Titolo
1) La grande riforma delle pensioni del 1969: la legge Brodolini.
2) La legge Brodolini del 1969 di riforma del sistema pensionistico e la politica espansiva dei governi di Centro-Sinistra.
3) La legge Brodolini del 1969 di riforma del sistema pensionistico e la politica redistributiva dei governi di Centro-Sinistra.
4) La legge Brodolini del 1969 del sistema pensionistico e la rottura del fatto intergenerazionale.
5) La grande riforma delle pensioni del 1969 e la non sostenibilità del nuovo sistema nel lungo periodo.
Nuova proposta: la politica pensionistica dei Governi Rumor durante la cui V e VI legislatura repubblicana dalla legge Brodolini (1969) alle pensione baby (1973).
Indice
Introduzione
Capitolo Primo: il sistema pensionistico italiano della fine della prima
guerra mondiale al 1969.
Paragrafo 1: l’istituto nazionale (fascista) di previdenza sociale
Paragrafo 2: il primo dopo guerra Paragrafo 3: il decennio Cinquanta Paragrafo 4: il decennio Sessanta
Capitolo Secondo: la legge 153 del 1969
Paragrafo 1: contenuto della legge
Paragrafo 2: l’esame e approvazione del disegno di legge alla Camera
Paragrafo 3: l’esame e approvazione del disegno di legge al Senato
Paragrafo 4: risultati e conseguenze
Capitolo terzo: il fenomeno delle pensioni baby
Capitolo quarto: conseguenze sulla spesa pubblica e sul rapporto debito
PIL
Conclusione ancora da definire nei particolari
Introduzione
La politica pensionistica dei governi repubblicani che si sono succeduti dalla liberazione ad oggi è stata, ed è, uno dei temi più caldi, più sentiti,
più controversi di tutti quelli che si sono via via succeduti dai primi governi De Gasperi in poi.
Il sempre crescente numero di pensionati (siamo passati da 78 pensionati ogni mille abitanti nel 1951 a 392 ogni mille abitanti nel 2010) fa sì che l’opinione pubblica sia particolarmente interessata a questo tema. Nel 2012 il sistema pensionistico italiano ha erogato 23,4 milioni di
prestazioni pensionistiche per un ammontare complessivo di oltre 270,5 miliardi di euro, corrispondente ad un importo medio per prestazione pari a 11.543 euro annui (al lordo della tassazione Irpef).
Le prestazioni pensionistiche possono essere erogate a vario titolo: in seguito al raggiungimento di una determinata età, alla maturazione di anzianità diversamente continuativi, alla mancanza o alla riduzione della capacità lavorativa, per menomazione congenita o sopravvenuta, per infortunio sul lavoro o a causa di eventi bellici, o ,infine, per morte della persona protetta in caso di pensioni di reversibilità.
Le prestazioni erogate dall’INPS al 31/12/2014 sono 18.044.221. L’importo medio mensile erogato, in lieve crescita rispetto agli anni precedenti, è di euro 825,06.
Il totale delle pensioni sopra evidenziate è composto da 14.312.595 unità di natura previdenziale cioè prestazioni che hanno avuto origine dal
versamento di contributi previdenziali, durante l’attività lavorativa del pensionato.
Le rimanenti prestazioni erogate dalla gestione degli invalidi civili e da quella delle pensioni e assegni sociali, sono di natura assistenziale. Al 31/12/2009 le prestazioni pensionistiche fino a euro 500 erano
6.386.134 su 18.235.520 pari al 42%, mentre quelle da euro 501 a euro 1.000 erano 5.619.840 pari al 31% (inserire nota fonte INPS tavola III.3.5.6, classi di pensione per importo mensile INPS).
Il problema delle pensioni è stato di gran lunga il più dibattuto dal 1945 ad oggi.
È stato ed è un problema che ha visto sempre acerrime lotte di potere e di posizionamento: partiti di Governo contro partiti di opposizione; imprenditori contro lavoratori, categorie di lavoratori contro altre
categorie di lavoratori, lavoratori contro pensionati, pensionati “ricchi” contro pensionati “poveri” e in tempi più recenti “ insider” contro “
outsider”, cioè coloro che sono , durante la loro vita lavorativa nel recinto formato dai lavoratori a tempo indeterminato, e poi godono di una
pensione di vecchiaia, da quelli sempre esclusi dal recinto perché lavoratori a tempo determinato e precari, partite IVA, disoccupati e ultimamente da giovani alla ricerca vana della prima occupazione. La legge n.153 del 1969 detta “riforma Brodolini”, la grande riforma
pensionistica, tanto attesa da tutti i lavoratori e dalle classi meno abbienti della popolazione ha rappresentato una frattura storica nel sistema del Welfare italiano.
