale è il test più utile, in quanto è in grado di fornire una stima quantitativa delle dimensioni e delle funzioni del ventricolo sinistro, oltre alla presenza o assenza di anomalie della motilità valvolare e/o della cinesi parietale.

f) Terapia dello scompenso cardiaco

Gli scopi della terapia medica dello scompenso cardiaco sono quelli di alleviare i segni e sintomi, di prevenire e ridurre le ospedalizzazioni e quindi globalmente di aumentare la sopravvivenza. La riduzione della mortalità e dei tassi di ospedalizzazione riflette la capacità del farmaco di arrestare o diminuire la progressione della malattia e spesso questi miglioramenti sono accompagnati da un arresto del rimodellamento cardiaco.

La terapia si basa sulla distribuzione e utilizzo dei farmaci in base allo stadio dello scompenso (vedi Fig.5). Infatti l’insufficienza cardiaca dovrebbe essere vista come un continuum di quattro stadi sequenziali. Lo stadio A comprende i pazienti ad alto rischio per lo sviluppo di scompenso cardiaco, ma che non presentano ancora alterazioni strutturali cardiache o sintomi ascrivibili allo scompenso (ad esempio: pazienti con diabete mellito o ipertensione); lo stadio B include i pazienti che presentano anomalie strutturali cardiache, ma sono asintomatici (ad esempio i pazienti con un precedente infarto miocardico e disfunzione

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asintomatica del ventricolo sinistro); lo stadio C comprende i pazienti che hanno sviluppato i segni e sintomi di scompenso come conseguenza della presenza di un’anomalia strutturale sottostante; infine lo stadio D include i pazienti con insufficienza cardiaca refrattaria alla terapia standard.

Per questo è indispensabile impedire la progressione di malattia, cercando di eliminare i fattori di rischio e utilizzando farmaci in grado di arrestare l’evoluzione della patologia.

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Riduzione dei fattori di rischio

Lo stadio A impone la riduzione dei fattori di rischio, con la conseguente riduzione della probabilità di sviluppo di anomalie strutturali che possono determinare la comparsa di sintomatologia. L’ipertensione arteriosa è considerata il principale fattore di rischio per lo sviluppo di insufficienza cardiaca, sia con frazione di eiezione ridotta che conservata.8,9

Un trattamento a lungo termine che vada a ridurre la pressione sistolica e diastolica riduce del 50% il rischio di sviluppare insufficienza cardiaca.10 Un altro importante fattore di rischio da correggere è la dislipidemia: un trattamento intensivo con statine, che vanno a ridurre il colesterolo LDL, riduce lo sviluppo di aterosclerosi e conseguentemente diminuisce la probabilità di comparsa di patologie cardio-vascolari.11

Vanno inoltre corretti altri fattori di rischio come l’obesità e il diabete mellito. L’iperglicemia cronica sembra essere direttamente collegata allo sviluppo di scompenso cardiaco e i valori di HbA1c sono altamente predittivi: i pazienti con valori > 10,5% hanno un rischio di sviluppare la malattia circa 10 volte più elevato rispetto ai pazienti con valori normali (< 6,5%).12

Terapia farmacologica

Come verrà discusso in seguito i farmaci usati sono i diuretici, i vasodilatatori e gli inotropi positivi per ridurre i sintomi e migliorare la capacità funzionale, mentre gli inibitori neuro-ormonali sono usati

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primariamente per aumentare la sopravvivenza e ritardare la progressione di malattia.

1) Diuretici

L’American Heart Association raccomanda l’utilizzo di diuretici in tutti i pazienti con insufficienza sistolica che presentano ritenzione idrica, con la finalità di alleviare la sintomatologia.2

I diuretici agiscono inibendo il riassorbimento di elettroliti in specifici siti dei tubuli renali. I più utilizzati sono i diuretici dell’ansa (come furosemide, torsemide e bumetanide), che agiscono inibendo il trasportatore Na+/Cl-/K+nel tratto ascendente spesso dell’ansa di Henle. Possono essere utilizzati anche i tiazidici (ad esempio idroclorotiazide, indapamide e clortalidone) e gli anti-aldosteronici (come spironolattone), che agiscono a livello del tubulo distale.

Trials clinici controllati hanno dimostrato la capacità dei diuretici di aumentare l’escrezione urinaria di sodio e di ridurre i segni di congestione nei pazienti scompensati, con conseguente miglioramento dei sintomi e della tolleranza all’esercizio fisico.13,14

Il diuretici dell’ansa sono responsabili di un effetto sulla diuresi maggiore e decisamente più breve rispetto ai tiazidici, i quali determinano un prolungato e graduale incremento della diuresi.15 I tiazidici però perdono di efficacia quando la funzione renale è compromessa: sono infatti sconsigliati quando il filtrato glomerulare è inferiore a 40 ml/min.2

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Il diuretico dell’ansa più utilizzato nei pazienti con insufficienza cardiaca è la furosemide, anche se alcuni pazienti rispondono maggiormente ad altri farmaci della stessa categoria (ad esempio bumetanide o torsemide) che presentano una biodisponibilità maggiore dopo assunzione orale.16 La tabella sottostante elenca i diuretici raccomandati dalle linee guida internazionali.

Farmaco Dose iniziale Dose Massima Durata d’azione Diuretici dell’ansa: Furosemide Bumetanide Torasemide 20-40 mg 1-2/die 0.5-1 mg 1-2/die 10-20 mg 600 mg 10 mg 200 mg 6-8 h 4-6 h 12-16 h Diuretici tiazidici: Clorotiazide Clortalidone Idroclorotiazide Indapamide Metolazone 250/500 mg 2/die 12.5-25 mg 25 mg 1 o 2/die 2.5 mg 2.5 mg 1000 mg 100 mg 200 mg 5 mg 20 mg 6-12 h 24-72 h 6-12 h 36 h 12-24 h Anti-aldosteronici: Spironolattone 12.5-25 mg 50 mg 1-3 h Tabella 1: Diuretici raccomandati e rispettivi dosaggi

Nei pazienti ambulatoriali la terapia con diuretici dovrebbe essere iniziata con bassi dosaggi e con incrementi graduali di dose per consentire un aumento della diuresi e una riduzione del peso corporeo, generalmente di 0,5-1 kg/die.2 L’obiettivo finale della terapia è quello di ridurre al minimo o eliminare i segni clinici di ritenzione idrica.

