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Valutazione del grado di concordanza tra decisioni cliniche nella Sclerosi Multipla basate sulle regole di buona pratica medica e grado di allerta ottenuto attraverso l'applicazione a posteriori delle TOR canadesi. Uno studio osservazionale retrospettivo.

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VALUTAZIONE DEL GRADO DI CONCORDANZA TRA DECISIONI CLINICHE NELLA SCLEROSI

MULTIPLA BASATE SULLE REGOLE DI BUONA PRATICA MEDICA E GRADO DI ALLERTA

OTTENUTO ATTRAVERSO L’APPLICAZIONE A POSTERIORI DELLE TOR CANADESI.

UNO STUDIO OSSERVAZIONALE RETROSPETTIVO.

CANDIDATO RELATORE

DOTT.SSA ISABELLA RIGHINI PROF.ALFONSO IUDICE

SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN NEUROLOGIA

ANNO ACCADEMICO 2013-2014  

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SINOSSI

-RIASSUNTO

-INTRODUZIONE

§ DEFINIZIONE DI SCLEROSI MULTIPLA § EPIDEMIOLOGIA § GENETICA § PATOGENESI § DECORSO CLINICO § DIAGNOSI § DIAGNOSI DIFFERENZIALI § LA RISONANZA MAGNETICA § CRITERI DIAGNOSTICI § STRATEGIE TERAPEUTICHE

-RAZIONALE DELLO STUDIO

-SCOPO DELLO STUDIO

-MATERIALI E METODI

-RISULTATI

-CONCLUSIONI

-BIBLIOGRAFIA

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RIASSUNTO

Con l’aumento delle possibilità di trattamento nella Sclerosi Multipla, si rende necessaria una rapida valutazione della risposta terapeutica del paziente alla prima linea di terapia, così da permettere una ottimizzazione rapida ed efficace del trattamento. Attualmente non esistono delle linee guida validate che possano essere applicate in modo universale, e la valutazione della risposta clinica è ancora legata in gran parte alla soggettività del giudizio diagnostico del clinico. Sono stati effettuati diversi tentativi di definire degli Score oggettivi in grado di definire delle linee di comportamento uniformi. Tra questi, vi sono le Treatment Optimization Recommandations (TOR) pubblicate dal Canadian MS Working Group (CMSWG), revisionate nel 2013. Tali raccomandazioni si basano sulla valutazione delle ricadute, delle immagini di risonanza magnetica e sulle modifiche dell’EDSS ad un anno dall’inizio della terapia di fondo con immunomodulanti. Ne derivano gradi di allerta variabili tra bassa allerta ed allerta elevata, che indicano una verosimile mancanza di risposta alla terapia di fondo. Vengono quindi suggerite delle linee di comportamento da tenere nei diversi gradi di allerta.

Il nostro studio si è proposto di applicare retrospettivamente tali raccomandazioni ad un gruppo di pazienti attualmente in seconda linea di terapia, analizzando e confrontando la linea di comportamento tenuta rispetto all’indicazione ottenuta con le TOR e confrontando i nostri risultati con la letteratura. Il grado di concordanza è stato stabilito attraverso il calcolo del coefficiente K di Cohen.

Abbiamo riscontrato un moderato grado di concordanza quando le TOR indicavano un eventuale passaggio di terapia, dimostrando un atteggiamento in linea di massima più prudente rispetto a quanto suggerito dal modello. Tale risultato è comparabile a quello ottenuto in uno studio prospettico della durata di 12 mesi condotto in Canada, eseguito per valutare l’applicabilità delle TOR nella pratica clinica.

L’analisi dell’anno precedente il passaggio a seconda linea di terapia, ha invece dimostrato come il nostro atteggiamento sia stato più incisivo, essendo risultati tutti i pazienti in uno stato di allerta moderata-elevata con l’applicazione delle TOR, ed avendo noi effettuato il passaggio di terapia a seconda linea. In 4 pazienti l’anno successivo alla prima linea e l’anno precedente la seconda era sovrapponibile, dimostrando una rapida ed efficace gestione della situazione.

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dall’applicazione retrospettiva dei criteri, ha evidenziato come l’atteggiamento tenuto dal medico sia ancora abbastanza prudente nella valutazione della mancata risposta alla prima linea di terapia, sebbene l’avvento delle nuove seconde linee, più maneggevoli rispetto al mitoxantrone, abbia facilitato, nei casi di più recente diagnosi, una gestione rapida ed efficace del passaggio di terapia.

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INTRODUZIONE

§ DEFINIZIONE DI SCLEROSI MULTIPLA

La Sclerosi Multipla è una malattia immuno-mediata di tipo infiammatorio che coinvolge il sistema nervoso centrale, che si caratterizza per la presenza di infiltrati perivascolari di cellule mononucleate, demielinizzazione, perdita assonale e gliosi, con la formazione di multiple placche a livello encefalico e del midollo e che clinicamente si presenta con sintomi e segni variegati, disseminati nel tempo e nello spazio.

§ EPIDEMIOLOGIA

La SM colpisce prevalentemente i soggetti di età compresa tra i 18-50 anni, con una media di circa 30 anni, con un rapporto M:F di 1:3. In aggiunta, esistono una sclerosi multipla infantile ed una sclerosi multipla ad esordio tardivo dopo i 50 anni, a carattere più aggressivo e tendenzialmente ad andamento progressivo, definita LOMS. E’ possibile individuare un gradiente di prevalenza che segue la latitudine, e varia da 5/100000 nelle aree a basso rischio (ed esempio Africa e Asia) a più di 100/100000 nelle aree ad elevato rischio come l’Europa centrale e del nord, il Nord America ed il sudest dell’Australia. Esistono inoltre dei clusters dove l’incidenza di malattia è particolarmente elevata, a prescindere dalla localizzazione1.

Dal punto di vista eziologico è una malattia multifattoriale, con un trigger ambientale, verosimilmente di origine infettiva, che agisce su un substrato genetico predisponente. I trigger attualmente chiamati in causa sono l’infezione da EBV, il deficit di vitamina D, il fumo2. A sostegno dell’impatto dei fattori ambientali vi è

la prova che un soggetto nato in una zona a bassa incidenza di SM, se entro i 16 anni migra in una zona ad alta incidenza assume il rischio di sviluppare la malattia pari ai nativi3.

§ GENETICA

La SM è una malattia geneticamente complessa. Studi genetici hanno dimostrato forme di aggregazione familiare della malattia, un rischio aumentato di sviluppo nei tra i parenti dei pazienti e una concordanza nei gemelli omozigoti rispetto ai fratelli di circa il 30%. L’aggregazione in clusters presenti in alcune zone del mondo come la Sardegna e nei luoghi colonizzati dai Vichinghi nel mondo, e viceversa la rarità della malattia in certe zone ed in certe etnie come Afroamericani o Indiani d’America, zingari dell’Europa Centrale e Lapponi della Norvegia, sono

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un ulteriore supporto alla presenza di una suscettibilità genetica. L’associazione più forte è stata trovata con l’allele HLA-DRB1 del complesso maggiore II di istocompatibilità, il che sostiene l’origine autoimmune della patologia. Altri geni individuati attraverso studi di associazione (più di 100 varianti aggiuntive) sono apparsi essere tutti coinvolti nella regolazione del sistema immunitario, ognuno dei quali con un modesto effetto individuale. La mancanza di una trasmissione ereditaria della malattia è stata spiegata in diversi modi, tra cui l’interazione gene-gene e gene-gene-ambiente, la regolazione cis-trans della trasmissione degli alleli ed effetti epigenetici4.

§ PATOGENESI

Lo sviluppo delle placche può avvenire in ogni punto del SNC, nella SB periventricolare a livello dei nervi ottici e dei tratti ottici, del corpo calloso, dei peduncoli cerebellari, dei tratti lunghi e delle regioni subpiali, a livello del midollo e a livello del tronco encefalico. Sebbene un tempo si ritenesse che fosse coinvolta nel processo la sola sostanza bianca, attualmente vi sono dimostrazioni inconfutabili di un coinvolgimento anche della sostanza grigia, con un depauperamento neuronale e un’atrofia corticale che può essere dimostrata alla RM.

Le placche sono composte da infiltrati perivenulari di cellule infiammatorie mononucleate (linfociti T, monociti/macrofagi, linfociti B e plasmacellule), assoni demielinizzati, numero ridotto di oligodendrociti, assoni recisi, una proliferazione astroctaria con una risultante gliosi.

Le lesioni possono inoltre essere suddivise in acute, croniche attive e croniche silenti. Esse mostrano una profonda eterogeneità nel pattern strutturale e immunopatologico di demielinizzazione e nella patologia degli oligodendrociti tra diversi pazienti. Ciò ha indotto a pensare all’SM non tanto come una singola malattia ma piuttosto come una sindrome5.

