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Effetti del digestato da impianti di produzione di biogas sull'attivita biologica del suolo

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Academic year: 2021

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Università

di Pisa

Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali

Corso di Laurea Magistrale in

Progettazione e Gestione del Verde Urbano e del Paesaggio

Elaborato finale:

"Effetti del digestato da impianti di produzione di biogas

sull'attività biologica del suolo"

Relatore: Prof. Alessandro Saviozzi

Candidato: Gabriele Giussani

Matricola 499177

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Sommario

Introduzione ... 5

Digestione anaerobica ... 8

Fasi del processo di digestione anaerobica ... 11

Parametri di controllo della digestione anaerobica ... 12

Temperatura ... 13

pH ... 13

Alcalinità (effetto tampone) ... 13

Acidi grassi volatili (AGV) ... 14

Rapporto AGV/alcalinità ... 14

Ammoniaca ... 14

Macro e micronutrienti... 15

Il biogas in Italia ... 15

Digestato ... 16

Normativa di riferimento per l’impiego del digestato ... 18

Caratteristiche e composizione del digestato ... 21

Frazione solida o palabile ... 23

Frazione liquida o chiarificata... 24

Utilizzo del digestato e fertilità del terreno ... 25

Effetti sulla dinamica dei macroelementi nel suolo ... 25

Effetti sulla dinamica dei microelementi nel suolo ... 26

Effetti sulla sostanza organica e sulla comunità microbica del terreno ... 26

Effetti sul pH del terreno ... 27

Digestato e agricoltura biologica ... 27

Sistemi di trattamento meccanico del digestato ... 28

Tipologie di separatori ... 29

Separatore orizzontale SEPCOM® ... 29

Separatore verticale SEPCOM® ... 30

Separatori centrifughi ... 31

Processi di rimozione dell’azoto ... 32

Strippaggio dell’ammoniaca ... 32

Processo biologico ... 33

Biochar ... 34

Metodi di produzione del biochar ... 35

Caratteristiche del biochar ... 35

Struttura del biochar ... 36

Caratteristiche fisiche e rapporti col terreno ... 36

Superficie specifica delle particelle del suolo e biochar ... 36

Caratteristiche di porosità del biochar ... 37

Caratteristiche chimiche del biochar ... 38

Contenuto in ceneri ... 38

Chimica di superficie del biochar ... 39

Influenza delle proprietà superficiali sull’adsorbimento ... 40

Contenuto in nutrienti del biochar ... 41

Rapporto C/N ... 42

Caratteristiche biologiche del biochar ... 42

Habitat per i microorganismi ... 42

Uso agronomico del biochar ... 44

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Cambiamenti chimici del biochar nel suolo ... 44

Effetti dell’assorbimento chimico sull’attività biologica del suolo ... 45

Effetti del biochar sul ciclo degli elementi nutritivi nel suolo ... 46

Effetti del biochar sulla lisciviazione dei nutrienti ... 46

Effetti del biochar sull’attività enzimatica del suolo ... 47

Parte sperimentale ... 48

Materiali e metodi ... 48

CARATTERIZZAZIONE DEI DIGESTATI ... 50

Determinazione del contenuto di sostanza secca del digestato tal quale e del variare della capacità idrica massima del terreno ... 50

Determinazione del contenuto di azoto ... 51

Determinazione del fosforo totale ... 53

Determinazione del potassio totale ... 55

Determinazione del calcare totale ... 57

Determinazione del carbonio organico ... 58

ANALISI DEL TERRENO ... 60

Determinazione del pH ... 60

Determinazione della quantità di fenoli solubili in alcali ... 61

Determinazione della capacità antiossidante del terreno ... 63

Determinazione dell’attività deidrogenasica ... 65

Determinazione dell’attività dell’enzima catalasi ... 66

Determinazione del contenuto di carbonio organico disciolto (DOC, Dissolved Organic Carbon). ... 67

Misura della respirazione basale del suolo ... 68

Analisi del contenuto di carbonio della biomassa microbica del suolo. ... 69

Determinazione del contenuto di carbonio organico totale ... 71

Risultati e discussione ... 72

Caratterizzazione dei digestati: ... 73

Determinazione del contenuto di azoto ... 73

Determinazione del fosforo totale ... 74

Determinazione del potassio totale ... 75

Determinazione del calcare totale ... 76

Determinazione del carbonio organico ... 77

Analisi del terreno ... 78

pH ... 78

Determinazione della quantità dei fenoli solubili in alcali ... 80

Determinazione della capacità antiossidante del suolo ... 82

Determinazione dell’attività deidrogenasica ... 84

Determinazione dell’attività dell’enzima catalasi ... 86

Determinazione del Carbonio organico disciolto (Dissolved Organic Carbon, DOC) ... 88

Analisi della respirazione del suolo ... 90

Analisi del quantitativo di biomassa microbica presente nel suolo ... 92

Determinazione del contenuto di Carbonio organico ... 94

Conclusioni ... 96

Bibliografia ... 97

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Introduzione

Il problema energetico mondiale è diventato un tema cruciale: l’aumento della popolazione globale e la crescita economica degli Stati emergenti farà sì che la domanda di energia sia destinata ad aumentare. Le riserve di combustibili fossili sono però limitate e destinate ad esaurirsi nel giro di un secolo; inoltre il loro utilizzo nei Paesi industrializzati sta pian piano diminuendo a favore di fonti energetiche rinnovabili, la cui diffusione viene incentivata dai governi nazionali con sovvenzioni economiche per diminuire la dipendenza energetica dall’estero.

L’Unione Europea, ad esempio, importa oltre il 50% dell’energia che utilizza e si stima che entro il 2030 la dipendenza dall’ estero potrà raggiungere il 70% del totale.

Tra le fonti energetiche rinnovabili, l’utilizzo delle biomasse, definite dal Dlgs n°28 del 3/3/2011 come la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura, dalla silvicoltura e dalle industrie connesse compresa la pesca e l’acquacoltura nonchè la frazione biodegradabile dei rifiuti solidi urbani, danno il vantaggio di poter produrre energia per il mercato elettrico, termico e per i mezzi di trasporto (Greco, 2011).

I vantaggi riscontrabili nella produzione di energia derivante dalle biomasse sono:

 Si tratta di fonti energetiche rinnovabili

 Favoriscono la riduzione dell’emissione di anidride carbonica nell’atmosfera

 Permettono di valorizzare i residui agroindustriali

 Danno la possibilità di creare nuovi posti di lavoro

In teoria, ogni substrato organico può essere impiegato per produrre energia con limitazioni inerenti la microbiologia del processo, la tecnologia impiantistica a disposizione, la normativa attualmente vigente e la convenienza economica (Greco, 2011).

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In tutta Europa sta avendo sempre più interesse la produzione di energia partendo dai residui agroindustriali attraverso il processo di digestione anaerobica. Attraverso questo processo, partendo da materiali di scarto si riesce a produrre biogas, che può venire poi trasformato in biometano tramite un processo di purificazione (upgrading) (Panin, 2014) e quindi immesso nella rete del gas oppure bruciato per produrre energia elettrica per soddisfare le esigenze energetiche dell’azienda produttrice; il surplus può essere venduto alla società elettrica e immesso in rete.

La pianura Padana ha da sempre avuto grande vocazione agricola, numerose infatti sono le aziende agricole e zootecniche presenti sul territorio che producono merci di alta qualità ma, sopratutto per le aziende zootecniche, molto spesso non dispongono di una superficie coltivabile su cui spandere gli effluenti rispettando i vincoli imposti dalla direttiva nitrati (CEE 676/1991); alcune non hanno nemmeno i campi in cui coltivare i vegetali per le esigenze del bestiame, comprando sul mercato tutto ciò che necessita alla produzione.

Per questo motivo, la produzione di biogas diventa una soluzione interessante per le aziende che possono così produrre energia rinnovabile e al contempo impiegare fruttuosamente sottoprodotti

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produrre energia da fonti rinnovabili, ha fatto sì che il settore del biogas in Italia sia cresciuto velocemente, rendendoci oggi il secondo produttore in Europa (Bezzi et al., 2015).