Dopo questa legge nulla sarà più come prima: un intero popolo riceve finalmente quello che tanto aveva agognato e che tanto a lungo gli era stato promesso.
Finalmente il livello delle prestazioni pensionistiche è più rispondente ai bisogni della popolazione.
Le pensioni diventano più decorose e permettono ai lavoratori che vanno in pensione di condurre una vita dignitosa e consentono di guardare al futuro con una certa tranquillità.
La legge introduce finalmente la “pensione sociale”, cioè assegna a tutti i cittadini oltre i 65 anni di età e che non hanno reddito una prestazione modesta ma confortante anche in mancanza di versamenti contribuitivi. Viene introdotta anche la pensione di vecchiaia, per quei cittadini che dopo 35 anni di lavoro e di versamenti contribuitivi si sentono
soggettivamente stanchi ed usurati e preferiscono abbandonare l’attività lavorativa.
La riforma produce anche una conquista sociale straordinaria che
appunto segna profondamente la frattura epocale: la legge ha stabilito definitivamente che il calcolo delle pensioni future dovrà essere fatto con il metodo retributivo, e non su quello contributivo, che era stato in uso fino ad allora, e qui è necessario aprire una parentesi storica per meglio comprendere l’importanza della novità.
Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo nacquero i trattamenti pensionistici, dapprima in Germania, poi in Gran Bretagna e poi via via in tutti i paesi europei, il metodo di calcolo dell’importo delle pensioni a cui ogni lavoratore aveva diritto alla fine della propria attività lavorativa era basato sulla cosiddetta formula contributiva a base attuariale.
Le prime forme di assicurazione erano volontarie: chi voleva pagava un contributo mensile e ad una determinata età, quando non poteva più svolgere attività lavorativa riceveva un importo mensile, oppure in caso di malattia grave o infortunio.
In pratica cosa significava questa formula? Significava che ogni lavoratore doveva versare dei propri contributi, che si sommavano a quelli che
versava per lui il datore di lavoro, e in alcuni casi lo Stato, e il totale di questi contributi veniva “virtualmente” versato in un conto a suo nome, ed era aumentato via via dagli interessi maturati, perché la somma accantonata tramite i versamenti dei contributi era investita in Titoli di Stato o altri titoli similari, oppure impiegata nell’acquisto di beni
immobili.
Cosicché alla fine della propria attività lavorativa l’individuo era “ idealmente” proprietario di un proprio capitale garantito dalle ingenti riserve dei vari istituti nazionali delegati dagli Stati a gestire il monte pensioni.
Il totale dell’attivo del INFPS nel 1941 era pari a 18.658,80 mln di lire di cui il 70% rappresentato da Titoli, Annualità dello Stato e Mutui.
Sempre nel 1941 le prestazioni erano pari a 6.509 mln di lire e i contributi a 7793 mln di lire, con un saldo attivo di 1284 mln di lire. (inserire nota i
dati sono stati ripresi da C.Giorgi, la Previdenza del Regime, il Mulino, 2004, pag.307 e seguenti).
Ritornando al metodo contributivo era infine facile determinare la
pensione, si calcolavano, con il metodo attuariale della “speranza di vita” , gli anni di vita media dell’individuo e dividendo il “capitale” accantonato da tale individuo nel corso della propria attività per gli anni che gli
rimanevano da vivere, come “media statistica”, si aveva l’importo della pensione annuale che divisa per 12 definiva la pensione mensile.
Però questo semplice e valido metodo fu messo totalmente in crisi dagli eventi bellici del 1939/1945.
Le grandi devastazioni dei bombardamenti aerei distrussero quasi
totalmente, o comunque in maniera sensibile, il capitale immobiliare degli Enti nazionali di Previdenza che, in Italia era l’Istituto Nazionale (fascista fino al 1945) della Previdenza Sociale.
Gli stanziamenti accantonati in fondi pubblici furono anch’essi decimati e poi azzerati dalla forte perdita del valore reale della moneta, e in pochi anni si volatizzarono.
Quel capitale “ideale” messo da parte da ogni lavoratore per la propria pensione fu dunque annullato, e alla fine della guerra, le casse degli Istituti di Previdenza Pubblica erano vuote.
Che fare allora? Fu necessario abbandonare il metodo contributivo ed inventarne in tutta fretta uno nuovo, e nacque così il metodo a
ripartizione.
Il metodo a ripartizione non si basa su calcoli matematici ma sul fatto che i contributi versati “oggi” dai lavoratori occupati, con il concorso dei
datori di lavoro, vengono utilizzati contemporaneamente “oggi” per pagare le pensioni dei pensionati e così via, fino a che le pensioni dei lavoratori di oggi saranno pagate dai lavoratori di domani.
