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Bruderparteien? PCI e SED nell'orientamento dell'opinione pubblica italiana per il riconoscimento della DDR 1956 - 1973

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Lorenzo Vannoni

Bruderparteien? PCI e SED

nell’orientamento dell’opinione pubblica

italiana per il riconoscimento della DDR

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2

Indice

Introduzione

4

P

ARTE

I.

L

E POSIZIONI DIPLOMATICHE

I.

L’Italia e la questione tedesca

12

1. Genesi della Guerra fredda. Sintesi 12

2. La nascita delle due Germanie. 13

3. La posizione dell’Italia verso la Germania: dei fattori politici esterni ed interni in generale 17

3.1. L’apertura di Gronchi e primi tentativi di Ostpolitik 27

4. L’Italia, i rapporti con l’Est e la percezione del “problema tedesco” 30

5. Il “problema tedesco” nell’immaginario delle sinistre 34

5.1. La rappresentazione della DDR nella stampa di sinistra tra parzialità ed omissione 36

II. L’Italia vista da Berlino Est

46

1. Uscire dall’isolamento 46

2. Il perché di una scelta 49

3. Primi tentativi di apertura 54

4. Obiettivo Italia. Istituzioni, strategie, limiti 62

P

ARTE

II.

I

RAPPORTI POLITICI

I.

Ideologia e prassi nelle relazioni tra PCI e SED

72

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3

2. Il 1956 come anno di svolta 75

2.1. I riflessi del 1956 nelle relazioni tra PCI e SED 80

3. PCI e SED dopo l’“indimenticabile 1956” 85

4. Differenze ideologiche tra PCI e SED 91

II. Strumenti di propaganda e consenso

104

1. I mezzi in campo 104

1.1. La radio: Radio Berlin International 105

1.2. Il cinema di propaganda: DEFA e UNITELEFILM 107

2. La propaganda e i Gastarbeiter italiani nella BRD 110

III. Le relazioni culturali e politiche tra diplomazia e

propaganda

1. Il Centro Thomas Mann 112

2. La Deutsch-Italienische Gesellschaft 118

3. Le delegazioni parlamentari 120

IV. La via al riconoscimento diplomatico

129

1. Una breccia si apre 129

2. Il riconoscimento 132

Conclusioni

135

Fonti

137

(4)

4

I

ntroduzione

La fine della divisione della Germania, conseguente alla caduta del muro di Berlino il 9 Novembre 1989 ed il suggellamento dell’unità tedesca il 3 ottobre 1990, è stata seguita dai Paesi europei con atteggiamenti ambivalenti. Mentre gli Stati Uniti avevano già dato il 10 novembre 1989 la loro chiara approvazione alla riunificazione della Germania, guardando con favore alla normalizzazione dei rapporti Est-Ovest nell’ottica di un ruolo più forte dell’Europa nel contesto internazionale, le riserve dei politici dei due Stati tedeschi si manifestarono in tutta chiarezza in occasione delle trattative “due più quattro”1 che si svolsero nel corso del 1990, in quanto

l’ormeggio europeo di una nuova Germania federale era subordinato alla stipulazione di un trattato di pace, che nei fatti doveva essere a tutti gli effetti un trattato di unificazione. All’interno del consesso europeo, l’Italia spingeva per la conclusione del negoziato di pace collegato alla riunificazione. Sostenitore della pace e promotore della cooperazione europea sin dal 1945, lo stato italiano comprendeva il nesso tra la divisione tedesca e lo status quo dell’ordine europeo, pertanto si volse in favore di una nuova collocazione internazionale della Germania riunificata, dopo l’iniziale riserva ad un immediato sostegno.

Uscita fortemente indebolita dalla seconda guerra mondiale, anche dal punto di vista diplomatico, l’Italia non aveva mai giocato in nessuna occasione un ruolo determinante nelle questioni tedesche; ruolo che invece era spettato alle quattro potenze vincitrici, dalle quali il governo italiano si aspettava clemenza al tavolo delle trattative di pace. Alla guida di un paese sconfitto e forte sostenitrice dell’alleanza occidentale della NATO, ancorata saldamente all’Occidente ed europeista, la Democrazia Cristiana avviò una stretta partnership con la Repubblica federale tedesca (RFT o BRD) e con il suo partito al governo, la CDU (Christlich Demokatische Union).

In ottemperanza alla linea atlantica, la politica italiana, riguardo la questione tedesca, non era contrassegnata da un impegno attivo, al 1I negoziati furono condotti dalle due Germanie (RFT e RDT) più le quattro potenze vincitrici della seconda guerra

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pari delle altre potenze, ed in un primo tempo i rapporti tra l’Italia e la Repubblica federale tedesca interessarono solo politiche di amicizia formale nei confronti della giovane repubblica federale e la comune posizione anticomunista. Per quanto riguarda le relazioni tra Italia e Repubblica democratica tedesca (RDT o DDR), sul piano diplomatico entrambi gli Stati erano fortemente limitati da questioni di appartenenza a schieramenti differenti e contrapposti. L’intensità dei rapporti tra i due paesi era dipendente in larga parte dagli sviluppi del conflitto Est-Ovest e le loro capacità di azione potevano ascriversi solamente all’interno di una stretta cornice. Così, l’Italia scelse di sostenere la causa della Repubblica federale e non riconobbe né la DDR come Stato de facto e de iure, né il confine Oder-Neiße. In ogni caso, nel corso degli anni si manifestò in modo evidente come la Germania aspirasse alla riunificazione nazionale.

Le relazioni diplomatiche, nel nostro caso quelle inerenti all’Italia e alla DDR, furono vietate secondo quanto prescriveva la “dottrina Hallstein”; quest’ultima, che prende il nome del giurista Walter Hallstein2, fu in realtà formulata per la prima volta nel dicembre

1955 dal diplomatico di Bonn Wilhelm Grewe. I motivi e i fattori determinanti per le cosiddette “relazioni zero” tra i due stati, prima del riconoscimento ufficiale nel gennaio 1973 da parte dei due governi (anche se, per l’esattezza, si dovrebbe parlare di una volontà unilaterale di non riconoscimento dell’Italia nei confronti della DDR), risultarono da un lato, come già detto, l’appartenenza di entrambi gli stati a blocchi contrapposti, così come pure i fondamenti ideologici; dall’altro lato la convinzione della maggioranza dei partiti e dei rappresentanti del governo italiani, che la DDR non avesse alcun diritto di esistere, malgrado la pretesa di essere l’unica rappresentante di diritto dell’intera Germania. La priorità del governo italiano non era la necessità di stabilire relazioni verso la DDR, ma cogliere opportunità di cooperazione all’interno della cornice del nuovo ordine bipolare mondiale.

Gli esponenti del governo italiano annunciarono dunque le “relazioni zero” verso la DDR, ma già negli anni Cinquanta, attraverso contatti diplomatici segreti, si passò dal piano delle relazioni transnazionali al piano delle “relazioni sociali” e pertanto entrambi i livelli devono essere esaminati in modo differente.

2 Walter Hallstein fu sottosegretario del ministero degli Esteri della Repubblica federale tedesca dal 1951 al

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6

Prima di tutto è necessario studiare a fondo la questione, quali ruoli hanno giocato attori sociali come i partiti, le associazioni, i comitati di amicizia e i parlamentari nel tentativo di orientare la politica estera del governo italiano, che ha costantemente manifestato il pieno appoggio alla repubblica di Bonn. La politica estera italiana, favorevole ad una pacifica riunificazione della Germania sotto la guida di Bonn, non fu mai un percorso privo di ostacoli. Ciò fu dovuto alla presenza di quel “fronte interno”, costituito dalle sinistre e perfino dalla c.d. “sinistra DC”, che si rafforzò a partire dagli anni Sessanta, esprimendo una critica costante alla logica dei blocchi, che condizionava inevitabilmente le scelte in materia di politica estera ed il sistema capitalista.

