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Accertamento della realtà della morte per l'esclusione dell'exitus apparente: cenni storici e normativa attuale

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(1)

Scuola di Medicina

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica

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Relatore

Prof. Maria Antonietta Lombardi

Candidato

Rossana Telesca

(2)

1. INTRODUZIONE

Benché da un punto di vista corrente, profano, il concetto di

morte appaia di per sé evidente ed autoesplicativo, più arduo risulta

definire e mettere a confronto tale fenomeno, da un punto di vista

biologico e giuridico.

Per quanto attiene il primo aspetto, la vita dell’organismo

non risulta la semplice somma della vita dei singoli elementi o

delle singole parti, ma un embricarsi coordinato delle singole

attività, per cui la morte è un processo che non interessa

simultaneamente l’intera compagine dell’ordinamento né estingue,

sin dal principio l’attività di tutte le cellule, ma si svolge con

gradualità, iniziando dall’arresto delle funzioni essenziali

dell’organismo - cardiaca, nervosa e respiratoria: Xavier Bichat, in

particolare, raffigurò la vita del corpo quale tripode sostenuto da

tali principali sistemi, di talché, l’arresto durevole di una sola di tali

(3)

all’arresto delle altre funzioni e, dunque, alla cessazione della vita

stessa (1).

Giuridicamente, di contro, la morte si identifica con il

momento dell’estinzione della persona fisica e della perdita della

capacità giuridica e subentra allorquando sia avvenuta “la

cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”, così

come stabilito dalla legge 578 del 1993, all’art. 1.

Fissate tali definizioni, si rappresentano due ordini di

problemi, il primo, di natura prettamente operativa, consistente

nella possibilità di cogliere i segni della morte, al fine di escludere

le condizioni di c.d. morte apparente, in cui le attività vitali

(circolo, respirazione, funzione nervosa, metabolismo) sono ridotte

al minimo, tanto da poter essere apprezzate con certezza,

attualmente, solo con metodiche strumentali (ECG, EEG, et c.), al

fine di evitare di dichiarare deceduti soggetti ancora in vita; il

secondo, di natura scientifica, ma anche etica, rappresentato dalla

precisa delimitazione del momento di passaggio tra lo stato di vita

e lo stato di morte, attesi i recenti progressi tecnici della scienza

medica in ordine alla possibilità di vicariare, artificialmente,

(4)

modo indefinito, la “vita” di taluni organi, anche quando il resto

della compagine organica ha cessato irreversibilmente la propria

attività.

Questa tesi si propone, pertanto, l’obiettivo di illustrare

l’evoluzione storica, medica e giuridica dei problemi connessi al

fenomeno della morte e all’accertamento della sua realtà, con

particolare riguardo alla morte apparente, analizzandone le

(5)

2. CENNI STORICI

2.1 Evoluzione normativa

Fin dagli albori il problema relativo all’accertamento

dell’evento morte ha suscitato interesse negli studiosi, ponendo

interrogativi circa l’esistenza di un discrimine indubitabile tra la

vita e la morte.

In particolare, nel periodo a cavallo tra il XVIII e il XIX

secolo, soprattutto le classi elevate d’Europa e d’America, erano

consapevoli delle difficoltà del riconoscimento della morte, con la

sua ricaduta più ovvia, rappresentata dalla possibilità del

seppellimento di un individuo in stato di morte apparente. (2) In

taluni casi, tale incertezza venne a strutturarsi in forme patologiche,

caratterizzate dal timore, francamente ossessivo, di essere sepolti,

vivi e ricomprese dallo psichiatra Morselli nella dizione di

tafefobia o tafofobia (dal greco τάφος taphos, “tomba” eφόβος

phobos, “paura”) (3).

Lord Chesterfield (1649-1773) espresse il proprio timore, a

(6)

desire from my own burial is not to be buried alive” (4).

Si narra che Giorgio Washington, prima di spirare alle ore

22:00 del 14 dicembre 1799, abbia detto al suo segretario Tobia

Lear: “I am just going. Have me decently buried and do not let my

body be put into the vault in less than three days after I am dead

(5).

Altro caso emblematico fu quello di Federico Chopin

(1810-1849), le cui ultime parole tramandateci, prima di morire di tisi,

furono le seguenti: “The earth is suffocating… Swear to make them

cut me open, so that I won’t be buried alive” (4).

Un’ analoga consapevolezza era espressa dagli uomini di

scienza: così il Mahon nella sua opera postuma: “Sgraziatamente

non è accaduto, e non accade ancora che troppo sovente, che uomini colpiti d’apoplessia, da soffocazione o d’asfissia, in una parola, dalla morte apparente, realmente muoiano da simili accidenti, per mancanza dei convenevoli soccorsi, o per la lontananza delle persone dell’arte, o per tutt’altra causa. Egli è dunque d’interesse generale lo stabilire delle leggi che ricompensino quelli che soccorrono un asfitico, e puniscano coloro che trascureranno di farlo. Queste leggi debbono essere

(7)

accompagnate da un’istruzione col mezzo della quale anche le persone idiote possano amministrare i primi soccorsi, attendendo l’arrivo d’ un uomo dell’arte; e dalla proibizione di procedure alla tumulazione, sino che l’odore cadaverico decide della certezza della morte” (6).

Dello stesso tenore furono le considerazioni di Giacomo

Barzellotti sull’argomento, che chiamò, suggestivamente, vita

eclissata o “embiologia”: “Per qualunque delle cause… accada, la

morte apparente come la vera, ed in qualsisia persona, incombe alle persone dell’arte qual principale loro dovere, di conoscere questi due stati della vita, così facile ad essere scambiati l’uno per l’altro, perché similissimi fra loro. Ed è anche più urgente il bisogno di ben distinguergli, perché sovente per difetto di cotal conoscenza, dalle apparenze della morte n’è venuta la morte vera, laddove abbandonati altri per morti, e come tali creduti, è ricomparsa per un momento la vita, in alcuni nei sepolcri per deplorarla, e poscia perderla per sempre tra quegli orrori; e qualche volta innanzi la sepoltura è risorta in altri la vita sotto l’azione di un ferro tagliente, sopra un rogo, sopra un catafalco, in un cataletto, per cui non di rado n’è venuta la vera morte, con

(8)

gran stupore degli astanti e terrore di quegli che han potuto sopravvivere a cotali catastrofi” (7).

L’incertezza dei segni della morte apparente, così come di

quella reale, nell’antichità, costrinse i diversi popoli ad elaborare

delle procedure, più o meno complicate per distinguere la morte

reale da quella apparente.

Tra i metodi più facilmente percorribili, vi fu quello, ancor

oggi utilizzato, ancorché con delle modifiche, dell’osservazione

della salma fino a quando non comparissero segni certi

dell’avvenuto decesso: “quindi gli antichi… doverono dubitare

della vera morte; ed i regolamenti religiosi per le pompe funebri, come quegli civili per la tumulazione dei cadaveri, accordarono un tale indugio, che mettesse nella vera certezza che la morte fosse accaduta. Con questo intendimento gli Ebrei, siccome narra la Scrittura, poi gli Egizj, come racconta Erodoto (Histor. Lib. 2), tenevano i cadaveri quattro giorni sopra la terra prima di dar loro sepoltura. Per lo stesso motivo gli antichi Persiani non seppellivano i morti se non allora, che l’odor cadaverico attirava

gli animali di rapina (Presso Zacchia, Quaest. MedLeg. Lib 4. tit.