Questo criterio era l’unico possibile da applicare alla fine della guerra, quando le casse degli Enti previdenziali erano vuote, e l’unico modo per
pagare le pensioni era utilizzare subito i contributi che mese dopo mese venivano versati.
L’introduzione del sistema a ripartizione era agevolato dal fatto che alla fine del 1945 a fronte di 11 milioni di lavoratori attivi le pensioni erano 1.055.000 unità pari al 2,3% della popolazione. (inserire nota A.Brambilla i 150 anni della Previdenza sociale nei 150 dell’Unità d’Italia, libro
sfogliabile su internet, pannello 4).
Di contro l’INPS cessò di essere una grande risorsa finanziaria dello Stato, utilizzata dai governi fascisti per il finanziamento di opere pubbliche, opere di bonifica, campagne militari per la conquista delle colonie, per diventare un “grande debitore”, perché da quel momento i bilanci
dell’istituto furono sempre in forte perdita, e dal punto di vista finanziario doveva sopravvivere con l’erogazione dello Stato sotto forma di aumento del debito pubblico.
Per i suddetti motivi, dalla fine della guerra in poi apposite leggi
emergenziali aggiunsero alla pensione originaria, calcolata con il metodo contributivo, il cui valore reale era ormai minimo, degli speciali Fondi di adeguamento pensioni ( FAP) che avevano lo scopo di adeguare almeno in parte il valore reale delle pensioni al mutato valore della moneta. Di metodo retributivo si parlò in modo esplicito per la prima volta nel 1965, con la legge 21 luglio 1965 n.903 con la quale fu legalizzato tale metodo, ma il calcolo delle pensioni rimase comunque su base
contributiva.
Il metodo retributivo si affermerà definitivamente con la riforma
Brodolini della quale ci stiamo prestando a parlare, ma c’è un problema alla base del nuovo criterio entrato in vigore nel 1969, ed è il problema dell’onestà e della serietà delle forze politiche che hanno il compito di guidare il paese, ma anche delle forze sindacali, di tutti gli “opinion makers” e di ogni singolo cittadino.
Questo perché la fissazione dell’importo delle prestazioni previdenziali è lasciato al libero incontro della volontà delle forze in campo, avendo perduto ogni ancoraggio a metodi scientifici e matematico-attuariali. Occorre, allora, che tutti si impegnino a rispettare due equilibri che prima di essere economici-sociali devono essere eticamente equi questi due principi sono l’equilibrio infragenerazionale e quello intergenerazionale e cerchiamo di capire come sono e come devono funzionare.
Prima di tutto chiariamo che l’equilibrio infragenerazionale significa due cose: in primis deve garantire un equa ripartizione delle risorse tra le varie classi sociali, sia in linea verticale che quella orizzontale.
Questo vuol dire che le pensioni devono essere proporzionate tra le varie categorie di lavoratori, in modo che, per esempio un operaio metal
meccanico abbia una pensione uguale, a parità di età e di anni di contribuzione, di un altro operaio di minor peso politico.
Significa anche che non ci devono essere differenze, sempre a parità di condizioni, tra diverse categorie di lavoratori o di individui (impiegati, operai, lavoratori agricoli, artigiani e commercianti).
Proprio mentre scriviamo è uscito un comunicato INPS che fa
sapere che il monte pensioni dei dipendenti pubblici è
mediamente maggiore del 70% di quello dei dipendenti privati,
tanto per fare un esempio, e con buona pace del metodo che
stiamo illustrando.
L’equilibrio infragenerazionale significa anche che il costo delle pensioni da pagarsi ogni singolo mese deve, per la quota eccedente i contributi versati dai diretti interessati essere distribuito equamente tra tutte le classi sociali che compongono la popolazione dallo stato, in modo da attuare una politica che, oltre che essere espansiva perché si aumenta la dotazione finanziaria della popolazione e quindi si sostengono e si
espandono i consumi, dev’essere anche redistributiva, cioè si toglie qualcosa a chi ha tanto e si da a chi ha poco.
In seconda ipotesi esiste anche un equilibrio intergenerazionale secondo il criterio che avevamo già affermato cioè che le pensioni di oggi le
pagano i lavoratori di oggi, che a loro volta riceveranno le pensioni dai lavoratori di domani.
Ma se le pensioni di oggi sono troppo alte e non bastano i contributi dei lavoratori di oggi, e quindi il governo deve finanziare l’operazione in debito, rompe l’equilibrio generazionale perché alle future generazioni lasceremo molti debiti e poche risorse perché saranno state nel
frattempo bruciate anticipatamente.
A guardare bene è quello che sta succedendo oggi.