All’interno della cornice dell’analisi delle relazioni tra Italia e DDR si colloca in modo particolare la questione circa le relazioni tra il PCI, il più forte partito comunista dell’Europa occidentale, e la SED (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands, ovvero Partito socialista unificato di Germania), il partito unico alla guida della Germania orientale. A differenza di come potrebbe apparire, entrambi i partiti erano profondamente divisi sul piano ideologico. Durante le ricerche che hanno portato alla realizzazione di questo lavoro, ho ritenuto necessario evidenziare quanto questi due partiti, così divergenti sulle questioni ideologiche, cercassero, in via ufficiale, di coordinare i loro rispettivi interessi, cioè quanto essi praticassero la solidarietà e manifestassero la volontà di intraprendere percorsi comuni di cooperazione all’interno dell’Internazionale Comunista. Più di tutto si è rivelato di estremo interesse scoprire ciò che stava dietro a questa immagine di facciata e quanto la SED dipendesse dal “partito fratello”, il PCI, che aveva partecipato in modo decisivo all’avvio dei contatti in svariati ambiti, da quello turistico a quello culturale. Per questa ragione, offrendo un’immagine diversa della Germania (Est), il Partito Comunista aprì la strada alla politica estera della DDR verso l’Italia. Mentre i partiti comunisti di Ungheria, Polonia e Romania iniziarono a cercare, dalla fine degli anni Sessanta, un aggancio con l’Ovest per tentare una timida “via propria”, fu la stretta alleanza tra Mosca e Berlino Est che continuò a determinare l’esistenza della DDR; anche dopo il riconoscimento diplomatico da parte delle potenze occidentali, iniziato alla fine del 1972, i paesi a Ovest della cortina di ferro continuarono a considerare la questione tedesca ancora come provvisoria.

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7

Un altro obiettivo che ho ritenuto importante per questo lavoro è stabilire fino a che punto la SED differisse dagli obiettivi ideologici nel campo della politica estera e se in ogni momento agisse in conformità con la politica sovietica, o se vi fossero segni di interessi politici autonomi. Nei suoi rapporti con il mondo occidentale, la DDR si concentrò sulle tre potenze vincitrici: Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. A questo punto mi sono domandato quali occasioni e possibilità particolari, rispetto ad altri Stati dell’Europa occidentale, potesse offrire una politica estera rivolta verso la Penisola, quali fossero le strategie, i punti di partenza ed i perché del rapporto DDR-Italia, ed infine in quali forme si manifestasse la presenza tedesco-orientale nel nostro paese.

1. Lo stato delle ricerche

A causa del difficile accesso agli archivi della DDR antecedentemente al 1990, la ricerca specifica sulla Repubblica democratica tedesca è stato un tema abbastanza inesplorato in Italia. Lo è ancor più se guardiamo alla storia delle relazioni tra la DDR e l’Italia stessa. Ad oggi infatti non esistono ricerche specifiche che illustrino il contributo che hanno dato il mondo delle associazioni e che ruolo abbiano svolto i partiti della sinistra italiana nel processo di accreditamento del governo della Germania Est presso la Repubblica italiana. Gli studi principali hanno riguardato le relazioni culturali tra i due paesi e tra i lavori più recenti sicuramente spicca quello di Magda Martini, “La cultura all’ombra del muro”, pubblicato nel 2007. Altri studi si sono distinti per il taglio giuridico-internazionalistico ed in particolare emergono “La questione tedesca nel diritto internazionale” di Aldo Bernardini e l’intervento di Luigi Vittorio Ferraris (ambasciatore nella Repubblica Federale Tedesca), “Le relazioni tra Italia e Germania: eredità e prospettive”, pubblicato sulla rivista “Europa/Europe” nel 1995. Complessivamente, le ricerche si sono soffermate più in generale sui rapporti fra i due paesi e sono da ricordare i lavori curati da Paul Hollander e da Gustavo Corni insieme a Christof Dipper, rispettivamente “Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cuba e Cina” per il primo e “Italiani in Germania tra Ottocento e Novecento”. Spostamenti, rapporti, immagini, influenze”. Assolutamente da

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menzionare, a proposito della storia tedesca in età contemporanea, sono i due studi di Enzo Collotti, “Storia delle due Germanie. 1945-1968” e “Dalle due Germanie alla Germania unita”; “Storia della Germania. Da Bismarck alla riunificazione” di Gustavo Corni; “La questione tedesca. Le due Germanie dalla divisione all’unità. 1945-1990”, di Antonio Missiroli.

Non sono tuttavia mancati studi più ampi, anche recenti, che si sono occupati di esaminare la questione della Ostpolitik italiana e tra questi lavori si inseriscono Bruna Bagnato, “Prove di Ostpolitik. Politica ed economia nella strategia italiana verso l'Unione Sovietica 1958-1963”; Guido Formigoni, “Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978)”.

Tra i lavori in lingua tedesca si segnala “Die Beziehungen zwischen der DDR und Italien in den fünfziger Jahren” di Johannes Lill e Italien und die DDR di Charis Pöthig. Entrambi i lavori sono un importante contributo alla definizione dei rapporti economici e sociali intercorsi fra la DDR e l’Italia, il primo dedicato agli anni Cinquanta, il secondo rivolto ad un arco temporale più ampio, arrivando fino al 1980. Da segnalare anche Ulrich Pfeil, “Die DDR und der Westen. Transnationale Beziehungen 1949-1989”. Tra i lavori più recenti si inserisce il volume di Hermann Wentker, “Außenpolitik in engen Grenzen: Die DDR im internationalen System 1949-1989”.

2. Lo stato delle fonti

Per questo lavoro mi sono avvalso di fonti archivistiche in Italia e in Germania. A Roma ho potuto prendere visione, in riferimento alla posizione del governo italiano, degli atti dell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari esteri (di cui sottolineo la non facile fruizione dei documenti). Sulla politica dei singoli partiti, sono stati esaminati gli atti e i materiali della Fondazione Gramsci (archivio storico PCI), relativamente alla Germania orientale. Sull’operato del Centro Thomas Mann non è stato possibile consultare l’ampia documentazione dell’omonimo archivio conservata presso l’Istituto italiano di Studi Germanici di Villa Sciarra a Roma per inaccessibilità temporanea dell’archivio, pertanto le informazioni sono state tratte dalle carte conservate

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presso l’archivio federale della Germania e dall’archivio della Fondazione Gramsci.

A Berlino, grazie all’apertura degli archivi della SED dopo il crollo della DDR, è possibile accedere alla mole di materiale prodotto dalla Repubblica democratica tedesca. Presso lo Stiftung Archiv der Parteien und Massenorganisationen sono conservati documenti sulla politica estera tedesco orientale. Nel caso di questo lavoro, si è rivelato di interesse la documentazione relativa ai contatti tra SED e PCI, SED e PSI, SED e PSIUP. Gli atti del Politischen Archiv des Auswärtigen Amtes offrono uno sguardo sul coordinamento delle attività all’estero del Ministero degli Affari Esteri della DDR.

Un ruolo importante in questo lavoro è stato svolto dalla stampa di partito. Ho prestato particolarmente attenzione a questo aspetto consultando quotidiani e periodici, come L’Unità, Avanti! e Rinascita, presso l’emeroteca della Biblioteca provinciale di Pisa, in quanto costituiscono un elemento importante per la costruzione del consenso. Grazie alla completa digitalizzazione, è stato possibile inoltre consultare l’archivio del quotidiano tedesco orientale Neues Deutschland, organo di stampa della SED, in un’ottica di confronto con le testate italiane.