Sebbene sia tradizionalmente considerata una malattia autoimmune T-mediata, più recentemente è stato riscontrato un importante coinvolgimento dell’immunità innata67.

Possono essere distinte due fasi di malattia dal punto di vista patogenetico. Il primum movens della prima fase, verosimilmente consiste in un’attivazione di linfociti CD4+Th1 helper autoreattivi dirette contro antigeni presenti in periferia.

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a livello della superficie cellulare e dei recettori per le citochine, ed inducono la secrezione di citochine proinfiammatorie come IL2, interferon gamma (INF-g) e tumor-necrosis factor alpha (TNF-a), così come chemochine e metalloproteinasi della matrice(MMPs). Ciò determina una modificazione delle cellule endoteliali, rendendo possibile l’adesione delle cellule attivate all’endotelio e facilitando il loro passaggio attraverso la barriera ematoencefalica. Un ruolo rilevante è stato inoltre recentemente attribuito ad un’altra linea cellulare, cioè le cellule Th17.

Una volta all’interno del SNC, le cellule vengono nuovamente attivate da cellule locali presentanti l’antigene (APC) come la microglia o dalle cellule dendritiche che presentano antigeni locali all’interno del SNC.

Dalla riattivazione inizia il reclutamento e l’attivazione di ulteriori cellule dell’infiammazione (come cellule-B, cellule mieloidi, cellule NK), la secrezione di varie citochine, chemochine, metalloproteinasi della matrice ed altri mediatori e l’attivazione della microglia residente e degli astrociti. Inoltre, un elevato numero di cellule T MHC II CD8+ citotossiche in grado di riconoscere le proteine della mielina sono presenti sia a livello del bordo delle lesioni infiammatorie sia nelle regioni perivascolari, amplificando ulteriormente il danno alla mielina, agli oligodendrociti ed agli assoni, attraverso un danno antigene- e non-antigene specifico.

Le cellule B costituiscono una piccola parte degli infiltrati infiammatori, ma giocano un ruolo importante nel danno alla mielina attraverso la fissazione del complemento e la citotossicità anticorpo-dipendente, fungendo da importante APC e secernendo citochine e regolando la cellule T.

Il danno può essere mediato anche in modo non antigene-specifico, attraverso l’infiltrazione di macrofagi, di mast-cellule o della microglia reattiva e dei loro prodotti tossici e di un’ampia varietà di fattori umorali. Il danno indiretto supportato dagli astrociti può anche avvenire attraverso le cellule NK.

Nella patogenesi è inoltre coinvolta una disregolazione della risposta immunitaria. Alcuni sottotipi di cellule T regolatorie (Treg), hanno dimostrato essere disfunzionali nei pazienti SM, determinando una ridotta capacità di far fronte all’infiammazione distruttiva.

Le cellule T con fenotipo TH2 vengono reclutate nei siti d’infiammazione e down-regolano le cellule effettrici TH1 attivate producendo citochine antiinfiammatorie. Esse secernono anche elevati livelli di fattori neurotrofici che si pensa contribuiscano ai meccanismi di riparazione e di neuroprotezione. Esistono evidenze che la presenza di macrofagi fenotipicamente polarizzati (M1 e M2),

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possano guidare la risposta in senso di Th1 o TH2 così come le differenti risposte delle cellule B.

In questa fase il SNC, grazie a questi ultimi meccanismi descritti, riesce a controbilanciare il danno. In questa fase è possibile avere un completo recupero dalle ricadute con una restitutio ad integrum completa.

Il danno assonale si è dimostrato presente fin dalla prima fase di malattia, ma quando la perdita assonale supera le capacità riparative del SNC, allora si inizia ad avere comparsa di disabilità permanente e si entra nella seconda fase, cioè quella progressiva. Anche la demielinizzazione corticale ricopre un ruolo importante, ed in particolar modo questo è vero per le lesioni localizzate a livello subpiale, che

sono viceversa molto rare nella forma RR.8 9 10 Si verifica una

compartimentalizzazione dell’infiammazione ed una prevalenza di degenerazione assonale legata a disfunzioni mitocondriali e a danni da stress ossidativo. In questa fase le capacità di recupero del SNC sono scomparse. Clinicamente la RM encefalo non mostra più attività di malattia, ma la disabilità del paziente tende ad aumentare progressivamente.

§ DECORSO CLINICO

La sclerosi multipla viene generalmente suddivisa in 4 forme prevalenti11: la

forma recidivante-remittente, caratterizzata da un andamento a ricadute seguite da remissioni totali o parziali ed un’attività infiammatoria di fondo, stimabile circa nell’80-85% di diagnosi iniziali; una forma secondaria progressiva, che si manifesta in circa il 50% dei pazienti affetti da RR dopo circa 10 anni di malattia e nel 90% dei pazienti dopo 25 anni12 e che si caratterizza per una mancanza di attività

infiammatoria e di ricadute cliniche, ma dalla presenza di andamento lentamente ingravescente; un altro sottotipo di forma secondaria progressiva si caratterizza per un andamento a ricadute e progressione. Esiste poi la forma primaria progressiva (PP) che coinvolge circa il 15% dei pazienti, in cui l’andamento appare lentamente ingravescente ab inizio.

Altre forme aggiuntive di malattia includono: la CIS, o sindrome clinicamente isolata, che consiste in una forma di malattia che si caratterizza per un primo episodio clinico, senza rispettare i criteri diagnostici di malattia definita13.

La probabilità che una CIS evolva a sclerosi multipla clinicamente definita è elevata, e secondo studi clinici osservazionali prospettici è stimata tra il 16% ad 1 anno e l’80% a 25anni14 15. Tale rischio è fortemente incrementato se la RM basale

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incrementare il rischio solo moderatamente18. La RIS (sindrome radiologicamente

isolata) consiste nel riscontro accidentale alla RM di lesioni compatibili con la malattia, ma senza evidenza clinica di malattia; la forma benigna è in realtà un’entità estremamente discussa, in cui il paziente rimane completamente funzionale in tutti i sistemi neurologici a 15 anni dall’esordio di malattia; la forma maligna, o fulminante, è invece una forma rara con una rapido decorso, e che comporta un disabilità significativa in più di un sistema neurologico o addirittura la morte dopo poco tempo dall’esordio; la forma a singolo attacco e progressione è anch’essa forma rara generalmente considerata un sottotipo di SPMS in cui vi è un solo attacco iniziale, seguito da progressione; infine, la sclerosi multipla transizionale, cioè la fase compresa tra la RR e la SP, passaggio che spesso avviene con un processo graduale19.

Tale classificazione è stata pubblicata nel 1996 da un consensus di esperti, la US National Multiple Sclerosis Society (NMSS)Advisory Committee on Clinical Trials in Multiple Sclerosis20. Nel 2011 vi è stata una reanalisi di tali definizioni dei

fenotipi, sempre da parte della Committee, ancora legata alla NMSS, ma ulteriormente supportata dalla European Committee for Treatment and Research in MS ed altri esperti (The MS Phenotype Group), per esplorare gli avanzamenti sia dal punto di vista clinico, che di neuroimaging e di biomarkers che si sono avuti negli anni. Nel 2012 il gruppo si è quindi riunito al fine di stabilire la validità e l’attualità dei precedenti fenotipi. Ne sono emersi dei punti chiave: le caratteristiche di fondo delle precedenti definizioni dei fenotipi devono essere mantenute, ovviamente con modifiche e chiarimenti. Il fenotipo clinico dovrebbe essere definito in base allo stato di malattia corrente e sui dati anamnestici, comprendendo però che il processo di fondo è dinamico e che il fenotipo può mutare nel tempo. La CIS, con i criteri diagnostici di Mc Donald’s rivisti nel 2010, è un’entità che sarà meno presente, in quanto vi è la possibilità di fare diagnosi di SM già al primo episodio clinico, qualora lo scan di RM al basale mostri già una disseminazione nel tempo e nello spazio21. La RIS non dovrebbe

essere considerata un’entità a sé e dovrebbe essere monitorata nel tempo.

Particolarmente rilevante diventa la definizione di SPMS, in quanto attualmente non vi sono chiari elementi clinici, radiologici, immunologici o patologici per determinare la transizione da una forma RR ad una forma SP. La forma PPMS rientra in uno spettro dei fenotipi progressivi di malattia e gli studi di storia naturale di malattia hanno dimostrato che i processi di peggioramento sono simili nelle due forme22 23. D’altra parte la forma PP dovrebbe rimanere un’entità clinica

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separata per l’assenza di ricadute prima della fase di progressione, ma le basi fisiopatologiche di fondo non sembrano essere diverse da quelle delle forme RR che entrano in fase SP.