(9)

defonti. I Greci in generale bruciavano i loro cadaveri, non però dei grandi e delle persone benemerite della patria. Ma gli Spartani per legge del severo Licurgo, esponevano per undici giorni i loro cadaveri, e gli piangevano per altrettanti prima di dar loro sepoltura (Presso Frank, Poliz. Medica Tom. 9.). Gli antichi

romani volevano l’esposizione per nove giorni; e molte pratiche adopravano per assicurarsi della vera morte (Codice Civile Francese) prima di dar loro sepoltura. Quasi tutte le legislazioni moderne, i regolamenti di sanità, il rituale Romano [[...]] hanno stabilito, che dalla morte naturale alla sepoltura, vi passi un intervallo di ventiquattro ore almeno.” (7).

Tra i primi provvedimenti giudiziari volti a regolamentare le

modalità di accertamento della morte mediante l’osservazione si

rinvengono quelli emanati dal Granducato di Toscana. In

particolare, Pietro Leopoldo I d’Asburgo Lorena poi Imperatore del

Sacro Romano Impero (Vienna, 5 maggio 1747 – Vienna, 1

marzo 1792) con Motu proprio riguardante l’“esposizione dei

cadaveri” del 2 gennaio 1777 dispose che:

“1. I Cadaveri non possino seppellirsi, se non dopo passate

(10)

aspettarsi nelle morti compendiarie.

2. La sezione del cadavere non è permessa, se non dopo passato il tempo che sopra.

3. I Cadaveri che devono restare sopra la terra devono ritenersi nel loro stato naturale a forma dell’istruzione.

4. I Cadaveri devono esser portati alle Chiese coperti.

5. Vien proibito espressamente il ritenere esposti i Cadaveri nelle Chiese, ma si devono ritenere in una stanza, e a parte.

6. I Parrochi possono prevalersi di qualche Oratorio di Confraternita per destinarvi la stanza dei Cadaveri.

7. Le differenze che possono nascere tra il Parroco ed i Fratelli dell’Oratorio si decidino sommariamente in Firenze dal Senatore Segretario del Regio dritto, e nello Stato dei respettivi Giusdicenti.

8. Le Chiese non Parrocchiali non avendo stanza da ritenere i Cadaveri, devono renunziare ai loro diritti.

9. I Parrochi sono obbligati dentro un mese denunziare l’Oratorio o stanza che avranno destinato.

10. Le famiglie del Defonto possono ritenere i Cadaveri nella propria abitazione per tutto il tempo che devono stare

(11)

inumate.

11. Le funzioni funebri potranno eseguirsi col segno d’una coltre distesa in terra, o sopra un catafalco.

12. La presente Legge ha esecuzione il primo Marzo 1777. 13. La pena contro i Trasgressori è di Scudi venticinque da applicarsi per una metà all’accusatore palese, o segreto, e per l’altra metà all’Ospedale di S. Maria Nuova per lo Stato Fiorentino ed all’Ospedale S. Maria della Scala per il Sanese.

14. Cognitori delle trasgressioni quali sieno”.

La ratio legis del provvedimento succitato è esplicitata, nel

prosieguo del documento, dallo stesso Sovrano: “Volendo noi

rimuovere il pericolo dei funesti accidenti che possono seguire dalla troppo precipitosa inumazione dei Cadaveri, e volendo nel tempo stesso riparare al pregiudizio che può derivare alla pubblica salute dal tenerli esposti dove concorrono i Fedeli per gli Esercizj della Religione…

Comandiamo.

I. Che in avvenire per regola generale non possa darsi

mai sepoltura ai Cadaveri prima che siano passate ventiquattro ore da che ne sia seguita la morte; e se si tratterà di morti

(12)

compendiose o subbitanee, quali sono quelle che accadono in conseguenza di Apoplessia, Paralisi, Epilessia, Catalessi, Sincope, Convulsioni, Inalazione di vapori venefici, o Arie non respirabili, Emorragie, o di tutte le altre cagioni capaci di produrre l’apparenza di morte, sarà necessario lasciar correre ancora maggior tempo a discrezione degli Intendenti, o di quelli, alla custodia dei quali sarà il Cadavere.

II. Nello spazio delle ventiquattro ore, o in quel maggior

tempo, per cui ne’ casi già detti dovrà differirsi l’inumazione non sarà regolarmente permessa la sezzione del Cadavere; ma ad essa solo si potrà devenire liberamente senza la detta limitazione in tempo nei casi più straordinarj, come di Epidemie incipienti, o malattie d’incognita cagione, purchè per giudizio di idonei Professori sieno senza contradizione manifesti i segni della morte seguita; e ciò per non defraudare il pubblico di quei vantaggi che derivano alle Arti salutari dalle ricerche di tal natura.

III. Per tutto quel tempo che dovranno i Cadaveri restare

sopra terra, dovranno lasciarsi per quanto possibile nello stato loro naturale, ed a forma delle Istruzioni che il Magistrato di Sanità di Firenze farà pubblicare, e che Noi comandiamo di

(13)

osservarsi.

IV. Affinché non vi sia alcuna ripugnanza a eseguire le Istruzioni predette, Ordiniamo che in avvenire i Cadaveri siano portati sempre coperti, tanto alle Chiese dove dovranno ricevere i suffragi, che a quelle dove dovranno seppellirsi.

XI. E non dovranno benché coperti restare esposti in avvenire nelle dette Chiese, dove non producono che disturbo al Popolo che assiste alle Sacre Funzioni, e pregiudizio alla pubblica salute. Ma vogliamo che tutte le Parrochie, ed ogni altra Chiesa che abbia il diritto di tenere per i suffragj, o tumulare i Cadaveri, per tutto quel tempo che questi dovranno restare sopra terra a forma dell’Articolo primo, li devino tenere custoditi in una stanza a parte dove in questo tempo non vi si celebrino i Divini Uffizj, e che non abbia alcuna comunicazione per cui si dia accesso al Popolo ma deva star serrata, e non possa entrarvi che chi deve aver cura del Cadavere.

VI. I Parochi avranno diritto di prevalersi a questo

oggetto di qualche Oratorio di Confraternita annesso alla Fabbrica della lor Chiesa, o in vicinanza della medesima dentro il circondario della Cura, dove nel tempo che dovrà servire per la

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Custodia di un cadavere, non solo non vi si celebreranno Messe, nè vi si faranno altre Sacre Funzioni, ma vi resterà proibita anco l’adunanza dei Fratelli; o sivvero destineranno a quest’uso una stanza della loro Canonica.

VII. In Firenze il Senator Segretario del Regio Diritto, e nello Stato i respettivi Giusdicenti avranno facoltà di conoscere sommariamente delle differenze che possono nascere tra il Parroco, ed I Fratelli dell’Oratorio che esso volesse presciegliere, e quelle procureranno di comporre, o decider prontamente come crederanno giusto, togliendo ogni ostacolo che per qualunque parte si potesse frapporre all’esecuzione di queste nostre determinazioni.

VIII. Tutte le Chiese non Parrocchiali che avessero il dritto di ritenere o per i suffragi, o per la tumulazione i Cadaveri, dovranno parimente avere un Oratorio, o Stanza per custodirveli, in mancanza della quale dovranno renunziare al loro dritto.

IX. Tutti i Parrochi, o altri alla cura dei quali sia qualunque Chiesa, che abbia il diritto dei suffragj, o della tumulazione, dovrà nel termine di un mese aver denunziato in Firenze, Siena, Pisa, e Livorno al Magistrato respettivo di Sanità,

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ed altrove ai respettivi Giusdicenti l’Oratorio, o Stanza che avranno destinata all’uso di custodire i Cadaveri e dai respettivi Tribunali sarà approvata, se con la visita del Cancelliere, o del Giusdicente, e di un Medico sarà riconosciuta adattata, ed in diverso caso li sarà assegnato un breve termine a provvedersi di altro luogo.

XI. Sarà per altro in facoltà delle respettive famiglie del

Defunto il ritenere il cadavere nella propria Casa per tutto quel tempo che a forma della presente Legge deve restare sopra Terra.