3. Struttura del lavoro

La periodizzazione presa in considerazione in questo lavoro inizia con il 1956. Le ragioni sono dovute allo strappo che si consumò in quello stesso anno tra PSI e URSS, in seguito ai fatti di Ungheria. Termina con il 1973, anno in cui il governo italiano riconobbe in via ufficiale lo stato tedesco-orientale. Ho preferito suddividere il lavoro in due parti. Nella prima parte mi sono concentrato sul binomio Italia-DDR in generale; in particolare, ho esaminato la posizione dell’Italia nei confronti delle due Germanie, trattando più diffusamente, come è naturale che sia per questo lavoro, la posizione dell’Italia nei confronti della DDR. Questa prima parte si connota dunque per essere più a carattere storico-internazionale. Nella seconda parte entriamo nel cuore della problematica: si affrontano le relazioni tra le sinistre italiane e la SED e l’attività

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svolta dalle associazioni (Centro Thomas Mann su tutte) per favorire un canale di comunicazione con la Germania democratica. La trattazione per punti chiave della posizione italiana e del ruolo delle associazioni ha il fine non solo di fornire una visione il più ampia possibile sulla politica estera italiana nei riguardi della questione tedesca, ma anche di esaminare l’ampio spettro delle azioni sul fronte interno. Perché la battaglia per il riconoscimento della DDR non si svolse tanto sul piano diplomatico, ma quanto su quello delle relazioni politiche tra partiti e delle relazioni di amicizia tra associazioni. Per quanto riguarda il fronte interno della DDR, non c’è da attendersi nessuna differenza tra l’azione del governo, quella del partito e l’attività delle organizzazioni di massa, in quanto tutto si riduce al controllo del Politbüro e del Comitato Centrale della SED.

Non è dunque un azzardo sostenere che l’aspetto delle relazioni internazionali sia trascurabile, in virtù della loro assenza o della non esistenza di cooperazione fra entrambi gli Stati.

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P

ARTE

I

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12

I

L’Italia e la questione tedesca

1.

Genesi della Guerra fredda

La fine della seconda guerra mondiale segnò la nascita di due “campi” contrapposti. La nuova situazione internazionale vedeva infatti come protagoniste indiscusse due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, mentre gli altri Stati ricoprirono un ruolo più marginale, manifestando difficoltà a porre in essere una politica estera autonoma e indipendente3. La metafora “Guerra Fredda”,

coniata da Walter Lippman in uno scritto dal titolo “The Cold War: A study in U.S. Foreign Policy”, pubblicato nel 1947, riscosse un notevole successo e la sua rapida diffusione era dovuta al fatto che la definizione aiutava a comprendere i tratti peculiari del sistema internazionale emerso nel dopoguerra: solo USA e URSS erano in grado di svolgere un ruolo mondiale, in virtù della loro forza militare, in grado di affrontare un eventuale scontro armato. Non solo: avevano le capacità politiche per interferire nell’ambito dei rispettivi sistemi; non ultimo, guidavano blocchi economici sostanzialmente omogenei.

Le divergenze fra Stati Uniti e Unione Sovietica emersero principalmente a seguito del consolidamento della sfera di influenza dell’URSS nell’Europa centro-orientale. La nuova amministrazione USA, sotto la presidenza di Harry S. Truman si risolse ad avviare una politica del “contenimento”, con l’intento di

3 Valga come esempio il caso della Francia, che si trovò già nel 1945 a dover fronteggiare in Indocina il

Fronte per l’indipendenza del Vietnam. Il 7 maggio 1954 il governo francese, a causa del mancato aiuto da parte degli Stati Uniti, fu costretto alla resa. Su questo punto, cfr. Di Nolfo E., Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale del XX secolo, Roma-Bari, 2003.

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limitare l’ampliamento della sfera di influenza sovietica4. La

Germania fu la prima ad essere interessata da questo fenomeno, tanto che solo le zone occidentali furono coinvolte nel programma europeo di ripresa economica (ERP), annunciato a Harvard il 5 giugno 1947 dal segretario di stato americano George C. Marshall. Il c.d. “Piano Marshall” aveva come fondamenti il libero capitale e la privatizzazione dell’economia. Il programma di ripresa economica stanziò 12 miliardi di dollari, 3,6 dei quali andarono alla Gran Bretagna, 3,1 alla Francia, 3,6 alle zone occidentali della Germania, circa 1 miliardo a Italia e Austria5. Mosca vide nel Piano Marshall un’ingerenza americana negli affari interni degli Stati sovrani e il ministro degli esteri sovietico Vjačeslav Michajlovič Molotov vietò alle nazioni dell’Europa centro-orientale, che si trovavano sotto il controllo dell’URSS, di parteciparvi. Nel luglio 1947 l’Unione Sovietica rispose all’ERP con il “Piano Molotov”, da cui sarebbe nato, nel 1949, il Consiglio per la mutua assistenza economica, il COMECON.

2.

La nascita delle due Germanie

In seguito alla resa incondizionata del Terzo Reich e alla sua occupazione da parte degli alleati, la divisione della Germania in zone di occupazione fu stabilita in occasione della conferenza di Yalta, che si tenne dal 4 all’11 febbraio 1945 e che vide come protagonisti Iosif Stalin, Franklin D. Roosevelt e Winston Churchill. Solo successivamente subentrò anche la Francia, alla quale fu riconosciuto lo status di potenza occupante; i territori che a Yalta le vennero affidati erano la Renania-Palatinato, la parte meridionale del Baden-Württemberg e la cogestione della Saarland. Ai britannici spettava il controllo dei territori centro-occidental-settentrionali (Nordreno-Westfalia, Bassa Sassonia, Schleswig-Holstein, mentre gli Stati Uniti prendevano possesso della Baviera, dell’Assia, della parte settentrionale del Baden-Württemberg e le città di Brema e Amburgo. L’URSS invece aveva posto sotto il proprio controllo la Turingia, la Sassonia ed il Nord della Prussia,

4 Sul tema della guerra fredda e della politica del contenimento esiste un’ampia letteratura storiografica. Vale

la pena menzionare i lavori di Romero F., Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, 2009, e il più recente Del Pero M., La guerra fredda, Roma, 2014.

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mentre il resto della Germania orientale, al di là della linea Oder-Neiße, fu assegnato all’amministrazione polacca. Anche la città di Berlino fu suddivisa in altrettanti settori, ognuno di competenza di una delle potenze.

In occasione della successiva conferenza di Potsdam, che si tenne dal 17 luglio al 2 agosto 1945, si discusse sul futuro assetto della

Germania. Gli obiettivi delle potenze alleate vertevano sull’abolizione del partito nazista e delle sue associazioni, il

decentramento dell’economia, il rinnovamento democratico dell’istruzione e del sistema giuridico, il ripristino delle autonomie

locali e dei partiti democratici. Il “militarismo tedesco” ed il nazismo dovevano essere sradicati e per ottenere tale obiettivo, si decise la soppressione e della Prussia, che ne rappresentava la radice. A questo si aggiunse un momento di debolezza di Gran Bretagna e Stati Uniti (il posto di Roosevelt, morto il 12 aprile 1945, venne preso da Harry Truman; Winston Churchill, destituito, fu sostituito da Clement Attlee), del quale approfittò Stalin, che pretese la restituzione alla Polonia, guidata dai comunisti, dei territori orientali tedeschi fino alla linea Oder-Neiße, quale titolo di risarcimento per quelli orientali polacchi consegnati all’URSS. Nell’accordo raggiunto il 2 agosto 1945, le potenze occidentali accettarono la linea Oder-Neiße come confine occidentale della Polonia: questione che si risolse definitivamente con il trattato di pace di Parigi siglato il 10 febbraio 1947. I tedeschi residenti in quei territori furono costretti ad emigrare forzosamente verso la Germania e tutto questo non faceva che aggravare la situazione dell’Ovest, che doveva ora occuparsi anche delle ondate di migranti tedeschi cacciati dalle regioni orientali.