Una modifica ai fenotipi-base proposta, consiste nell’incorporare insieme l’attività di malattia e la progressione di malattia. Fino ad ora i fenotipi sono stati distinti in relapsing o progressive a seconda dello stato clinico attuale ed in base alla storia clinica. Tale definizione non fornisce però alcuna informazione temporale né sul processo patologico in corso. L’MS Phenotype Group ritiene che l’attività di malattia, intesa come ricadute cliniche o modificazioni alla RM (lesioni captanti gadolinio o lesioni nuove o allargate), così come la progressione di disabilità, possano essere applicati come parametri di valutazione sia per il fenotipo recidivante che per il fenotipo progressivo.

L’attività di malattia deve essere valutata almeno annualmente attraverso la clinica e la RM per quanto riguarda la forma a ricadute; non esiste un consensus per quanto riguarda le tempistiche della forma progressiva.

Un fenotipo RR può essere considerato “attivo”, quando presenti ricadute e/o movimento alla RM, oppure “non attivo”, quando non vi siano ricadute, né modifiche alla RM durante il periodo di valutazione.

Considerare l’attività come una variante del decorso clinico di base, permette di eliminare la forma PRMS (progressive-relapsing), in quanto un paziente con fenotipo PP che presenti una ricaduta, sarà considerato un paziente PP-attivo. Nel caso in cui non si abbia attività di malattia, verrà definito PP-non attivo.

Anche la progressione diventa una variante di un fenotipo clinico di fondo, e si basa sulla presenza o meno di progressione, indipendentemente dalla presenza di ricadute, in pazienti che abbiano una forma progressiva di malattia, sia PP che SP. La progressione non avviene in modo uniforme, ed una malattia può presentarsi come stabile per lunghi periodi24 25. Viene suggerita una valutazione

annuale della progressione, attraverso la storia clinica e misure oggettive di cambiamento. Da ciò ne deriva che, ad esempio, pazienti con decorso PP che non abbiano presentato segni di progressione nell’ultimo anno, vengano considerati PP-non progressivi. Un paziente SP con progressivo peggioramento e con lesioni gadolinio-captanti, verrà definito come SP-attivo e progressivo. Viene infine sottolineata l’importanza di ulteriori studi per definire il ruolo delle neuroimmagini e dei markers biologici per definire, confermare o rivedere i diversi fenotipi.

Clinicamente la malattia si manifesta in modo proteiforme, potendo essere coinvolti tutti i sistemi funzionali. I diversi sistemi possono essere coinvolti

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singolarmente o in contemporanea. Esordi tipici sono quelli con neurite ottica retrobulbare (NORB) o con sintomatologia parestesica, motoria o cerebellare, diplopia, disturbi dell’equilibrio, vertigini e sensazione soggettiva di instabilità. Sintomi aggiuntivi possono essere deficit sfinterici e sessuali e la spasticità. Particolarmente invalidante è poi la fatica, la quale presenta verosimilmente una duplice natura infiammatoria e degenerativa, e la fatica mentale. Inoltre, possono essere presenti dolore neuropatico, depressione o cambiamenti emozionali, ed il segno di Lhermitte. I deficit cognitivi sono attualmente prepotentemente saliti alla ribalta, avendo scoperto che sono presenti, fin dalle prime fasi di malattia, difficoltà soprattutto nei domini della attenzione sostenuta e della velocità di processazione dell’informazione.

La disabilità che si accompagna alla progressione della malattia viene misurata tramite scale. La più frequentemente utilizzata è la scala EDSS, una scala di disabilità che va da 0 a 10 (Fig1). Tali scale tengono però conto quasi esclusivamente della capacità deambulatoria, soprattutto quando viene raggiunto il milestone di 6, che è il punto in cui è richiesto un appoggio monolaterale nella deambulazione, e che viene raggiunto in media a 15anni dall’esordio.

Sono stati individuati numerosi fattori prognostici di peggior decorso o di più rapido decorso di malattia o di conversione da CIS a SM. Vengono inclusi tra questi: età superiore ai 40anni all’insorgenza; etnia asiatica o afro-americana; esordio con sintomi motori, cerebellari e sfinterici oppure sintomatologia polifocale; recupero incompleto dopo il primo attacco; recidive frequenti durante il primo anno di malattia; breve intervallo tra due ricadute; rapida progressione della disabilità durante il primo anno; decorso progressivo ab initio; presenza di disturbo cognitivo fin dall’esordio; presenza di bande di immunoglobuline oligoclonali nel liquor; elevato carico lesionale o captazione di gadolinio alla RM iniziale.

§ DIAGNOSI

La diagnosi di Sclerosi Multipla è ancora una diagnosi in primo luogo clinica e si basa sulla presenza di segni e sintomi attribuibili a lesioni della sostanza bianca distribuite nel tempo e nello spazio e sull’esclusione di situazioni che possono mimare la SM. Non esiste attualmente un singolo esame di laboratorio che possa essere diagnostico. Esistono però esami di supporto alla diagnosi, come l’analisi del liquor, che presenta incremento della concentrazione di immunoglobuline e la presenza di bande oligoclonali nel 90% dei pazienti. Anche un aumento della latenza dei potenziali evocati visivi, somatosensoriali ed acustici, così come un

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aumento del tempo di conduzione motoria centrale ai potenziali evocati motori sono elementi caratteristici di demielinizzazione e possono dar conto di lesioni clinicamente silenti.

§ DIAGNOSI DIFFERENZIALI

Ancora d’importanza fondamentale per la diagnosi di sclerosi multipla rimane il concetto di “no better explanation”, cioè l’assoluta certezza di aver escluso ogni possibile condizione che possa mimare la malattia, specie nelle situazioni in cui il quadro clinico non appare limpido.

Nel 2008 è stato sviluppato un consensus da parte di esperti internazionali, per le diagnosi differenziali in SM26. Le red flags (Tab 1) includono caratteristiche

neurologiche che vanno dalla presenza del diabete insipido a sintomi extrapiramidali alla cefalea. Sono stati inoltre considerati sintomi sistemici associati, come artralgie e sintomi gastrointestinali.

Studi prospettici hanno dimostrato che fondamentalmente sono due gli elementi principali che devono indurre a pensare a diagnosi alternative, e cioè la mancanza di elementi clinici come neurite ottica, segno di Lhermitte, livelli sensitivi, vescica neurologica ed altri sintomi tipici, e la mancanza di elementi tipici alla risonanza magnetica e all’esame del liquor. Una lista parziale delle condizioni che devono essere poste in diagnosi differenziale è riportata in Tab 2.

In particolare, a seconda delle presentazioni cliniche che si manifestano al primo episodio, è necessario distinguere diverse condizioni27. Nel caso in cui la

prima manifestazione sia di tipo visivo, la mancanza di tipicità di una neurite ottica retrobulbare, che si caratterizza per perdita del visus di vario grado, solitamente monolaterale, ma talora bilaterale, quasi sempre associata a dolore nel movimento dell’occhio, con deficit nella visione dei colori e nel contrasto, sensazione di abbagliamento, che duri per un paio di settimane con regressione spontanea, deve indurre a pensare ad altre possibili cause. Ad esempio la neuromielite ottica, ma anche altre patologie di pertinenza autoimmune o puramente oculistiche.

Nel caso in cui la prima manifestazione sia una sindrome del tronco encefalico o cerebellare, i sintomi classici sono rappresentati da diplopia, che può essere dovuta ad una oftalmoplegia internucleare spesso bilaterale, oppure ad una paresi del VI n.c; atassia con nistagmo, sintomi sensitivi a carico del volto, vertigini e sintomi parossistici come disartria e vertigini parossistiche, della durata variabile da secondi a minuti e con recupero nel giro di 24 ore28. Come nel caso delle neurite

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regredire almeno parzialmente in modo spontaneo in qualche settimana. Un esordio acuto deve indurre a pensare ad altre eziopatogenesi, ad esempio una genesi vascolare. L’esordio di sintomi di tronco che siano progressivi e con persistente enhancement alla RM, dovrebbero far nascere il sospetto di altre eziologie, come sarcoidosi, isitiocitosi, sindrome di Bechet, neoplasie, infezioni incluse il Morbo di Whipple e la tubercolosi oppure un’infiammazione cronica linfocitaria con enhancement perivascolare pontino responsiva agli steroidi

(CLIPPERS29) (Tab3).

Sintomi cerebellari progressivi dovrebbero insinuare il dubbio di una atassia spinocerebellare ereditaria o di una sindrome paraneoplastica.