XI. Tutte le Funzioni Sacre che per l’avanti solevano farsi

presente il cadavere, potranno farsi col segno di una Coltre distesa in Terra, o sopra un Catafalco, purché sia osservato ciò che è stato prescritto nelle Leggi sopra i Funerali [...]

XII. Tutto ciò che nella presente Legge ci è piaciuto di prescrivere dovrà avere esecuzione dal dì primo del prossimo Marzo.

XIII. I Trasgressori di qualunque condizione siano, tanto Ecclesiastici, che Laici, saranno sottoposti alla pena di scudi venticinque per ciascuna trasgressione a qualunque degli Articoli contenuti nella presente Legge, ed all’arbitrio secondo le

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circostanze; la somma in cui sarà la condanna dovrà dividersi per metà tra l’Accusatore palese, e segreto, e lo Spedale di Santa Maria Nuova per lo Stato Fiorentino, e quello di S. Maria della Scala per il Senese.

XIV. Conosceranno di tutte le Trasgressioni dependenti da questa Nostra Legge, in Firenze il Tribunale degli Otto, in Siena il Capitano di Giustizia, ed in tutti gli altri luoghi del Gran Ducato i respettivi Tribunali ordinarj ai quali compete la Giustizia Criminale con le solite partecipazioni.

Tale è la Nostra volontà della quale ne comandiamo l’esecuzione in tutti i luoghi del Gran Ducato, benchè privilegiati, e dei quali convenisse farne special menzione, non ostante ec.

(17)

Figura 2.1.1 - Motu proprio del Granduca di Toscana, riguardante l’“esposizione de cadaveri” del 2 gennaio 1777. (Immagine tratta dal sito web

(18)

Successivamente tale impostazione fu novellata dal

Regolamento di Polizia del Granducato di Toscana del 22 ottobre

1849 emanato da Leopoldo II, ove nella Parte II (Della Polizia

Punitrice), al titolo III (Delle trasgressioni contro la religione e la

morale pubblica), nella sezione XV alla rubrica “Trasgressioni

relative ai Cadaveri umani”, si stabiliva che: “…art. 218

Chiunque sotterra o fa sotterrare, disseca, o fa dissecare il cadavere d’un uomo che ha cessato di vivere per morte non improvvisa prima che sia decorso il tempo di ore 24 da quello della morte è punito con una multa da 20 a 300 lire.

Nei casi di morte improvvisa l’inumazione e la dissecazione non possono farsi sotto la stessa pena prima che siano manifestati nel cadavere segni certi di putrefazione.

Art. 219. Chiunque senza licenza del Governatore, o Prefetto, o Sotto-Prefetto, sotterra o fa sotterrare un cadavere umano in luogo diverso dai cimiteri comuni è colpito da una multa da 10 a 100 lire.

Questa disposizione non si applica alle inumazioni che si facciano nei cimiteri delle Corporazioni o nei cimiteri o cappelle

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private poste alla campagna.

Art. 220. Chiunque salvo il caso di un’ordine del pubblico Ministero o di un Tribunale, dissotterra o fa dissotterrare un cadavere senza licenza del Governatore, o Prefetto, o Sotto-Prefetto, ognorachè l’azione non cada di per sé sotto una pena più grave incorre in una multa da 50 lire a 300 lire.

Art. 221. Sotto pena di 5 a 50 lire, e del doppio in tempo di malattie contagiose o epidemiche, è vietato esporre pubblicamente i cadaveri.

Art. 222. Il trasporto dei cadaveri deve nelle Città eseguirsi o nel mattino alla prima ora del giorno, o nella sera dopo l’un’ora; tranne il caso di assoluta necessità nell’interesse della pubblica salute da verificarsi a cura del Delegato di Governo, che potrà in tal caso permettere il trasporto in qualunque ora del giorno.

Art. 223. I cadaveri debbono sempre trasportarsi nel feretro coperto da coltre e non possono tenersi esposti in Chiesa né scoperti né coperti durante i funerali, ma appena associati alla Chiesa debbono portarsi nelle stanze mortuarie.

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senza pompa e solo colla accompagnatura d’un discreto numero d’ecclesiastici e coll’intervento delle persone necessarie per eseguirli.

Soltanto quando si tratti di onorare la memoria di defunti che si resero in vita benemeriti della patria, è permesso alla superiore Autorità locale di Polizia il derogare con speciali permessi alla suddetta disposizione.

Art. 225. Il trasporto, l’esposizione dei cadaveri ed ogni altra pompa funebre relativa ai defunti Arcivescovi e Vescovi del Granducato non sono soggetti alle disposizioni del presente Regolamento ma si regolano secondo gli ordini e consuetudini osservate nella rispettiva Diocesi.

Art. 226. Le contravvenzioni al disposto negli Articoli 222, 223, 224 delle quali debbono rispondere i Parrochi, gli eredi, o gli esecutori testamentarj del defunto, coloro che trasportano il cadavere, e coloro che lo accompagnano si puniscono colla multa da 15 a 100 lire per ciascun trasgressore.”

(21)

Fig. 2.1.2 - Regolamento di Polizia del Granducato di Toscana del 22 ottobre 1849 emanato da Leopoldo II. (Immagine tratta dalla pagina web

(22)

2.2 Evoluzione delle modalità di accertamento della morte

Parallelamente all’aspetto normativo, vennero elaborati

accorgimenti mirati ad osservare e rilevare dei segni più o meno

valutabili, per dedurre l’esistenza della vita sotto le sembianze

della morte ovvero per confermare l’avvenuto decesso.

Come si può leggere dall’opera di Barzellotti: “Fra i popoli

antichi, era in grand’uso dilavare i cadaveri con acqua calda, uso

che si pratica sempre fra noi, di ungergli con olj, e stropicciarli fortemente. I Romani dopo i tempi di Silla, che ordinò si bruciasse il suo corpo, perché non avesse la stessa sorte ch’ei dava a quello del suo rivale Mario, introdussero quindi l’uso di bruciare i cadaveri. Ma prima di quest’ultimo atto, facevano loro amputare un dito per assicurarsi, pare, della vera morte” (7).

Dopo questi primitivi e, nella maggior parte delle volte

inefficaci provvedimenti, con il tempo vennero elaborate modalità

e tecniche scientificamente più evolute e affidabili, per distinguere

le morti vere da quelle apparenti. Già il Barzellotti annotava, nella

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caso, che quando la vita è solamente sospesa nell’esercizio delle sue funzioni, non restino dei segni esterni che la facciano sospettare. Sovente il colore della pelle non è tanto pallido come nella vera morte; il calore non è totalmente estinto, e può alla regione del cuore spesso percepirsi; le membra sono più o meno flessibili, o non hanno acquistato per gradi la rigidità cadaverica. Il cuore talvolta è oscillante, e oggidì si può esplorare qualche suo moto anche oscuro collo stetoscopio. I polmoni conservano talvolta qualche leggera azione, e ponendo alla bocca uno specchio non di rado si appannano. Si può tuttavia meno contare su questo segno, perché posto uno specchio alla bocca di un vero morto, accade talora di vederlo appannare. Havvi un’altra prova su i moti del petto, mettendo un bicchier d’acqua sulla cartillagine della penultima costa a sinistra, giusta il consiglio di Winslow; vedesi l’acqua ondeggiare, se vi resta qualche aura di vita […] Essendo altronde i polmoni accessibili ai mezzi esterni, ed in stretta connessione col cuore, divengono essi il mezzo adattato per rianimare ad un tempo la loro azione e quella del cuore. La dilatazione quindi dei polmoni per via dell’introduzione in essi dell’aria, diviene un mezzo meccanico per commuovere il cuore;