La ripartizione della Germania in diverse zone di influenza ebbe un effetto destabilizzante sullo sviluppo della democrazia e sulla ricostruzione dello Stato, sia a livello nazionale che regionale: questa divisione si manifestò subito anche all’interno dei partiti politici, in particolare la SPD. Era noto il rigido anticomunismo del presidente del partito socialdemocratico, Kurt Schumacher: il suo temperamento inflessibile e la volontà di separarsi dal KPD (Kommunistische Partei Deutschlands, partito comunista di Germania) portarono ad una divisione interna della SPD. Quando divenne chiaro che i comunisti avrebbero avuto un numero minore di sostenitori rispetto ai socialdemocratici, con il sostegno dell’amministrazione militare sovietica, nella parte orientale della

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Germania, imposero una fusione con la SPD. La scissione del movimento operaio tedesco nella zona di occupazione sovietica culminò nella fusione, il 22 aprile 1946, del KPD e dell’SPD nel Partito socialista unificato di Germania (la SED, Sozialistische Einheitspartei Deutschlands). Sempre nel corso del 1946, l’Unione Sovietica decise di ostacolare le proposte americane per la creazione di una Germania neutrale e demilitarizzata. Negli USA si rafforzò la convinzione che in Germania la politica di collaborazione con l’URSS dovesse essere sostituita da una politica di contenimento. Questo avrebbe previsto inizialmente una fusione fra la zona di occupazione americana e quella britannica, basata su ragioni di tipo economico (fu istituito a Francoforte un apposito Consiglio economico) e prevista per il 1 gennaio 1947.

Nel 1948, inglesi e americani ampliarono le competenze del Consiglio economico della bizona, che assunse competenze simili a quelle di un parlamento. A febbraio, sei potenze occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, più i tre stati del Benelux) si riunirono a Londra, dove si decise di includere le zone occidentali della Germania nel piano Marshall e di costituire un governo. Anche nella zona di occupazione sovietica, la Commissione economica tedesca, istituita per coordinare le attività amministrative del settore e alla quale furono attribuiti poteri legislativi, divenne a tutti gli effetti la struttura istituzionale del futuro stato. Ciò nonostante, la SED continuò a ribadire la necessità dell’unità tedesca: a tal proposito infatti, il partito creò un “Congresso del popolo” (precursore della Volkskammer, il parlamento della DDR) rappresentativo di tutto il popolo tedesco, in realtà limitato alla zona di occupazione sovietica. Nell’ambito del Congresso del Popolo si costituì il “Consiglio del popolo tedesco”, che la propaganda presentava come una rappresentanza unitaria della popolazione e che iniziò a redigere la costituzione per una repubblica democratica.

Decisiva fu la riforma monetaria, che avvenne separatamente nelle due zone e a Ovest entrò in vigore il 20 giugno 1948. In risposta a questa manovra, dopo alcuni giorni ebbe luogo anche nella zona sovietica, dividendo così in due lo spazio economico tedesco. L’URSS, adducendo come pretesto l’obiettivo di spingere i suoi ex alleati a revocare l’attuazione della riforma monetaria, mise in atto il blocco di Berlino Ovest, “uno dei maggiori momenti di tensione

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nel contrasto fra Est e Ovest”6; in realtà, la manovra aveva come obiettivo l’inclusione dell’intera città di Berlino nella propria sfera di influenza. Gli alleati occidentali, resisi conto che il blocco era superabile con un ponte aereo, vanificarono così l’azione dei sovietici. La rigida politica dell’URSS condusse inevitabilmente al rafforzamento dell’anticomunismo tra gli alleati occidentali e alla convinzione di dover fondare uno Stato che escludesse la zona di occupazione sovietica.

Alla fine del 1948 sembrava che le premesse per la costituzione di uno Stato tedesco orientale ci fossero tutte; tuttavia la SED mirava a perseguire in maniera ancor più determinata l’unità della Germania. Dietro a tutto questo c’era la regia di Stalin, che nel dicembre del 1948 convocò a Mosca i dirigenti della SED: Walter Ulbricht e i due presidenti del partito, Wilhelm Pieck e Otto Grotewohl. Questi in realtà si recarono a Mosca con l’intenzione di ottenere dal Cremlino l’autorizzazione a fondare uno Stato; ma ad un governo tedesco vero e proprio si sarebbe dovuto pensare solamente se anche nell’Ovest sarebbe stata adottata la stessa soluzione. Stalin infatti non era disposto ad accettare che la Germania occidentale fosse attratta completamente sotto la sfera “imperialista”; il suo obiettivo rimaneva sempre la conclusione di un accordo con le potenze occidentali per una Germania unita, neutrale e smilitarizzata, in cambio della rinuncia alle “conquiste” tedesco-orientali ottenute sotto l’amministrazione sovietica.

Tuttavia il 1949 avrebbe mostrato come la volontà e le dichiarazioni di Mosca non sarebbero state in grado di impedire la fondazione di una repubblica tedesca di stampo occidentale: infatti l’8 maggio 1949 fu approvato il progetto della Grundgesetz (Legge fondamentale), ovvero la costituzione provvisoria che disciplinava il funzionamento di una repubblica federale che avrebbe avuto come capitale (anch’essa provvisoria) Bonn. Il 23 maggio 1949 venne proclamata la Bundesrepublik Deutschland (Repubblica federale tedesca, BRD o RFT); successivamente, il 14 agosto, i cittadini della neonata repubblica votarono il primo Bundestag, ovvero il parlamento federale della Germania occidentale. Successivamente, il 15 settembre, il Bundestag elesse il primo cancelliere federale, Konrad Adenauer, esponente della CDU

6 Cfr. Varsori A., La Cenerentola d’Europa? L’Italia e l’integrazione europea dal 1947 ad oggi, Soveria

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(Christlich Demokratische Union, ovvero Unione cristiano-democratica).

A seguito di questi eventi, Stalin sciolse le riserve sulla fondazione di uno Stato tedesco per la parte orientale. Il momento arrivò il 7 ottobre 1949, quando il Consiglio del popolo si autoproclamò “Camera legislativa elettiva provvisoria”. Questo sanciva l’atto di nascita della Deutsche Demokratische Republik (Repubblica democratica tedesca, DDR o RDT). Quattro giorni dopo, l’autoproclamatosi parlamento elesse come presidente del Consiglio Otto Grotewohl e come presidente della Repubblica Wilhelm Pieck.

3.

La posizione dell’Italia verso la Germania: dei fattori

politici interni ed esterni in generale

Dopo la fine della guerra, il panorama partitico italiano, si presentava assai frammentato, e questa frammentazione si rifletté anche nei vari (e controversi) orientamenti alla base della politica italiana interna ed estera. Intorno alla Democrazia Cristiana, ruotavano una serie di partiti (quali, ad esempio, il PLI, il PRI ed il PSDI); a destra si collocavano il piccolo partito monarchico ed il Movimento Sociale Italiano (MSI). Malgrado le profonde differenze che contraddistinguevano i loro programmi, queste forze erano accomunate da un chiaro e manifesto sentimento di anticomunismo. Ad essi si contrapponevano i due partiti di riferimento della classe operaia: il PCI ed il PSI, che tornavano ad affacciarsi sulla scena politica dopo vent’anni di esclusione.

Con la partecipazione agli aiuti del Piano Marshall e la progressiva integrazione dell’economia italiana nel mercato mondiale, i governi a guida democristiana indirizzarono la politica economica verso un modello liberale (benché non privo di un rilevante intervento statale) ed orientato alle esportazioni. A questo si unì inizialmente una politica di bilancio prudente ed una ancor più attenta gestione degli investimenti statali. Anche se nel 1947 l’inflazione fu lasciata crescere liberamente e poi messa sotto controllo negli anni seguenti, si poté raggiungere un rapido incremento della produzione industriale.

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L’influenza americana è stata indiscutibilmente rilevante e questo vale in special modo per i primi anni di vita della repubblica, quando si doveva decidere l’orientamento di base della politica estera7. Nell’agone elettorale del 18 aprile 1948, gli Stati Uniti

intervennero con sussidi finanziari ai partiti filo-atlantici e con una massiccia propaganda: in caso di vittoria delle sinistre, il ministro degli esteri americano Marshall dichiarò che all’Italia sarebbero stati negati gli aiuti previsti dall’ERP. Anche negli anni seguenti,

l’ambasciata americana a Roma si adoperò per far valere l’influenza del Paese che rappresentava, talvolta perfino in forma di

intervento diretto sulla formulazione dei testi di legge.