Oltre a ciò, un altro aspetto positivo del processo di digestione anaerobica è il prodotto di risulta della produzione di biogas, il digestato.

Il digestato è un sottoprodotto della produzione di biogas che rimane sul fondo del fermentatore dopo che il substrato alimentare dell’attività microbica è stato consumato. Rispetto alle biomasse in ingresso nel digestore, presenta un’alta stabilità biologica (Bezzi, Ragazzoni, 2014), alte quantità di azoto minerale, sopratutto in forma ammoniacale prontamente disponiblie per le colture e molti altri macro e micro elementi fondamentali per la crescita e lo sviluppo delle piante (Makàdi et al, ) potendo andare possibilmente a sostituire i fertilizzanti chimici di sintesi (Panin, 2014).

Altro interessante filone di ricerca per limitare l’emissione di gas serra nell’atmosfera e riutilizzare biomasse di scarto riguarda il sequestro del carbonio delle biomasse in un composto simile al carbone: il biochar. Il materiale si genera dalla combustione di queste biomasse a temperature di circa 700°C e a basse quantità di ossigeno, mediante il processo di pirolisi (Chan et al., 2007). La seconda parte di questo elaborato è dedicata a uno studio approfondito di come varia l’andamento di alcuni parametri indicanti la fertilità del suolo quando ad esso vengono aggiunti quantità diverse di digestato tal quale e separato solido e la sua miscelazione con il biochar.

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Digestione anaerobica

La digestione anaerobica è un processo biologico di degradazione della sostanza organica attuato in condizioni controllate di anaerobiosi all’interno di fermentatori. I composti organici presenti nelle matrici organiche in ingresso (glucidi, proteine e lipidi) vengono attaccati da batteri che ne scindono le macromolecole in un processo a catena, che porta alla produzione finale del biogas.

Affinchè l’intero processo si svolga correttamente vengono mantenute condizioni ottimali di temperatura, pH, concentrazione dei substrati utilizzati per la crescita e l’attività dei microorganismi, in quanto queste popolazioni batteriche danno vita ad una complessa e specializzata catena trofica le cui varie fasi sono legate da reazioni di ossido – riduzione. Il sottoprodotto dell’attività batterica diventa il successivo substrato per i microorganismi appartenenti all’anello successivo della catena trofica; inoltre eventuali variazioni della temperatura potrebbero accelerare oppure rallentare i vari processi metabolici della catena trofica o portare addirittura alla scomparsa di un’intera popolazione batterica (Panin, 2014).

Il biogas ottenuto al termine del processo anaerobico è composto principalmente da metano (50 – 80%) e anidride carbonica, con presenza di altri composti quali azoto, idrogeno e acido solfidrico (Vismara et al., 2011).

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Prima dell’utilizzo del biogas l’acido solfidrico viene rimosso, in quanto corrosivo per i motori, attraverso un processo denominato scrubber: questo processo avviene in un’apposita torre e consente di rimuovere inquinanti da una corrente gassosa per mezzo di getti o correnti liquide fatte interagire con essa, cui segue una deumidificazione per eliminare il vapore acqueo.

A questo processo, può esserne associato un altro detto di “upgrading”, che consiste nella rimozione dell’anidride carbonica dal gas prodotto, ottenendo così un biocombustibile contenente fino al 95-98% di metano.

Per la produzione di biogas si può ricorrere ad una vasta gamma di substrati per alimentare la microflora batterica del reattore; in teoria, ogni substrato organico può essere utilizzato per produrre biogas, ma si incontrano limitazioni dovute alla tecnologia impiantistica, la microbiologia del processo, le normative di riferimento e la convenienza economica, che inducono a scegliere determinati tipi di matrici piuttosto che altre.

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I substrari immessi nei fermentatori possono essere raggruppati in base al settore d’origine in:

 Colture dedicate (mais, sorgo, triticale, segale, loiessa...)

 Frazione Organica del Rifiuto Solido Urbano (F.O.R.S.U.)

 Effluenti di allevamento (letame, liquame, pollina...)

 Fanghi di depurazioni

 Sottoprodotti dell’attività agroindustriale (vinacce, sanse, pula di riso...)

Inizialmente le matrici organiche più utilizzate sono state i reflui zootecnici ma in seguito si è diffusa la tendenza a preferire la tecnica della codigestione, in cui alle deiezioni animali vengono addizionate altre biomasse con alto tenore energetico tali da incrementare la produttività e l’efficienza dell’impianto (Panin, 2014).

Il digestore dell’azienda biotecnologie Malaguzza SRL di Lodi, da cui provengono i digestati oggetto del presente studio, attua la tecnica della codigestione immettendo nel digestore una dieta quotidiana a base di 25q di pula di riso, 20q di sfarinato integrale di mais, 70q di triticale, 285q di silomais, 15t di liquame bovino, 12t di acqua.

Il processo di digestione anaerobica si può condurre con due tecniche differenti: a secco oppure a umido, a in base al tenore di sostanza organica della biomassa in ingresso (a secco: tenore di sostanza secca superiore al 20%; a umido: tenore di sostanza secca inferiore al 10%).

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Fasi del processo di digestione anaerobica

Il processo di digestione anaerobica è un processo complesso, che coinvolge vari ceppi batterici che attuano reazioni chimiche interconnesse che si svolgono in maniera parallela e sequenziale nel tempo e nello spazio (Greco, 2011). La digestione anaerobica può essere suddivisa in quattro fasi, ognuna attuata da una specifica popolazione microbica (Weiland, 2009).

Ogni popolazione batterica gioca un ruolo ben definito all’interno del fermentatore, dando luogo ad associazioni in cui i gruppi sono legati tra loro da forti relazioni trofiche, perchè nessuna popolazione è in grado di dare vita singolarmente alla completa degradazione della sostanza organica (Panin, 2014). Le quattro fasi del processo di digestione anaerobica sono nell’ordine: idrolisi, acidogenesi, acetogenesi, metanogenesi.

1. Idrolisi: in questa fase i substrati organici complessi immessi nel fermentatore (lipidi, cellulose, emicellulose, proteine, amidi) vengono scissi nei singoli monomeri costituenti la molecola (monosaccaridi, amminoacidi, acidi grassi). I batteri secernono enzimi extracellulari che attaccano questi composti (Weiland, 2009).

2. Acidogenesi: in questo secondo step i composti semplici prodotti durante il processo di idrolisi vengono metabolizzati da microorganismi acidogenici (Greco, 2011). I batteri producono alcoli, acidi grassi volatili, ammoniaca, acido solfidrico, anidride carbonica.

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3. Acetogenesi: durante questa fase i prodotti generati durante la fase di acidogenesi sono convertiti in acido acetico, con rilascio di anidride carbonica e idrogeno. Questa attività è operata da due gruppi principali di batteri: i produttori obbligati di idrogeno e gli omoacetogeni. I primi attuano una β – ossidazione attaccando gli acidi grassi a lunga catena, andando a formare acido acetico con rilascio di idrogeno e anidride carbonica; i batteri omoacetogeni consumano l’idrogeno e l’anidride carbonica rilasciati dai produttori obbligati di idrogeno per sintetizzare acido acetico (Panin, 2015).

4. Metanogenesi: costituisce l’ultimo anello della catena degradativa. In questa fase sono attivi i due gruppi di batteri responsabili della produzione finale di metano: i metanigeni acetoclasti e i metanigeni idrogenotrofici. I primi convertono l’acido acetico in metano e anidride carbonica mentre i secondi sono fondamentali per il controllo della pressione d’idrogeno perché consumano idrogeno e anidride carbonica (Castelli, Negri, 2011). Questi batteri sono anaerobi stretti e richiedono, rispetto alla maggior parte degli altri batteri anaerobi, un basso potenziale redox per la loro crescita (Weiland, 2009).