Una sindrome midollare da Sclerosi Multipla si caratterizza solitamente per una mielite trasversa parziale, con sintomatologia sensitiva associata. Talora può manifestarsi una sindrome di Brown-Sequard parziale. Sono spesso presenti sintomi sfinterici, prevalentemente a carico della vescica, più che dell’intestino. Comune è il segno di Lhermitte30. Anche in questo caso l’andamento della

sintomatologia è subacuto, raggiunge l’apice in qualche giorno ma non dovrebbe eccedere le 3 settimane31, e fa seguito un recupero spontaneo. Se l’insorgenza della

sintomatologia è iperacuta, se la distribuzione del deficit è compatibile con il territorio dell’arteria spinale anteriore e non vi è recupero, l’eziologia vascolare deve essere immediatamente considerata. Viceversa, un’evoluzione più lenta della sintomatologia deve indurre ad effettuare ulteriori accertamenti per escludere deficit di Vitamina B12 o di rame, lesioni strutturali come nelle spondilosi cervicali, infezioni come HIV o HTLV.

Per quanto riguarda i reperti di risonanza magnetica, tipicamente le lesioni midollari si localizzano perifericamente nella parte dorsolaterale del midollo. La lunghezza è solitamente inferiore a 2 segmenti vertebrali ed occupano meno della metà della sezione assiale del midollo. Quando una lesione è localizzata centralmente o si estende per più di 3 segmenti vertebrali, deve sorgere il sospetto di NMO32.

Oltre a caratteristiche cliniche, descritte successivamente, anche le caratteristiche di risonanza magnetica possono indurre la ricerca di diagnosi differenziali. In particolar modo, la disposizione e la forma delle lesioni è altamente suggestiva, così come la captazione di gadolinio che solitamente è presente per 4-6 settimane. Captazioni che durino oltre i 3 mesi devono far pensare ad altre eziologie33, come sarcoidosi, vasculiti, linfomi o altre neoplasie o

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§ LA RISONANZA MAGNETICA

La Risonanza Magnetica è attualmente l’indagine di elezione per la diagnosi ed il monitoraggio della malattia34 35. Sono state messe a punto delle linee guida per

l’utilizzo della risonanza magnetica nella pratica clinica quotidiana36, da parte della

Società Italiana di Neurologia e Neuroradiologia per tentare di stabilire delle procedure standard per il monitoraggio del decorso e della risposta terapeutica. Nei pazienti in cui vi sia il sospetto di SM, la risonanza magnetica viene utilizzata per stabilire la disseminazione spazio-temporale, ed il suo utilizzo è formalmente incluso nei criteri diagnostici37. Tipicamente una RM encefalo standard in una SM

si caratterizza per la presenza di lesioni iperintense in T2, in densità protonica ed in FLAIR, ed ipointense o isointense in T1. Solitamente ovoidali o allungate, di piccole dimensioni (ma talvolta è possibile avere lesioni giganti), le lesioni si localizzano a livello periventricolare, in sede iuxtacorticale, nelle regioni infratentoriali (tipicamente lungo il pavimento del IV ventricolo o sulla superficie del ponte) e a livello midollare. Solitamente sono disposte perpendicolarmente ai ventricoli, in posizione radiale, così da dare origine alle cosiddette “Dawson Fingers” alle immagini sagittali38; coinvolgono il corpo calloso (in particolare a

livello dell’interfaccia setto-callosale) e le fibre a U. Le lesioni attive si caratterizzano per captazione di Gd nelle sequenze in T1. Particolarmente rilevanti, sia ai fini prognostici, ma anche per la disabilità del paziente, sono le lesioni a livello midollare. Con le tecniche avanzate di RM, non routinariamente utilizzate, è possibile avere informazioni importanti sui danni microstrutturali sia della sostanza bianca che della sostanza grigia, potendo rilevare l’atrofia corticale e la degenerazione assonale, nonché sul rilevamento della sostanza bianca apparentemente normale.

§ I CRITERI DIAGNOSTICI

I criteri di diagnosi attualmente utilizzati sono quelli di Mc Donald rivisti ed aggiornati nel 201039, in cui vi è stata un’estrema semplificazione ed hanno

permesso una diagnosi precoce.

Permane come elemento fondamentale la dimostrazione della

disseminazione nello spazio e nel tempo, facilitata dall’utilizzo dei criteri Swanton/MAGNIMS (Magnetic Imaging in Multiple Sclerosis). La definizione di disseminazione nello spazio (DIS) è stata semplificata, ed include almeno 1lesione in T2 in almeno 2 delle 4 localizzazioni chiave: juxtacorticale,

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periventricolare, infratentoriale e midollare. La captazione di gadolinio non è più necessaria per la DIS. I criteri della disseminazione spaziale sono stati modificati così da includere qualsiasi lesione captante gadolinio o lesioni in T2 ad una RM di follow up successiva praticata in qualsiasi momento o la contemporanea presenza di lesioni pregresse e recenti (captanti Gd, quindi attive) ad una RM effettuata in qualsiasi momento40. Ciò implica che la DIT può essere determinata anche

attraverso la sola RM basale, e quindi permette una diagnosi estremamente precoce, già al momento della forma CIS, e conseguentemente un precoce inizio di terapia. L’esame del liquor non pare più strettamente necessario, se non nei casi non eclatanti e con lo scopo di effettuare una diagnosi differenziale. Vero è che attualmente in Italia l’esame del liquor viene ancora praticato a sostegno della diagnosi. Il tipico esame del liquor della SM mostra solitamente un lieve incremento proteico, ma soprattutto dirimenti sono le bande oligoclonali, indici di sintesi intratecale e di infiammazione attiva. Inoltre, il liquor viene spesso utilizzato per la ricerca di biomarkers che correlino con l’attività di malattia. E’ necessario comunque tener conto che in un 10% dei casi non vi è la presenza di BOG. Viceversa, il riscontro di sintesi di IgM è stata correlata ad un andamento più aggressivo della malattia.

§ STRATEGIE TERAPEUTICHE

Si distinguono due modalità di approccio terapeutico: l’escalation therapy e la induction therapy41. La prima modalità viene definita come “una strategia

terapeutica basata su una ragionevole valutazione di azione in cui i farmaci con il miglior profilo rischio/beneficio sono preferibili in prima battuta e, se necessario, solo successivamente vengono utilizzate terapie più potenti o con profilo di sicurezza minore”42. Chiaramente il nodo focale di questa strategia è ottenere un

rapporto/rischio beneficio accettabile, sebbene il concetto di “accettabile” possa variare con il grado di severità della patologia (Tab4).

Non deve inoltre essere dimenticato il grado di accettazione da parte del paziente e l’impatto sulla sua qualità di vita.

Tale modalità di approccio è ben consolidata e prevede l’utilizzo iniziale di farmaci di prima linea immunomodulanti. I farmaci utilizzati fino ad ora sono stati di due classi: gli interferoni e il copaxone. Attualmente in commercio esistono Interferone beta1a a due dosaggi, 22mcg e 44 mcg, da effettuare s.c 3 volte a settimana, oppure da effettuare im 1volta/sett; interferone beta1b ad alto dosaggio da effettuare sc a giorni alterni; copaxone, da effettuare sc tutti i giorni. Gli studi

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clinici hanno mostrato un profilo di efficacia molto simile ed un profilo di tollerabilità molto buono. L’efficacia effettiva sugli endpoint di ricadute e risonanza si attesta però sul 30%, mentre pare estremamente modesto l’impatto sull’accumulo di disabilità.

Lo switch avviene verso farmaci di seconda linea, più potenti, appartenenti alla classe degli immunosoppressori. Questi sono rappresentati dal Natalizumab e dal Fingolimod.

Natalizumab43 è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto selettivamente

contro la subunità alfa4 del “very late antigen 4”, un’integrina presente sulla superficie di linfociti e monociti, che ne permette l’adesione all’endotelio vascolare dell’encefalo, e quindi la trasmigrazione attraverso la barriera ematoencefalica. Impedendo tale meccanismo, le cellule del sistema immunitario non hanno accesso al SNC e quindi non vengono innescati i meccanismi lesionali della SM. Il Natalizumab si è dimostrato efficace sia nel prevenire le ricadute cliniche (riduzione del 68% rispetto a placebo) che nella progressione della disabilità calcolata all’EDSS (riduzione del 42% rispetto a placebo), sia nelle misure di risonanza magnetica. La somministrazione è endovena a cadenza mensile.

Dal punto di vista della safety, il farmaco è generalmente ben tollerato, con un lieve incremento dell’incidenza delle infezioni. L’effetto collaterale più importante è la possibilità di sviluppare una encefalopatia multifocale progressiva da JC (John Cunningham) virus, un’infezione del sistema nervoso centrale caratterizzata da alterazioni cognitive, motorie o visive, che possono indurre a disabilità irreversibile o alla morte. Attualmente non sono disponibili terapie efficaci4445.