(24)

laddove dessa diviene insiememente un agente chimico, per eccitare la vitalità sopita dei polmoni e del cuore. La respirazione adunque artificiale, diviene un mezzo ad un tempo per esplorare se esista la facoltà a vivere, e per ricondurla all’azione, tanto nel cuore che nei polmoni, e per ogni dove. La scienza possiede un soffietto biventre inventato dall’Unter nel 1775, e proposto da esso nel 1786 per soccorrere gli annegati. Desso imita i due processi della respirazione perfettamente. Riformato prima in Francia, e poi in Italia, è in uso in ogni paese civilizzato. Solamente addimanda delle mani abili per essere adoprato con successo, sia per introdurre la cannula piatta di Chaussier nella laringe, sia quella rotonda di altri, elastica o no, o la comune, sia per discendere graduatamente l’aria nel petto, e da quello ritrarla. Sovente si è creduto di aver introdotto la cannula nella laringe, e non era che nella bocca posteriore. La via delle narici è per introdurla la più sicura. Soffiando colla parte ispiratoria del mantice allorché la cannula non era penetrata nella laringe, si è veduta l’aria discendere piuttosto nello stomaco che nei polmoni. Talora introducendola con troppa forza in essi, n’è nata l’emorragia. E’ a cagione della mancanza di perizia nell’adoprar

(25)

questa macchinetta fra noi, che non ha avuto nei varj casi occorsi quel successo che poteva e doveva sperarsi. Sarebbe desiderabile che delle persone espertissime fossero incaricate dell’uso di essa […]”(7).

Tutti questi segni, qualora presenti, nella maggior parte dei

casi potevano ritenersi prova di una morte apparente; tuttavia, la

loro mancanza non permetteva di escludere una morte reale.

Con il progredire delle conoscenze mediche e della

contestuale evoluzione della tecnologica, con il tempo andarono

affiancandosi, come suggerito da numerosi autori, vari metodi,

talora complementari, volti a valutare la eventuale sussistenza della

funzione di organi e/o apparati, al fine di escludere i casi di morte

apparente.

2.2.1 Funzione respiratoria

“… più concludente se pur non di assoluto significato è invece l’arresto della respirazione polmonare, poiché la mancata assunzione di ossigeno e la mancata eliminazione di anidride carbonica incidono di riflesso sopra lo svolgimento di tutte le

(26)

attività vitali: onde il perdurare oltre certi limiti di tale stato di arresto respiratorio determina la morte […].

D’altra parte non sempre la ventilazione polmonare è accompagnata da movimenti obiettivamente e grossolanamente avvertibili della gabbia toracica: poiché anche permanendo immobili torace e diaframma l’influenza ritmica dei moti del cuore sul parenchima polmonare vicino può bastare per mantenere una attività respiratoria, sia pur minima, ma sufficiente per la vita […]” (8).

Pertanto i metodi proposti per esplorare una sia pur limitata

ventilazione polmonare e le escursioni respiratorie della gabbia

toracica potevano talora dare risultato negativo anche in caso di

morte apparente, anche per la loro iniziale ingenuità. Il Winslow

(1752), per es., poneva una candela accesa davanti agli orifizi

respiratori per osservare l’eventuale movimento della fiamma sotto

l’azione dell’aria espirata, ovvero, uno specchio per osservare se si

appannava a causa dell’umidità (9).

Il Thierry (1785), altrettanto semplicisticamente, saggiava la

immobilità toracica ponendo sull’epigastrio un bicchiere pieno di

(27)

stati compiuti atti respiratori (10).

Ulteriori metodi suggeriti, che si avvalevano di

apparecchiature, furono lo pneumografo del Marey, lo

pneumatoscopio dell’Icard ovvero l’impiego dello stetoscopio al

fine di auscultare l’eventuale presenza di murmure vescicolare

polmonare (11).

2.2.2 Funzione cardiocircolatoria

Delle varie modalità per valutare la presenza dell’attività

cardiaca, la più semplice e del resto la più utilizzata è stata

l’introduzione dell’auscultazione del cuore per mezzo dello

stetoscopio. “Una indagine stetoscopica proseguita per un minuto

o più senza risultato positivo fornisce indizio di morte reale: naturalmente indizio e non prova. Poiché talora possono verificarsi dei singoli battiti cardiaci intramezzati da lunghe pause, o possono essere così deboli da restare inavvertiti” (8).

Di più scarso significato, anche per la maggior complessità e

difficoltà materiale furono l’esame radioscopico dell’ombra del

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l’oscillometro ed il rilievo della pulsazione delle arterie rilevata ai

loro punti di emergenza sotto la cute e, in particolar modo, al polso

con lo sfigmografo del Marey (11).

Già sorpassati, nei primi anni del XX secolo, erano alcuni

metodi cruenti quali la recisione di un’arteria temporale, proposta

dal Veyne nel 1868, della carotide dal Legallois, della radiale dal

Joujoux (8) o l’ infissione di un ago attraverso gli spazi intercostali

nella punta del cuore, in modo tale da rivelare all’esterno eventuali

movimenti ritmici indotti dal cuore, così come suggerito dal

D’Halluin (13).

Per quanto attiene la valutazione della circolazione periferica

furono proposti numerosi metodi: “[…] Maggior valore pratico

hanno le osservazioni sulla circolazione periferica capillare. Già il pallore cadaverico, il <<supremo scolorar del sembiante>> ed il colore grigio terreo dei tegumenti, eran stati sempre considerati

come segno di morte”(8). Nel 1805 il Malhol-Bonajon assunse tali

segni anche dottrinalmente e nella pratica, così come il colorito

giallo della pianta dei piedi e del palmo delle mani, che avrebbe

dovuto spiccare in modo appariscente sul colore più bianco del

(29)

simile pallore non è certo indizio sicuro e decisivo di morte, perché può comparire senza apprezzabili differenze per semplice svenimento o per l’esposizione del corpo in ambienti freddi e così via” (8).

Considerate di più attendibile conclusione, quantomeno

dagli uomini di scienza della prima metà del XX secolo, la

illuminazione della cavità orale mediante una piccola lampadina

elettrica, preconizzata dall’Icard (14): “la cavità si presenta

vivamente rischiarata <<come una lanterna veneziana rossa>> nel vivo ed appena rischiarata, o quasi oscura nel cadavere” (8) o,

analogamente, il metodo della transilluminazione del lobo

dell’orecchio, che guardato in camera oscura, nel vivo dovrebbe

apparire di un colorito rosso intenso uniforme, se dietro di esso si

dispone una lampadina elettrica, mentre nella morte reale ha

colorito giallo pallido, per l’assenza di circolazione.

Tra le altre indagini proposte per rilevare l’esistenza della

circolazione sanguigna, si ricordano, quella del Magnus (1872) di

provocare la stasi venosa nel vivente con la legatura di un dito alla

sua radice, mancante, naturalmente, nel cadavere e quella

(30)

labbro inferiore del soggetto supposto cadavere, mediante l’uso di

una pinza a pressione, chiamata dallo stesso Icard tanatoscopio. Se

dopo 7-8 ore l’impronta delle pinze e lo stato pergamenaceo della

cute fossero permasti, si sarebbe potuto, secondo l’Icard, ritenere

certa la morte (14).

Altra tecnica fu quella di Levasseur (1867) che prevedeva

l’uso di “ventose scarificate” che non avrebbero aspirato sangue se

non in scarsa quantità, e nelle sole sedi ipostatiche, in caso di morte

reale (15).