Parametri di controllo della digestione anaerobica

L’efficenza del processo di digestione anaerobica è fondamentale per la produzione di un’adeguata quantità di biogas. Essa è influenzata da alcuni fattori che vanno monitorati con continuità per garantire la stabilità e l’efficienza del processo, in quanto anche minime variazioni di questi parametri possono influenzare l’intera catena, con ricadute sullo sviluppo delle varie popolazioni microbiche. Il giusto equilibrio tra la quantità di metano prodotto, la concentrazione di acidi grassi e dei prodotti dell’acetogenesi consente di mantenere l’intero processo in una condizione di stabilità. (Panin, 2014). Ad esempio, qualora la percentuale di metano prodotta non risulti costante, si può supporre vi sia un accumulo di acidi all’interno del digestore, che inibiscono l’attività batterica. Di seguito vengono riportati i principali parametri chimico – fisici da tenere sotto controllo durante il processo.

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Temperatura

L’intervallo di temperatura prescelto varia in base alle necessità dei microorganismi coinvolti nel processo, per favorirne la crescita e il metabolismo. Di solito, gli impianti progettati per sfruttare biomasse di origine agro – industriale lavorano in condizioni di mesofilia (35° - 42°C) in modo da conciliare la produzione di biogas, i tempi di residenza dei substrati e le esigenze energetiche aziendali (Panin, 2014). Esistono anche impianti che lavorano a condizioni psicrofile (<25°C) e termofile (45° - 60°C). Gli impianti più moderni lavorano a condizioni termofile, in quanto la termofilia offre alcuni vantaggi, tra cui tasso di degradazione delle matrici organiche più veloce, minore viscosità dell’effluente, maggiore distruzione degli organismi patogeni e maggiore produzione di biomassa (Zhu et al., 2009). È fondamentale mantenere un intervallo di temperatura costante durante il processo, in quanto il suo repentino cambiamento o le sue fluttuazioni influenzano negativamente la produzione di biogas.

pH

Il pH è un parametro fondamentale per la metanogenesi. Secondo Weiland (2009), la formazione del metano avviene in un intervallo di pH compreso tra 6.5 e 8.5, con un optimum per l’attività dei batteri tra 7.0 e 8.0, mentre le fasi d’idrolisi e acetogenesi avvengono a pH di 5.5 e 6.5, rispettivamente (Greco, 2011). Il pH va mantenuto costantemente monitorato in quanto il processo di digestione anaerobica è seriamente inibito quando il pH scende a valori inferiori a 6.0 (in quanto gli acidi organici a corta catena si trovano in forma indissociata, penetrano la membrana plasmatica e compromettono l’omeostasi delle cellule dei microorganismi) e superiori a 8.5 (Weiland, 2009).

Alcalinità (effetto tampone)

Il potere tampone consiste nella capacità di un sistema di mantenere costante il proprio pH anche a seguito dell’aggiunta di piccole quantità di acidi o basi forti. Il sistema tampone all’interno del digestore è determinato dalla presenza degli acidi organici utilizzati dai batteri, dall’ammoniaca e dall’acido carbonico (dato dall’anidride carbonica in soluzione acquosa), quindi i reagenti del sistema tampone sono sia i substrati che i prodotti utilizzati dai batteri durante la fermentazione. La digestione anaerobica è stabile nel fermentatore quando i valori di alcalinità del sistema si aggirano tra 3000 e 5000 mg CaCO3/l (Stafford et al., 1980). L’alcalinità del sistema è determinata

dalla presenza di ammoniaca (NH3) generata dalla degradazione degli amminoacidi e dal

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presenti in contemporanea nel sistema determina la formazione di un sale che alza il pH dell’ambiente e consente la stabilità del processo (Castelli e Negri, 2011).

Acidi grassi volatili (AGV)

Sono composti intermedi del processo di digestione anaerobica prodotti durante la fase di acidogenesi; si tratta di acidi grassi a catena corta (da 1 a 3 atomi di carbonio nella molecola). Il quantitativo di acidi grassi volatili è espresso come equivalenti di acido acetico, i cui valori possono variare tra 200 e 2000 mg/l per mantenere il processo stabile (Castelli, Negri, 2011). Quando la concentrazione di acidi grassi volatili supera il valore 2000, si spostano gli equilibri della reazione verso l’acidogenesi rispetto alla metanogenesi che rallenta in quanto il pH si abbassa, determinando un calo della produzione di biogas fino al suo completo arresto quando il pH giunge a valori inferiori a 6.0. (Greco, 2011).

Rapporto AGV/alcalinità

La quantità di acidi grassi volatili e l’alcalinità del sistema sono le due grandezze considerate maggiormente indicative del corretto funzionamento del sistema; infatti quando il sistema non funziona correttamente gli acidi grassi volatili tendono ad aumentare mentre l’alcalinità tende a diminuire. Le tecniche di misura di questo rapporto prevedono l’impiego di titolatori in grado di eseguire in automatico tutta la procedura partendo da un campione filtrato di materiale estratto dal fermentatore (digestando) e di elaborare e fornire un dato certo a partire dagli esiti delle analisi. Per parlare di processo stabile, il valore del rapporto tra acidi grassi volatili e alcalinità deve risultare compreso tra 0.3 e 0.4, valori superiori indicano un eccessivo carico di acidi grassi volatili che inibiscono il processo mentre valori inferiori indicano un’insufficiente quantità di ingestato o di scarsa qualità (Castelli, Negri, 2011).

Ammoniaca

L’ammoniaca nel sistema è generata dalla degradazione delle proteine presenti nelle biomasse di partenza.Entro certi limiti (200 – 1500mg/l) essa contribuisce a rafforzare il potere tampone del sistema (Panin, 2014) ma a concentrazioni superiori la metanogenesi rallenta o viene inibita, in quanto i batteri metanigeni sono particolarmente sensibili alle alte concentrazioni di ammoniaca. Pertanto questo è un parametro che va tenuto sempre sotto controllo.

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Macro e micronutrienti

Per la crescita e lo sviluppo dei microorganismo sono necessari molti macro e micronutrienti. I macronutrienti sono azoto, carbonio, fosforo e zolfo (Weiland, 2009), in un rapporto considerato ottimale per la crescita dei microorganismi (C:N:P:S) 600:15:5:1 mentre per la produzione di metano, il rapporto ottimale è considerato 600:15:5:3. Gli ioni che non possono mancare per la crescita e lo sviluppo dei microorganismi sono Fe, Cu, Co, Ni e Zn. 70µmol di concentrazione di Fe, Co e Ni e 90µmol di Cu e Zn sono le concentrazioni ottimali per lo sviluppo dei batteri (Greco, 2011). Weiland indica come fondamentali per la metanogenesi anche selenio, molibdeno e tungsteno, che vanno aggiunti alle biomasse in ingresso se queste ultime non ne posseggono in quantità sufficienti per soddisfare le esigenze dei batteri.

Il biogas in Italia

In Italia, la storia del biogas inizia negli anni ’80: secondo un censimento del 1983 dell’ENEA, sul territorio nazionale erano attive circa 60 installazioni, molte delle quali attualmente dismesse in quanto nate unicamente dalla necessità di utilizzare i liquami prodotti dai capi di bestiame senza considerare, ad esempio, i consumi energetici e l’idoneità per le aziende di creare questi impianti Nel decennio successivo, grazie all’introduzione di nuove tecnologie, alla semplificazione degli impianti e alla riduzione dei costi di costruzione si assistette ad un aumento del numero di impianti, che arrivarono ad essere un centinaio nel 2004. Nel 2007 vennero censiti 154 impianti che raddoppiarono alla fine del 2010 (314). (Panin, 2014).

Nel 2009 è stato costituito il CIB, Consorzio Italiano Biogas e Gassificazione, un’aggregazione volontaria nazionale di aziende agricole rappresentante il comparto italiano della produzione di biogas e gassificazione in agricoltura, allo scopo di rappresentare un punto di riferimento per le ricerche e la fornitura di dati e informazioni del settore del biogas.

Nel 2012 risultavano attivi 994 impianti. Nel 2015, in un’intervista rilasciata al quotidiano La Stampa, il presidente del Consorzio Italiano Biogas Piero Gattoni dichiarò che erano attivi 1300 impianti su tutto il territorio italiano, stimando un loro aumento fino a 2300 entro il 2030. In Lombardia si concentra il 35% delle installazioni, alimentate per il 50% da liquami e reflui da allevamento.

Attualmente l’Italia è il secondo produttore europeo di biogas dopo la Germania e il terzo produttore al mondo.