L’intervento delle potenze vincitrici occidentali (e su tutte gli USA) nella politica interna ed estera dell’Italia, nei primi anni, fu assolutamente rilevante, benché lasciasse comunque spazi di manovra ai partiti. Il legame delle forze politiche filo-atlantiche con l’alleato americano fu di tutt’altra natura, ben diversa, se si considera il rapporto ferreo, granitico, che legava il PCI all’Unione Sovietica di Stalin. La piega definitiva che prese l’alleanza delle potenze vincitrici a partire dal 1947, trova il suo riflesso nella politica italiana già nel maggio dello stesso anno, quando il Presidente del Consiglio De Gasperi, in occasione di un “rimpasto” di governo, escluse da esso le sinistre. È proprio in questo periodo che inizia la rigida contrapposizione tra PCI e DC, riflesso dell’inizio della guerra fredda. Sempre nel 1947, a settembre si svolse la prima riunione del Cominform, dove venne formulata la c.d. “teoria dei due campi”, quello imperialista antidemocratico contro quello antiimperialista e democratico. Alle sinistre italiane venne chiesto di rinsaldare ulteriormente il loro legame con l’URSS. In questo clima di forte tensione si svolse la campagna elettorale per le elezioni del 1948: PCI e PSI si unirono nel Fronte Popolare. Ad esse si contrappose un blocco guidato in primis dalla DC, e da socialdemocratici (che si presentarono come Unione Socialista), repubblicani, Blocco Nazionale (conservatori liberali), monarchici e neofascisti del MSI. Come è noto, l’esito elettorale decretò la netta affermazione della coalizione guidata dai democristiani ed è scontato dire quanto il clima politico fosse influenzato dalle vicende internazionali e dall’intervento degli alleati nell’indirizzare il voto.

7 Su questo punto, è stato dedicato spazio nei recenti lavori di De Leonardis M., Guerra fredda e interessi

nazionali: l'Italia nella politica internazionale del secondo dopoguerra, Soveria Mannelli, 2014 e di Formigoni G., Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, 2016.

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Entrando ora più nel merito delle relazioni internazionali, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale il governo italiano non si trovava nella posizione di poter esprimere una propria politica estera nei confronti della Germania. Tuttavia, la questione tedesca divenne il fulcro sul quale ruotarono le più importanti questioni europee. In merito a ciò, viene in nostro aiuto la riflessione di un esperto italiano in materia, ovvero Luigi Vittorio Ferraris, futuro ambasciatore a Bonn dal 1980 al 1987. Ferraris giunse alla conclusione che la (ri)fondazione di uno Stato tedesco unitario avrebbe manifestato nuovamente una forte tendenza espansionistica8. Soprattutto, dal punto di vista della

sinistra italiana, la Germania assumeva una funzione di equilibrio tra Est e Ovest, grazie alla sua posizione geografica centrale in Europa. Anche secondo il parere dello storico Enzo Collotti, vicino alle posizioni del PCI, una ripartizione della Germania, come venne stabilito in occasione della conferenza di Jalta nel 1945, sarebbe stata una garanzia di equilibrio e di pace per l’Europa9.

L’Italia non partecipò alle varie conferenze degli alleati, quando si discuteva di “problem-solving” in merito alla questione tedesca, e non poté dunque esercitare alcuna influenza. A differenza di quanto fece De Gaulle già durante la guerra, il governo italiano non elaborò alcuna proposta di soluzione al problema tedesco. Dopo la firma del trattato di pace, iniziò per l’Italia una difficile fase di ricostruzione dei rapporti diplomatici, di definizione e di impostazione della politica estera. Fu soprattutto il desiderio di rilegittimazione e di reinserimento in condizioni di parità fra gli altri Stati a dettare le linee guida del governo di Roma. In questo ambito si inquadravano i rinnovati sforzi di ottenere dalle potenze alleate l’ammissione dell’Italia all’interno del consesso occidentale che avrebbe discusso sul problema tedesco. Possiamo leggere in una nota10 del 13 marzo 1947 come l’allora ministro degli Esteri

Carlo Sforza ribadisse il diritto dell’Italia a partecipare alla soluzione della questione tedesca. La partecipazione dell’Italia veniva dunque rivendicata non più solamente in nome dei suoi particolari interessi e del suo status di paese cobelligerante, ma anche facendo appello all’importanza fondamentale che il problema tedesco rivestiva per l’Europa. Ben presto però si capì

8 Ferraris, L.V., La questione della Germania fra Ostpolitik tedesca, Westpolitik sovietica e distensione, in

Tornetta, V., Verso l’Europa del 2000. Il processo CSCE da Helsinki a Vienna, Bari, 1986.

9 Collotti, E., Storia delle due Germanie. 1945-1968, Torino, 1968.

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che la cobelligeranza non costituiva un presupposto sufficiente per essere ammessi a pieno titolo tra i vincitori e, tanto meno, per ottenere un soddisfacimento delle proprie richieste. La politica italiana verso la Germania maturò con la formazione di scelte che cercavano di andare oltre le richieste di spartizione delle risorse tedesche, per proiettarsi già sul futuro ruolo internazionale della Germania. Solo intorno alla metà del 1946, il Ministero degli Esteri italiano ottenne dalle autorità alleate di inviare in Germania un proprio funzionario, con il compito di tutelare in loco gli interessi italiani nel Paese. Non essendo ancora ammesse sul territorio tedesco rappresentanze di carattere diplomatico o consolare, fu richiesto dagli alleati di inviare un ufficiale. Il Ministero degli Esteri optò per un funzionario diplomatico-consolare, che rivestisse però anche un grado militare adeguato. Venne scelto Vitale Giovanni Gallina, che giunse in Germania all’inizio del 1947 con il grado di segretario di legazione di prima classe e vi rimase, con il rango di console generale, dal 1948 all’ottobre 1949. La missione guidata da Gallina iniziò la sua attività a Francoforte nel gennaio 1947, con la denominazione di “Rappresentanza italiana in Germania” e con il compito principale di ricomporre le fratture che si erano create durante la guerra tra i due Paesi, creando al tempo stesso le premesse per una collaborazione tra la Germania che doveva essere ricostituita e la nuova Italia. Questa missione costituì il nucleo iniziale della futura ambasciata d’Italia a Bonn11.

Ad ogni modo, che l’Italia non avrebbe esercitato alcuna influenza significativa sul piano della riorganizzazione geopolitica della Germania, lo comprese in modo realistico Piero Quaroni nel 1947, all’ epoca ambasciatore a Parigi:

“Influire sui destini della Germania colla nostra presenza non è possibile. […] La sola cosa intelligente da dire sarebbe: siate ragionevoli, pensate che con questa Germania dobbiamo pur vivere tutti, non la mettete alla disperazione per farne di nuovo una carica esplosiva.”12

L’opinione di Quaroni permette di comprendere come fosse necessaria una partecipazione della Germania stessa al processo di

11 Le notizie sulle prime iniziative italiane in Germania sono tratte dalla Relazione sull’organizzazione ed

attività svolta dalla prima rappresentanza italiana in Germania (gennaio 1947 – ottobre 1949), stilata da Vitale Gallina che la diresse sino all’autunno 1949. La relazione è conservata in ASMAE, AP 1950, b. 42, fasc. Germania.

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ricostruzione e alla fondazione di un ordine di pace in Europa. All’interno di una comune cornice europea, i diplomatici italiani avvertivano la responsabilità per il futuro del popolo tedesco; si trattava in fondo di una questione che riguardava l’Europa intera e l’Italia stessa era parte integrante del vecchio continente. Le ragioni economiche si ponevano chiaramente in primo piano, poiché il governo italiano chiese con forza soluzioni per il risanamento economico del continente, ed espresse comunque contrarietà ad eventuali “terapie d’ urto” nei confronti della Germania. Inoltre, come si legge in una nota dell’Ufficio di Gabinetto di De Gasperi, si sarebbe dovuto evitare qualunque condizionamento proveniente da Est e dagli Stati Uniti:

“Noi siamo interessati ad una ricostruzione politica ed economica della Germania che riduca la pressione slava e la pressione americana.”13

Come abbiamo precedentemente visto, la soluzione per la gestione di una Germania smembrata fu possibile solo grazie agli accordi di Potsdam, dove si sancì la suddivisione in quattro zone di occupazione amministrate dalle tre potenze vincitrici occidentali, alle quali si sarebbe aggiunta la Francia, ed alla ratifica di un trattato di pace. Entrambi i risultati – anche in base alla prevista unità economica – furono estremamente necessari per la Germania e per gli Stati europei in generale.