Dopo qualche decennio di vacche grasse, la politica pensionistica prima e la crisi economica dopo, ci hanno lasciato un ingente debito pubblico e il dubbio se i trenta/ quarantenni di oggi potranno avere delle pensioni che garantiranno un livello di vita decoroso, è molto fondato.
Ovviamente i due equilibri dei quali stiamo illustrando i termini
funzionano in modo sufficientemente equilibrato quando esistono precise condizioni macroeconomiche necessarie che sono:
- Un mediamente elevato tasso demografico
- Una fase espansiva dell’economia nazionale che preveda un PIL annuo almeno del 3%
- Un rapporto lavoratori-pensionati almeno di 2 a 1 (2 lavoratori per ogni pensionato)
Se però una serie di Governi irresponsabili, che tendono a violare il patto intergenerazionale, e contemporaneamente non tengono conto del fatto che le condizioni macroeconomiche evidenziate si stanno esaurendo, o sono giunte all’inversione di tendenza, non possono che causare gli enormi danni che stiamo subendo oggi.
Perché in Italia non siamo stati in grado, in 70 anni di vita repubblicana di mettere in atto una politica pensionistica lungimirante, equilibrata,
corretta sul piano macroeconomico, redistributiva e socialmente positiva è una cosa che forse è nel DNA del nostro popolo, incline al tornaconto
personale, al tutto e subito, all’evasione fiscale, che la nostra classe
politica non è stata in grado di correggere o contrastare secondo il motto: “ogni popolo ha il governo che si merita”.
In altri Stati, “sotto altri cieli” non è stato così.
In Gran Bretagna per esempio sono state percorse altre vie, molto più virtuose anche se, come in tutte le realizzazioni umane, non sono mancate anche là lacune e difetti.
Intendiamo a questo punto parlare brevemente del piano Beveridge, al quale il governo di Clement Attlee, appena finita la guerra, già nel
1945/46, ha dato pratica attuazione nonostante la Gran Bretagna fosse uscita dalla guerra, seppur vittoriosa, allo stremo delle forze, semi
distrutta dai bombardamenti aerei e con il debito pubblico di guerra più grande del mondo e di proporzioni gigantesche.
Infatti, mentre in Italia si percorreva faticosamente la strada
dell’adeguamento delle prestazioni al sempre più inesorabilmente alto costo della vita, senza apportare cambiamenti rispetto alla linea
tradizionale del welfare italiano che era nato e cresciuto nel solco del sistema concepito e promosso dal cancelliere tedesco Von Bismarck, con carattere marcatamente occupazionale, in altre realtà politiche europee, e in particolare in Gran Bretagna, si stavano valutando nuove vie e nuovi percorsi.
Questi nuovi percorsi erano in parte dovuti alla diversa tradizione del welfare in quel paese che, contrariamente allo schema occupazionale tipico della Germania, prevedeva un impronta fortemente universalistica, nel senso che i titolari delle prestazioni non dovevano essere solamente i lavoratori occupati e le loro famiglie ma tutti i cittadini, non solo gli
occupati, in quanto titolari di un diritto minimo di sussistenza, che doveva essere garantito dallo Stato, e che doveva essere posto a carico della fiscalità generale.
Il volume “ Social Insurance and Allied Services: Report by Sir William Beveridge”, scritto nel 1942 può essere considerato l’atto di nascita del moderno Stato sociale.
È il tentativo di superare l’approccio residuale e contingentale degli Stati europei continentali a favore di un sistema che elabora risposte
complesse ai problemi di sussistenza, e che si incentra sull’idea che tutti i cittadini, senza distinzione di sorta (classe, sesso, razza, status) e senza filtri familiari o categoriali, siano titolari di un diritto a un livello minimo di sussistenza, che deve essere garantito dallo Stato.
Sir William Beveridge nasce in India nel 1879 e, rientrato in Inghilterra nel 1892, si dedica allo studio dei problemi economici-sociali del suo tempo, divenendo in breve uno dei massimi esperti del settore.
Nel 1919 viene chiamato a dirigere la London School of Economics, dove rimane fino al 1937, quando ormai la scuola sarà il più importante centro di ricerca sui temi economici e sociali, grazie proprio alle capacità
accademiche e amministrative di Beveridge.
Nel 1937 viene eletto direttore dello “University College” della Oxford University, uno dei più antichi e prestigiosi del Regno Unito.
Nel 1940 viene nominato sottosegretario al Ministero del Lavoro, e infine, a metà del 1941 viene nominato presidente di una commissione di
inchiesta ministeriale sulla assicurazioni sociali che terminerà con un rapporto finale, che abbiamo più volte citato che rappresenterà i
successivi passi del governo inglese verso il tipo di welfare universalistico, ancora oggi in vigore in Gran Bretagna.