Venne proposta e tentata anche la provocazione di locali

fenomeni infiammatori con instillazioni od iniezioni di sostanze

chimiche. Il D’Halluin (13) consigliò di provocare una iperemia

della congiuntiva, assente, ovviamente nel cadavere, instillando

una goccia di etere (altri consigliarono la dionina) in un occhio,

mentre l’altro doveva servire come controllo: altri autori, infine,

proposero di provocare lesioni cutanee con caustici come il nitrato

di mercurio (Deschamps) (16) od il caustico di Vienna (Peyraud),

la iniezione sottocutanea di ammoniaca proposta dal Monteverdi

(1876) (17) e la causticazione con acido solforico preconizzata da

(31)

quantità di ammoniaca sotto cute provocava nel vivo, per

stimolazione dei capillari sanguigni dello strato dermico, una

finissima iniezione vasale, un colorito rosso vinoso della cute e

punteggiature scure attorno agli orifizi ghiandolari ed alla base di

impianto dei peli e la formazione di piccole flittene contenenti

liquido sieroso. Nel cadavere, invece, si osservavano vescichette

contenenti liquido bianco giallastro o giallo rossastro, di spiccato

odore ammoniacale. Inoltre, per il depositarsi dell’ammoniaca nel

tessuto cellulare sottocutaneo e per il mancato suo assorbimento,

essa si diffondeva nel derma, per cui si otteneva, nel cadavere,

dopo circa cinque ore una macchia brunastra della pelle, di tinta

più o meno carica, a seconda della pigmentazione cutanea, (tale

fenomeno venne dal Monteverdi designato come “pelle sporca”)

(17). Chavigny e Simonin provocarono con una goccia di acido

solforico concentrato deposta sui tessuti viventi, la formazione di

una escara nera dovuta all’azione dell’acido sul sangue contenuto

nei capillari della cute. Sul cadavere invece si formava una sorta di

bolla lucida ed ambrata (8).

Venne suggerito, sempre al fine di accertare la persistenza

(32)

sostanze facilmente riconoscibili per caratteristiche chimiche o per

proprietà fisiche e di ricercarle in seguito a distanza dal sito di

iniezione. Già fin dal 1897 l’Icard aveva proposto soluzioni

concentrate di fluoresceina aggiunte a carbonato sodico. La

fluoresceina, sostanza analoga, quanto alla composizione chimica,

alla eosina, presenta una spiccatissima fluorescenza anche in

soluzione estremamente diluita, di una parte su 50 milioni di acqua:

la iniezione di un paio di cc di tale soluzione in una vena periferica

dell’individuo supposto cadavere, avrebbe provocato, rapidamente,

in caso di morte apparente, una distinta fluorescenza nei mezzi

trasparenti dell’occhio o nella urina estratta con cateterismo,

mentre, nel cadavere, la diffusione della sostanza non si sarebbe

estesa al di là della sede di iniezione (14). Il metodo, teoricamente

inoppugnabile, se anche non privo di obiezioni nella sua

applicabilità pratica, fu variamente modificato, mutandosi la natura

della sostanza ed il metodo di sua identificazione. Furono proposti,

nel tempo, lo ioduro potassico, che si svela mediante reazione della

salda d’amido, la fenolsulfonftaleina, ricercata con reazione

colorimetrica che dava esito positivo in presenza di piccole

(33)

si sarebbero messe in evidenza mediante la radioscopia (8). Su un

principio leggermente diverso si fondava la prova del Marradi

Fabron (18): iniettando, sotto cute, una soluzione di blu di metilene

alla quale fosse stato aggiunto idrosolfito sodico fino a completa

decolorazione, questa ritornava al colore normale se persisteva la

ossigenazione dei tessuti (19).

2.2.3 Funzione linfatica

Anche la cessazione della circolazione linfatica è stata tenuta

presente: dopo l’esaurimento delle maggiori attività, i tessuti

perdono il normale turgore, afflosciandosi.

L’assenza della circolazione linfatica, inoltre si rispecchia

nella mancanza di formazione di croste siero-ematiche nelle

escoriazioni che si producono dopo la morte.

Sono state proposte, inoltre, particolari prove, per verificare

ed accertare la morte, fondate su tale presupposto, provocando, per

esempio, artificialmente, la formazione di bolle o vesciche cutanee

con l’azione urente di corpi solidi riscaldati con il termocauterio, o

(34)

fusa, o di olio bollente, oppure impiegando sostanze ad azione

vescicatoria (ortiche, cantaride). Tale segno, già descritto fin dalla

metà del XIX secolo, consisteva nel vivente, nella formazione di

una flittena repleta di siero, mentre nel cadavere - salvo che in caso

di edema od in zona ipostatica - la flittena provocata da corpi urenti

era piena di gas e, se veniva prolungata, l’azione del calore

scoppiava.

Furono descritti con il nome di dermatogrammi le impronte

della cute, particolarmente della parte anteriore dell’addome,

evidenziate con gli stessi metodi usati per il rilievo delle impronte

digitali: da tali segni si sarebbero potute arguire le fini

modificazioni di volume della cute che intervengono dopo la

morte. Taluni autori, quali il Bettmann presero in considerazione,

nella determinazione della realtà del decesso ed anche della sua

cronologia entro le prime ore, il suddetto metodo, evidenziando che

i dermatogrammi sarebbero dipesi, nei loro vari aspetti in gran

parte da fattori intrinseci - quali la cessazione della circolazione

linfatica, il comportamento della muscolatura liscia, la rigidità

cadaverica, il raffreddamento della cute, le condizioni di età, sesso,

(35)

estrinseci, come l’umidità e la temperatura ambientale. In generale,

il dermatogramma nella prima ora dopo la morte non presenterebbe

spiccate differenze da quello valutato sulla persona vivente, mentre

due ore dopo la morte vi si troverebbero sottili pieghe specialmente

nel senso longitudinale, di contro, dopo undici ore, con maggior

evidenza, tali linee sparirebbero e, contestualmente, si

accentuerebbero quelle trasversali, allargandosi gli sbocchi delle

ghiandole, secondo le osservazioni dello Schrader (8).

2.2.4 Cute

A livello cutaneo, il Bordier osservò un differente

comportamento nel vivente e nel cadavere rispetto alla diatermia,

dal momento che, applicazioni diatermiche in qualsiasi punto del

vivente avrebbero fatto salire la temperatura del corpo, misurata

alla ascella od in bocca, in 15-20 minuti perfino di un grado e

mezzo, mentre tale aumento non si sarebbe verificato nel cadavere

(36)

2.2.5 Occhio

Segni per accertare la realtà della morte furono tratti anche

dalle modificazioni che si verificano nell’occhio del cadavere,

tanto che il corpus di conoscenze a riguardo prese il nome di

tanato-oftalmologia.

I bulbi oculari si presentano nel cadavere per lo più infossati

nella cavità orbitaria. La superficie della cornea. poco tempo dopo

la morte, appare solcata da finissime “rigature”, già notate dal

Bouchut (1865) (21) e messe in particolare rilievo da Aznar e

Pascual (1926) con il metodo della microscopia corneale;

dipendenti dalla lieve diminuzione di tono del bulbo che consegue

alla cessazione della circolazione dei liquidi endooculari, tali

plicature preludiano a quell’afflosciamento del bulbo oculare che si

verifica più tardivamente e alla cui genesi prendono parte anche

fenomeni di autolisi del vitreo. Qualche minuto dopo la morte, la

cornea inizia a perdere la propria trasparenza, così come il

cristallino che va progressivamente intorbidandosi, prima al

margine, poi nel nucleo (8). La perdita di trasparenza dei mezzi

(37)

gradualmente aumentando, sino a diventare totale, dodici ore dopo

la morte. Questo intorbidamento ostacola l’esame del fondo

dell’occhio, che permetterebbe di accertare la cessazione della

circolazione sanguigna nei vasi retinici. Tale indagine che

costituirebbe un elemento importante di giudizio, pertanto, non è

possibile che nelle prime 8-12 ore dalla morte: il fondo dell’occhio,

assume, come aveva osservato il Bouchut, un colorito grigiastro,

poco tempo dopo il decesso, dapprima attorno alla papilla del

nervo ottico, per poi diffondersi entro la prima ora a tutta la retina.