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Digestato

Con il termine digestato viene indicato il sottoprodotto della digestione anaerobica che resta all’interno del digestore al termine della produzione di biogas. È un materiale che, rispetto alle biomasse di partenza, risulta omogeneo, con tenore di umidità più elevato rispetto ad esse in quanto parte della sostanza secca è stata degradata dalla comunità batterica presente all’interno del digestore; la sostanza organica risulta stabilizzata e la quantità di nutrienti minerali non varia rispetto a quella presente all’interno della biomassa caricata nel digestore (AAVV, 2013), in particolare si nota un aumento del contenuto di N in forma ammoniacale.

Il suo utilizzo può essere inserito all’interno di un piano aziendale di fertilizzazione per ridurre la richiesta di fertilizzazioni azotate minerali: il processo di digestione anaerobica infatti non elimina gli elementi chimici del substrato di partenza ma ne modifica la composizione: analisi di laboratorio hanno dimostrato che nel digestato prodotto da soli reflui la quota di azoto ammoniacale aumenta rispetto alle biomasse di partenza giungendo fino all’85% del contenuto totale di N mentre nel caso di miscele tra colture energetiche e sottoprodotti agroalimentari o da solo colture dedicate il contenuto varia in base all’efficienza del processo (Bezzi, Ragazzoni, 2014).

L’applicazione di digestato migliora anche la sicurezza igienica, rispetto all’applicazione di letame o liquame non trattato perché viene abbattuta la carica microbica patogena attraverso un processo di risanamento controllato, che può essere fornito dalla digestione anaerobica stessa attraverso un tempo minimo di ritenzione all’interno del bioreattore in condizioni termofile, oppure si può effettuare separatamente attraverso la pastorizzazione o la sterilizzazione sotto pressione. Inoltre, attraverso la digestione anaerobica, vengono inattivati i semi di erbe infestanti, virus, funghi, batteri ed altri patogeni e parassiti presenti nelle biomasse di partenza, rendendo adatto il digestato come fertilizzante (Greco, 2011).

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Fig. 5: Digestato – Fonte: staengineering.it

Fig. 6: Schema semplificato del processo di digestione anaerobica (a) e i suoi due prodotti: biogas (b) e digestato anaerobico (c). – Fonte: Nkoa, 2014

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Normativa di riferimento per l’impiego del digestato

Uno dei problemi che il gestore di un impianto di biogas ha dovuto affrontare sotto il profilo giuridico è stato quello della gestione del digestato, in quanto, fino al 25/02/2016, vigeva la legge 134 del 07/08/2012 (conversione del Dl 83 del 22/06/2012) in cui all’articolo 52 comma 2-bis veniva affermato che il digestato può essere considerato come sottoprodotto laddove questo prodotto sia stato ottenuto in impianti aziendali o interaziendali dalla digestione anaerobica, eventualmente associata anche ad altri trattamenti, a seguito dell’utilizzazione di effluenti di allevamento o residui di origine vegetale o residui delle trasformazioni o delle valorizzazioni delle produzioni vegetali effettuate dall’agroindustria, conferiti come sottoprodotti, anche se miscelati tra loro e utilizzato a fini agronomici; alcune amministrazioni pubbliche hanno ritenuto, in base a questa legge, di qualificare il digestato come rifiuto, sopratutto nel casi in cui la biomassa entrante sia costituita in parte o in toto da un sottoprodotto di origine animale.

Il regolamento comunitario 354/2014 ha stabilito che il digestato ottenuto da processi di digestione anaerobica di sottoprodotti d’origine animale misti a biomasse d’origine vegetali può essere utilizzato in agricoltura biologica nonché, previa autorizzazione in base ai dettami del DLgs. 75/2010, può essere immesso sul mercato e venduto come fertilizzante (Bezzi, Ragazzoni, 2014). Il 25/02/2016, è stato emesso l’atteso “Decreto Digestato”, Decreto interministeriale n° 5046, che andava ad abrogare il precedente DM 7/4/2006; l’articolo 21 comma 2 riporta che “l’utilizzazione agronomica del digestato deve essere finalizzata al recupero delle sostanze nutritive ed ammendanti contenute nello stesso” mentre all’articolo 22 viene ribadito come “il digestato sia un sottoprodotto quando sono rispettate le seguenti condizioni:

 È prodotto in impianti di digestione anaerobica autorizzati ed alimentati con effluenti di allevamento, biomasse vegetali ed altri materiali come scarti vegetali e altri scarti agroindustriali.

 Vi è certezza circa l’impiego agronomico da parte del produttore o di soggetti terzi con i quali il produttore ha un rapporto contrattuale di cessione

 Viene usato direttamente senza altri trattamenti diversi dalle normali pratiche industriali; sono ammesse disidratazione, sedimentazione, chiarificazione, essiccatura, separazione solido/liquido, centrifugazione, strippaggio, fitodepurazione, nitrificazione, denitrificazione

 Soddisfa le caratteristiche di qualità indicate dall’allegato IX, nonché le norme di tutela ambientale comunque applicabili e le norme igienico – sanitarie.

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Lo stesso articolo 22 indica in modo dettagliato le tipologie di biomassa ammesse per la produzione di digestato:

1. Sfalci di potature, paglia, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso di cui all’articolo 185 comma 1 lettera f D.lgs. 03/04/2006 n°152

2. Materiale agricolo derivante da colture agrarie

3. Effluenti di allevamento, come definiti all’art. 3, comma 1, lettera c) del decreto 4. Acque reflue, come definite da art. 3, comma 1, lettera f) del decreto

5. Residui attività agroalimentare di cui all’art. 3, comma 1, lettera i) del decreto a condizione che non contengano sostanze pericolose conformemente al Regolamento CE 1907/2006 6. Acque di vegetazione dei frantoi oleari e sanse umide anche denocciolate di cui alla legge

11/11/1996 n° 574

7. Sottoprodotti di origine animale, usati in conformità con quanto previsto nel regolamento CE n° 1069/2009

8. Materiale agricolo e forestale non destinato al consumo alimentare

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Il decreto, all’articolo 22, comma 3 e all’allegato IX introduce i concetti di Digestato Agro zootecnico e Digestato Agro industriale in base alla tipologia di biomasse utilizzate:

 Digestato Agro industriale: prodotto con uno o più dei materiali indicati ai punti 4, 5, 6, 7, eventualmente in miscela con quelli indicati per il digestato agro zootecnico.

 Digestato Agro zootecnico: prodotto solamente con le biomasse indicate ai punti 1 e 2 con il limite del 30% in peso per i soli impianti autorizzati dopo il 18/04/2016, le biomasse al punto 3, colture non destinate al consumo umano

Nell’allegato IX del decreto sono specificate per ogni tipologia di digestato una serie di parametri qualitativi limite da rispettare ai fini della qualificazione:

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Ai fini dell’uso in agricoltura, il produttore deve qualificare il proprio digestato in una delle due categorie al momento dello spandimento, dimostrando di rispettare i parametri di qualità; le aziende che vogliono usare il digestato in campo devono tenere un registro dei materiali in ingresso, da esibire in caso di controllo; deve essere redatto un Piano di Utilizzazione Agronomica (PUA) e conservate le registrazioni delle operazioni di utilizzo del digestato sui terreni; la quota di azoto va a bilancio della coltura con una decurtazione del 20% contando le esigenze di stoccaggio; il digestato va distribuito assicurando alta efficienza e uniformità di distribuzione, evitando perdite per ruscellamento, lisciviazione e volatilizzazione dell’ammonio (AAVV, 2016).

Caratteristiche e composizione del digestato

Il digestato tal quale, cioè quello che esce direttamente dal fermentatore, è un materiale fluido con particelle solide in sospensione che si presenta omogeneo e con tenore di umidità più alto rispetto alle biomasse d’origine a seguito della degradazione della sostanza secca operata dai batteri durante il processo di digestione anaerobica. Questo processo, inoltre, stabilizza la sostanza organica senza che si verifichi una diminuzione del contenuto di elementi nutritivi rispetto alla biomassa di partenza (Bezzi, Ragazzoni, 2014).