(inserire nota: ufficialmente la commissione aveva l’incarico di “
undertake”, With special reference to inter-relation of the schemes, a survery of the existing national schemes of social insurance and allied services, icluding workmen’s compensation, and to make
recommendations” (cit. in N. Timmins, the Five Giants: A Biography of the Welfare State, Fontana Press,Londra, 1995 p.19)
Il Rapporto viene pubblicato e diventa il libro più letto del periodo (inserire nota la sintesi del Rapporto viene tradotta in tesdesco e in italiano proprio per favorirne la diffusione nei due paesi nemici.
L’impatto fu tale che alcuni documenti classificati con dettagliati appunti del Rapporto furono rinvenuti nel bunker di Hitler. Per quanto riguarda l’Italia, il regime fascista svolgeva un intensa propaganda sostenendo la superiorità del sistema di protezione sociale fascista rispetto a quello britannico, cosa per altro del tutto falsa: ( vedi l’interessante rassegna dei commenti dell’epoca al piano Beveridge curata da David Mugnai, “la critica italiana al Piano Beveridge”, in Economia e Lavoro, anno XXXIX , n.3, sett. Dic. 2005, pp. 121-136).
Molto sinteticamente il Rapporto Beveridge si fondava su pochi ma fondamentali principi.
Il punto di partenza era che il compito dello Stato era quello di favorire la piena occupazione e di sostenere il reddito delle famiglie nelle fasi di interruzione dell’occupazione, perché alla base di tutto c’era l’idea che tutti i cittadini, senza distinzione di sorta, sono titolari di un diritto ad un livello minimo di sussistenza, che dev’essere garantito dallo Stato, per cui la miseria cessa di essere una condizione ineluttabile per divenire una conseguenza dei processi macrosociali al difuori del controllo individuale (inserire nota M. Paci, Pubblico e Privato nei moderni sistemi del welfare, Liguori, Napoli, 1989.
La salvaguardia dell’economia di mercato come metodo più efficiente per il miglioramento degli standard di vita degli individui (Beveridge era pur sempre un liberale) deve essere accompagnata da istituzioni sociali che la rendano compatibile con le esigenze di riproduzione sociale (inserire nota A.Briggs,” The Welfare State in Historical Perspective, in European Journal of Sociology, 2,1961, pag 226.)
Questa concezione dell’insufficienza del mercato come strumento di ripartizione delle risorse ha una lunga tradizione nel pensiero sociale anglosassone (inserire nota K. Polanyi, la grande trasformazione, Enaudi,Torino, 1964).
Compito dello Stato è quindi quello di favorire la piena occupazione e di sostenere il reddito delle famiglie nelle fasi di interruzione
dell’occupazione.
Obbiettivo del sistema di assicurazione sociali è l’eliminazione dal bisogno (prima di tutto la Miseria, ma anche la Malattia, l’Ignoranza, lo Squallore e l’Ozio).
La povertà è determinata prevalentemente dalla perdita del lavoro e poi dall’ inadeguatezza dei redditi rispetto ai bisogni familiari.
La soluzione quindi si basa innanzitutto su un sistema generale di assicurazione sociale che garantisca un reddito anche nelle fasi di
mancanza di lavoro, quale che ne sia la causa (disoccupazione, vecchiaia, malattia, infortunio, invalidità).
Questa garanzia del reddito deve poi essere accompagnata da un sistema di assegni familiari per sostenere i bisogni delle famiglie numerose.
Infine occorre la costituzione di un valido sistema sanitario nazionale che fornisca cure universali e gratuite a tutta la popolazione, con un
contributo specifico a carico di tutti per il finanziamento del sistema stesso.
Sul piano macroeconomico lo stato deve mettere in campo efficaci
politiche economiche che assicurino una condizione di tendenziale piena occupazione.
Ultima preoccupazione di Beveridge è che l’universalismo non si trasformi in deresponsabilizzazione dell’individuo, nel senso che il reddito garantito agli individui non deve essere tale da indurre gli stessi a non impegnarsi nel miglioramento del proprio benessere secondo il ben noto principio di “ Less eligibility” ( inserire nota non a caso tale principio fu codificato per la prima volta proprio nel quadro del Poor Law Amendment Act del 1934). Tale principio tende ad escludere che la condizione di
Chissà se questo principio è stato tenuto presente dai Cinque Stelle nella proposta di legge del reddito di cittadinanza a tutti di euro 780 al mese! Nota dell’autore.
Il criterio per l’inclusione di cittadini in questo nuovo sistema di
protezione sociale è l’assicurazione obbligatoria per tutti a somma fissa, a cui corrisponde una prestazione ugualmente fissa in caso di
disoccupazione, invalidità o vecchiaia, su cui si fonda la stabilità finanziaria del sistema complessivo.