La visibilità della papilla si va pertanto progressivamente

attenuando fino ad annullarsi: le arterie retiniche appaiono vuote di

sangue, sottili, filiformi appena visibili; per una estensione pari a

due, tre volte il diametro della papilla (Albrand), i vasi retinici sono

inegualmente ripieni di sangue e presentano sporadiche interruzioni

della colonna sanguigna, in modo analogo a quanto il Morgagni

aveva osservato verificarsi nei piccoli vasi meningei. Non si

apprezzano sul colore grigio del fondo dell’occhio le striature

lucenti dei vasi, ed anche nella colorazione grigia esistono

sfumature, il colore è più biancastro verso il punto centrale, e

(38)

inoltre, non si osservano pulsazioni sanguigne. L’assenza di sangue

nell’arteria centrale della retina è certamente uno dei segni precoci

di morte, poiché coincide con il momento stesso della cessazione

della circolazione, tuttavia può osservarsi anche nel vivente, in

caso di embolia di detta arteria (8) (23).

Joll (1860) e, in seguito, Silberstene notarono che la pupilla

si deforma premendo sul globo oculare del cadavere con due dita

su due punti di esso: la deformazione consisterebbe in un

restringimento ovalare od irregolare di varia entità a seconda della

pressione esercitata e dipendente dall’abbassamento della tensione

endooculare. Nel vivente, invece, la pressione sul globo oculare

non determina alcuna modificazione della forma pupillare. Il

fenomeno, tuttavia, non comparirebbe, in soggetti affetti da talune

patologie oculari come, ad esempio, il glaucoma (8).

Il Bouchut propose di utilizzare atropina per saggiare la

reattività corneale, tuttavia, tale prova venne presto abbandonata in

quanto la reattività pupillare ai farmaci, persisterebbe per qualche

(39)

3. TAFOFOBIA

La Tafofobia, ossia la “paura di essere sepolti vivi”, che ad oggi viene annoverata, a tutti gli effetti tra le nevrosi, fu profondamente e diffusamente radicata in molte culture, esistendo, testimonianze a riguardo assai remote. Agutter e coll. riportano un caso di morte apparente avvenuto in Persia durante il periodo della dinastia Qajar (inizi XIX secolo): una giovane donna, affetta da problemi psichiatrici, andò incontro improvvisamente ad una paralisi totale (quella che ad oggi verrebbe diagnosticata come sindrome da conversione). Ritenendola morta, poiché non risultavano apprezzabili né la respirazione, né la presenza di battito cardiaco, i familiari decisero di procedere con la sepoltura. Soltanto alcuni giorni dopo, alla riapertura del feretro, si capì che la ragazza era ancora in vita al momento della sepoltura e venne riscontrato che ella aveva tentato di liberarsi per uscirne (2).

Attorno alle metà del XIX secolo, la tafofobia divenne quasi un problema sociale a causa anche di numerosi racconti, per lo più privi di fondamento, relativi a soggetti accidentalmente sepolti vivi (23).

(40)

Pare che anche il famoso scrittore Edgar Allan Poe (1809-49) soffrisse di questo disturbo: sicuramente, egli era interessato a tale argomento, avendo pubblicato nel 1884 il suo romanzo “The

Premature Burial nel Philadelphia Dollar Newspaper” (4).

Nel suo libro “The Corpse: A History”, la scrittrice

americana Christine Quigley riporta il caso, risalente al 1896, di un

impresario di pompe funebri americane, T.M. Montgomery, il

quale aveva effettuato una stima che, a suo parere, quasi il 2%

delle persone riesumate erano state sepolte mentre erano ancora in

vita (24).

Nel 1905, il riformatore inglese William Tebb raccolse

resoconti di sepoltura prematura, individuando tra di essi 219 casi

in cui era stata formulata una diagnosi di morte in soggetti in realtà

ancora viventi, errore tuttavia prontamente rilevato prima della

sepoltura, 149 sepolture di soggetti in stato di morte apparente, 10

casi di dissezione di viventi, apparentemente morti e 2 casi di

ripresa di coscienza durante le pratiche di imbalsamazione (25).

Nel corso del tempo vi sono stati numerosi tentativi di

ovviare al problema della sepoltura di soggetti dichiarati

erroneamente deceduti, con l’intento di progettare e realizzare varie

(41)

chiusura all’interno della bara di un individuo ancora in vita, la

possibilità per lo stesso di comunicare con l’esterno, in modo da

permettere un tempestivo intervento e di evitare una morte da

confinamento (26).

Fig. 3.1 - Progetto depositato da Christian Henry Eisenbrandt. (Immagine tratta

dalla pagina web https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Eisenbrandt_coffin.jpg).

Il 15 novembre 1843, Christian Henry Eisenbrandt di

(42)

come "bara di conservazione della vita” (fig. 3.1). Tale congegno

era provvisto di una sorta di oblò per respirare e al fine di

consentire che la voce dell’individuo inumato, ma ancora in vita,

potesse essere udita dall’esterno; il dispositivo era, inoltre, dotato

di una leva complessa e di un meccanismo a molla tali da

permettere al soggetto all’interno di sollevare con facilità il pesante

coperchio (26).

Il 25 agosto 1868, Franz Vester di New York depositò il

brevetto di un analogo congegno (fig. 3.2) da lui così descritto: “La

natura di questa invenzione consiste nel porre sul coperchio della bara, e direttamente sopra la faccia del corpo ivi deposto, un tubo quadrato, che si estende dalla bara attraverso e sopra la superficie della tomba. Detto tubo contiene una scala e una corda: una estremità di detta corda è posta nella mano della persona posta nella bara, e l'altra estremità di detta corda è attaccata ad una campana sulla sommità del tubo quadrato, così che, se una persona fosse sepolta prima che la vita sia estinta, può, al ritorno alla coscienza, salire dalla tomba e dalla bara dalla vicina scala; oppure, se non è in grado di salire su detta scala, suonare il campanello, dando così un allarme, e così salvarsi da sepoltura e

(43)

morte premature; e se, a vista, la vita è estinta, il tubo viene ritirato, la porta scorrevole chiusa e il tubo usato per uno scopo simile…” (26).

Fig.3.2 - Progetto depositato da F. Vester. (Immagine tratta dalla pagina web

(44)

Altro dispositivo, con analoghe caratteristiche “di sicurezza”,

fu quello brevettato (fig. 3.3 a e b) il 5 dicembre 1899 da Marie

Costant Hippolyte Nicolle, la quale così lo descrisse: "Ho ideato

una bara migliorata che consente di mantenere l'organismo durante un certo periodo di tempo fino al momento della decomposizione e, inoltre, permette alla persona posta nella bara di avvertire se c'è stato un errore”.

Il meccanismo alla base di tale congegno consisteva nel fatto

che un eventuale movimento della testa della persona

apparentemente morta metteva in funzione un sistema di leve

collegato ad un allarme (26).

Ad oggi, anche grazie al progresso scientifico e tecnologico,

quello legato alla tafofobia è diventato un fenomeno piuttosto raro. Secondo Pita e Carmona, un moderno equivalente della tafofobia

potrebbe essere considerata la paura che possa venire effettuato

l’espianto di organi, a fini di donazione, da soggetti ancora in vita

(45)

Fig. 3.3a - Progetto di Marie Constant Hippolyte Nicolle. (Immagine modificata

dalla pagina web https://patentimages.storage.googleapis.com/pages/US638265-1.png).