Il digestato può avere varia composizione, in base al tipo di biomassa inserita nel digestore e la configurazione del digestore stesso (Nkoa, 2014). Il tenore di sostanza secca, ad esempio, varia di solito in un range tra il 2 e il 10% e la sua percentuale è direttamente correlata alla quantità di cereali insilati immessi nel digestore; la concentrazione di azoto invece oscilla da 2 a 7 Kg/t passando da un’alimentazione del digestore a base di soli liquami verso un’altra con maggiore contenuto di insilati (Bezzi, Ragazzoni, 2014). La variazione delle proprietà biochimiche del digestato è considerevole, riflettendo la diversità delle biomasse in ingresso nel digestore.

Un ammendante è definito come un materiale in grado di migliorare le caratteristiche fisiche, chimiche o biologiche di un terreno una volta che è stato incorporato in esso. Come stabilito dalla Commissione Europea di Standardizzazione (AFNOR: FD CR 13456 2001), il contenuto di sostanza organica del materiale è il parametro fondamentale che definisce il suo stato di ammendante; carbonio e azoto sono i principali costituenti della sostanza organica. Alcuni digestati hanno mostrato di avere un alto contenuto di azoto minerale all’interno della sostanza organica (51 – 68% N totale), dimostrando un loro possibile impiego come fertilizzanti mentre altri tipi di digestato hanno mostrato un tenore minore di azoto per lo stesso parametro (24 – 36% N totale), dimostrandosi interessanti per un loro impiego come ammendanti (Nkoa, 2014).

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Il digestato tal quale può essere potenzialmente già applicabile a livello agronomico con l’utilizzo di una meccanizzazione adeguata, nonostante ciò, molti impianti si sono dotati di un sistema di separazione solido – liquido mediante il quale si ottengono due frazioni principali: solida o palabile e liquida o chiarificata.

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Frazione solida o palabile

Rappresenta in genere il 10 – 15% circa del perso del digestato tal quale ed è caratterizzata da un contenuto di sostanza secca relativamente alto, di solito superiore al 20% circa.

In essa si concentrano la sostanza organica, il fosforo e l’azoto organico; in base a ciò, la frazione solida presenta buone proprietà ammendanti e ha un rilascio graduale dei nutrienti nel terreno (Bezzi, Ragazzoni, 2014). Secondo uno studio condotto da Adani e D’Imporzano (2009), la frazione solida, in virtù del suo potere ammendante, risulta di grande utilità per ripristinare il bilancio umico dei suoli e soprattutto della pianura Padana che hanno perso elevate percentuali di sostanza organica negli ultimi 50 – 60 anni.

In generale, le proprietà della frazione solida di un materiale sono migliorate ulteriormente sottoponendolo a compostaggio, processo in cui la sostanza organica labile, la cui degradazione era già stata avviata durante il processo di digestione anaerobica, viene completamente digerita; in questo modo aumenta la stabilità della sostanza organica residua, parametro correlato all’effetto ammendante (Piccinini et al., 2009).

Tab. 3: Caratteristiche medie della frazione solida del digestato – Fonte: Bezzi, Ragazzoni, 2014

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Frazione liquida o chiarificata

Rappresenta di solito l’85 – 90% del volume del digestato tal quale e ha un tenore di sostanza secca compreso in media tra l’1.5 e l’8%.

In essa si concentrano i composti solubili e gli elementi nutritivi in forma minerale (N P, K+, Ca2+, Mg2+, S), inoltre presenta un alto titolo di azoto ammoniacale (>75%) ed un rapporto N/P elevato (Adani, D’Imporzano, 2009). La frazione liquida, contenendo anche oligo-elementi utili alla nutrizione delle piante, può essere assimilata ad un fertilizzante minerale in soluzione acquosa (Adani, D’Imporzano, 2009).

Tab. 4: Caratteristiche medie della frazione liquida del digestato – Fonte: Bezzi, Ragazzoni, 2014

Fig. 9: Modalità e tempi di utilizzo agronomico del digestato tal quale e delle sue frazioni. – Fonte: Bezzi, Ragazzoni, 2014

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Utilizzo del digestato e fertilità del terreno

L’interazione tra il digestato e il terreno è complessa in relazione alla natura organica del digestato stesso. Oltre a produrre immediati effetti sulla fertilità, il digestato genera nel lungo periodo effetti positivi legati all’interazione delle frazioni organiche con le dinamiche biochimiche del terreno.

Effetti sulla dinamica dei macroelementi nel suolo

Il digestato tal quale e le sue frazioni hanno un contenuto di azoto variabile, in parte mineralizzato, in parte prontamente disponibile e in parte in forma organica. Dopo l’applicazione del digestato al terreno si ha una rapida nitrificazione dell’azoto contenuto in esso.

Per quanto concerne il fosforo, l’applicazione al terreno del digestato ne aumenta la quantità assimilabile specialmente in quelli calcarei dove visto il pH elevato e l’alta percentuale di carbonati in essi presenti, il fosforo si insolubilizza in forma di apatite e risulta pertanto un fattore limitante nelle coltivazioni (Alburquerque et al., 2012). L’applicazione di digestato aumenta inoltre il quantitativo di potassio scambiabile presente nel terreno (Bezzi, Ragazzoni, 2014).

Fig. 10: Disponibilità di macroelementi nei terreni fertilizzati con digestato; la linea tratteggiata indica la media negli anni – Fonte: Bezzi, Ragazzoni, 2014

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Effetti sulla dinamica dei microelementi nel suolo

La concentrazione dei microelementi nel digestato è proporzionale al loro contenuto nelle biomasse immesse nel digestore; è stato tuttavia notato che il processo di digestione anaerobica può determinare una riduzione della disponibilità di calcio e manganese, in quanto immobilizzati nei carbonati e nei fosfati che si generano durante il processo (Bezzi, Ragazzoni, 2014). In una revue sull’argomento Moller e Muller (2012) hanno riportato come l’utilizzo del digestato applicato al terreno non determina cambiamenti importanti nella dotazione di microelementi e non sono stati notati effetti di accumulo nel lungo periodo.

Effetti sulla sostanza organica e sulla comunità microbica del terreno

Nonostante i pochi dati disponibili sulle frazioni strutturali che compongono la sostanza organica del digestato, il quantitativo di sostanza organica contenuto nel digestato è in linea con i parametri minimi europei per la sostanza organica (20% della sostanza secca del materiale) (Nkoa, 2014). L’applicazione di digestato al terreno fornisce sostanza organica prontamente disponibile, in prevalenza degradabile nel breve periodo e quindi non in grado di aumentare in modo sostanziale il contenuto di carbonio del terreno (Alburquerque et al., 2012). Tuttavia l’applicazione di digestato, in particolare della sua frazione solida, per lungi periodi può aumentare la dotazione di sostanza organica del terreno, con indubbi vantaggi agronomici ed ambientali: agronomici perché la sostanza organica conferisce una buona struttura al suolo per i suoi effetti cementificanti (Alburquerque et al., 2012), aumenta la capacità di scambio cationico e la capacità di campo; ambientali in quanto la frazione organica costituisce un sink di carbonio sotto forma di composti umici recalcitranti all’attacco microbico, riducendo l’emissione di anidride carbonica dell’atmosfera.

Inoltre, l’apporto di sostanza organica incrementa i livelli di cellule microbiche presenti nel terreno, in particolare dei funghi che sono i principali responsabili della formazione di aggregati grandi più di 0.2mm (Alburquerque et al., 2012); nel digestato sono infatti presenti molti macro e micronutrienti i quali, oltre a provvedere ai fabbisogni delle colture, fungono da promotori e da ormoni per i microorganismi del suolo (Bezzi, Ragazzoni, 2014).

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Effetti sul pH del terreno

Il digestato ha un pH tendente all’alcalino o alcalino perché durante il processo di digestione anaerobica si formano carbonati, quindi si può supporre che una sua applicazione in maniera continuativa al suolo possa aumentarne il pH. Numerose ricerche hanno tuttavia dimostrato che il pH del terreno non subisce variazioni di rilievo (Bezzi, Ragazzoni, 2014).

