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Academic year: 2021

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EMOZIONE

Marco Menin (Università degli Studi di Torino)

Tutti noi proviamo ogni giorno numerose emozioni, sia positive sia negative, che conferiscono “colore” alla nostra esistenza: di volta in volta ci sentiamo felici, tristi, imbarazzati, infuriati, divertiti, ecc. Vista la quotidianità del fenomeno, siamo tutti convinti di sapere che cosa sia l’emozione, salvo poi renderci conto, quando proviamo a spiegarla, che si tratta di una realtà complessa e, almeno in parte, misteriosa.

Serviamoci di un esempio per chiarire la questione. Jacopo, un quindicenne che frequenta il secondo anno delle scuole superiori, è felice. Si sta preparando per uscire la sera: andrà a casa del suo amico Giulio, dove mangerà una pizza e trascorrerà la serata con gli amici. Oltre alla gioia di poter sfidare i suoi compagni ai videogiochi, Jacopo avverte anche una punta di ansia: sa che alla serata è stata invitata Francesca, per cui si è preso una cotta che non ha ancora avuto il coraggio di confessarle. Poiché vuole dichiararsi alla ragazza, Jacopo ha scelto attentamente i vestiti da indossare e si sta pettinando con cura.

Improvvisamente, tuttavia, il padre di Jacopo entra concitato nella stanza: è chiaramente alterato e deluso. Egli racconta al ragazzo di aver appena incontrato la sua professoressa di greco e latino, che si è lamentata del suo scarso impegno nello studio e del suo comportamento distratto in classe. Jacopo riceve così una severa ramanzina dal genitore, che si conclude con il tassativo divieto di uscire quella sera. Il mondo emozionale dell’adolescente cambia in maniera radicale. Il ragazzo è colto da un’improvvisa rabbia che lo spinge a considerare ciò che gli sta accadendo come una profonda ingiustizia: tutti sanno che la professoressa di greco e latino ce l’ha con lui e, in ogni caso, la punizione è troppo severa, perché gli impedirà di dichiararsi a Francesca. Mentre prova a spiegare le sue ragioni al padre, il ragazzo si sente improvvisamente accaldato, la sua voce diventa stridula e tremante e il battito cardiaco accelera. La stessa espressione del viso di Jacopo non è più la stessa di qualche minuto prima, quando doveva decidere, guardandosi allo specchio, come pettinarsi i capelli: la fronte e le sopracciglia sono aggrottate, la mandibola serrata e il viso ha preso colore.

Siamo tutti d’accordo nel dire che Jacopo sta sperimentando la rabbia (o, per usare l’espressione più tecnica, l’ira), una delle emozioni primordiali dell’essere umano, che nasce dall’istinto di difendersi per sopravvivere nell’ambiente in cui ci si trova, ogniqualvolta esso è, o ci appare, ostile. Si tratta di una passione complessa che – come mostra anche un esempio banale come quello illustrato – implica numerose variabili. Accanto a evidenti mutamenti fisiologici e di espressione, l’insorgere dell’emozione presuppone anche una precisa valutazione degli eventi: Jacopo si arrabbia perché ritiene ingiusta e sproporzionata la punizione paterna. Inoltre, il suo comportamento viene profondamente modificato dall’emozione stessa: ciò che un attimo prima gli sembrava importante (come pettinarsi per essere più attraente) passa completamente in secondo piano, sostituito dall’esigenza di adattarsi a una situazione imprevista (il divieto di uscire).

Proviamo a domandarci quale dei tratti distintivi della rabbia di Jacopo è tuttavia

davvero l’emozione della rabbia: le modificazioni somatiche? la valutazione che ne viene

data dal soggetto? la disposizione a impegnarsi in una determinata azione? o una combinazione di tutti questi, e altri, elementi?

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Questi interrogativi, che ognuno di noi si pone più o meno consapevolmente ogni giorno, sono gli stessi che animano la riflessione filosofica sul tema delle emozioni sin dall’antichità. Ripercorreremo qui brevemente le tre risposte più significative che, nel corso dei secoli, i filosofi hanno fornito alla domanda “che cos’è l’emozione?”, e che sono ancora presenti nell’attuale dibattito che caratterizza lo studio (sia filosofico, sia scientifico) della dimensione affettiva. Alla base di queste tradizioni di pensiero vi sono rispettivamente le idee che l’emozione sia una valutazione, una percezione sensibile o una motivazione.