(46)

Fig. 3.3b - Particolare del progetto presentato da Marie Constant Hippolyte Nicolle. (Immagine tratta e modificata dalla pagina web https://patentimages.storage.googleapis.com/pages/US638265-0.png ).

(47)

4. NORMATIVA IN TEMA DI ACCERTAMENTO DELLA REALTÀ DELLA MORTE

Se esiste, come esplicitato nell’introduzione, un’unica

definizione di morte sancita da un punto di vista normativo, che, lo

ricordiamo, coincide con la cessazione irreversibile di tutte le

funzioni dell’encefalo, esistono, comunque almeno tre serie di

criteri per accertarla, a seconda del caso concreto: quello, per così

dire, tanatologico, quello cardiaco e quello neurologico, tutti,

comunque finalizzati ad una dimostrazione, latu sensu,

dell’avvenuta cessazione di tutte le attività dell’encefalo.

4.1 Criteri tanatologici

L’accertamento della realtà della morte mediante criteri

tanatologici, applicabile in caso di arresto cardiocircolatorio è,

storicamente, la più risalente delle metodiche attualmente in uso, e

si basa sulla ricerca, all’ispezione esterna dei fenomeni cadaverici

post-mortali a cui va incontro la struttura organica a seguito del

(48)

Tali segni coincidono con quelli da prendersi in esame per la

definizione della cronologia della morte (abiotici e trasformativi),

con la seguente precisazione: dal momento che l’accertamento

della morte deve rispondere, da un lato, all’esigenza di essere

sicuro e, per quanto possibile, immediato, nonché precoce, saranno

i primi segni a dover essere clinicamente considerati a tale scopo,

relegando i secondi a fini per lo più di tanatocronologia (28).

Il Regolamento di Polizia Mortuaria (D.P.R. 10 settembre

1990, n. 285, pubblicato nella G. U. 12 ottobre 1990, n. 239, S.O.)

nel capo II, rubricato “Periodo di osservazione dei cadaveri”

stabilisce, sulla base delle considerazioni supra menzionate, che

“Nessun cadavere può essere chiuso in cassa, né sottoposto ad autopsia, a trattamenti conservativi, a conservazione in celle frigorifere, né essere inumato, tumulato, cremato, prima che siano

trascorse 24 ore dal momento del decesso […]”, estendendo, con

l’art. 9, tale limite temporale a 48 ore “nei casi di morte improvvisa

ed in quelli in cui si abbiano dubbi di morte apparente […]”, al

fine di consentire la comparsa di eventuali alterazioni post mortali,

(49)

Da un punto di vista schematico, secondo l’ormai classica

suddivisione del Borri proposta nel 1914, i fenomeni cadaverici

possono essere distinti in negativi o abiotici e positivi o

trasformativi (29).

I segni negativi, a loro volta, possono essere differenziati in

immediati, dipendenti dalla cessazione delle maggiori funzioni

organiche e in consecutivi, subordinati al sopravvivere e al

progressivo spegnersi delle attività dei singoli elementi che

compongono l’organismo (28).

Sono segni negativi immediati la perdita di coscienza, della

sensibilità e della motilità volontaria associata a abolizione del tono

muscolare, la cessazione della respirazione polmonare e l’arresto

dell’attività cardiaca e circolatoria. Si tratta di manifestazioni che

fanno riferimento all’appalesarsi dei cosiddetti segni clinici della

morte, in quanto attestano l’arresto delle principali attività vitali e

possono considerarsi decisivi solo allorquando si protraggano nel

tempo, ovvero nel momento in cui tale cessazione si considera

(50)

Appartengono ai segni consecutivi il raffreddamento

cadaverico, le ipostasi e la rigidità costituenti la triade tanatologica

classica dell’ algor, livor e rigor mortis (28).

4.1.1 Ipostasi

La lividura cadaverica rappresenta la conseguenza

dell’arresto cardiocircolatorio irreversibile ed è il segno più

precoce e più sicuro di morte. Già in fase agonica, come

conseguenza della perdita della funzione contrattile cardiaca, si

possono manifestare locali segni di stasi, in genere a livello delle

guance, a prognosi infausta e definiti, evocativamente, come “rose

da cortile del camposanto” (30).

Con l’arresto circolatorio vero e proprio, il sangue e gli altri

liquidi corporei defluiscono seguendo la forza di gravità per cui si

depositano a livello delle zone corporee più declivi: se il cadavere è

in posizione supina, le ipostasi saranno, dunque, a livello della

faccia posteriore del corpo, del collo.

I segni visibili all’esterno sono legati al riempimento passivo

(51)

formano piccole macchie di colore rosso chiaro, che, con il

progredire del tempo dal momento del decesso, aumentano di

grandezza, confluiscono e, a seguito della carenza di ossigeno,

assumono un colorito blu-violaceo (31).

Normalmente le ipostasi iniziano a comparire a circa 30’

dall’exitus; divengono ben evidenti nelle zone declivi già dopo 2

ore dalla morte e tendono ad estendersi fino alla 12a ora (8).

In relazione al tempo di insorgenza ed alle modalità di

formazione le ipostasi vengono distinte in due differenti stadi:

- Stadio I; ipostasi da replezione: secondarie al semplice

riempimento dei vasi dermici. In tale stadio esercitando una fugace

ma intensa digitopressione in corrispondenza dell’area ipostatica la

macchia scompare per poi tornare a formarsi in un secondo tempo.

L’ipostasi si dice, in questi casi, mobile e rimane tale fino a circa

8-10 ore dal decesso.

- Stadioi II; ipostasi da diffusione: a seguito dell’emolisi

intravascolare, l’emoglobina rilasciata dalle emazie diffonde

attraverso le pareti vasali determinando la colorazione stabile dei

(52)

ipostatica non ne determinerà lo scolorimento. Parlasi di ipostasi

fisse solitamente dopo 18-20 ore dalla morte (32).

Il processo di fissazione dell’emoglobina è graduale pertanto

è possibile ulteriormente classificare in gradi o fasi il fenomeno

ipostatico:

- I grado; fase di migrabilità totale: la digitopressione della

zona ipostatica determina la scomparsa (o l’evidente scolorimento)

della lividura. Cambiando la posizione del cadavere le ipostasi

formatesi tenderanno a scomparire per riapparire nelle zone declivi

proprie nella nuova posizione.

- II grado; fase della migrabilità parziale: variando la

posizione del cadavere le ipostasi primitive impallidiranno senza

scomparire e ulteriori ipostasi andranno formandosi nelle nuove

zone declivi.

- III grado; fase di fissità assoluta: qualunque sia la posizione

fatta assumere al cadavere durante questa fase non si formeranno

nuove ipostasi (33).

Nei punti di decubito ci sarà un’area di risparmio delle

ipostasi, poiché la compressione sui punti d’appoggio è superiore

(53)

posizione supina, le aree di risparmio interesseranno la regione

occipitale, scapolare, la zona sacrale, surale e calcaneale. Si

trovano aree di risparmio anche nelle pieghe cutanee o nei punti in

cui ci sia una compressione da parte dei vestiti (34).

4.1.2 Rigor mortis

Con l’avvento della morte si giunge inizialmente a una

condizione di perdita del tono, con completa flaccidità muscolare

che, con il passare del tempo, viene sostituita da una rigidità

diffusa la cui genesi non è perfettamente conosciuta nei suoi aspetti

biomolecolari (30).

È noto che la contrazione muscolare è correlata alla

formazione di ponti actino-miosinici il cui legame è regolato da

ATP e dall’enzima ATP-asi. Quando la quota di ATP scende al di

sotto dell’85% circa rispetto alla quota normale (si tenga conto che

inizialmente, per la reazione della creatinchinasi e della glicolisi

anaerobia, anche in assenza di riserve muscolari di glicogeno,

viene sintetizzato ATP) vengono a determinarsi legami irreversibili

(54)

manifestazione della rigidità muscolare cadaverica. In altre parole,

la riduzione della quota di ATP, necessaria per lo scorrimento dei

ponti actino-miosinici, determinerebbe un graduale mancato

rilasciamento muscolare (29) (30).