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2) ACE-inibitori

Le linee guida internazionali per il trattamento dello scompenso cardiaco raccomandano l’utilizzo di ACE-inibitori in tutte le classi funzionali di insufficienza cardiaca.

Questi farmaci interferiscono con il sistema renina-angiotensina, inibendo l’enzima responsabile della conversione di angiotensina I in angiotensina II (enzima ACE). Grazie all’inibizione di questo sistema, gli ACE-inibitori stabilizzano il rimodellamento ventricolare sinistro, migliorano i sintomi, riducono i tassi di ospedalizzazione e la mortalità.2 Il trattamento deve essere iniziato a basse dosi, con incrementi graduali solo se i dosaggi più bassi sono ben tollerati.

Farmaco Dose iniziale Dose Massima Captopril Enalapril Lisinopril Perindopril Ramipril 6.25 mg x 3/die 2.5 mg x 2/die 2.5-5 mg 2 mg 1.25-2.5 mg 50 mg x 3/die 10-20 mg x 2/die 8-16 mg 8-16 mg 10 mg Tabella 2: ACE-inibitori - Dosaggi raccomandati

I più importanti trials clinici randomizzati che hanno valutato l’efficacia degli ACE-inibitori nei pazienti scompensati sono stati due: lo studio CONSENSUS17 (Cooperative North Scandinavian Enalapril Survival

Study) e lo studio SOLVD18 (Studies of Left Ventricular

Dysfunction-Treatment). In entrambi i trials sono stati arruolati circa 2800 pazienti

con scompenso da lieve a moderato che sono stati randomizzati per ricevere Enalapril vs Placebo. La maggior parte dei pazienti ricevevano

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anche diuretici o digitalici, mentre i beta-bloccanti erano somministrati a meno del 10% dei pazienti in ogni studio. Nello studio CONSENSUS, in cui sono stati arruolati solo pazienti con scompenso grave, al 53% del pazienti è stato somministrato anche lo spironolattone.

Entrambi gli studi hanno dimostrato che il trattamento con ACE-inibitori riduce la mortalità, con una riduzione del Rischio Relativo del 27% nello studio CONSENSUS e del 16% in SOLVD. In quest’ultimo è stata riscontrata anche una riduzione delle ospedalizzazioni del 26%.

Un altro importante studio clinico è stato l’ATLAS trial19

(Assessment of Treatment with Lisinopril And Survival) che ha arruolato 3164 pazienti con scompenso cardiaco moderato-grave, poi randomizzati per ricevere Lisinopril ad alto o a basso dosaggio (35 mg vs 5 mg). Nel gruppo trattato con alte dosi di farmaco si è registrata una riduzione del rischio relativo di morte o di ospedalizzazioni del 15%. In questo studio emergeva inoltre che, anche per i pazienti con creatinina maggiore o uguale a 1,5 mg/dl, la tolleranza del farmaco era ottimale, indipendentemente dal dosaggio utilizzato, con una percentuale di interruzione per cause renali (a 6 anni) pari al 4,7%.

Gli ACE-inibitori possono causare effetti collaterali come tosse secca, ipotensione, peggioramento della funzione renale, iperkaliemia e raramente angioedema. Non dovrebbero essere somministrati a pazienti che hanno sviluppato effetti collaterali gravi (ad esempio angioedema) durante precedenti esposizioni. Inoltre dovrebbero essere prescritti con estrema prudenza in pazienti con bassa pressione sistolica (< 80 mmHg), con valori marcatamente aumentati della creatinina sierica (> 3 mg/dl), con stenosi bilaterale dell’arteria renale o con iperkaliemia.

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I dati disponibili in letteratura indicano che non ci sono differenze nell’uso degli Ace-inibitori in commercio per quanto riguarda il loro effetto sui sintomi e sulla sopravvivenza.20

3) Beta-bloccanti

L’uso di Beta-bloccanti come Bisoprololo, Metoprololo e Carvedilolo è raccomandato in tutti i pazienti con HFrEF per ridurre la morbilità e la mortalità.2

Questi farmaci interferiscono con gli effetti dannosi dovuti all’attivazione costante del sistema adrenergico ed agiscono come inibitori competitivi di uno o più recettori adrenergici (α1, β1 e β2). Il trattamento con beta-bloccanti, in associazione con gli ACE-inibitori, se privo di controindicazioni, deve essere iniziato il prima possibile in modo da arrestare il processo di rimodellamento ventricolare sinistro, ridurre il rischio di morte cardiaca improvvisa, migliorare i sintomi dei pazienti, prevenire le ospedalizzazioni e il rischio di morte.2

Gli studi clinici fondamentali che hanno valutato l’efficacia dei beta-bloccanti sono stati tre: CIBIS-II21 (Cardiac Insufficiency Bisoprolol

Study II), COPERNICUS22 (Carvedilol Prospective Randomized

Cumulative Survival) e MERIT-HF23 (Metoprolol CR/XL Randomised

Intervention Trial in Congestive Heart Failure). Tutti hanno

randomizzato circa 9000 pazienti con scompenso da lieve a grave per la ricezione di placebo o beta-bloccante (bisoprololo, carvedilolo o metoprololo). Più del 90% dei pazienti erano in terapia anche con

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inibitori o sartani. In ognuno di questi studi è stata dimostrata una riduzione del rischio di mortalità (RRR di circa il 34%) e del rischio di ospedalizzazione (RRR 28-36%) ad un anno dall’inizio della terapia. Questi risultati vengono confermati anche dallo studio SENIORS24 (Study of Effects of Nebivolol Intervention on Outcomes and

Rehospitalization in Seniors With Heart Failure), nel quale sono stati

arruolati 2135 pazienti con età superiore a 70 anni, poi randomizzati per la ricezione di nebivololo o placebo.