Dietro le quinte, la posizione dei diplomatici italiani, in merito alla partizione tedesca, era ambivalente. Guido Relli, console italiano ad Amburgo, commentò la frammentazione della Germania in riferimento al sentimento nazionale tedesco, che ne sarebbe uscito

ferito. Condizione tuttavia necessaria e di tutto vantaggio per l’Occidente14. In base a questa posizione, è doveroso ricordare che

il governo era su posizioni più concilianti e non contrario ad una riunificazione dei quattro settori sotto un’unica amministrazione controllata. Dal consolato generale a Francoforte, risuonarono invece altri toni: una nuova pace punitiva, e di conseguenza una politica eccessivamente umiliante, come poteva essere la frammentazione, dovevano essere evitate, per non far risorgere uno spirito “revanscista”. Così si espresse il console Gallina:

13 Cit. in Giovagnoli, A., L’Italia nell’OECE, in: De Gasperi e l’età del Centrismo. 1947-1953, Roma, 1984. 14 ASMAE, AP 1950, Germania, b.42.

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“La Francia, conoscendo la Germania, la teme anche cadavere. Dove erra è come si è detto, nel metodo e nei mezzi. Umiliare continuamente un popolo fiero e conscio delle sue qualità e possibilità significa inasprirlo; significa dare lievito allo spirito di “revanche”.”15

Tuttavia, presto si fece strada in tutti la convinzione che solo la via verso una sempre più stretta cooperazione tra i Paesi europei (occidentali) poteva costituire un riparo efficace da nuovi potenziali conflitti ed era chiaro che in questa forma di cooperazione doveva inerirsi la Germania. Nei primi anni successivi alla fine della guerra, si aprì così una particolare collaborazione tra Italia e Repubblica Federale tedesca sulla base del fatto che entrambi gli Stati si trovavano nella condizione di ex-nemici delle potenze vincitrici e di conseguenza spettava loro il compito di far superare le diffidenze degli alleati nei loro confronti. A tal proposito, per il primo decennio del dopoguerra possiamo addirittura parlare di un rapporto del tutto eccezionale tra i governi dei due Paesi16. L’Italia fu il primo Paese che, in data 18 luglio 1949, inviò una rappresentanza diplomatica nella Repubblica federale – benché all’inizio accreditata presso l’Alta Commissione Alleata – e fu tra i primi Stati le cui rappresentanze divennero ambasciate (nel caso dell’Italia, l’ambasciata si costituì in data 4 aprile 1951). Allo stesso modo, l’Italia fu il primo Paese in cui, nel maggio 1951, venne inaugurata un’ambasciata della Repubblica federale tedesca ed il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi fu il primo capo di governo che nel settembre 1952 si recò in visita ufficiale di Stato nella Germania occidentale17. Anche per quanto riguarda la situazione politica interna, ci furono dei parallelismi tra i due Paesi. Sotto altre forme e circostanze, c’era l’esigenza di approntare una difesa contro la minaccia comunista alle porte, che per l’Italia era costituita dalla Jugoslavia e per la Germania Ovest dalla Repubblica democratica tedesca. “Entrambi i Paesi sono quelli maggiormente esposti alla minaccia comunista”, ammoniva il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, nel 1966, di fronte

15 ASMAE, AP 1949, Germania, b.1.

16 Cfr. sui reciproci rapporti fra Italia e Germania Ovest, Guiotto M., Italia e Germania occidentale dalla fine

della seconda guerra mondiale alla fine degli anni cinquanta, in: Italia-Germania/Deutschland-Italien 1948-1958. Riavvicinamenti/Wiederannäherungen, Firenze, 1997.

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all’ambasciatore tedesco a Roma18. Al proposito, da parte del

governo italiano venne offerto appoggio a Bonn per il raggiungimento di una soluzione riguardo le questioni riguardanti la DDR. Nonostante le occasionali tensioni che caratterizzarono le relazioni fra Italia e Germania Ovest, i rapporti tra i due Paesi rimasero stabili, anche quando la cancelleria di Bonn mise il governo italiano nella condizione di prendere una posizione esclusivamente in favore degli interessi tedesco-occidentali.

Sulla base delle fonti finora accessibili del Ministero degli Affari Esteri italiano, non è possibile fare una descrizione completa dello sviluppo della posizione del governo italiano circa la questione tedesca fino al momento dell’apertura di relazioni diplomatiche con la DDR nel gennaio 197319. È sorprendente il fatto che nei fondi degli atti della Farnesina non si tratti molto poco la “questione DDR”, neppure nell’unico arco di tempo consultabile. Questo ci fa capire che, dal punto di vista della diplomazia italiana, a lungo si è inteso per “Germania” solo la Repubblica federale; considerare un secondo Stato tedesco come soggetto di diritto internazionale, per il momento non fu preso minimamente in considerazione da parte dei diplomatici italiani ed infatti, la fondazione della DDR venne accolta con freddezza, se non proprio con manifesta disapprovazione, dai diversi consolati italiani nella BRD.

Accanto ad una palese insofferenza verso i protagonisti della nuova Germania “democratica”, nelle note dei nostri diplomatici troviamo un’ulteriore conferma del conflitto Est-Ovest: secondo Manlio Brosio, ambasciatore italiano a Mosca, la fondazione della Repubblica democratica era, per i sovietici, solo il preludio per stendere ulteriormente la loro longa manus sull’Europa occidentale. Diversamente dalle altre democrazie popolari euro orientali, qui tutte le forze politiche, comprese quelle ex-naziste, si federarono nel Nationalen Front des Demokratischen Deutschlands (Fronte nazionale della Germania democratica) e a tal proposito, Brosio fa un confronto con i Comitati di Liberazione Nazionale in Italia negli ultimi due anni del secondo conflitto mondiale, in cui tutte le formazioni politiche si erano unite allo stesso modo:

18 L’ambasciatore Herwarth von Bitterfeld partecipò all’ incontro con Saragat, tenutosi presso il Ministero

degli Affari Esteri, il 4 maggio 1966. In: Schwarz, H.P. (a cura di), Akten zur Auswärtigen Politik der Bundesrepublik Deutschland, vol. 1, 1966.

19 Ad oggi, presso l’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri (ASMAE) sono ordinati

ed accessibili al pubblico solo i fondi che arrivano fino all’ anno 1957. Un arco temporale maggiore (bloccato a 30 anni dopo il ‘57) lo coprono le raccolte di telegrammi tra le singole ambasciate ed il Ministero.

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“Questa analogia coi Comitati di Liberazione Nazionale, serve a caratterizzare meglio l’attività che il fronte si propone di svolgere in futuro; è, in sostanza, un’attività di lotta e di combattimento, quella sola che giustifica le unioni sacre di classi e partiti diversi. […] Si sa cosa significano queste parole: significano lotta aperta e clandestina, pacifica ed occorrendo violenta, condotta con ogni mezzo secondo le circostanze, per raggiungere lo scopo. È essa sola che spiega l’unione sacra con tutti, compresi gli ex-nazisti. […] È in sostanza, la preparazione, cauta per ora, di una lotta a fondo che potrebbe domani anche trasformarsi in guerra civile […].”20

In egual maniera, negli anni seguenti, le relazioni sui rapporti con la Germania comunista delle rappresentanze diplomatiche e consolari italiane nella Repubblica federale si contraddistinguono per la freddezza e per le descrizioni sintetiche degli eventi; infatti, ogni contatto diretto con funzionari di Stato o di partito della DDR veniva accuratamente evitato. La direttiva era chiara e venne confermata ancora una volta con una circolare interna21 del 28 febbraio 1950, rivolta a tutte le rappresentanze diplomatiche dell’Italia, così come a tutte le direzioni generali ed ai reparti del Ministero degli esteri italiano. In accordo con il resto dei partners della NATO, anche l’Italia si astenne da qualunque azione che potesse anche solo prefigurare un riconoscimento de iure e de facto della DDR. Le relazioni economiche dovevano essere stabilite soltanto all’interno di organizzazioni non statali, come ad esempio la Camera di Commercio; nel caso in cui si fossero presentati diverbi riguardo gli accordi commerciali con la Repubblica democratica, si doveva negoziare esclusivamente con le autorità sovietiche. In questo modo, la difesa del cittadino italiano e della sua proprietà nella DDR veniva a configurarsi come un obbligo che ricadeva solamente nella sfera di competenza dell’Unione Sovietica. La partecipazione della Germania orientale alle organizzazioni internazionali non era né contemplata, né desiderata.