Con il subentrare dei processi autolitici detti legami

andranno gradualmente degradandosi portando al definitivo

rilasciamento muscolare (28).

In base al classico assioma dichiarato nella legge di Nysten

(1811) la formazione del rigor mortis segue uno schema ad

andamento cranio caudale e si mantiene tanto più a lungo quanto

più tardivamente compare, con intensità direttamente proporzionale

alla massa del muscolo, insorgendo precocemente a livello

dell’articolazione temporo-mandibolare, poi alle estremità degli

arti superiori, quindi al tronco ed alle estremità degli arti inferiori,

per poi recedere gradualmente, seguendo lo stesso andamento (8).

Integrando le nozioni riguardanti la progressione topografica

del rigor ed il suo meccanismo di formazione, si può affermare che

la rigidità cadaverica verrà a manifestarsi precocemente a livello

dei muscoli più piccoli e che presiedono alla funzionalità di

(55)

bloccate. In definitiva, nonostante la deplezione di ATP si

manifesti contestualmente in tutta la muscolatura, la rigidità si

paleserà prima a livello dei piccoli muscoli che più facilmente, dato

l’esiguo numero di fibre, possono subire la contrazione

post-mortale (33).

Usualmente – si tenga presente che numerose sono le

variabili in grado di determinare variazioni rispetto a quanto verrà

riportato – le fasi successive di formazione e risoluzione del rigor

mortis soggiacciono al seguente andamento temporale:

- la rigidità compare a circa 2-3 ore dalla morte;

- il progressivo irrigidimento cadaverico raggiunge ogni

distretto muscolare dopo circa 24 ore post mortem;

- solitamente dalla 48a ora in poi la rigidità tende

progressivamente a risolversi;

- la risoluzione è completa dopo le 72 ore (28) (29) (30).

L’esame cadaverico prevede la valutazione della vincibilità

del rigor; a tale proposito è da notare che nelle fasi che vanno dalla

sua comparsa al suo acme la rigidità, se vinta, tende a ricomparire,

(56)

formazione di nuovi ponti actino-miosinici. Raggiunto l’acme,

vincendo la rigidità, questa non si ripresenterà (33).

Il rigor mortis non interessa solo la muscolatura striata, ma

anche quella liscia, quale quella dei muscoli erettori dei peli, la cui

contrazione può determinare il fenomeno della cute anserina (8).

4.1.3 Raffreddamento cadaverico

Con il sopraggiungere della morte, si produrrà un

livellamento della temperatura corporea con quella dell’ambiente

circostante attraverso quattro meccanismi: conduzione, convezione,

irraggiamento ed evaporazione dell’acqua (33).

La temperatura corporea si mantiene stabile nell’immediato

periodo post-mortale di talché si osserverà un plateau che dura per

circa due-tre ore, a motivo della residua produzione di calore

dovuta al metabolismo delle cellule ancora vitali (28).

Successivamente si verifica una caduta esponenziale,

secondo le leggi del raffreddamento newtoniano, per cui la curva

(57)

Schematicamente possiamo fornire le seguenti indicazioni: il

decremento termico è di circa 1 ° C a partire dalla 3a - 4a ora fino

alla 12a ora e successivamente la riduzione oraria termica decede

gradualmente (3/4 di grado/ora, 1/2, 1/3 e così via fino al

livellamento della temperatura con l’ambiente) (32).

Favoriscono il raffreddamento, accelerandone l’andamento,

fattori intrinseci al cadavere, quali l'età neonatale o giovanile, in

cui si osserva un rapporto superficie/volume che facilita la cessione

del calore, lo scarso sviluppo della massa corporea e il minore

spessore del grasso sottocutaneo. Ulteriori fattori che influenzano

la progressione dell’algor mortis sono rappresentati da fattori

estrinseci quali la temperatura ambientale, l’umidità, la

ventilazione, la natura del mezzo in cui si trova il cadavere e gli

indumenti (28).

4.1.4 Autolisi e putrefazione

Rientrano nei fenomeni positivi o trasformativi l’autolisi e la

(58)

solo menzione dei fenomeni speciali quali la mummificazione, la

saponificazione, la corificazione e la macerazione (28) (29).

Con il termine autolisi si descrive la dissociazione delle

strutture organiche a seguito dell’aggressione degli enzimi cellulari

propri dell’organismo. L’autodigestione interessa precocemente

tessuti ed organi quali la mucosa gastrica, il pancreas e i surreni

(28) (30).

Parallelamente all’autolisi si verifica la putrefazione, un

processo batterico, eterolitico su base riduttiva. Come primo segno

della putrefazione si presenta una colorazione verdastra della cute,

inizialmente a livello della porzione destra dell’ipogastrio verso la

fossa iliaca, che si può allargare su tutta la superficie corporea, per

la formazione di sulfossiemoglobina ad opera della flora batterica

intestinale. Tale colorazione tende ad estendersi, mentre iniziano a

rendersi evidenti i reticoli venosi sottocutanei che assumono un

colore verdastro/violaceo per le modificazioni dell’emoglobina ad

opera dei batteri (31).

La produzione di gas ad opera dei micororganismi della flora

batterica tende a rendere i tessuti tumefatti così che il cadavere

(59)

iniziano a formarsi bolle cutanee replete di liquido che rompendosi

determinano ampi slaminamenti cutanei con conseguente

esposizione del derma che può venir colonizzato dalla flora

batterica esogena. Con la prosecuzione dei processi putrefattivi si

verifica la progressiva colliquazione degli organi, fortemente

influenzata dal grado di tessuto connettivo in seno agli stessi, fino

alla scheletrizzazione del cadavere (33) (34).

4.2 Criteri cardiocircolatori e connesse problematiche

In caso di morte per arresto cardiaco, secondo quanto

stabilito dal D.M. Salute 11 aprile 2008, l’accertamento può essere

effettuato con il rilievo continuo dell'elettrocardiogramma protratto

per non meno di 20 minuti primi, registrato su supporto cartaceo o

digitale, conformemente a quanto previsto dal comma1 dell’art. 2

della legge 578/1993, che prevede quanto di seguito: “la morte per

arresto cardiaco si intende avvenuta quando la respirazione e la circolazione sono cessate per un intervallo di tempo tale da comportare la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo

(60)

e può essere accertata con le modalità definite con decreto emanato dal Ministro della sanità”.

Attualmente i casi di c.d. morte apparente risultano essere

estremamente rari, sempre che vengano messe adeguatamente in

atto tutte le procedure per giungere ad un accertamento della realtà

del decesso, come sopra esposte. Tuttavia, in letteratura, sono

presenti alcuni articoli in cui viene descritto un “ritardato ritorno

della circolazione spontanea” (Return of spontaneous circulation o

ROSC) dopo la cessazione della rianimazione cardiopolmonare. Le

cause del fenomeno non sono state ancora definite, sebbene

l’ipotesi ritenuta più plausibile sia quella di un’eccessiva

ventilazione del paziente dovuta o alla compressione toracica

durante le manovre rianimatorie o all’iperinsufflazione dinamica

del polmone che causa un aumento della pressione espiratoria

finale positiva (PEEP) in caso di ventilazione meccanica: ciò

comporterebbe un aumento della pressione intratoracica tale da

ridurre il già scarso ritorno venoso. Altri fattori presi in

considerazione sono l’iperkaliemia e l’impiego di dosi troppo

elevate di adrenalina. Nel 1993 Bray, in un articolo apparso su

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