Il JCV è ubiquitario e riscontrabile in circa il 50-60% della popolazione sana. Raramente la PML si sviluppa in soggetti immunocompetenti; solitamente la malattia si sviluppa in soggetti fortemente immunodepressi per trattamenti immunosoppressivi o per patologie come AIDS. Probabilmente il Natalizumab induce un’interruzione dell’immunosorveglianza e quindi una fuoriuscita del JCV sequestrato negli organi periferici ed un suo ingresso nel SNC, oppure una riattivazione di un’infezione primaria del SNC.

Attualmente è stata messa a punto una strategia di sorveglianza e prevenzione dell’infezione, tenendo conto che il rischio di sviluppare la PML nei pazienti sottoposti a terapia con Natalizumab aumenta con il riscontro di anticorpi anti-JCV, di una durata di terapia superiore ai 2 anni e con la precedente assunzione di farmaci immunosoppressori. Attraverso l ‘analisi di questi dati è

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stato possibile effettuare una stratificazione del rischio (Tab 5). La sieroconversione nei pazienti inizialmente anticorpo-negativi è stata stimata di circa 1-2% all’anno. La vigilanza dei segni precoci di malattia, come disturbi progressivi dell’eloquio, emiparesi, crisi comiziali, anche nei pazienti sieronegativi, è di estrema importanza. I pazienti sieropositivi dovrebbero essere sottoposti a monitoraggio frequente di RMN dell’encefalo per poter cogliere i segnali precoci di PML. In caso di malattia conclamata, è necessario sospendere immediatamente il trattamento con Natalizumab, effettuare un’analisi del liquor effettuando la PCR per JCV DNA, ed effettuare la plasmaferesi per rimuovere il farmaco dall’organismo il più velocemente possibili46 47. A questa procedura si aggiunge il

rischio derivante dalla sindrome da immunoricostituzione, o IRIS, che deve essere trattata con steroidi ad alte dosi.

A causa di questi problemi, Natalizumab viene riservato solitamente ai pazienti che presentano un peggioramento clinico o radiologico della malattia, nonostante la terapia di fondo con immunomodulanti. Talora viene utilizzato come prima linea nelle forme di malattia particolarmente aggressive.

Un ulteriore difficoltà che è emersa dagli studi, è la riattivazione di malattia alla sospensione del farmaco, e in alcuni casi un effetto rebound con un’aggressività di malattia maggiore della fase pre-Natalizumab4849.

Altro farmaco considerato di II linea nella strategia di escalation è il Fingolimod.

Fingolimod è un farmaco orale con un meccanismo d’azione originale rispetto agli immunosoppressori veri e propri. E’ un agonista del recettore della sfingosina 1 fosfato (S1P), attraverso il legame con 4 dei 5 sottotipi di recettori, sebbene agisca come un antagonista funzionale. Esso impedisce la fuoriuscita delle cellule immunitarie dai linfonodi, meccanismo mediato dai recettori S1P. Il sequestro dei linfociti a livello dei linfonodi ne impedisce la capacità di penetrare nel SNC dando origine ai meccanismi infiammatori alla base delle lesioni, ed inducendo una blanda linfopenia. Inoltre, il Fingolimod è in grado di penetrare direttamente nel SNC, supportando la glia che esprime i recettori S1P50.

Gli effetti collaterali del fingolimod sono legati da una parte alla linfopenia, dall’altra alla presenza dei recettori S1P su altri tessuti. Un rischio elevato pare essere legato alla riattivazione del virus della Varicella-Zoster, per cui è necessario prima della somministrazione del farmaco avere la certezza della sieropositività a tale virus e, nel caso il soggetto sia sieronegativo, procedere con la vaccinazione.

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legati alla funzionalità cardiaca. Poiché i recettori S1P si ritrovano a livello delle cellule muscolari lisce, Fingolimod è controindicato nei soggetti che abbiano avuto un infarto del miocardio nei 6 mesi precedenti, che abbiano avuto patologie cerebrovascolari sintomatiche o insufficienza cardiaca, nonché che presentino un blocco atrio-ventricolare tipo Mobitz II secondo grado e terzo grado o malattia del seno, un QTc superiore a 500ms o che siano in trattamento con antiaritmici di classe Ia o III°. Per la possibilità che si verifichi bradicardia, alla prima somministrazione è richiesto un monitoraggio elettrocardiografico continuo per 6 ore51.

Altro effetto collaterale segnalato (0.5%), è lo sviluppo di edema maculare (solitamente reversibile), che richiede un monitoraggio dopo i primi 3 mesi di farmaco. Tale rischio è più elevato nei pazienti con diabete mellito o pregresse uveiti e tali soggetti dovrebbero essere sottoposti a monitoraggio annuale52.

Altri potenziali effetti collaterali includono l’ipertensione, la riduzione asintomatica nella capacità forzata vitale polmonate ed elevazione delle transaminasi epatiche. E’ stato recentemente riportato un caso di PML in un paziente che assumeva Fingolimod da 7 mesi e che non aveva precedentemente assunto Natalizumab: tale aspetto è ancora sotto indagine53. Ha dimostrato

un’efficacia superiore sia rispetto ad INF beta1a che a placebo sia sulle misure di ricadute cliniche, con una riduzione del relapse rate vs placebo del 50%, sia sull’attività di RM54 55.

L’induction therapy rappresenta un approccio più aggressivo in cui vengono utilizzati potenti farmaci immunosoppressori fin dall’inizio, al fine di stroncare il processo sottostante la malattia in modo forte e precoce. Lo scopo è ottenere un riassetto del sistema immunitario, evitando la diffusione degli epitopi ed il danno strutturale precoce.

Tutti gli immunosoppressori utilizzati presentano un rischio elevato di effetti collaterali anche gravi, e quindi tale strategia viene solitamente riservata ai pazienti con una malattia estremamente aggressiva fin dall’inizio. In questi pazienti il rischio di una disabilità precoce ed invalidante è elevato e supera quello legato all’utilizzo di immunosoppressori potenti.

La modalità si articola in una iniziale somministrazione di immunosoppressori per il tempo minimo indispensabile ad ottenere il controllo dell’attività di malattia, limitando il più possibile il periodo di esposizione e quindi cercando di ridurre l’eventuale sviluppo di effetti collaterali severi. Una volta ottenuto il controllo di malattia, si passa alla fase di mantenimento con farmaci

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immunomodulanti, meglio tollerati e con un profilo di rischio migliore.

L’immunosoppressore che primariamente è stato utilizzato è il Mitoxantrone, seguito da interferoni o da copaxone. I risultati di tale approccio hanno mostrato una rapida e persistente soppressione dell’attività di malattia56.

Accurati studi in proposito sono stati condotti da Edan e coll57.

Altri immunosoppressori candidabili all’utilizzo nell’Induction Therapy sono il Natalizumab, ma ancor di più l’Alentuzumab, la cui somministrazione a single pulse (20mg per 5 giorni consecutivi) induce una deplezione persistente del 95% dei linfociti circolanti58. Alla ricostituzione del sistema linfocitario, prevalgono le

cellule T con fenotipo TH2 anti-infiammatorio, al posto delle TH1 proinfiammatorie che dominavano prima di Alentuzumab59 , dimostrazione del

fatto che avviene effettivamente un riassetto del sistema immunitario successivo alla fortissima immunosoppressione.

Ciò non avviene nei pazienti entrati ormai in fase progressiva di malattia, in cui la disabilità continua a procedere nonostante il trattamento60. Se ne deduce che

il periodo finestra in cui effettivamente è possibile agire ed ottenere risultati è precoce, quando cioè con l’abolizione del processo infiammatori da parte di Alentuzumab è possibile ottenere una riduzione dell’accumulo di disabilità. Tali vantaggi vengono però ottenuti a fronte di frequenti effetti collaterali estremamente importanti: 1/3 dei pazienti sviluppa un ipertiroidismo autoimmune mediato dallo sviluppo di anticorpi anti recettore della tireotropina. Sono state inoltre riportate malattie autoimmuni a carico dei reni, la porpora trombotica trombocitopenica idiopatica insieme con linfopenia persistente e maggior rischio di infezioni.

Nei casi di malattia particolarmente aggressivi, esiste inoltre la possibilità di trapianto autologo di cellule staminali. Anche in questo caso gli effetti collaterali possono essere estremamente pesanti fino ad arrivare al decesso61.

La ricaduta clinica di malattia viene solitamente trattata con boli steroidei ad alto dosaggio per un periodo di tempo compreso tra i 3 ed i 5 giorni.