Come per gli ACE-inibitori, anche la terapia con beta-bloccanti deve essere iniziata con bassi dosaggi, e con incrementi graduali delle dosi solo se quelle più basse sono ben tollerate. Tuttavia, a differenza degli ACE-inibitori, che possono essere aumentati in modo relativamente rapido, la titolazione dei beta-bloccanti dovrebbe procedere ad intervalli di 2 settimane, poiché si potrebbe avere un peggioramento nella ritenzione di liquidi, come conseguenza del ridotto tono adrenergico a carico del sistema cardio-vascolare.21

Farmaco Dose iniziale Dose Massima Bisoprololo Carvedilolo Carvedilolo CR Metoprololo CR/XL 1.25 mg 3.125 mg x 2/die 10 mg 12.5-25 mg 10 mg 50 mg x 2/die 80 mg 200 mg Tabella 3: Beta-bloccanti - Dosaggi raccomandati

La terapia con beta-bloccanti può produrre altri tipi di effetti collaterali che richiedono attenzione da parte del medico: astenia, bradicardia o blocchi atrio-ventricolari e ipotensione. La riduzione della frequenza

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cardiaca e della velocità di conduzione solitamente è asintomatica e non richiede terapie aggiuntive. Se però le anomalie della conduzione cardiaca si accompagnano a sintomi come vertigini o senso di stordimento o se viene diagnosticato un blocco atrio-ventricolare di secondo o terzo grado il dosaggio del beta-bloccante deve essere ridotto. Il rischio di ipotensione può essere ridotto somministrando i beta bloccanti e gli ACE-inibitori ad orari diversi durante la giornata.2

4) AT1-antagonisti o sartani

I sartani sono raccomandati solo come alternativa agli ACE-inibitori, quando questi ultimi non sono tollerati dai pazienti, o risultano controindicati.2

Gli studi clinici che hanno introdotto i sartani nella pratica clinica per il trattamento dello scompenso cardiaco sono stati diversi. Due trials clinici [Val-HeFT25 (Valsartan Heart Failure Trial) e CHARM-Added26] hanno arruolato circa 7600 pazienti con scompenso da lieve a severo, poi randomizzati per la ricezione di valsartan vs placebo nel primo studio, o candesartan associato ad ACE-inibitore vs placebo nel secondo studio. In entrambi i trials è stato dimostrato che la terapia con sartani riduce il rischio di ospedalizzazione (del 24% in Val-HeFT e del 17% in CHARM-added). La riduzione del rischio assoluto di mortalità si assestava al 4,4% per CHARM-added e al 3,3% per Val-HeFT.

Va però sottolineato che i sartani non sono più i farmaci di prima scelta nei pazienti con scompenso sistolico (EF < 40%) che restano sintomatici nonostante l’associazione tra ACEi e beta-bloccanti. Questo perché lo

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studio EMPHASIS-HF27 e RALES28 hanno dimostrato che la terapia con antagonisti dell’aldosterone determina una maggiore riduzione di tutte le cause di mortalità rispetto alla terapia ―add-on‖ con sartani.

Farmaco Dose iniziale Dose Massima Candesartan Losartan Valsartan 4-8 mg 25-50 mg 20-40 mg x 2/die 32 mg 50-150 mg 160 mg x 2/die Tabella 4: Sartani - Dosaggi raccomandati

5) Anti-aldosteronici

Secondo le Linee Guida dell’AHA gli antagonisti del recettore dell’Aldosterone andrebbero utilizzati in pazienti con classe NYHA di II-IV e con una frazione di eiezione ≤ 35%, per ridurre la morbilità e la mortalità. I pazienti con classe NYHA II per essere candidati alla terapia con anti-aldosteronici dovrebbero avere una storia clinica di precedenti ospedalizzazioni per eventi cardiovascolari o elevati livelli plasmatici di peptidi natriuretici.

Lo spironolattone e l’eplerenone esplicano i loro effetti bloccando il recettore dell’aldosterone e di altri corticosteroidi.

Gli studi clinici che hanno valutato l’efficacia di questi farmaci sono i seguenti: il trial RALES28 (Randomized Aldactone Evaluation Study) ha arruolato 1663 pazienti con scompenso grave (EF ≤ 35% e classe NHYA III), poi randomizzati per la ricezione di placebo o spironolattone in aggiunta alla terapia convenzionale. È stata dimostrata una riduzione del

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30% della mortalità e una riduzione del 35% del rischio di ospedalizzazione dopo un periodo medio di terapia di 2 anni. Lo studio EMPHASIS-HF27 (Eplerenone in patients with systolic heart failure and

mild symptoms) ha arruolato 2737 pazienti con età > 55 anni, classe

NYHA II e frazione di eiezione < 30%. Anche in questo caso i pazienti dovevano aver avuto una storia clinica di precedenti ospedalizzazioni per eventi cardiovascolari o livelli plasmatici elevati di peptidi natriuretici. Lo studio ha dimostrato che il trattamento con eplerenone determina una riduzione del 37% del rischio di morte per cause cardiovascolari e di ospedalizzazione.

La terapia con spironolattone o eplerenone può determinare iperkaliemia e il peggioramento della funzione renale per cui le Linee Guida raccomandano l’uso di tali farmaci solo quando la creatininemia è ≤ 2,5 mg/dl negli uomini e ≤ 2 mg/dl nelle donne e la potassiemia è ≤ 5 mEq/l. Inoltre è raccomandato uno stretto monitoraggio della funzione renale, della potassiemia e della dose di diuretico per minimizzare il rischio di effetti collaterali importanti.2

6) Digitale e altri glicosidi cardio-attivi

L’utilizzo di digossina è raccomandato in pazienti con scompenso sistolico che restano sintomatici nonostante sia stata impostata una terapia ottimale.2

Nello studio DIG29 (Digitalis Investigation Group) sono stati arruolati circa 6800 pazienti con EF < 45% e classe NYHA II-IV, poi randomizzati per la ricezione di digossina o placebo, in aggiunta a

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diuretico e ACEi. Questo trattamento comportava una riduzione del rischio relativo di nuove ospedalizzazioni del 28% a 3 anni dell’inizio della terapia. In questo studio però non sono emersi dati relativi alla sicurezza e all’efficacia del farmaco in relazione alla funzione renale, poiché sono stati esclusi tutti i pazienti con creatinina > 3 mg/dl.

Dato che la clearance della digossina varia in modo direttamente proporzionale alla funzione emuntoria renale, è verosimile che una riduzione di tale funzionalità comprometta la sicurezza della terapia. La digitale può causare aritmie atriali e/o ventricolari, in particolare se coesistono anche alterazioni elettrolitiche.