Digestato e agricoltura biologica

Come precedentemente accennato, con il regolamento 354/2014 approvato dall’Unione Europea, è stato ammesso l’utilizzo del digestato in agricoltura biologica; il digestato si è dimostrato infatti un elemento fondamentale nelle aziende agricole gestite con metodi biologici garantendo un ottimo livello di fertilizzazione e un alto ritorno economico. A questo proposito, nel 2010, all’interno di un progetto europeo di ricerca chiamato “Susteingas”, è stato svolto uno studio per conoscere gli effetti del corretto utilizzo del digestato nei campi coltivati con colture biologiche; gli esiti si sono rivelati positivi in quanto, a seguito del trattamento delle colture con il digestato, gli agricoltori hanno riscontrato un aumento della resa colturale, sopratutto per le colture che necessitano di un alto apporto di sostanze nutritive come il mais, per il quale si sono riscontrati incrementi pari al 29% (www.sustaingas.eu). Considerando che sul mercato il letame non è facilmente reperibile e si hanno sempre più restrizioni inerenti l’utilizzo di fertilizzanti chimici di sintesi, l’utilizzo del digestato all’interno delle colture biologiche garantisce non solo risparmi sui costi di fertilizzazione migliorando la varietà di sostanze nutritive apportate e il loro quantitativo ma garantisce, oltre a maggiori rese, un aumento della qualità dei prodotti (Bezzi, Ragazzoni, 2014).

Fig. 11: Andamento del pH nei terreni fertilizzati con digestato; la linea tratteggiata indica la media negli anni – Fonte: Bezzi, Ragazzoni, 2014

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Sistemi di trattamento meccanico del digestato

Come già detto, il digestato tal quale può essere potenzialmente già applicabile a livello agronomico con l’utilizzo di una meccanizzazione adeguata; nonostante ciò, molti impianti si sono dotati di un sistema di separazione solido – liquido mediante il quale si ottengono due frazioni principali: solida o palabile e liquida o chiarificata. Questa scelta è dovuta principalmente a: riduzione della formazione di croste superficiali negli stoccaggi, esigenza di rimettere in circolo nell’impianto una porzione di acqua per mantenere l’umidità ottimale del digestando, aumentare l’efficienza di gestione delle due fasi a livello agronomico (Bezzi, Ragazzoni, 2014).

Il digestato può venire inoltre sottoposto a un processo di rimozione dell’azoto (attraverso un processo biologico o uno chimico detto strippaggio) (Greco, 2009).

Fig. 12: Schema del processo di trattamento del digestato – Fonte: Bezzi, Ragazzoni, 2014

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Tipologie di separatori

I separatori in commercio sono finalizzati al trattamento dell’effluente per migliorarne la gestione. Si tratta di sistemi meccanici basati su un processo di separazione delle particelle di dimensioni superiori mediante il passaggio del digestato attraverso una superficie grigliata o forata. I separatori differiscono per la modalità con cui il liquame viene convogliato tramite il sistema filtrante: nei vagli statici si sfrutta la forza di gravità, nei vibrovagli la vibrazione della griglia, nei vagli rotativi la gravità e la rotazione, nei separatori a rulli cilindrici la pressione dei rulli controrotanti, nei separatori a vite elicoidale la compressione del digestato contro la griglia.

La separazione può essere utilizzata in maniera vantaggiosa per motivi gestionali, sopratutto per quanto riguarda la gestione del digestato separato solido: questo può essere utilizzato in pre-aratura sui seminativi ed eventualmente sparso sui terreni più lontani dall’azienda con costi e tempi di trasporto minori rispetto al digestato tal quale, in virtù dei minori volumi mossi a parità di azoto contenuto (Bezzi, Ragazzoni, 2014).

Separatore orizzontale SEPCOM®

L’impianto è composto essenzialmente da:

 Modulo compensatore (tramoggia di carico): ha la responsabilità della corretta alimentazione del refluo zootecnico, stabilizzando il flusso del digestato in entrata

 Modulo di carico: il digestato arriva qui dalla tramoggia di carico, dove inizia il suo trasporto operato dalla coclea

 Modulo di trasporto: composto da un cilindro entro cui sta il vaglio cilindrico di filtrazione; la coclea, girando, consente al digestato durante il movimento, di perdere la maggior parte del liquido in eccesso. Il moto della coclea è gestito da un moto riduttore

 Modulo di compattazione: composto da un cilindro fissato al modulo di trasporto; in fondo ad esso è posizionato un diaframma di chiusura che determina la compressione del prodotto, spremendolo e facendo fuoriuscire il liquido in esso contenuto, il separato solido invece cade su una platea in forma palabile

 Modulo di scarico: collocato al di sotto del modulo di trasporto, consente alla fase liquida separata di essere convogliata verso le tubature di scarico.

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Separatore verticale SEPCOM®

Questo separatore è stato progettato e realizzato per migliorare le prestazioni dei separatori orizzontali in presenza di materiali molto viscosi da trattare. Il separatore è composto da:

 Zona di carico: è una tramoggia di carico provvista di una bocca di scarico per il troppo pieno, costruita in modo da far fluire il digestato direttamente nella zona di separazione

 Zona di separazione e trasporto: composta da due coclee verticali che ruotano in senso opposto in un vaglio, attraverso cui fluisce la parte liquida separata mentre le coclee trasportano il separato solido verso la zona di compattazione

 Zona di compattazione: composta da una bocca di scarico e da un diaframma che compatta il materiale solido, che viene poi espulso e scaricato attraverso degli scivoli montati sulla macchina stessa

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Separatori centrifughi

È una tecnologia molto costosa che prevede potenze installate superiori a 20kW, assorbendo parte dell’energia generata attraverso la digestione anaerobica. Attualmente è disponibile un sistema di microfiltrazione centrifugo, consistente in un modulo di carico che convoglia il materiale e in un modulo di filtrazione composto da un’elica e un vaglio filtrante. L’effetto innescato nella macchina consente di ottenere un liquido filtrato con ridotto tenore di solidi sospesi e una frazione separata che rimane in prevalenza liquida, assimilabile ad un digestato tal quale. L’efficienza ottimale si raggiunge quando viene processato il liquido filtrato proveniente da un separatore tradizionale.

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Processi di rimozione dell’azoto

Per rispettare i limiti imposti dalla direttiva nitrati, prima di spandere il digestato in campo è importante valutare se il suo carico totale di azoto può essere completamente distribuito sui terreni disponibili dell’azienda e se sono necessari interventi e processi atti a ridurne il quantitativo. Ciò può avvenire attraverso due vie: strippaggio dell’ammoniaca (tramite processo chimico) o processo biologico in un impianto nitro – denitro (Bezzi, Ragazzoni, 2014).

Strippaggio dell’ammoniaca

Il procedimento consente di allontanare dalla fase liquida una quota di azoto ammoniacale portando il pH a valori superiori a 10 e/o innalzando la temperatura della frazione liquida del digestato a 70 – 80°C (Greco, 2009); così facendo si libera ammoniaca in un ambiente chiuso che viene poi convogliata in un secondo contenitore dove viene fatta reagire con un flusso di acido solforico, andando a formare solfato d’ammonio. Lo strippaggio si mostra molto efficiente nel rimuovere l’ammoniaca in soluzione presente nel digestato; tale tecnica, però, elimina esclusivamente l’azoto in forma ammoniacale lasciando inalterata la quantità di azoto disponibile in altre forme (Bezzi, Ragazzoni, 2014).

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Processo biologico

Con il trattamento biologico si applicano le tecnologie depurative utilizzate nel settore delle fognature urbane, dove si ricorre all’azione dei batteri nitrificanti e, successivamente, di quelli denitrificanti per liberare azoto molecolare in atmosfera (Greco, 2009). La prima fase di ossidazione è una fase aerobica in cui l’azoto viene trasformato in forma nitrica, insufflando aria per mantenere la giusta concentrazione di ossigeno; alla fase di ossidazione segue una fase anossica in cui i nitrati vengono convertiti in azoto molecolare. Durante il trattamento sono possibili rilasci in atmosfera di azoto sotto forma di ammoniaca o protossido d’azoto, che possono essere contenuti da una buona regolazione e gestione dell’impianto.

La quantità di azoto disponibile viene ridotta del 65 – 70% e viene diminuito anche il contenuto di sostanza organica che viene mineralizzata (Bezzi, Ragazzoni, 2014).