Infine chi può o lo desidera, può stipulare una assicurazione privata che si sommi a quella obbligatoria pubblica, favorendo così il mantenimento delle tradizionali “friendly societies”, così caratteristiche nella storia inglese.
Il piano funzionava anche da redistributore del reddito a favore dei lavoratori e delle classi meno abbienti, perché era previsto che più della metà del finanziamento del Fondo per le Assicurazioni sociali pervenisse dallo Stato.
Infatti al suddetto finanziamento partecipavano i lavoratori, i datori di lavoro e lo Stato, secondo il sistema tripartito ideato con il Social
Insurance Act del 1911.
A regime, nel 1945, lo Stato coprirà circa il 60% della spesa tramite la fiscalità generale, gli assicurati circa il 25%, i datori di lavoro il 15%. Completava il quadro complessivo del welfare britannico in National Health Service introdotto nel 1946, che fu sicuramente il traguardo più gradito dagli inglesi e più apprezzato all’estero, e fu il primo Sistema Sanitario universalistico nazionale ( inserire nota R.Lowe, The Welfare State in Britain, since 1945, Macmillan,Londra,1945.
Le caratteristiche principali del nuovo sistema sanitario erano le seguenti :
1) Era amministrato su base nazionale e finanziato tramite la fiscalità generale;
2) Le famiglie potevano scegliere il proprio medico di base, dal quale ricevevano prestazioni gratuite;
3) I medici di base rimanevano liberi professionisti e ricevevano un pagamento per ciascun paziente assistito;
4) I ricoveri negli ospedali, praticamente tutti di proprietà statale erano gratuiti;
5) I farmaci erano gratuiti.
Il piano Beveridge ha influenzato fortemente molti programmi di sicurezza sociale in tutto il mondo.
In Italia ispirò i lavori della Commissione D’Aragona costituita con D.c.p.s 22 Aprile 1947, e presieduta appunto dal sindacalista ed ex Ministro del Lavoro Ludovico d’Aragona e incaricata di definire le direttrici di riforma del sistema di assicurazione sociali nel quadro dei “criteri direttivi di un sistema previdenziale adeguato alle necessità della rinata democrazia sociale” quali emersero dai lavori
dell’Assemblea costituente (inserire nota Ferrara n.89 pag. 98).
Dal piano Beveridge la Commissione prende in prestito il concetto di “liberazione dal bisogno” come l’obbiettivo fondamentale della
previdenza sociale, richiamandosi anche alla Conferenza Internazionale del Lavoro di Filadelphia del 1944.
Però, dal passaggio delle enunciazioni di principio alle indicazioni concrete, la Commissione si discosta dai vari richiami al piano Beveridge, preferendo rimanere nel solco della tradizione
Bismarckiana, anche perché si era nel frattempo giunti alla fine dei governi di unità nazionale, e i tentativi di riforma rimasero al palo, non incentivati dal partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana e dallo stesso Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi.
Il piano Beveridge influenzò anche i progetti di riforma della
previdenza sociale portati avanti dalla CISL, sindacato dei lavoratori sorto dalla scissione della CGIL, e di ispirazione cattolica riformista.
In occasione del secondo congresso nazionale del 1955 la CISL presenta un progetto di riforma che molto risente dei punti chiave del piano Beveridge, come per esempio la definizione di un piano unico
nazionale che copra tutti i cittadini e non più solo i lavoratori e i loro familiari, e l’erogazione di una somma fissa uguale per tutti, e la promozione di iniziative, come la defiscalizzazione, per la scelta individuale di “pensioni integrative”.
Giunti a questo punto siamo consapevoli di inoltrarci su un terreno molto spinoso, perché lo spazio che divide l’adeguatezza dei
trattamenti pensionistici ai bisogni dei pensionati, che devono essere messi in grado di condurre una vita dignitosa, e quelli che oggi sono chiamati “privilegi”, è molto stretta.
Intendiamoci subito: noi non vogliamo criticare il livello delle pensioni, in quanto, nel nostro paese gli assegni pensionistici sono mediamente molto bassi.
Oltre il 64% dei pensionati non arriva ad un assegno mensile di 750 euro.
Le cosiddette “pensioni d’oro” interessano una minima percentuale di pensionati, e poi rimane da stabilire quali sono le pensioni d’oro.
Sono d’oro le pensioni tre volte oltre la minima: certamente no. Cinque volte oltre la minima: pensiamo di no.
Allora quante volte oltre la minima?
Il problema non è l’ammontare delle pensioni, tranne appunto quelle “d’oro”, percentualmente molto basse.