7) Ivabradina

L’ivabradina, nuovo farmaco nella terapia dello scompenso cardiaco, agisce inibendo il canale If a livello del nodo seno-atriale. L’unico effetto

riconosciuto è quello di ridurre la frequenza cardiaca nei pazienti in ritmo sinusale.30

Nello studio SHIFT31 (Systolic Heart Failure treatment with the If inhibitor ivabradine Trial) sono stati arruolati 6588 pazienti con classe NYHA II-IV, ritmo sinusale con frequenza > 70 bpm, frazione di eiezione inferiore o uguale al 35% e storia di ospedalizzazione nell’anno precedente. A questi pazienti è stato somministrato placebo o ivabradina (dosaggio massimo di 7,5 mg x 2/die) in aggiunta a diuretico (84%), digitale (22%), ACE-inibitore (79%), sartano (14%), beta-bloccante (90%) e anti-aldosteronico (60%). Solo il 26% dei pazienti assumevano

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beta-bloccanti al dosaggio massimo. Con questa terapia è stata dimostrata una riduzione del rischio relativo di mortalità o di ospedalizzazione per cause cardiovascolari del 18%. Inoltre l’ivabradina incrementava la funzionalità del ventricolo sinistro e la qualità di vita dei pazienti.

Altre evidenze di sicurezza dell’ivabradina sono risultate da un più recente studio (BEAUTIFUL: morBidity-mortality EvAlUaTion of the

Ifinhibitor ivabradine in patients with coronary disease and leftventricULar dysfunction)32, in cui sono stati reclutati 10917 pazienti con patologia coronarica e EF < 40%, poi randomizzati per la ricezione di placebo o ivabradina. Sebbene il farmaco non abbia ridotto l’outcome

primario di morte cardiovascolare, infarto miocardico o

ospedalizzazione, è stato comunque ben tollerato. Gli end-points secondari significativi però sono stati: una riduzione degli eventi coronarici del 22% e una riduzione di insorgenza di infarto miocardico fatale e non del 36%.

8) Idralazina e isosorbide dinitrato

La combinazione di idralazina e isosorbide dinitrato può essere utile per ridurre la morbilità e la mortalità in pazienti sintomatici per HFrEF che non possono assumere ACEi o sartani per intolleranza, ipotensione o insufficienza renale.2

Sono stati effettuati due studi di confronto con placebo (V-HeFT I e A-HeFT) e uno studio di controllo (V-HeFT II)33.

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Nello studio V-HeFT I (Vasodilator Heart Failure Trial I) 642 pazienti di sesso maschile venivano trattati con placebo, prazosina o H-ISDN (idralazina e isosorbide dinitrato in associazione), in associazione a diuretico e digitale. Non c’è stata riduzione della mortalità tra i vari gruppi, ma si è notato un certo trend di riduzione di tutte le cause di mortalità nei pazienti trattati con H-ISDN nei 2-3 anni di follow-up successivi.

Nello studio A-HeFT sono stati arruolati 1050 pazienti di etnia afro-americana con scompenso di classe NYHA III o IV, e sono stati poi randomizzati per la ricezione di placebo o H-ISDN in aggiunta a diuretico (90%), digitale (60%), ACEi (70%), sartano (17%), beta-bloccante (74%) e spironolattone (39%). Lo studio è stato interrotto prematuramente, dopo soli 10 mesi di follow-up, perché si è riscontrata una riduzione significativa della mortalità (riduzione del rischio relativo del 43%). Inoltre tale associazione di farmaci portava ad una riduzione del rischio di ospedalizzazione e ad un miglioramento della qualità di vita.

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4. LA SINDROME CARDIO-RENALE

La Sindrome Cardio-Renale è definita come una disfunzione cardiaca o renale nella quale l’insufficienza acuta o cronica di uno dei due organi determina acutamente o cronicamente l’insufficienza dell’altro organo.5

Si possono descrivere cinque diversi sottotipi della sindrome:

SCR di tipo 1 (Sindrome Cardio-Renale acuta): il peggioramento acuto della funzionalità cardiaca determina l’insufficienza renale.  SCR di tipo2 (Sindrome Cardio-Renale cronica): lo scompenso

cardiaco cronico determina la comparsa di insufficienza renale.

SCR di tipo 3 (Sindrome Reno-Cardiaca acuta): un

peggioramento acuto della funzione renale causa lo scompenso cardiaco.

SCR di tipo 4 (Sindrome Reno-Cardiaca cronica): l’insufficienza renale cronica determina una disfunzione cardiaca.

SCR di tipo 5 (Sindrome Cardio-Renale secondaria): lo scompenso cardiaco e l’insufficienza renale sono secondarie ad una malattia sistemica.

Questi cinque sottotipi condividono alcuni meccanismi fisiopatologici, ma hanno anche caratteristiche cliniche distintive, fattori di rischio propri, diversi fattori scatenanti ed hanno una diversa storia naturale.

Sindrome Cardio-renale acuta ( tipo 1)

La sindrome Cardio-Renale di tipo 1, o sindrome cardio-renale acuta, è caratterizzata da un acuto peggioramento della funzionalità cardiaca che determina una disfunzione renale o una insufficienza renale acuta (AKI). Gli eventi cardiaci che possono contribuire allo sviluppo di un danno

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renale acuto includono la riacutizzazione di uno scompenso cardiaco cronico (ADHF: Acute Decompensated Heart Failure), le sindromi coronariche acute (ACS: Acute Coronary Syndromes), lo shock cardiogeno e le sindromi a bassa portata che complicano gli interventi cardio-chirurgici.

Diversi studi clinici hanno valutato lo sviluppo di AKI in pazienti con ADHF e con sindromi coronariche acute, ma molti di questi sono studi retrospettivi, secondari o valutazioni post hoc di grandi databases. La maggior parte di questi studi clinici ha utilizzato il termine di ―WRF‖ (worsening renal failure) per descrivere le alterazioni acute o subacute della funzione renale che si verificano in pazienti con scompenso cronico riacutizzato o con sindromi coronariche acute. In queste condizioni cliniche l’incidenza di un deterioramento della funzione renale varia tra il 24 e il 45% in pazienti con ADHF e tra il 9 e il 19% in pazienti con ACS. Questo ampio range di incidenza può essere dovuto a diversi fattori: in primo luogo dipende da variazioni nella definizione di WRF. Ad esempio in alcuni studi il deterioramento della funzione renale è stato definito come un aumento della creatininemia (SCr) superiore a 0,3 mg/dl o superiore al 25% rispetto al valore basale al momento dell’ospedalizzazione. Altri studi invece hanno definito la WRF utilizzando come criteri diagnostici dei minimi aumenti della creatinina sierica (> 0.1 mg/dl) o il declino della velocità di filtrazione glomerulare (eGFR).34