Anche negli anni sessanta, quando la DDR si consolidò in misura sempre maggiore e superò lo status di situazione provvisoria, i governi italiani continuarono ad attestarsi – per lo meno, nelle loro

20ASMAE, AP 1946-1950, b.1, fasc. Costituzione dello Stato e del Governo della Germania Orientale. 21ASMAE, AP 1946-1950, b.2, fasc. Riconoscimento diplomatico. Circolare n. 0004, 28 febbraio 1950.

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dichiarazioni ufficiali – sulle posizioni di Bonn. Le mozioni parlamentari, da parte comunista e da esponenti socialisti, nelle quali si invitava il governo ad assumere atteggiamenti favorevoli ad un avvio di relazioni con il governo di Berlino Est, furono sempre respinte. A titolo di esempio, basti citare una richiesta che quattro deputati comunisti (Luigi Polano, Silvio Ambrosini, Gino Beltrame, Ugo Bartesaghi) presentarono il 2 agosto 1962 in Commissione Affari esteri alla Camera dei deputati, nella quale chiedevano un’espansione dei contatti culturali ed economici, la creazione di relazioni consolari e, in ultima istanza, la preparazione al riconoscimento diplomatico della DDR. La risposta del ministro degli Esteri Attilio Piccioni fu inequivocabile: in una fase così delicata della politica mondiale, dal punto di vista degli sviluppi geopolitici, appena un anno dopo la costruzione del muro di Berlino, non doveva sorgere il minimo dubbio riguardo alla fedeltà dell’Italia nei confronti dell’alleanza atlantica. Però non si trattava di obbedienza servile verso gli alleati, chiarì Piccioni, come invece rimproveravano i comunisti:

“[…] Non vi è dubbio che qui non si tratta di seguire pedissequamente e servilmente quello che fanno gli uni o gli altri governi, ma si tratta di consonanza e convergenza e identità di vedute politiche riportate al clima, al carattere, alle manifestazioni di un certo momento particolare in cui i rapporti internazionali si vengono a muovere. Ora io domando molto semplicemente all’onorevole Polano, crede proprio che questo che noi stiamo attraversando sia un momento nel quale si possano inserire delle iniziative particolari e singolari di un paese – quale esso sia – legato al Patto atlantico, legato alla solidarietà europea occidentale, legato alle funzioni ed agli obiettivi, in una parola alla missione dell’ONU; che sia questo veramente il momento più indicato e possibile per cui una di queste nazioni possa di sua iniziativa, di punto in bianco, passare al riconoscimento della Repubblica democratica tedesca?”22

Con l’ingresso dei socialisti nella coalizione di governo nel dicembre 1963, si temé, nel campo occidentale, una svolta nella politica estera italiana. Ma durante un viaggio del Presidente della Repubblica Antonio Segni e del ministro degli esteri Saragat negli USA, nel gennaio 1964, fu ribadita senza mezzi termini la lealtà

22 Cfr. Polano L., intervento del 2 agosto 1962: Da 13 anni esiste una nuova Germania: la RDT. Per una

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all’alleanza atlantica. Così pure, pochi giorni dopo, la visita di Stato del cancelliere Ludwig Erhard a Roma pose al centro la questione dei rapporti con l’Europa orientale, riaffermando l’esigenza di coesione tra l’Italia ed il governo tedesco-federale; a questo, il Presidente del Consiglio Aldo Moro replicò affermando che una pace durevole non avrebbe potuto prescindere dalla legittima pretesa di unità del popolo tedesco.

Nonostante le affinità ideologiche e politiche che accomunavano i due Paesi occidentali, non sempre ci fu una “simpatia” tale da spingere l’Italia ad appiattirsi sulle posizioni della Repubblica federale. C’era innanzitutto l’ombra lunga di un pericolo tedesco in grado di rinnovarsi e che poteva essere arginato solo grazie alla progressiva integrazione della Germania Ovest in un sistema di cooperazione europea tra Stati; in fondo a tutto, il governo italiano non mostrò alcun interesse affinché la Germania recuperasse i confini territoriali risalenti al 1937. Nelle parole espresse nel 1956 dall’ambasciatore italiano a Bonn, Umberto Grazzi, solo Adenauer aveva la forza di evitare un risveglio delle pulsioni espansionistiche tedesche verso Est:

“Perché questi (Adenauer, n.d.a.) è non solo l’ultimo europeista, ma forse, l’ultimo difensore della Germania contro la Germania stessa, cioè contro i suoi impulsi, le sue tradizioni smisurate, le sue incongruenze, le sue mancanze di misura, le quali farebbero sì, ove essa fosse lasciata a sé stessa, che la storia potrebbe magari ripetersi, sia pure in proporzioni diverse dal passato: e si sa quali voltafaccia abbia fatto e quante sorprese abbia riservato la storia della Germania, una volta che questa si sia sentita o sia stata libera.”23

Per questa ragione, la Germania doveva abbracciare il processo di integrazione europea, ancorarsi all’Occidente e distogliere lo sguardo da Est. Su questo punto, prosegue ancora Grazzi:

“[…] il Cancelliere è l’unico che possa eventualmente far accettare ai suoi connazionali quest’ultime (le frontiere sulla linea Oder-Neiße, n.d.a.), e legarli definitivamente all’Occidente distraendone l’attenzione da quell’Oriente, verso il quale,

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dall’Ordine teutonico a Hitler, essi hanno invece esercitato tanta e così poco fortunata altalena fra avversione e propensione.”24

Si chiedeva dunque al governo tedesco-occidentale di prendere atto che il confine sulla linea Oder-Neiße fosse ormai una questione tutta interna al blocco sovietico, tra la Germania Est e la Polonia, così come il problema della divisione: le dichiarazioni dei diplomatici italiani, seppur non esplicite, lasciavano intendere che essa non fosse un fatto del tutto negativo, in chiave antisovietica. Ma già in occasione del viaggio di Adenauer a Mosca, nel settembre 1955, nelle dichiarazioni rilasciate ai giornalisti esteri, alcuni diplomatici italiani accolsero in maniera esplicita la divisione tedesca25. Più di tutto si temeva a Roma che, grazie alla creazione di un contatto diretto tra Bonn e Mosca, la Germania potesse tornare di nuovo a far parte del “circolo” delle grandi potenze, cosa che, dal punto di vista italiano, avrebbe costituito un pericolo di tutto rilievo per l’Europa.

3.1.

L’apertura di Gronchi e primi tentativi di Ostpolitik

Destarono un certo stupore e irritazione a Bonn le dichiarazioni del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, che nei primi anni della sua presidenza (iniziata nel maggio 1955) intervenne in maniera decisa nella politica estera italiana. Per capire la posizione di Gronchi, è necessario partire prima di tutto da un colloquio segreto con l’ambasciatore sovietico a Roma, Bogomolov, tenutosi nel gennaio 1956, nel quale il presidente della Repubblica fece allusione alla possibilità di riunificazione e neutralizzazione della Germania per un arco di tempo di venti anni. Successivamente, Gronchi chiese apertamente non solo una maggiore apertura verso i Paesi del blocco socialista, ma pure il riconoscimento diplomatico della Cina comunista. Gronchi credeva in queste posizioni di apertura; posizioni che vennero avanzate anche in occasione di un viaggio negli Stati Uniti che si tenne nel febbraio del 1956, e che avevano al centro la proposta per una soluzione di compromesso in merito alla questione tedesca. L’ambasciata della repubblica di Bonn a Roma si vide costretta ad intervenire presso il Ministero 24 Ibid.