Nuovi farmaci orali sono stati approvati e giungeranno presto sul mercato italiano. Questi sono il BG12, la teriflunomide I primi due hanno mostrato un’efficacia superiore agli interferoni, ma inferiori agli immunosoppressori. La loro collocazione sarà quindi tra queste due categorie di farmaci.

La teriflunomide è un farmaco orale somministrato una volta al giorno. Esso è un metabolita attivo del farmaco utilizzato nell’artrite reumatoide leflunomide. Il meccanismo di azione si basa sull’inibizione dell’enzima diidrorotato deidrogenasi,

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convolto nella sintesi de novo delle pirimidine durante la proliferazione cellulare (ma non nelle cellule a riposo62). Sono stati approvati due dosaggi di farmaco, 7 e

14 mg/die, in base a due larghi studi registrativi vs placebo in cui veniva dimostrato un’efficacia superiore sia nell’outcome primario di relapse rate, sia negli endpoint di risonanza. L’effetto sulla progressione di disabilità è stata però dimostrata solo per il dosaggio più elevato6364.

Dal punto di vista di safety è un farmaco ben tollerato. Gli effetti collaterali più comuni sono stati linfopenia ed elevazione delle transaminasi, ipertensione, nausea, diarrea, neuropatie periferiche (1-2%), insufficienza renale acuta (1%) ed alopecia6566.

Il farmaco è inoltre teratogeno e con lunga emivita. E’ controindicato in gravidanza e viene escreto nel latte materno. La sua estesa emivita (18-19giorni) è legata alla circolazione enteroepatica e possono essere richiesti da due mesi fino ai 2 anni per un’eliminazione completa del farmaco dall’organismo67.

L’eliminazione può essere accelerata tramite la somministrazione di colestriramina in circa 11 giorni68.

Tali aspetti rendono il farmaco meno adatto a certe tipologie di pazienti, in particolare donne in età fertile con la prospettiva di avere figli a breve termine o soggetti che abbiano precedenti per patologie epatiche.

Il BG-12, o dimetilfumarato, è un farmaco orale somminsitrato due volte al giorno. Con l’ingestione, subisce un meccanismo di idrolizzazione a monometil fumarato, che viene eliminato con la respirazione ed ha una minima escrezione epatica e renale. Il meccanismo d’azione non è completamente ben chiarito, ma ciò che è noto è che il BG12è in grado di attivare la via del nuclear-related factor2 (NRf2) che riduce lo stress ossidativo cellulare e modula l’attività del fattore nucleare kB che potrebbe avere effetti antiinfiammatori6970.

L’acido fumarico è già noto in quanto già utilizzato in ambito dermatologico per la cura della psoriasi. Il suo profilo di tollerabilità e di sicurezza è quindi già noto.

In due studi sono stati comparati due dosaggi di BG12 (rispettivamente 240mg 2 o 3 volte/die) vs placebo. In entrambi i casi vi è stata una superiorità del farmaco per quanto riguarda l’endpoint di ricadute cliniche (annual relapse rate) e quello di RM. Il BG12 ha mostrato maggior efficacia anche paragonato a Copaxone. Non ha dimostrato però superiorità per quanto riguarda la progressione all’EDSS71.

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flushing (30%), autolimitantesi e ridotto dall’assunzione di aspirina o assumendo il farmaco con il cibo; sintomi gastrointestinali come nausea, dolore addominale, diarrea (che durano dalle 2 alle 4 settimane). In un 30% dei casi è stata riportata una riduzione della conta linfocitaria, che dunque richiede una monitorizzazione costante.

Il buon profilo di tollerabilità e la sicurezza a lungo termine già nota, fanno collocare ragionevolmente il farmaco nella prima linea di trattamento.

Ancora non approvati, ma in avanzata fase di studio, sono: l’ocrelizumab, un anticorpo monoclonale umanizzato anti CD20, simile al rituximab, il quale è in grado di sopprimere i linfociti B (eccetto i progenitori delle cellule B e le plasmacellule) determinando una deplezione dei linfociti B per 6-9 mesi ma con minimo effetto sulla produzione di immunoglobuline. Due studi comparativi di alto e basso dosaggio vs placebo ed INFb1-a hanno dimostrato benefici significativi sia sul relapse rate che sugli endpoint di risonanza72. Sono attualmente

in corso due studi di fase 3 per la forma RR ed 1 studio di fase 3 per la PP.

Il laquinimod è un derivato del farmaco immunomodulante linomide, il cui sviluppo era stato bloccato dopo casi di morte per cause cardiovascolari durante uno studio di fase 3. Il meccanismo di azione è sostanzialmente ignoto. Sono stati conclusi due studi di fase 3, entrambi vs placebo e vs un comparatore attivo (INF beta1a)73 74. I risultati hanno mostrato solo un modesto effetto sia su ricadute che su

attività di risonanza. Ulteriori studi sono necessari per chiarire un possibile effetto sulla progressione dell’EDSS e sulla neuroprotezione.

Daclizumab è anch’esso un anticorpo monoclonale umanizzato che presenta elevata affinità per la subunità alfa (CD25) del recettore dell’interleuchina2, espresso sulle cellule T attivate7576.

Gli effetti clinici e di risonanza sembrano essere legati all’espansione delle cellule CD56+(bright) natural killer, un meccanismo d’azione del tutto nuovo77.

Uno studio di fase 2b della durata di un anno vs placebo ha mostrato una superiorità del daclizumab. I principali effetti avversi sono stati reazioni cutanee ed elevazione degli enzimi epatici78.

Farmaci sintomatici

Accanto a questi farmaci disease modifying sono disponibili farmaci sintomatici, in particolare per la spasticità, come il Sativex, una miscela di tetraidrocannabinolo e cannabidiolo in rapporto 1:1, il quale viene somministrato in add on ad altri farmaci antispastici classici quali il baclofen. La formulazione è concepita in modo tale da eliminare gli effetti psicotropi della cannabis,

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mantenendo quelli rilassanti sulla muscolatura.

Altro farmaco sintomatico è la Fampridina, il cui utilizzo è indirizzato per aumentare la velocità del cammino. Anche in questo la formulazione di 3-4 diidropiridina appare più stabile di quella galenica che viene utilizzata frequentemente, garantendo un rilascio non pulsatile ma costante, e riducendo conseguentemente l’effetto epilettogeno che si ha nel caso di superamento di una determinata soglia.

La tossina botulinica viene utilizzata frequentemente e con ottimi risultati, specie nelle forme di spasticità localizzata, sebbene il suo utilizzo nella Sclerosi Multipla sia ancora off-label.

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Razionale dello studio

 

Per la variabilità e l’imprevedibilità insite nella malattia stessa, la possibilità di poter definire criteri univoci per il fallimento di una terapia è estremamente difficile. Inoltre, esistono fattori che verosimilmente sono fattori prognostici indipendenti dalla somministrazione di farmaci, e che inquinano ulteriormente il quadro. I farmaci utilizzati, d’altra parte, hanno un’efficacia solo parziale, e anche questo dato apre un ampio margine d’incertezza. Infine, il recupero dalle ricadute avviene anche in modo spontaneo, indipendentemente dalla terapia79.

Secondo Rudick80 “breakthrough disease is the rule, not the exception”. Per

breakthrough diease s’intende il momento in cui si ha una variazione in senso negativo della malattia, che può essere clinico o radiologico. In circa 2/3 dei pazienti è presente a 2 anni dall’inizio della terapia immunomodulante, sia con interferone che con copaxone, la presenza di ricadute o nuove lesioni alla RM.

Attualmente viene consigliato un inizio precoce della terapia, con il duplice scopo di ridurre il numero di ricadute ed il sottostante meccanismo infiammatorio nell’immediato e quindi di prevenire l’accumulo di disabilità irreversibile, ritardando o impedendo lo shift di malattia da fase RR a fase SP. Poiché le immunoterapie attualmente a nostra disposizione sono solo parzialmente efficaci, la sfida è quella di individuare a priori il trattamento più efficace nel singolo paziente, cosa che attualmente non siamo in grado di fare. Quindi, al momento, è importante riuscire a capire quando e come modificare il trattamento nei pazienti con un’inadeguata risposta alla terapia di prima linea. E’ inoltre altrettanto fondamentale capire come gestire quei pazienti che presentano un decorso aggressivo ab initio e un elevato rischio di progressione precoce81.

La creazione di uno score-system ha il compito di fornire indicazioni decisionali quantitative, basate sull’evidenza, attraverso l’integrazione dei diversi parametri che sono in relazione all’attività di malattia82.

I parametri che solitamente vengono utilizzati per la valutazione dell’andamento clinico della malattia sono le ricadute, la RM e la progressione della disabilità.