Una seconda ragione della grande variabilità nell’incidenza del peggioramento della funzione renale in pazienti con scompenso cardiaco acuto o ACS è il diverso tempo di osservazione dei pazienti a rischio nei

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vari studi clinici, variabile da un minimo di 2 settimane fino ad un massimo di 6 mesi.35 Gottlieb et al. hanno dimostrato che il deterioramento della funzione renale si verifica entro 3 giorni dall’ospedalizzazione nel 47% dei casi di ADHF36

, mentre Cowie et al. hanno mostrato come la WRF si verifichi nel 50% dei casi nei primi 4 giorni.37 Per quanto riguarda le sindromi coronariche acute, Goldberg et

al. hanno evidenziato che il danno renale acuto (AKI) si verifica nel 75%

dei casi entro i primi 3 giorni di ospedalizzazione.38

Lo sviluppo di WRF/AKI in pazienti con ADHF o ACS è associato ad una maggiore mortalità e morbilità e diversi studi suggeriscono che esista una proporzionalità tra la severità dell’insufficienza renale e la mortalità.35

Per quanto riguarda la patogenesi, un ruolo fisiopatologico fondamentale nello sviluppo della SCR di tipo 1 è svolto da meccanismi di tipo emodinamico, che determinano una riduzione del flusso plasmatico renale e di conseguenza anche un calo della velocità di filtrazione glomerulare (eGFR). Altri fattori patogenetici implicati sono la congestione venosa, la disfunzione del sistema nervoso simpatico e l’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS).39

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In ogni caso la riduzione della gittata cardiaca determina un’inadeguata perfusione renale e l’aumento della pressione venosa centrale si trasmette alle vene renali causano congestione parenchimale.

Nello scompenso cronico riacutizzato (ADHF) sono stati proposti diversi profili emodinamici, basati sul fenotipo clinico dei vari pazienti. Questo approccio permette di suddividere i pazienti in base alle loro condizioni emodinamiche, valutando l’adeguatezza della loro perfusione tissutale (volemia effettiva) e il grado di congestione polmonare. In questo modo si possono distinguere quattro categorie di pazienti: ―wet‖ o ―dry‖ e ―warm‖ o ―cold‖.

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Nel profilo ―cold‖ il danno renale acuto (AKI) può verificarsi come conseguenza dell’alterata perfusione renale, quando i meccanismi di autoregolazione non sono in grado di preservare la filtrazione glomerulare. L’alterazione emodinamica predominante è la riduzione della gittata cardiaca e quindi del volume effettivo circolante, che può accompagnarsi ad un aumento della pressione venosa centrale (wet and cold). Non è comunque completamente chiaro come la riduzione della gittata cardiaca sia responsabile dell’alterazione del flusso plasmatico renale e dell’autoregolazione. Si ipotizza che quando la gittata cardiaca è notevolmente ridotta si abbia l’attivazione di meccanismi neuro-ormonali, come il sistema RAA e il SNS con conseguente vasocostrizione dell’arteriola afferente e ipoperfusione renale.

Nei profili ―wet‖ invece il meccanismo fisiopatologico principale sembra essere l’aumento della pressione venosa centrale, che si trasmette direttamente a livello delle vene renali causando una riduzione della

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pressione di perfusione e un aumento della pressione interstiziale con collasso dei tubuli.

Nei pazienti ―warm‖ nonostante la perfusione tissutale sia relativamente preservata il flusso plasmatico renale è ridotto, probabilmente per un’alterazione dell’autoregolazione secondaria all’inibizione del sistema RAA o all’eccessiva stimolazione simpatica. In questi pazienti possono avere un ruolo anche condizioni predisponenti come la stenosi delle arterie renali o la precedente perdita di nefroni funzionanti. Altri fattori che possono essere determinanti nella genesi di una disfunzione renale in questi pazienti sono l’uso cronico di farmaci inibitori del sistema RAA, che vanno a limitare l’attivazione dei meccanismi auto-regolatori della filtrazione glomerulare, o l’uso di FANS che possono alterare il feed-back tubulo-glomerulare come conseguenza del mancato rilascio di prostaglandine da parte del rene.40

Come già accennato in precedenza nella patogenesi della SCR di tipo 1 oltre ai meccanismi emodinamici sono implicati anche fattori neuro-ormonali, come l’attivazione del sistema RAA e del SNS in risposta alla riduzione della gittata cardiaca e del flusso plasmatico renale tramite il riflesso barocettivo. Gli effetti combinati di questi due sistemi sono l’aumento delle resistenze vascolari, l’aumento del tono venoso e la congestione sistemica. L’angiotensina II inoltre ha un effetto trofico diretto sui cardiomiociti e sulle cellule tubulari renali e promuove l’ipertrofia, l’apoptosi e la fibrosi.

Altri fattori patogenetici che sono stati chiamati in causa nello sviluppo della sindrome cardio-renale di tipo I sono l’infiammazione e il sistema immunitario. In particolare si pensa che in questo tipo di sindrome si

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assista ad uno squilibrio nei sistemi immunitari di ―cell-signaling‖ che promuovono o inibiscono l’infiammazione. Livelli eccessivamente alti di citochine e di markers infiammatori sono comuni nei pazienti con ADHF e potrebbero avere un ruolo patogenetico contribuendo sia alla disfunzione vascolare sia all’overload di fluidi nello spazio extravascolare. La quantità di liquidi nell’interstizio polmonare e negli alveoli è strettamente controllato da un processo di riassorbimento attivo. Studi recenti hanno mostrato che l’infiammazione interferisce con questo processo, portando a congestione polmonare indipendentemente dalla volemia sistemica.

Sindrome cardio-renale cronica (tipo 2)

Nella sindrome cardio-renale cronica, anomalie croniche della funzione cardiaca determinano la comparsa di malattia renale cronica progressiva.