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degli Esteri italiano ed esortò pure il governo ad attenersi alla linea delle potenze occidentali. Infatti, come si legge nel promemoria del 22 febbraio 1956, Bonn “[…] insiste su una riunificazione che garantisca la sovranità del Governo Federale e della Germania riunificata e che innanzi tutto riservi al Governo di una futura Germania riunificata la facoltà di mantenere la politica fin qui seguita di accordo con gli Stati occidentali e gli Stati Uniti”26

La reazione del governo italiano non tardò a farsi sentire. Pochi giorni dopo il ricevimento della nota tedesca, il Presidente del Consiglio Antonio Segni, il suo vice, Saragat, ed il ministro degli Esteri Gaetano Martino, si recarono in visita di colloquio al Quirinale. Esortarono il presidente della Repubblica a non esternare altre dichiarazioni che non fossero in armonia con la posizione ufficiale del governo italiano. L’interventismo di Gronchi nella politica estera italiana, circa la questione tedesca, non si limitò a questo episodio. Sempre in occasione di una visita ufficiale di Stato, stavolta nell’Unione Sovietica, l’8 febbraio 1960, durante un ricevimento offerto dall’ambasciata italiana a Mosca, le esternazioni del Presidente della Repubblica sul futuro delle due Germanie provocarono le dure reazioni del Primo ministro Nikita Chruščëv.

Ancora sotto la presidenza Gronchi, ma senza l’intervento diretto del Presidente, dal 2 al 5 agosto 1961 (quindi in piena crisi berlinese) si svolse la visita nell’URSS del Presidente del Consiglio Amintore Fanfani e di Antonio Segni, ora a capo del dicastero degli Esteri. A Mosca i temi toccati durante i colloqui riguardarono le tensioni nei rapporti internazionali, così come la crisi di Berlino e la questione tedesca. Le relazioni bilaterali tra l’Italia e l’Unione Sovietica passarono invece in secondo piano. Chruščëv esorcizzò il pericolo di una nuova minaccia alla pace, che poteva venire soltanto da occidente, e minacciò ancora una volta di voler condurre azioni unilaterali verso la DDR, se non si fosse giunti ad un accordo comune tra le quattro potenze vincitrici. Da questo punto non riuscirono a distoglierlo in nessun modo neppure Fanfani e Segni. Mentre Chruščëv sottolineava che l’unico argine efficace contro una Germania che tornava ad affacciarsi con forza sul panorama internazionale fosse il blocco dei Paesi socialisti, Fanfani richiamò l’attenzione sulle motivazioni che stavano alla base della politica italiana nei confronti della Germania, ovvero che solo 26 ASMAE, AP, 1956, b. 417, fasc. Unificazione della Germania.

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agganciando la repubblica federale all’Europa sarebbe stato possibile “contenere” il pericolo di un revanscismo tedesco. L’intenzione del Presidente del Consiglio italiano, di stabilirsi come mediatore nel conflitto Est-Ovest, divenne chiara dopo il suo rientro in Italia: Fanfani dichiarò che esistevano margini di trattativa con l’URSS e che le posizioni di quest’ultima non fossero irrimediabilmente intransigenti27. I giorni successivi all’inizio della costruzione del muro a Berlino mostrarono tuttavia quanto le speranze e le ambizioni di Fanfani fossero state vane e prive di effetti reali sulla contrapposizione tra i due blocchi.

La visita del Presidente del Consiglio italiano a Mosca rappresentò per il momento l’ultimo tentativo dell’Italia di intervenire direttamente nel dibattito che riguardava l’assetto geopolitico della Germania; neppure negli anni della coalizione di Centro-sinistra venne condotta una azione politica rivolta verso la Germania. Ciò si spiega con la maturazione di due situazioni che per un certo periodo accesero le tensioni nei rapporti italo-tedeschi: il primo evento riguardò l’avvicinamento di Francia e Germania Ovest, culminato poi nel Trattato dell’Eliseo del 22 gennaio 1963; il secondo, il problema del terrorismo in Sudtirolo, i cui mandanti si riteneva si trovassero proprio nella Repubblica federale28.

Come abbiamo visto, la volontà di un’apertura ad Est di Gronchi rimase un caso isolato e non ebbe seguito; non incise nemmeno sulla politica estera del governo, che si mantenne fedele alla linea atlantica. Tuttavia questo episodio, così come la visita di Fanfani e Segni a Mosca, sono da ritenersi tentativi importanti, forme embrionali di una “Ostpolitik” italiana29, che avrebbe trovato il suo apice un ventennio dopo, con le aperture ad Est e la visita di Stato di Bettino Craxi a Berlino Est, primo Presidente del Consiglio italiano in visita ufficiale nella Repubblica democratica tedesca. Anticomunismo, fedeltà alla linea atlantica ed impegno finalizzato all’integrazione europea furono i moventi della politica del governo italiano verso la Germania. Proprio per questo, era impensabile fare dei passi indietro nei confronti della Repubblica federale solo perché quest’ ultima, sul piano internazionale, stava pensando ad

27 Sulle dichiarazioni di Fanfani circa la visita a Mosca, si veda: Avanti!, 6 agosto 1961; L’Unità, 6 agosto

1961. Sulle discussioni in commissione affari esteri della Camera dei Deputati circa la situazione internazionale, si veda: L’Unità, 13 agosto 1961.

28 Sulle relazioni tra Italia e Germania negli anni del Centro-sinistra, si veda: Masala C., Italia und

Germania. Die deutsch-italienischen Beziehungen 1963-1969, Vierow bei Greifswald, 1997.

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un mutamento delle sue posizioni verso la DDR. Allo stesso tempo però, in seno al governo italiano, si manifestavano chiare riserve nei confronti di una Germania riunificata. Si fece dunque strada la convinzione che l’unico modo per difendersi da tale eventualità fosse sancire, a livello di diritto internazionale, la divisione della Germania. Sul fronte tedesco-orientale, a posteriori possiamo affermare che un avvicinamento della DDR all’Italia, in funzione anti-tedesca (occidentale), non sarebbe stato possibile in alcun momento; tuttavia questo non modificò quello che, dal punto di vista della dirigenza della DDR, l’Italia rappresentava più di altri paesi all’interno della NATO, e cioè un terreno particolarmente adatto per un lavoro propagandistico a livello politico. Lo scenario era del tutto aperto, tanto più che nell’ immaginario ideologico-dogmatico della SED, tanto la NATO quanto l’integrazione europea erano destinati a fallire; inoltre, sempre secondo la dirigenza di Berlino Est, una collaborazione durevole tra Stati imperialisti non era affatto pensabile, a causa dei contrasti immanenti tra questi ultimi. Tuttavia, c’era un ulteriore aspetto che poteva costituire un vantaggio per la DDR, non meno importante e del tutto peculiare della situazione politica dell’Italia, ovvero la presenza di una sinistra forte ed influente sul piano culturale, ideologico e politico. Proprio a questa forza politica e sociale si doveva rivolgere l’attenzione.

4.

L’Italia, i rapporti con l’Est e la percezione del

“problema tedesco”

Nonostante le limitazioni a cui era sottoposta l’Italia, venne avviato, come abbiamo già visto nel precedente paragrafo, un percorso diplomatico con i Paesi del blocco sovietico, che avrebbe dovuto condurre, nel lungo periodo, ad un progressivo miglioramento delle relazioni con l’Europa dell’Est. Prima di qualunque altro Paese del blocco occidentale, l’Italia cercò di ampliare la propria rete di relazioni commerciali con i Paesi socialisti. Questo riguardò prima di tutto gli scambi con l’URSS. Per citare alcuni dati, le importazioni dell’Italia dagli Stati euro-orientali ammontavano, nel 1957, al 2,8% delle importazioni totali. Il trend è proseguito in crescita fino al 1967, quando ha toccato il 7,1%. Per quanto riguarda invece le esportazioni verso Est, l’Italia

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