Fig. 16: Strippaggio dell’ammoniaca – Fonte: elaborazione da AAVV, 2008

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Biochar

Con il termine biochar si definisce quel materiale, di consistenza fine e porosa, con alto contenuto di carbonio, prodotto dalla combustione di biomasse in un processo, la pirolisi, condotto a basse quantità di ossigeno e a temperature relativamente elevate (<700 °C) (Chan et al., 2007). La parola deriva dalla fusione di due termini inglesi: biological (biologico) e charcoal (carbonella). Attualmente è stata posta molta attenzione sul biochar per due importanti problematiche mondiali: i cambiamenti climatici e la necessità di una gestione del suolo più sostenibile. Innanzitutto, il biochar è prodotto da materie prime rinnovabili e, escludendo quella parte di anidride carbonica che si perde nell’atmosfera a seguito della produzione, la sua natura stabile lo rende un buon sequestratore di carbonio; in secondo luogo il biochar ha le potenzialità per poter essere impiegato come ammendante per migliorare le caratteristiche fisiche del suolo (Chen et al., 2007).

Il biochar può essere prodotto a partire da numerose biomasse e residui agrari, ad esempio pula di riso, stocchi di mais, scarti di potatura o da colture dedicate; può essere generato anche a partire dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani (la cosidetta FORSU) ma non da altri rifiuti urbani in quanto contengono metalli pesanti che possono inquinare il terreno. Attualmente, il biochar viene prodotto principalmente a partire da cippati di legno, residui colturali, scarti dell’industria olearia, corteccia, fanghi di depurazione ...(Yaman, 2004).

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Metodi di produzione del biochar

La tecnologia alla base del processo di pirolisi si basa sulla combustione di residui organici in un ambiente povero di ossigeno e a temperature comprese tra 400 °C e 700 °C, in condizioni controllate all’interno di impianti indutriali bioenergetici. Da essa si generano un gas combustibile di sintesi (syngas), biochar e bio olio (Downie, Van Zwieten.).

La pirolisi è una tecnologia ben consolidata ma i suoi processi, in particolare la temperatura e il tempo di residenza nel forno della biomassa, influenzano non poco le qualità del biochar in uscita, cosa che fa variare notevolmente le sue prestazioni come ammendante in agricoltura.

Caratteristiche del biochar

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Struttura del biochar

Le caratteristiche fisiche del biochar sono dovute da vari fattori: la biomassa di partenza è importante, ma anche il sistema di pirolisi è importante. La struttura originale della biomassa di partenza è improntata nel biochar prodotto e ciò influenza le sue caratteristiche fisiche e strutturali finali.

Il biochar ha una struttura particolare, amorfa ma contiene delle strutture cristalline a base di composti aromatici strettamente coniugati; queste zone possono essere rappresentate come pile di lamine piane di composti aromatici, posizionate in modo casuale e connesse trasversalmente.

Il biochar è inoltre composto da altre sostanze aromatico – alifatiche organizzate in strutture complesse e da minerali. Tutte queste sostanze formano pori di varia dimensione (macro-, meso- e micropori e fenditure).

La pirolisi della biomassa ingrandisce i cristalli e li organizza ordinatamente (Downie et al., 2009).

Caratteristiche fisiche e rapporti col terreno

Le caratteristiche fisiche del biochar possono direttamente o indirettamente influire sulla proprietà fisiche del suolo. Quando viene immesso nel terreno il materiale interagisce con le varie componenti del sistema, modificando la tessitura, la struttura, la porosità, la superficie specifica, la densità. La variazione diquesti parametri influenza la crescita delle piante perchè il suolo risponde diversamente all’azione dell’acqua in termini di permeabilità, lavorabilità durante le varie operazioni colturali così come la capacità di scambio cationico e la sua risposta alle variazioni di temperatura. Influenze indirette derivano invece da variazioni di fertilità susseguenti modificazioni della quantità, diversità e attività della componente microbica del terreno (Downie et al., 2009).

Superficie specifica delle particelle del suolo e biochar

La superficie specifica delle particelle, definita dal rapporto tra area superficiale e volume o massa delle particelle, costituisce una caratteristica fondamentale del suolo che influenza tutti i parametri di fertilità. Ad esempio, la limitata capacità di ritenzione idrica dei suoli sabbiosi e la loro bassa fertilità è in parte dovuta a bassi valori della superficie specificadelle particelle di suolo. I terreni argillosi, al contrario, hanno elevata superficie specifica che determinaun’adeguata ritenzione idrica. Alti contenuti di sostanza organica, ottenibili anche con apporti di ammendanti, permettono di superare questi inconvenienti (Troeh e Thompson, 2005).

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Caratteristiche di porosità del biochar

L’elevata porosità e il tipo di di distribuzione dei pori all’interno delle particelle del biochar è stata da tempo riconosciuta come un fattore importante per l' utilizzo industriale del materiale che, per questa caratteristica, ha trovato applicazione a livello agronomico. I micropori contribuiscono molto all’area superficiale del biochar e sono responsabili dell’alta capacità di adsorbimento per molecole di piccole dimensioni, come i gas e i solventi.

La superficie specifica del biochar aumenta con l’incremento del periodo di mantenimento a elevate temperature, senza raggiungere il momento in cui avviene la deformazione del composto, che determina riduzioni del parametro.

Oltre che dai tempi di trattamento, l’estensione della formazione dei micropori è determinata anche dagli incrementi di calore.

Anche i macropori sono importanti nel terreno; il movimento delle radici nel suolo è infatti facilitato dalla presenza di queste cavità che costituiscono anche l’habitat per la microflora.

Nel biochar l’area dei micropori è significativamente più grande di quella dei macropori , anche se il volume dei macropori può essere significativamente maggiore di quello dei micropori (Downie et al, 2009).

Tab. 5: Superficie specifica e volumi di pori di dimensioni diverse all’interno del biochar – Fonte: Downie et al., 2009

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Caratteristiche chimiche del biochar

La composizione chimica del biochar risulta piuttosto varia, a causa delle reazioni chimiche complesse che avvengono nella biomassa durante il processo di pirolisi.

Contenuto in ceneri

La qualità e la distribuzione della componente minerale all’interno del biochar è regolata da tre fattori: la qualità delle biomasse di partenza, le condizioni di processo cui viene sottoposto il biochar e la quantità di materia prima disponibile al momento di avviare la pirolisi.

Molti dei minerali presenti nella biomassa di partenza si ritrovano nel biochar a concentrazioni molto più alte per la perdita consistente di C, H e O durante la combustione. Durante questa fase di combustione della biomassa gli ioni K+ e Cl-, essendo altamente mobili, possono iniziare a vaporizzare a temperature relativamente basse mentre Ca2+ e Si4+, che sono presenti principalmente legati ai composti della parete cellulare, vengono rilasciati a temperatura molto più elevata (Yu et al, 2005); Mg, P, S, Fe e Mn, che sono molto più legati alle molecole organiche e sono stabili a basse temperature rispetto a Ca e Si (Capraro. 2009).Anche l’azoto, associato a vari tipologie di molecole organiche, può essere rilasciato a temperature relativamente basse.

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Chimica di superficie del biochar

Data la composizione eterogenea del biochar, la chimica della sua superficie risulta ricca e varia: il materiale presenta proprietà idrofiliche, idrofobiche, acide e basiche, in funzione dalla del tipo di biomassa di partenza e dei trattamenti fisici che essa subisce durante il processo produttivo.

 Fase carboniosa (gruppi funzionali): gruppi come O(C=O)R, OR, OH, NH2 sono classificati

come donatori di elettroni, in quanto presentano nei loro orbitali elettroni α e π, mentre gruppi come NO2, (C=O)H oppure (C=O)OH sono classificati come accettori di elettroni

perchè presentano orbitali vuoti. Gruppi debolmente acidi sono i gruppi carbonilici e fenolici mentre quelli carbossilici sono acidi forti, secondo Brønsted (Capraro, 2009).

 Ossigeno: il biochar reagisce facilmente con l’ossigeno presente in atmosfera, intrappolandolo nei gruppi funzionali presenti sulla superficie (Bourke et al., 2007).