Poiché insufficienza renale cronica e scompenso cardiaco

frequentemente coesistono e riconoscono fattori di rischio e meccanismi patogenetici comuni (ad esempio diabete mellito, ipertensione, aterosclerosi), è difficile determinare a carico di quale organo si sia instaurata primitivamente la disfunzione.41

È interessante notare che la prevalenza di malattia renale cronica è sovrapponibile sia nei pazienti con scompenso cardiaco con ridotta frazione di eiezione che nei pazienti con frazione di eiezione conservata. Lo studio ESCAPE ha evidenziato come l’unico parametro emodinamico significativamente correlato al grado di disfunzione renale fosse la pressione atriale destra, suggerendo un ruolo patogenetico della congestione renale.4

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Meccanismi potenzialmente implicati nel danno renale progressivo indotto dalle alterazioni cardiache comprendono lo squilibrio cronico dei fattori neuro-ormonali, con prevalenza dei mediatori ad azione vasocostrittice (tono adrenergico, angiotensina e endotelina) e riduzione della secrezione e/o della sensibilità nei confronti dei fattori endogeni vasodilatatori (peptidi natriuretici, ossido nitrico). Lo stesso trattamento dell’insufficienza cardiaca cronica è stata chiamato in causa per spiegare il deterioramento della funzione renale: potrebbero contribuire all’insorgenza della sindrome l’ipovolemia causata dall’uso inappropriato di diuretici, l’inibizione diretta del sistema

renina-angiotensina-aldosterone e l’ipotensione indotta dai farmaci

vasodilatatori.41 È inoltre ipotizzabile che lo scompenso cardiaco di lunga durata porti a malattia renale progressiva attraverso ripetuti episodi di danno renale acuto.42

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Sindrome reno-cardiaca acuta (tipo 3)

La sindrome cardio-renale di tipo 3 è caratterizzata da un brusco e primitivo deterioramento della funzione renale che comporta secondariamente una disfunzione cardiaca acuta. Quest’ultima può

consistere in una sindrome coronarica acuta, un’aritmia o

un’insufficienza cardiaca acuta. Esempi di condizioni che possono determinare un acuto peggioramento della funzionalità renale sono la glomerulonefrite acuta, l’ischemia renale e la necrosi corticale acuta.5

L’epidemiologia della sindrome reno-cardiaca acuta è di difficile definizione, a causa delle molteplici condizioni che possono portare ad un peggioramento acuto della funzione renale e della variabilità dei fattori di rischio che predispongono all’insorgenza della disfunzione cardiaca. Inoltre il danno renale acuto non viene definito in modo omogeneo nei diversi studi.43

Il danno renale acuto (AKI) influenza negativamente la funzione cardiaca attraverso meccanismi diretti e indiretti. I danni diretti sono stati studiati prevalentemente in modelli animali, nei quali il danno renale veniva indotto da cicli di ischemia-riperfusione.44 In questi casi le anomalie cardiache secondarie apparivano associate agli aumentati livelli di citochine pro-infiammatorie e molecole di adesione come IL-1, TNF e ICAM-1. Pertanto la disfunzione cardiaca sembrerebbe riconducibile alla presenza di mediatori infiammatori, all’infiltrazione di neutrofili e alla conseguente apoptosi dei miociti. I meccanismi indiretti di danno miocardico, invece, includono il sovraccarico di liquidi, gli squilibri elettrolitici e l’acidosi: la ritenzione idro-salina comporta il sovraccarico di volume, che può contribuire allo sviluppo di edema polmonare acuto;

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l’iperkaliemia contribuisce ad aumentare il rischio di comparsa di aritmie; l’acidosi determina un aumento delle resistenze nel circolo polmonare e deprime la contrattilità del miocardio.

Sindrome reno-cardiaca cronica (tipo 4)

La sindrome cardio-renale di tipo 4 è stata definita come una condizione in cui la malattia renale cronica determina l’insorgenza di una progressiva disfunzione cardiaca e/o un aumentato rischio di eventi cardiovascolari avversi.41

I pazienti con IRC presentano un’aumentata mortalità per cause cardiovascolari, con un rischio relativo variabile tra 1,4 e 3,7 rispetto alla popolazione generale; la moralità per cause cardiovascolari tra i pazienti

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con nefropatia cronica è pari al 58% della mortalità per tutte le cause.45 In pazienti non dializzati la prevalenza di malattie CV aumenta progressivamente con la gravità dell’insufficienza renale e con il tempo intercorso dalla diagnosi.46 Anche per gradi lievi di insufficienza renale, l’incrementato rischio di malattia cardiovascolare rimane presente. Comunque l’associazione segue un andamento di tipo dose-risposta, diventando particolarmente significativa quando l’eGFR si riduce al di sotto di 60 ml/min/1.73 mq.47

Gli stadi intermedi dell’insufficienza renale si associano ad un aumentato rischio di sviluppo di insufficienza cardiaca. Lo studio ARIC (Atherosclerosis Risk in Community)48 ha analizzato più di 15.000 pazienti, escludendo dal campione coloro che presentavano una preesistente insufficienza cardiaca. I pazienti arruolati sono stati sottoposti a ripetute valutazioni del filtrato glomerulare ed è emerso che i soggetti con eGFR inferiore a 60 ml/min mostravano un’incidenza significativamente maggiore di scompenso cardiaco di nuova insorgenza, con un rischio relativo raddoppiato, una volta eliminati i fattori di confondimento, rispetto ai soggetti con eGFR> 90 ml/min/1.73 mq. L’aumentato rischio cardiovascolare nei pazienti con IRC potrebbe essere riconducibile sia ad un ruolo patogenetico della stessa disfunzione renale, sia all’esistenza di fattori di rischio comuni che sottendono al danno renale e alle malattie cardiovascolari, sia, infine, alla ridotta tendenza nell’utilizzo di farmaci che riducono il rischio cardio-vascolare in pazienti con funzione renale ridotta.43

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La disfunzione cardio-vascolare può essere la conseguenza della prolungata esposizione alle tossine uremiche, che determinano un aumento dello stress ossidativo, uno stato infiammatorio cronico e un’accelerazione della comparsa di aterosclerosi. Inoltre lo scompenso cardiaco può instaurarsi come risultato del sovraccarico di pressione e di volume.47

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Sindrome cardio-renale secondaria (tipo 5)

Nella sindrome cardio-renale secondaria la disfunzione renale e cardiaca si instaurano in modo combinato, per effetto di una malattia sistemica, acuta o cronica.5

Numerose patologie sistemiche possono interessare simultaneamente il cuore e il rene, come il diabete mellito, l’ipertensione, la sarcoidosi, il lupus eritematoso sistemico, l’amiloidosi sistemica, la tubercolosi, la malattia di Fabry, la granulomatosi di Wegener o il mieloma multiplo. Il coinvolgimento cardiaco e renale è solitamente simultaneo se la condizione scatenante è di tipo acuto, mentre nella malattie croniche può essere colpito prima un organo rispetto all’altro.