1. L’emozione come valutazione

Secondo la prima ipotesi – che affonda le sue radici nella riflessione greca del V-IV secolo a.C. – l’emozione nasce dalla reazione dell’individuo a ciò che gli è favorevole o sfavorevole. Essa, in poche parole, come sostiene Aristotele – che è il più importante esponente di questa tradizione di pensiero – scaturisce dalla valutazione, ossia dalla percezione del valore che una determinata situazione ha per la vita. Tale valutazione, comunicata attraverso il piacere e il dolore, predispone l’essere vivente ad affrontare la situazione in questione con i mezzi in suo possesso: «Intendo come emozioni il desiderio, la collera, la paura, il coraggio, l’invidia, la gioia, l’amicizia, l’odio, il desiderio, l’emulazione, la pietà, tutto ciò, insomma, che è seguito da piacere о da dolore» (Etica nicomachea, II, 4, 1105b 21-23). La visione valutativa dell’emozione può pertanto essere sintetizzata attraverso il seguente schema:

Evento  Valutazione  Emozione  Azione

È il processo razionale della valutazione di un evento o di una credenza a dar luogo a una specifica emozione, consentendole di determinare di conseguenza l’azione dell’individuo. Questa stretta relazione causale tra valutazione ed emozione può essere resa più esplicita tramite l’esempio dell’analisi della paura, proposto nuovamente da Aristotele: «La paura è una sorta di dolore o di turbamento derivante dalla rappresentazione di un male futuro atto a distruggere o a dare dolore» (Retorica, II, 1382a 21-23). Non si temono pertanto tutti i mali, ma l’emozione della paura scaturisce soltanto quando giudichiamo che essi possano addurre dolori grandi e imminenti: ognuno sa di dover morire, ma finché non giudica la morte vicina, non ne ha paura.

Una simile definizione di emozione è ancor oggi ampiamente accettata. L’idea secondo cui le emozioni sarebbero innanzitutto valutazioni in rapporto a ciò che più conta per noi (Jacopo si arrabbia con il padre perché il suo divieto ostacola una sua aspirazione) è infatti approdata sino alla psicologia moderna. Questa ipotesi ha il merito di spiegare perché uno stesso evento può suscitare reazioni emotive differenti, persino opposte. Se un individuo ci sorride e noi valutiamo tale gesto come un indizio di affetto e simpatia, proveremo per lui amicizia; se invece valutiamo lo stesso sorriso come un atto di scherno o un segno di supponenza, svilupperemo nei suoi confronti emozioni ostili, e ci comporteremo di conseguenza.

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La seconda tradizione di pensiero, che si è affermata a partire indicativamente dal Seicento, mette al centro non più l’idea di emozione come valutazione, bensì quella di emozione come forma specifica di percezione sensibile. Il filosofo che per primo ha sistematizzato questa teoria è stato Cartesio, autore nel 1649 delle Passioni dell’anima, opera unanimemente considerata il primo trattato di psico-fisiologia nel senso moderno del termine.

Cartesio rimprovera alla tradizione a lui precedente di non aver concepito la mente e il corpo come due entità distinte, e di non averne studiato separatamente le funzioni. Seguendo un rigoroso dualismo, Cartesio chiama la mente res cogitans – cioè sostanza pensante, priva di estensione – e il corpo res extensa (sostanza estesa), per mettere in luce come essa costituisca il mondo materiale, finito e determinato. La funzione del corpo è la produzione di movimento e calore, quella dell’anima è la produzione di pensieri, che possono essere di due tipi: azioni e passioni. Mentre le azioni dell’anima sono volizioni vere e proprie (la volontà di andare a fare una passeggiata), le passioni dell’anima – nella loro definizione più ampia – sono percezioni subite piuttosto che volute.

Le emozioni, secondo Cartesio, risiedono pertanto nell’anima e non nel corpo. Possiamo essere arrabbiati con qualcuno (come Jacopo lo è con suo padre) e la nostra rabbia può essere accompagnata da una serie di manifestazioni fisiologiche, ma la nostra emozione viene sperimentata direttamente nell’anima, nell’interiorità. La conseguenza più rilevante di questa presa di posizione è che le emozioni diventano oggetto di un infallibile accesso introspettivo: possiamo sbagliarci nel valutare la causa di un’emozione, ma non possiamo dubitare dell’esistenza stessa dell’emozione. Per questa ragione Cartesio è riconosciuto come il capostipite della scuola di pensiero che definisce preminentemente l’emozione come una percezione sensibile e non come una valutazione cognitiva. Questa tradizione non nega evidentemente che elementi valutativi o motivazionali possano rientrare nel processo percettivo, ma li esclude dalla definizione più propria dell’emozione.

Se applicata in maniera radicale, l’idea che l’emozione sia una percezione sensibile può ribaltare completamente la visione dell’emozione radicata nel senso comune. Un celebre esempio di questo mutamento di prospettiva si ritrova nell’opera di William James, uno tra i massimi esponenti del pragmatismo americano nonché un importante psicologo. James era convinto che una teoria delle emozioni pienamente scientifica non potesse limitarsi a considerarle fenomeni “atomici” che si verificano nell’anima, ma richiedesse una comprensione delle loro cause fisiologiche. Questa convinzione si concretizza nella cosiddetta teoria periferica dell’emozione. Secondo tale teoria, non esistono entità psichiche (come può essere la valutazione) che mediano tra la percezione mentale dell’evento emotigeno e la sua manifestazione fisiologica: «La mia tesi […] afferma che i mutamenti fisici seguono direttamente la PERCEZIONE dell’evento stimolante, e che la sensazione in noi prodotta da questi mutamenti nel momento del loro verificarsi È l’emozione» (W. James, Principles of Psychology, New York, Holt, 1890, p. 449). Se l’emozione è dunque una percezione che consiste nel “sentire” le modificazioni periferiche dell’organismo, sono i cambiamenti del nostro corpo a provocare una determinata emozione e non viceversa. Jacopo – per tornare al nostro esempio – non è rosso in viso e trema perché prova la rabbia, ma prova la rabbia perché in lui si sono verificati una serie di mutamenti fisiologici, intesi come risposte somatiche agli stimoli esterni. Questa idea può essere esemplificata attraverso il seguente schema:

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3. L’emozione come motivazione

La terza opzione che si è storicamente affermata nel tentativo di definire l’emozione – accanto alle ipotesi che vedono in essa rispettivamente una valutazione e una percezione sensibile – consiste nel considerarla una specifica forma di motivazione. Nei termini più generali, l’emozione sarebbe un fattore dinamico che indirizza il comportamento di un individuo verso una determinata meta: la felicità scaturita da uno scopo realizzato spinge ad esempio a impegnarsi nello stesso progetto (uno studente universitario che passa brillantemente un esame continuerà a studiare con impegno), mentre la tristezza scaturita dalla perdita di uno scopo potrà condurre all’inazione o, nel peggiore dei casi, alla depressione. Una simile idea ha trovato una formulazione organica solo agli inizi del Novecento, diventando una delle questioni maggiormente dibattute in ambito psicologico.

Il capostipite della tradizione “motivazionale” è generalmente individuato in John Dewey, un altro dei massimi esponenti del pragmatismo americano, il quale formulò la propria teoria dell’emozione in aperta opposizione a quella di James. Se per quest’ultimo l’emozione si sviluppa solo attraverso la percezione di un mutamento corporeo, secondo Dewey, in accordo con il senso comune, sono i mutamenti corporei a seguire necessariamente l’emozione: Jacopo prova rabbia verso il padre e la manifesta conseguentemente arrossendo in volto, assumendo una determinata postura, ecc. L’idea che l’emozione sia una specifica forma di motivazione è fondata sulla centralità attribuita al legame tra l’essere umano e l’ambiente che lo circonda, ossia sul ruolo di adattamento all’ambiente. L’esperienza è interpretata non come un processo in cui l’uomo è prevalentemente passivo, ma come un rapporto bidirezionale tra uomo e ambiente, in cui l’uomo non è un semplice spettatore, ma interagisce con ciò che lo circonda. L’emozione non può pertanto essere subordinata all’espressione corporea, come dimostra il fatto che quest’ultima è spesso ambigua: il riso e il pianto, ad esempio, seguono il medesimo principio di azione, a tal punto che può essere talvolta difficile, osservando una foto, capire se il soggetto ritratto stia ridendo o piangendo. L’espressione dell’emozione – che era considerata universale dai pensatori che riconducevano l’emozione stessa a una percezione sensibile – è dunque soltanto un’intenzione secondaria, cioè semplicemente un segno interpretato da uno spettatore. Se un osservatore guarda una persona mangiare voracemente, i suoi gesti possono indicargli senza dubbio la sua sensazione di fame. Ciò non vale tuttavia per colui che sta mangiando, il quale non sta esprimendo in nessun modo intenzionalmente la fame. È pertanto fallace prendere le mosse dall’espressione per risalire a emozioni preesistenti.

Secondo questa tradizione di pensiero le emozioni devono essere considerate come funzioni psichiche che permettono di adeguarsi all’ambiente attraverso la costruzione di determinate motivazioni che coinvolgono l’uomo nel suo insieme: il reale cominciamento della rabbia di Jacopo affonda le sue radici nel tentativo del ragazzo di adeguarsi a una situazione complessa (le relazioni interpersonali con gli amici e con Francesca, l’autorità paterna, il divieto inaspettato, ecc.) e non nella banale risposta a uno stimolo esterno. Non basta insomma ricondurre l’emozione a un atteggiamento o a un riverbero organico per spiegarne la sensatezza e la forza produttiva. La paura per un orso in un bosco non può essere di per sé legata all’oggetto orso in quanto tale: lo stesso oggetto per un etologo può

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essere interessante, per un bambino che lo vede in uno zoo addirittura entusiasmante. L’esperienza emotiva coinciderebbe allora con un determinato modo di porsi nei confronti del reale e la manifestazione corporea che l’accompagna deriverebbe dal mantenimento o meno di una “promessa” nei confronti dell’ambiente circostante.

Queste tre ipotesi, che qui abbiamo sommariamente presentato, non si escludono necessariamente a vicenda (svariate teorie dell’emozione combinano aspetti delle diverse tradizioni) e, anche prese singolarmente, possono essere declinate in maniera differente. Inoltre – e si tratta dell’aspetto più interessante – nessuna teoria si è sinora imposta con nettezza sulle altre, a conferma di come il “mistero” dell’emozione coincida probabilmente con il mistero dell’essere umano, che non è solo Homo sapiens, dotato di ragione, ma anche e soprattutto Homo sentiens, dotato di sentimenti ed emozioni.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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