La definizione di ricaduta clinica è quella di un nuovo sintomo o il peggioramento di un sintomo preesistente, che duri per più di 24 ore, che insorga ad almeno 30 giorni di stabilità clinica e che sia confermato da un reperto oggettivo all’esame clinico83.

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I cambiamenti alla RM, in particolare la presenza di nuove lesioni in T2 o di lesioni captanti il Gd nelle sequenze T1, sono lo specchio dei processi patogenetici che sottindendono alla malattia stessa. Per tale motivo vengono considerati come indice di attività di malattia84.

Una revisione di diversi studi clinici ha evidenziato come anche il concetto stesso di responder e non-responder ad una terapia è estremamente variabile tra i diversi autori e come siano stati utilizzati parametri diversi nei diversi lavori. Infatti di volta in volta è stato considerato l’incremento di un punto all’EDSS confermato a 6 mesi (ma indipendentemente dalla durata dell’osservazione, e che assume quindi significato diverso se tale modificazione compare ad 1 anno, a 2 anni o più dall’esordio della malattia)85 86; la combinazione di progressione all’EDSS e/o

ricadute87; la variazione nel tasso di annuale di ricadute comparato con la

frequenza di ricadute pre-trattamento88; la presenza/assenza di lesioni attive alla

RM durante il trattamento e addirittura il passaggio stesso da un farmaco ad un altro89. Quindi, filo conduttore delle diverse definizioni di non-responder sono i già

citati 3 parametri di RM, ricadute e progressione di EDSS, singolarmente o in combinazione, sebbene non sia stata ancora messa a punto una definizione univoca90.

In generale i markers di risposta ad una terapia sono rappresentati da due classi di fattori: una prima classe, che consiste nella variabili al baseline che possono identificare un sottogruppi di pazienti che presentano una diversa risposta allo stesso farmaco, ed una seconda classe, cioè le variabili che possono essere utilizzate precocemente o che sono più semplici da individuare.

Di particolare rilievo è il concetto di markers surrogati, cioè fattori che predicono l’effetto di una terapia su un importante end-point clinico, individuando in questo modo i pazienti che rispondono ad una terapia. Nel caso della SM, marker surrogati di disabilità clinica sono appunto le ricadute cliniche ed il carico lesionale all’RM, più precoci da individuare e predittori dell’andamento della malattia negli anni successivi91 92. Soprattutto, la loro valutazione combinata si è

dimostrata essere più sensibile rispetto alla valutazione singola, la quale oltretutto ha fornito dati contrastanti nei diversi studi sul suo grado di capacità predittiva. Pare quindi opportuno utilizzare uno score composito di clinica e di risonanza.

Sono stati prodotti diversi score, che dall’utilizzo dei parametri di attività di malattia tentano di predirre la risposta alla terapia.

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pubblicate dal Canadian MS Working Group (CMSWG)93. Le TOR sono un

modello derivato da un consensus di esperti, che si basa su differenti livelli di progressione di disabilità , ricadute e attività di risonanza durante il trattamento, classificate come “notable”, “worrisome” e “actionable”. Lo schema non fornisce una valutazione quantitativa per fornire regole precise su quando effettuare lo switch terapeutico.

Nel 2013 è stata redatta la versione più recente, aggiornata secondo le evidenze più attuali94. Le TOR canadesi si basano ancora sull’analisi dei 3

parametri fondamentali, cioè ricadute, RM e EDSS, a 6 e 12 mesi dall’inizio della terapia (Tab 6,7,8). E’ ormai acquisito che la valutazione dei soggetti non responder deve avvenire in tempi rapidi, ed un anno pare essere il tempo necessario per poter valutare gli effetti. E’ necessario tener conto della farmacocinetica degli immunomodulanti, i quali all’incirca entrano in azione dopo 6 mesi. Una modificazione di RM che avvenga entro i 6 mesi, così come una ricaduta, non dovrebbero essere considerati nella valutazione dei non responder. La RM baseline dovrebbe essere quella a 6 mesi.

Gli scopi con cui sono stati messi a punto questi criteri sono sostanzialmente «…un approccio più attuale, razionale, per determinare la risposta sub-ottimale e suggerire uno schema per effettuare uno switch terapeutico o intraprendere una seconda linea» e «…determinare a che punto, durante il corso di una terapia, sia necessario modificare il trattamento per ottimizzare la risposta del paziente…».

L’analisi delle ricadute trova il suo presupposto nel fatto che analizzando la storia naturale di malattia, le ricadute nei primi due anni impattano sulla progressione a breve termine. Oltre al relapse rate, che indica il numero di ricadute in un anno, vengono analizzate anche le caratteristiche della ricaduta, in particolar modo i sistemi coinvolti, la necessità di terapia steroidea, la necessità di ricovero, ma soprattutto il grado di recupero, se totale o con esiti.

Una variazione dell’EDSS, che deve essere confermata in 2 valutazioni successive, indica un fallimento nel pieno controllo della malattia. Inoltre, la maggior parte della disabilità a breve termine è legata a ricadute non risolte, sebbene esista un processo indolente e sotterraneo che si manifesta solo quando le ricadute cessano ma vi è un peggioramento delle condizioni cliniche.

La valutazione della RM senza segni di infiammazione non necessariamente indica una malattia sotto controllo, ma una RM attiva può dare informazioni fondamentali sul grado di attività di malattia, e quindi su ricadute e progressione.

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che varia da nessuna allerta ad allerta di grado elevato. Da qui, uno schema per cui se sono presenti anche solo una variabile di grado elevato, o 2 allerte di grado medio o 3 allerte di basso grado, significa alta probabilità di insoddisfacente risposta alla terapia e necessità di cambiare strategia di gestione (Fig 2).

Uno studio95 osservazionale della durata di 12 mesi, ha analizzato

l’applicabilità delle TOR alla pratica clinica, valutando il grado di concordanza tra decisioni del medico, prese in base all’esperienza o alla propria soggettività, e i gradi di allerta desunti dalle TOR. Lo studio ha dimostrato che la concordanza tra criteri TOR e valutazione medica era del 95.3%. Quando i criteri suggerivano uno switch terapeutico, la concordanza era del 29.4%. I criteri erano ritenuti la motivazione del cambiamento della terapia da parte dei medici nel 50% dei casi. Le TOR erano ritenute utili nella pratica clinica dal 70.6% dei medici quando era raccomandata una rivalutazione del trattamento, era del 55.3% quando l’indicazione era di mantenere la terapia in atto. Quindi l’utilizzo delle TOR risultava più utile nel prendere la decisione di cambiare linea di approccio, piuttosto che nei casi di malattia stabile. In particolare, i criteri risultavano più utili in caso di un livello medio di allerta, cioè nei casi “borderline”, dove permane incertezza in merito al grado di risposta dei pazienti alla terapia.

Altri score attualmente disponibili.

L’European Medicines Agency (EMA) suggerisce il passaggio a seconda linea nei pazienti che abbiano avuto almeno una ricaduta nell’anno precedente, nonostante la terapia di fondo con immunomodulanti, e che presentino un numero di lesioni iperintense in T2 pari o superiore a 9 oppure che presentino una o più lesioni captanti gadolinio alla RM dell’encefalo96.

Prosperini et al hanno condotto uno studio volto a dimostrare l’efficacia dei soli reperti di RM nel definire un paziente come non-responder, e quindi meritevole di passaggio a seconda linea, in contrasto con i criteri EMA che prevedono anche la valutazione delle ricadute. E’ stato valutato l’outcome a 4 anni di pazienti trattati con interferon beta in relazione allo stato di attività di clinica o di risonanza dopo nel primo anno di trattamento. I risultati dello studio hanno dimostrato che il valore predittivo dei soli reperti di RM al primo anno di terapia non differiscono dai criteri richiesti dall’EMA per il passaggio a seconda linea, supportando il concetto che criteri basati esclusivamente sulla RM sono da ritenere almeno equivalenti ai criteri EMA nel predirre la comparsa di una breakthrough disease nonostante la terapia di prima linea e che l’attività di risonanza è un valido marker surrogato sia delle ricadute che della progressione all’EDSS97.

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Il Rio Score ed il Rio Score Modificato

Recentemente sono stati sottoposti a revisione i criteri di Rio e colleghi formulati nel 200498.

Gli originali criteri di Rio analizzavano le 3 varianti fondamentali per valutare l’andamento della malattia, cioè le ricadute, la RM e la disabilità, cioè l’EDSS99.

Lo scopo si tali criteri era fornire un versione quantitativa di uno score composito.