I dati riguardanti l’epidemiologia di questo sottotipo di sindrome cardio-renale sono tutt’ora carenti a causa dell’eterogeneità delle patologie che possono determinarla.

Anche i meccanismi patogenetici non sono del tutto chiari ma sembra che un ruolo importante potrebbe essere svolto dalle citochine infiammatorie.49

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Aspetti diagnostici e nuovi marcatori di funzionalità re nale

Il riconoscimento dell’importanza della disfunzione renale come fattore prognostico negativo nei pazienti con insufficienza cardiaca impone la necessità di criteri diagnostici accurati e tempestivi, che permettano di identificare precocemente una sindrome cardio-renale e di impostare strategie di trattamento appropriate nei pazienti più a rischio.

La creatininemia è il parametro più utilizzato per la valutazione clinica della funzione renale. La creatinina è una molecola endogena derivante dal catabolismo della fosfocreatina, composto deputato all’accumulo di energia soprattutto nei muscoli, è prodotta a velocità pressochè costante e viene escreta a livello renale prevalentemente per filtrazione, nonostante il contributo della secrezione tubulare possa variare dal 10 al 40%. La concentrazione plasmatica della creatinina, comunque, dipende da numerosi fattori oltre che dalla funzione renale ed è necessario un tempo prolungato (fino a 7 giorni) affinchè si raggiunga lo stato stazionario. Per questo motivo la creatininemia non fornisce informazioni accurate e tempestive sulla funzionalità renale e costituisce principalmente un marker retrospettivo di danno renale.50

Il GFR è considerato il miglior indice di funzionalità renale e può essere stimato a partire da marcatori endogeni, come la creatinina sierica, con un buon livello di affidabilità.51 Le due equazioni maggiormente utilizzate nella pratica clinica per il calcolo dell’eGFR sono la formula di Cockcroft-Gault52 e la Modification of Diet in Renal Disease (MDRD)53. Nel 2010 Matsushita et al hanno proposto una nuova formula (Chronic

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sembrerebbe maggiormente predittiva per il rischio renale a lungo termine.54

Nello specifico contesto dello scompenso cardiaco, le equazioni che correggono la creatininemia per la superficie corporea sono teoricamente più accurate nella stima del filtrato glomerulare. In particolare la formula MDRD a 6 variabili risulterebbe essere quella con maggior valore predittivo.55 Tuttavia altri studi hanno fornito risultati contrastanti, indicando in alcuni casi un miglior valore predittivo per la formula di Cockcroft-Gault. Ad esempio Zamora et al in uno studio del 2012 hanno preso in considerazione le tre formule più frequentemente utilizzate nella pratica clinica per la stima del GFR (Cockcroft-Gault, MDRD e CKD-EPI) e ne hanno confrontato il valore prognostico, analizzando la mortalità in una coorte di 925 pazienti ambulatoriali con insufficienza cardiaca: tutte e tre le formule hanno mostrato un alto valore predittivo per la mortalità a lungo termine, con una lieve superiorità per la formula di Cockcroft-Gault.56

Le discrepanze tra i risultati possono comunque essere attribuite alla diversa selezione del campione di pazienti: ad esempio, la formula di Cockcroft-Gault risulta generalmente superiore nei pazienti anziani, nelle donne e nei soggetti con basso peso corporeo.57

Nonostante l’eGFR fornisca un’adeguata stima della funzione renale in pazienti stabili, come nel caso delle sindromi cardio-renali croniche, esso non permette di documentare tempestivamente il deterioramento acuto della funzione renale che si verifica nella sindrome cardio-renale di tipo 1. Numerosi nuovi biomarcatori sono stati studiati con lo scopo di

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identificare il danno renale acuto in tempo utile per mettere in atto strategie nefro-protettive.

Lipocalina associata alla gelatinasi neutrofila (NGAL)

NGAL è una glicoproteina appartenente alla superfamiglia delle lipocaline ed è sintetizzata nel midollo osseo durante la maturazione dei granulociti. Le cellule epiteliali, le cellule tubulari renali e gli epatociti rilasciano la proteina in seguito ad un danno, e i suoi livelli ematici risultano significativamente elevati dopo danni epiteliali.58

Diversi studi hanno dimostrato come i livelli di NGAL (sia urinari che sierici) siano significativamente aumentati in pazienti con danno renale acuto59,60, e come l’aumento di questo biomarker avvenga 24-48 ore prima rispetto al rialzo della creatinina sierica. In uno studio più recente su 91 pazienti con ADHF è stato analizzato il ruolo di NGAL nel predire la comparsa di danno renale acuto ed è emerso che i pazienti con valori > 140 ng/ml avevano un rischio di deterioramento della funzione renale 7 volte più elevato rispetto ai pazienti con valori inferiori di NGAL.61

Cistatina C

La cistatina C è un inibitore delle proteinasi a basso peso molecolare ed è sintetizzata e rilasciata nel plasma da tutte le cellule nucleate con velocità costante. Inoltre viene liberamente filtrata a livello glomerulare e completamente riassorbita e degradata dalle cellule tubulari. A differenza della creatinina, i livelli plasmatici della Cistatina C non risultano influenzati dalla massa corporea, dallo stato nutrizionale, dall’età o dal sesso. Queste proprietà la rendono potenzialmente utile per la valutazione della funzione renale e per la stima del filtrato

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glomerulare, in particolare in pazienti critici, anziani o pediatrici. Poiché i livelli di Cistatina-C si innalzano più precocemente rispetto a quelli della creatinina, essa costituisce un promettente marker di danno renale acuto.62

Altri markers

La N-acetil-β-D-glucosaminidasi (NAG) è un enzima lisosomiale delle cellule del tubulo prossimale renale i cui livelli urinari aumentano in risposta ad un danno renale, in modo direttamente proporzionale all’entità del danno.

La Kidney Injury molecule-1 (KIM-1) è una proteina dosabile nelle urine dopo un danno ischemico o nefrotossico a carico delle cellule del tubulo prossimale, e sembrerebbe essere un marker altamente specifico di AKI ischemico.