Tab. 6: Contenuto in ceneri e composizione elementare delle materie prime per la produzione di biochar nei confronti del biochar derivante da quercia – Fonte: Capraro, 2009

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 Azoto e zolfo: nei biochar derivati da matrici ligno-cellulosiche risultano meno abbondanti i gruppi funzionali dei N e S rispetto ai biochar prodotti a partire da letame, fanghi di depurazione e scarti di macellazione (Capraro, 2009).

Influenza delle proprietà superficiali sull’adsorbimento

La presenza di vari gruppi funzionali sulla superficie del biochar ne influenza le proprietà di adsorbimento, in base alla loro natura, alla carica elettrica che tali gruppi conferiscono e alla presenza di elettroni π. La carica, derivante da fenomeni di dissociazione, può variare in base al pH del mezzo, influenzando così la capacità di adsorbimento; inoltre anche la natura dell’elemento adsorbito influenza l’entità dell’ adsorbimento sulla matrice.

Swiatkowski et al (2004) hanno stilato un elenco delle varie possibilità con cui i metalli possono essere adsorbiti dal biochar:

Anche molti composti organici, come aniline, fenoli e altre molecole aromatiche sono soggetti a adsorbimento elettrostatico (Radovic et. al, 2007).

Fig. 21: Possibili interazioni tra i metalli e i gruppi funzionali del biochar, Me2+ indica un catione bivalente – Fonte Swiatkowski et al, 2004

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Contenuto in nutrienti del biochar

Anche per quanto riguarda la concentrazione dei principali elementi nutritivi sono importanti la natura delle biomasse di partenza e le condizioni di processo. Nella tabella sottostante sono riportati i contenuti in elementi del biochar in funzione del materiale di partenza utilizzato nella pirolisi.

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Rapporto C/N

Il rapporto C/N del biochar presenta elevata variabilità, da 7 a 400, con una media di 67 (Capraro, 2009); il valore del rapporto indica la tendenza dei substrati organici a essere mineralizzati e rilasciare N inorganico quando sono applicati al terreno. Il biochar, per il suo alto valore di C/N dovuto all’elevata concentrazione di carbonio organico e al relativamente basso valore di N, non è facilmente mineralizzabile e può immobilizzare l’azoto minerale del terreno.

Caratteristiche biologiche del biochar

Il biochar stimola l’attività dei microorganismi terricoli utili in agricoltura; la distribuzione e la presenza dei pori sono due fattori che contribuiscono a creare un ambiente ideale per molti microorganismi, proteggendoli dalla predazione e dalla disidratazione, fornendo contemporaneamente elementi nutritivi, carbonio ed energia.

Habitat per i microorganismi

Come già precedentemente riportato, essendo il biochar molto poroso e dotato di una elevata superficie specifica interna, può costituire un particolare habitat in cui si possono stabilire i microorganismi..Inoltre il biochar è in grado di adsorbire materiale organico solubile, nutrienti minerali, acqua e gas che possono essere utilizzati dai microorganismi per le loro attività biologiche. I gruppi più interessati da queste possibilità sono batteri, attinomiceti e funghi micorrizici arbuscolari (Capraro, 2009).

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In base alle dimensioni dei pori del biochar, i microorganismi possono avere o non avere accesso agli interstizi. Temperatura, pH e umidità sono i fattori che influenzano maggiormente l’abbondanza, la diversità e le attività dei microorganismi. Di particolare importanza è il pH: nel biochar questo parametro varia considerevolmente in base alla temperatura di pirolisi, dalla biomassa di origine e dal grado di ossidazione (Lehman et al, 2011).

I batteri possono aderire alle superfici del biochar, diventando così meno soggetti alla lisciviazione, aumentando così la loro abbondanza. I funghi, invece, hanno comportamento diverso in quanto la loro mobilità, ed eventuale lisciviazione, è già ridotta dalle ramificazioni del micelio. L’adesione al biochar da parte dei batteri può avvenire attraverso varie vie, tra cui attrazioni elettrostatiche o attrazione idrofobiche. La presenza di minerali assorbenti consente un maggior assorbimento così come è stata dimostrata l’importanza della dimensione dei pori: per un’adesione ottimale, questi dovrebbero essere da 2 a 5 volte più grandi della dimensione delle cellule (Capraro, 2009)

È stato anche ipotizzato che i batteri e i funghi possano essere meglio protetti dalla predazione o dai competitori inserendosi ed esplorando i pori del biochar, ma non sono attualmente disponibili dati sufficienti (Lehman et al., 2011). Va rilevato che la composizione della comunità microbica non

Fig. 22: Visione al microscopio elettronico dell’associazione spaziale e della colonizzazione del biochar da parte dei microorganismi. (a) biochar fresco

colonizzato da ife fungine; (b) biochar fresco di mais colonizzato da microorganismi nei pori (indicati dalle frecce); (c) biochar di 100 anni isolato da incendio boschivo; (d) biochar di 350 anni prodotto in un incendio boschivo in una foresta boreale – Fonte: Lehman et al., 2011

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varia in maniera sostanziale rispetto a quella del terreno in seguito all’aggiunta di biochar (Su et al., 2015).

Uso agronomico del biochar

L’applicazione del biochar al terreno avviene con le lavorazioni che interrano il materiale per evitare che possa venire eroso dagli agenti atmosferici.

Cambiamenti di natura fisica del biochar nel suolo

Frammentando grandi pezzi di biochar in particelle più piccole viene esposta maggiormente la sua superficie, esponendolo maggiormente all’azione di agenti fisici, chimici e biologici.

In ambienti con forti gradienti termici e veloci cicli di gelo e disgelo le particelle di biochar vengono frammentate dall’intrusione dell’acqua nei pori che, congelandosi e aumentando di volume, sottopone a pressione le particelle di biochar che quindi si disgregano. Lo stesso fenomeno si verifica per l’azione delle radici e delle ife fungine (Money, 1995).

Cambiamenti chimici del biochar nel suolo

Poco dopo l’incorporazione nel suolo, le superfici esterne del biochar subiscono reazioni di ossidazione e interazioni con vari costituenti del suolo. Ossidazioni di origine abiotica hanno luogo per azioni di chemio assorbimento dell’ossigeno.

Aumentando il numero di gruppi funzionali acidi per azione di questo meccanismo, il biochar diventa maggiormente idrofilo e aumenta ulteriormente gli effetti chimici, fisici e biologici apportati dagli agenti atmosferici come la lisciviazione di esso lungo i profili del terreno, la sua frammentazione in particelle più piccole, la formazione di C organico disciolto (Lehman, 2007).

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Effetti dell’assorbimento chimico sull’attività biologica del suolo

La presenza del biochar nel suolo rafforza l’adsorbimento del carbonio organico disciolto, dei gas e di nutrienti minerali, ma anche l’adsorbimento di composti potenzialmente tossici come metalli pesanti, prodotti fitosanitari e metaboliti secondari tossici, che possono influire sulla diversità, l’abbondanza e l’attività degli organismi terricoli.

Alcuni studi hanno dimostrato che l’aggiunta di biochar incrementava la biomassa microbica del suolo, suggerendo che esso agiva da adsorbente per i metaboliti secondari e i fenoli generati dalla decomposizione della vegetazione, ottenendo così un incremento nella disponibilità dei nutrienti nel suolo (Wardle et al., 1998). L’adsorbimento sia dei microorganismi che del substrato sulla superficie del biochar può produrre una concentrazione più alta di substrato in prossimità delle cellule batteriche, favorendol’utilizzazione del substrato.

In considerazione della complessità delle interazioni esistenti tra suolo, biochar, minerali, microorganismi e nutrienti , rimangono alcune aspetti da chiarire relativamente ai meccanismi responsabili degli effetti del biochar sugli organismi del suolo (interazione della superficie con le capsule cellulari o con le pareti) e gli effetti indiretti che possono risultare dai cambiamenti nell’adsorbimento della sostanza organica, dei minerali argillosi, dei nutrienti e di altri minerali (Capraro, 2009).

Fig. 23: Interazioni tra i vari elementi che permettono la disponibilità di carbonio, l’energia e i nutrienti per la colonizzazione dei microorganismi – Fonte: Capraro, 2009

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