Ad ogni variante, o criterio, è assegnato un punteggio:

A) Criterio RM: 1; se il paziente presenta (alla RM annuale)>2 lesioni attive in T2, definite come una lesione nuova o più evidente in T2, più il numero di lesioni in T1 captanti gadolinio durante il primo anno

B) Criterio ricadute: 1; se il paziente presenta 1 o più ricadute durante il primo anno

C) Criterio EDSS: 1; se c’è stato un incremento di EDSS di 1 punto o più, confermato a 6 mesi

Dalla somma dei tre punteggi si ottiene lo Score: 0, 1, 2, 3 (da basso rischio a rischio elevato di non risposta alla terapia).

La revisione è stata effettuata utilizzando solo le due variabili surrogate, cioè ricadute ed RM, e basandosi su un modello statistico. Scopo di tale revisione è stato quello di identificare i pazienti a rischio di essere non-responder alla terapia di fondo, anche alla luce di recenti studi che hanno dimostrato che la misura combinata di attività di RM e ricadute è un buon surrogato per determinare il rischio di progressione di disabilità a breve termine in pazienti RR trattati con interferone100.

Lo Score modificato si articola nel modo seguente: 0) nuove lesioni in T2 minori o uguali a 4 + 0 ricadute

1) nuove lesioni in T2 minori o uguali a 4 +1 ricadute, oppure nuove lesioni in T2 >4+ 0 ricadute

2) nuove lesioni in T2 minori o uguali a 4 + numero di ricadute pari o superiori a 2, oppure nuove lesioni in T2 >4 + 1 ricaduta

3) nuove lesioni in T2 >4+ numero di ricadute pari o superiori a 2 Basso rischio: 0

Rischio intermedio:1 Rischio elevato: 2-3

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E’ importante rilevare che tale score è applicabile solo nel caso di prima linea con interferoni e non con copolimero.

L’importanza della Risonanza Magnetica Nucleare:

L’utilizzo della RM dell’encefalo e del midollo per il monitoraggio dell’andamento clinico della malattia ha un’importanza fondamentale. Negli score sopra descritti la RM ha un ruolo centrale, e viene utilizzata nelle sue potenzialità più elementari, cioè la pesatura in T2 per valutare il carico lesionale, e la pesatura in T1 con mezzo di contrasto per valutare l’attività di malattia. Una RM di almeno 1.5 T è l’apparecchio minimo indispensabile per ottenere immagini di buona qualità. L’utilizzo della RM come fattore in grado di predire il grado di disabilità nel tempo. Rudick et al.101 hanno dimostrato che la presenza di 2 o più lesioni

captanti gadolinio nell’arco di 2 anni sono 2 volte più predittive delle ricadute cliniche per l’aumento dell’EDSS, mentre 3 o più nuove lesioni in T2 sono 3.4 volte più predittive delle ricadute.

Prosperini et al hanno dimostrato che il rischio di progressione è di circa 10 volte maggiore per 1 singola nuova lesione in T2; di circa 20 volte maggiore per 2 nuove lesioni; di circa 30 volte maggiore per 3 o più lesioni102.

I NABs:

Prima di definire un paziente come non responder, sarebbe necessario assicurarsi che il farmaco può svolgere efficacemente la sua azione. Per far questo bisogna dosare i NABs, cioè degli anticorpi rivolti verso l’Interferone. Questi anticorpi si sviluppano in circa il 19% dei pazienti dopo circa 6-12 mesi di terapia e devono essere persistentemente elevati per inficiare l’azione dell’interferone103.

Un altro marker è la MxA, cioè la Myxovirus Protein A, più accurato ma ancora non disponibile nella pratica comune104.

La cognitività come fattore predittivo

La valutazione cognitiva del paziente con SM si sta dimostrando sempre più importante, sia ai fini prognostici, sia per la qualità di vita del paziente. E’ stato dimostrato che una lieve compromissione cognitiva, specie a livello di attenzione sostenuta/vigilanza, velocità di processazione dell’informazione e memoria episodica, e meno frequentemente alterazioni della fluenza verbale e funzioni esecutive105 106, sono presenti precocemente e addirittura già nei pazienti CIS107 108,

nei quali può essere stimata un’alterazione cognitiva nel 20-30% dei soggetti109.

Circa il 40-65% dei pazienti presenterà una disfunzione cognitiva110, con una

prevalenza crescente con l’età e la durata di malattia111. Attualmente non viene

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valutazione fin dall’inizio, in modo tale da possedere un baseline da cui partire e da confrontare nel tempo. I test suggeriti, oltre alla classica batteria neuropsicologica completa da effettuarsi una volta all’anno, se disponibile, è il Symbol Digit Modalities Test (SDMT)112, che valuta la velocità di processazione e la memoria di

lavoro).

Fondamentale è non confondere i deficit cognitivi con la fatica e la depressione113. E dunque, viene consigliata anche l’esecuzione della Beck

Depression Inventory-Fast Screen (BDI-FS), una scala composta da 7 items, autosomministrata, per valutare l’umore, l’autoconsapevolezza, l’anedonia e l’ideazione suicidaria.

Altra scala per eliminare il fattore confondente della fatica è la 21-item Modified fatigue Impact Scale (MFIS), che valuta l’impatto della fatica su funzioni fisiche, cognitive e psicosociali114.

Lo sviluppo di nuove alterazioni cognitive o il peggioramento di disfunzioni già esistenti dovrebbero essere considerate come un segno negativo in un paziente in terapia con immunomodulanti.

L’ottimizzazione terapeutica

Detto tutto ciò, una volta ottenuto un profilo di rischio altamente suggestivo di inefficacia terapeutica, quale via è necessario intraprendere? Un tempo non troppo lontano era pratica comune shiftare da un interferone all’altro al copolimero. La linea attualmente seguita è il passaggio ad un farmaco di seconda linea. I farmaci di seconda linea, come già ricordato, appartengono alla classe degli immunosoppressori, e presentano un’efficacia maggiore a fronte di un profilo di tollerabilità nettamente inferiore. E’ stato dimostrato che la loro efficacia è maggiore quando l’attività di malattia stessa è maggiore, verosimilmente per la loro azione sull’infiammazione attiva.

Un suggerimento di ottimizzazione della terapia è quella mostrata nello schema A, che si basa sul grado di allerta ottenuto in base all’applicazione dei criteri TOR.

Secondo tali linee, qualora il grado di allerta si presenti basso, è consigliabile uno switch intraclasse ad un altro farmaco di prima linea; in caso di allerta elevata, il passaggio consigliato è ad una seconda linea. Il mantenimento di un farmaco di seconda linea può essere permanente oppure provvisorio, con un ritorno successivo ad un farmaco di prima linea. Se nonostante la seconda linea, la risposta appare ancora subottimale, viene consigliato un passaggio ad una terza linea di terapia.

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estremamente vicini alla normale pratica clinica, ed in grado di fornire una guida parzialmente uniforme di comportamento.

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SCOPO DELLO STUDIO

Scopo del presente studio, osservazionale retrospettivo, è stato quello di applicare a posteriori i criteri delle TOR canadesi per valutare il grado di

concordanza con le decisioni mediche assunte dopo il primo anno di terapia di prima linea e nell’anno precedente al passaggio a seconda linea.

MATERIALI E METODI

Sono stati analizzati 40 pazienti seguiti presso l’Ambulatorio Malattie Demielinizzanti, attualmente in terapia di seconda linea con Natalizumab o Fingolimod.

Sono stati inclusi nello studio i pazienti di cui fosse disponibile in modo completo ed esaustivo tutta la documentazione relativa alla storia di malattia dall’esordio all’inizio della seconda linea di malattia, con qualsiasi grado di EDSS, che avessero assunto una terapia immunomodulante senza distinzione tra

interferoni e copolimero, di qualsiasi età e di entrambi i generi.

Sono stati esclusi dallo studio i pazienti di cui non fosse disponibile in modo completo ed esaustivo l’intera documentazione riguardante la malattia.

Sono stati analizzati l’anno successivo all’inizio della prima linea e l’anno precedente all’inizio della seconda, valutando esclusivamente gli eventuali passaggi di terapia effettuati durante questi periodi.

Sono stati calcolati i gradi di allerta attraverso l’applicazione dei criteri delle TOR canadesi sopradescritte, ottenendo gradi variabili tra “nessuna allerta” e “allerta elevata”.

E’ stato calcolato il grado di concordanza tra le valutazioni calcolando il coefficiente K di Cohen e sono stati confrontati i dati con la letteratura disponibile.

La K di Cohen fornisce la stima dell’accordo tra 2 valutazioni con scala nominale. E’ una misura dell’accordo (coefficient of agreement) tra le risposte qualitative o categoriali di 2 soggetti (inter-observer variation) oppure del medesimo soggetto (intra-observer variation), valutando gli stessi oggetti. La metodologia è stata presentata da Cohen nel 1960115.

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