Nonostante questi nuovi biomarker rappresentino una prospettiva promettente nella diagnosi e nella guida del trattamento delle sindromi cardio-renali, non esiste ancora una standardizzazione delle metodiche di laboratorio utilizzate per la loro misurazione, né un consenso circa i cut-off da attribuire. È possibile che in futuro la combinazione di indicatori consolidati e la scoperta di nuovi marcatori permetta una precoce diagnosi delle sindromi cardio-renali, portando a una riduzione della morbilità e della mortalità.

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5. SCOPO DELLA TESI

Scopo di questa tesi è la valutazione della prevalenza di disfunzione renale in pazienti con grave insufficienza sistolica del ventricolo sinistro e lo studio della variazione dei parametri di funzionalità renale e cardiaca nel lungo periodo.

Inoltre si è voluto valutare l’impatto della disfunzione renale sulla prognosi dei pazienti con grave scompenso cardiaco sistolico, sia in termini di sintomatologia e qualità di vita, che di mortalità.

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6. MATERIALI E METODI

Il lavoro svolto è un’analisi di un database che raccoglie le informazioni cliniche, strumentali e terapeutiche relative ai pazienti affetti da scompenso cardiaco e seguiti presso l’Ambulatorio della Sezione

Dipartimentale ―Scompenso e Continuità Assistenziale‖ del

Dipartimento Cardio-Toracico dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana diretto dalla Professoressa Rita Mariotti. Il database è stato esaminato nella sua interezza e sono stati selezionati esclusivamente i pazienti affetti da scompenso sistolico grave (EF < 35%) che avessero effettuato almeno tre controlli cardiologici consecutivi presentando ad ogni controllo anche gli esami ematici relativi alla funzione renale. I dati registrati si riferiscono al periodo che va dall’anno 2005 a giugno 2015 e comprendono le caratteristiche anagrafiche, clinico-anamnestiche, biometriche, bioumorali e strumentali dei pazienti.

Ne è risultata una popolazione di 57 pazienti, composta per l’82,5 % (47) da uomini e per il 17,5 % (10) da donne.

I pazienti sono poi stati suddivisi in tre gruppi valutando la funzione renale all’inizio e al termine del periodo di osservazione: un gruppo con funzione renale conservata (25 pazienti; gruppo 0), un gruppo con funzione renale inizialmente normale che si è deteriorata nel corso del follow-up (8 pazienti; gruppo 1) e un gruppo con funzione renale compromessa (clearance della creatinina calcolata con formula MDRD indicizzata per superficie corporea < 60 ml/min/1.73 mq) già dall’inizio del periodo di osservazione (24 pazienti; gruppo 2).

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Dati clinico-anamnestici

Per ogni paziente sono stati tabulati i dati anagrafici, l’altezza, il peso corporeo, il Body Mass Index (BMI) e la superficie corporea. Inoltre alla prima visita è stata raccolta un’accurata anamnesi, con particolare attenzione per la familiarità per malattie cardiovascolari, per la ricerca di fattori di rischio cardiovascolari come ipertensione, dislipidemia, fumo di sigaretta, obesità e diabete mellito. Tutti i pazienti sono stati valutati con esame obiettivo generale e distrettuale per la ricerca dei segni dello scompenso come edemi declivi, rumori aggiunti polmonari, turgore giugulare, epatomegalia, reflusso epato-giugulare, ritmo di galoppo ed altri rumori cardiaci patologici, ed è stata identificata la classe NYHA di appartenenza.

Dati bio-umorali

L’analisi dei dati bioumorali si è focalizzata soprattutto sulla valutazione degli esami della funzionalità renale, in particolare della creatininemia con calcolo della clearence secondo le formule di Cockcroft-Gault e MDRD. Altri dati valutati sono stati il profilo lipidico, la glicemia, gli elettroliti, l’emoglobina e il BNP.

Dati strumentali

Ad ogni controllo per tutti i pazienti è stato eseguito un esame ecocardiografico con valutazione di tutti i principali parametri come EF, LAD, EDV, TAPSE e PAPs.

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Analisi statistica

L’analisi statistica è stata svolta mediante Software NCSS, versione 2007.

I dati continui sono stati espressi come media ± deviazione standard, mentre i dati binomiali sono stati espressi come frequenze assolute e percentuali. Per la comparazione dei dati continui tra gruppi (gruppo 0, 1 e 2) è stata effettuata un’analisi della distribuzione dei dati attraverso test di normalità (Kurtosis, Skewness). In caso di distribuzione normale dei dati è stato applicato il test t di Student per dati indipendenti; in caso di distribuzione non normale invece è stato utilizzato il test U di Mann-Whitney. I dati discreti dei gruppi sono stati valutati con test di normalità e successivamente confrontati usando il test del χ2

per distribuzione normale ed il test esatto di Fisher per i dati con distribuzione non normale. La significatività statistica è stata definita per valori di P < 0,05.

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7. RISULTATI

Caratteristiche generali della popolazione

La popolazione in studio è composta da 47 uomini (82,5 %) e 10 donne (17,5 %), con un’età media all’inizio del periodo di osservazione di 66,36 ± 10,42 anni.

Figura 10: Composizione della popolazione in esame

Nel periodo di tempo considerato si sono verificati 13 decessi (22,8%), di cui 12 casi (92,3%) tra gli uomini 1 caso (7,7%) tra le donne.

Eziologia

L’eziologia dello scompenso è risultata essere la cardiopatia ischemica nel 50,87% (29) dei casi, la cardiomiopatia dilatativa nel 29,82% (17), la

47 10

Popolazione

Uomini Donne

(52)

52

cardiopatia ipertensiva nel 12,28% (7) ed altre condizioni patologiche come malformazioni congenite o vizi valvolari nel 7,03% (4) dei casi.

Caratteristiche cliniche

Sono stati calcolati i valori medi dei principali parametri clinici, come BMI, PAS e PAD, FC, classe NYHA. I risultati sono riportati nella tabella sottostante. Variabili Media BMI 26,23 ± 4,57 PAS 122,89 ± 16,14 PAD 76,07 ± 9,98 FC 76,03 ± 17,67 NYHA 2,42 ± 0,8 Tabella 6: Caratteristiche cliniche della popolazione generale

51% 30%

12% 7%

Eziologia dello scompenso cardiaco

Cardiopatia ischemica Cardiomiopatia dilatativa Cardiopatia ipertensiva Altro

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