Per noi i privilegi sono tutte le somme di denaro che un pensionato percepisce in più oltre a quello che avrebbe dovuto percepire in rapporto al calcolo attuariale con il metodo contributivo.
Intendiamoci: non vogliamo fare del mero e gretto moralismo, tendente a giudicare cose e persone da un punto di vita
esclusivamente morale, e sempre con eccessiva intransigenza per una severa condanna dei comportamenti degli altri.
Vogliamo rimanere semplicemente ai fatti e considerare che il
privilegio è una condizione dell’individuo o di una casta di individui, che in modo perfettamente legale godono dei vantaggi non meritati, non “guadagnati” con il proprio lavoro e con il proprio impegno. Per esempio durante l’“ancien regime” in Francia, prima della
rivoluzione del 1789, la nobiltà e il clero godevano del vantaggio di non pagare le tasse al sovrano non per meriti personali, ma per il semplice fatto di essere nobile o uomo di chiesa.
Tasse che quindi ricadevano tutte e in modo proporzionalmente più oneroso sul terzo stato (popolo e borghesia).
Era una concessione del sovrano, quindi perfettamente legale sul piano del diritto, ma assolutamente iniqua sul piano morale prima, ed
economico poi.
Il privilegio è quindi un vantaggio, favore, beneficio, esenzione, immunità, dispensa, franchigia e infine concessione gratuita senza nessun titolo di merito.
Ciò premesso quali sono i privilegi e la categoria dei privilegiati? In ordine di tempo mettiamo le “pensioni baby” e quindi tutti i pensionati ex dipendenti pubblici, che potevano andare in pensione dopo 20 anni di servizio se uomini, e 15 anni di servizio se donne con prole. (Questo privilegio è stato abolito nel 1992 dalla riforma Amato) Poi tutti i politici percettori di pensione chiamate “vitalizi” percepiti alla fine del mandato parlamentare, e senza spettare il compimento di
un minimo di età pensionabile. (Questo privilegio è cessato a partire dalla classe politica uscita dal voto del 2013 sull’onda di una forte indignazione popolare).
Ci mettiamo poi tutti i pensionati andati in pensione con il metodo retributivo, specialmente quelli che in prossimità degli ultimi due anni di lavoro si aumentavano artificialmente la retribuzione mensile,
perché la pensione era proporzionata all’80% dello stipendio degli ultimi due anni di pensione.
Privilegiati sono infine tutti i finti invalidi, i finti ciechi, che una classe politica incline al voto di scambio, elargiva a piene mani, anche se a volte, specialmente nel Sud, queste facilitazioni erano considerati virtualmente degli ammortizzatori sociali.
Cosa sta invece succedendo oggi?
Oggi succede che in piena crisi economica, iniziata nel 2007 e non ancora finita, la più grave dopo quella mitica del 1929, a parere di molti, il Governo italiano ha le mani legate e non può mettere in campo quelle politiche espansive che sarebbero necessarie per invertire la tendenza.
Lo Stato italiano ha attualmente il terzo debito pubblico più alto del mondo, ed aderendo al regime dell’Euro, pur necessario per la nostra sopravvivenza economica, si è legato le mani e non può più mettere in atto politiche di “deficit spending”, come aveva fatto nel
cinquantennio precedente.
Aderendo al trattato di Maastricht, lo Stato italiano si è impegnato a ridurre, nel tempo, il rapporto debito/ PIL che è attualmente al 132% ( dovrebbe essere del 60%), e a contenere il disavanzo pubblico al 3% del PIL.
Ne consegue che con il PIL in calo e il fortissimo carico degli interessi sul debito, non si può attivare nessuna politica economica espansiva, né tantomeno sforare i parametri di Maastricht con la “famosa Troika” a farci da guardiano: la Troika è rappresentata dal FMI (Fondo
Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea, e la Commissione Economica Europea).
Conseguenze inevitabili sono state le crisi economica, la crisi dei consumi, l’aumento della disoccupazione, specialmente quella giovanile, le perdite di posti di lavoro a tempo indeterminato e la nascita di numerosi contratti atipici, sottopagati e sottogarantiti e la nascita di una pletora di contratti di lavoro precario.
Sono nati i lavoratori precari: per loro nessun posto fisso, nessuna garanzia di durata del contratto, stipendi da sopravvivenza, e
soprattutto nessun versamento contributivo per garantirsi il futuro e in prospettiva nessuna pensione.
Queste sono le conseguenze della rottura del patto intergenerazionale. Chi pagherà le pensioni a questi lavoratori che sono ormai la
maggioranza?
Quindi non ci sarà nessuna pensione pubblica, o pensioni pubbliche molto scarse, nessuna possibilità di costruirsi, nel tempo, pensioni facoltative individuali per mancanza di guadagno, visto che i loro salari sono a livello di sussistenza.
Cosa succederà a questi lavoratori tra venti o trenta anni? Nessuno lo sa e nessuno al momento sembra preoccuparsene.
Però se togliamo trenta o quaranta euro al mese ai pensionati attuali, a coloro che percepiscono una pensione da quattro, cinque volte la
minima e ancora di più tutti gridano allo scandalo e la Corte
Costituzionale boccia la legge Fornero nella parte in cui congelava la rivalutazione delle pensioni oltre tre volte la minima, in nome dei diritti acquisiti.
Ma di questo parleremo a conclusione del nostro lavoro, anche perché siamo in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza e le ragioni per le quali sei giudici costituzionali sono stati contrari alla sentenza della Corte.
Come ultima annotazione di questo capitolo introduttivo vorrei richiamare l’attenzione su una dichiarazione che ho sentito fare, durante un talk-show televisivo, dalla Dott. Elisabetta Gualmini , professore ordinario di Scienza della Politica presso l’università di Bologna e Presidente della Fondazione Carlo Cattaneo, perché è una cosa che mi frullava nella testa già da qualche tempo.
La Gualmini , in quell’occasione, ha dichiarato che dal 2007 ad oggi si è svolta nel mondo, e in particolare in Europa, e ancora di più in Italia, una guerra.
Una guerra, certo incruenta, ma che come ogni guerra ha lasciato sul campo morti e feriti (virtuali) e distruzioni e devastazioni, e ferite difficilmente rimarginabili.
Ma se una guerra c’è stata facciamoci delle domande e diamoci delle risposte.
Distruzioni e devastazioni: quali? Le aziende fallite o comunque chiuse. I piccoli commercianti e artigiani costretti a chiudere le attività. I posti di lavoro e l’occupazione.
Morti e feriti: chi? I giovani, i lavoratori precari, i senza lavoro, i cittadini sotto la soglia di povertà o al limite della sussistenza.
Ma allora se guerra c’è stata, non era possibile, come si fa durante le guerre, sospendere temporaneamente, e per un tempo limitato alla durata della guerra, certe garanzie e diritti costituzionali?
Allora la Corte non avrebbe potuto pesare anche i diritti dei cittadini pensionati futuri e non solo dei pensionati attuali.
O forse l’art. 38 della Costituzione non segue il principio che “la legge è uguale per tutti”.
Oggi è il 10 luglio 2015: ieri sera durante un talk-show televisivo (di martedì) condotto da Giovanni Floris sulla “TV sette” è stato
intervistato il Prof. Mario Monti, Senatore a Vita, ed ex primo Ministro del Governo che ha fatto approvare la legge Fornero con il voto di
tutto il Parlamento con il solo voto contrario della Lega e di Italia dei valori.
Alla domanda perché avete preso la decisione di bloccare l’
indicizzazione delle pensioni superiori oltre tre volte la minima il Prof. Monti ha risposto in due modi:
Una ripetuta da sempre che l’Italia era sull’orlo del collasso finanziario, e per non fare la fine della Grecia, dovevano essere presi
provvedimenti dolorosi e impopolari.
L’altra, nuova per lui, che era necessario porre un freno alla spesa pubblica e al sempre crescente disavanzo statale in nome delle generazioni future (ha detto testualmente anche “ degli italiani non ancora nati”) per la salvaguardia del patto intergenerazionale.
Ma di queste problematiche avremo modo di discutere più approfonditamente nel capitolo conclusivo.
Ritornando alla nostra amata Italia, lo scopo del nostro lavoro, dopo aver brevemente accennato all’evoluzione del “Welfare State” in Italia dal 1945 al 1969, sarà quello di analizzare compiutamente la riforma del 1969 dal punto di vista della sua fattibilità, e soprattutto
sostenibilità nel tempo, e la sua importanza determinante nella storia dello stato sociale dal 1945 ad oggi.
Analizzeremo i lavori parlamentari, valuteremo le opinioni degli esperti in materia, delle forze sindacali, e dell’opinione pubblica del tempo.
E verificheremo l’impatto del suo costo sull’economia nazionale, e
soprattutto la sua influenza sulla formazione dell’ingente debito pubblico attuale del nostro paese.
E ci domanderemo se non fosse stato possibile fare qualcosa di diverso, o di meglio, o se la legge 153/1969 fosse l’unica possibile o sostenibile; considereremo se nelle pieghe della legge si sono nascosti favoritismi e privilegi, e se così fosse, se non sia giusto, o almeno auspicabile che le
forze politiche attuali non debbano prendere giusti correttivi nell’ambito delle iniziative che si stanno valutando anche alla luce della recentissima sentenza della Corte Costituzionale sulla legge Fornero.