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La Costa d'Avorio tra ricerca della Democrazia e Crisi dell'Alterità.

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Academic year: 2021

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LA COSTA D’AVORIO TRA RICERCA DELLA DEMOCRAZIA E

CRISI DELL’ALTERITÀ.

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INDICE.

INTRODUZIONE.

CAPITOLO 1. LA COSTA D’AVORIO TRA ESPANSIONE

ECONOMICA E INCLUSIONE SOCIALE: FU UN VERO

MIRACOLO?

1. La Presidenza “imperiale” di Boigny. 2. All’origine del miracolo ivoriano.

3. Gli anni ottanta tra crisi economica, contestazioni e riforme. 4. Democrazia alla Boigny?

CAPITOLO 2. LA CRISI DELLE ALTERITÀ IVORIANE.

1.19990: La crisi dello spazio urbano.

2. 7 Dicembre 1993: Braccio di ferro Bedié- Ouattara. 3. Bedié e il paradigma dell’ivoirité.

4. L’ivoirité: un ideale culturale alla mercé della politica. 5. L’ivoirité politica tra passato e presente.

6. La re- tribalizzazione della politica e la crisi dell’alterità urbana. 7. La crisi dell’alterità rurale.

7.1. La legge fondiaria del 1998: “La terra non è più di chi la coltiva. 8. Il colpo di Stato del generale Gueï: un’occasione mancata?

9. Ottobre 2000: Un caotico appuntamento elettorale.

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CAPITOLO 3. LA ROTTURA DELL’ALTERITÀ IVORIANA:

“GLI ANNI TERRIBILI DELLA GUERRA CIVILE”.

1. Il mancato putsch e la svolta nella crisi delle alterità ivoriane. 2. Il Paese è diviso.

3. 27 Gennaio 2003: Gli Accordi di Linas- Marcoussis. Il diritto al servizio della politica.

4. La rottura della Concordia: tanti accordi, nessuna soluzione. 5. Gli Accordi di Ouagadougou: verso la pace?

CAPITOLO 4. UN PROCESSO ELETTORALE “VIZIATO”.

1. Una Commissione elettorale indipendente? 2. Il “caos” delle liste elettorali.

3. Un inedito processo di certificazione. 4. Nessun Disarmo per la Costa d’Avorio.

CAPITOLO 5. LE ALTERITÀ IVORIANE ALLA PROVA DELLA

DEMOCRAZIA.

1. 31 Ottobre 2010: finalmente si vota.

2. 28 Novembre 2010: Due Presidenti per un Paese. 3. La crisi post-elettorale.

3.1.Una battaglia diplomatica già vinta. 3.2. La Francia “salva” Ouattara.

CONCLUSIONI.

BIBLIOGRAFIA.

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INTRODUZIONE.

Nel 2002, mentre l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale era tutta rivolta a decifrare quale sarebbe stata la reazione statunitense agli attacchi dell’11 Settembre, il microcosmo ivoriano entrava nella spirale della guerra civile. L’avvenimento colse di sorpresa la maggior parte dei commentatori. A trarre in inganno i più, in particolare, fu il retaggio storico della Costa d’Avorio. Pur essendo una Nazione relativamente giovane, infatti, l’ex colonia francese s’era guadagnata , nel tempo, una buona reputazione a livello internazionale in virtù di un solido modello di sistema paese. Se la solidità costituiva il tratto distintivo della realtà ivoriana rispetto ad altre entità statali del continente africano, marcate dal flagello dell’instabilità, la diversità, l’eterogeneità, invece, ne ha sempre rappresentato un elemento di comunanza, di similarità. Noto è, infatti, che per effetto di movimenti migratori, stratificatisi nel tempo, il palcoscenico ivoriano è sempre stato un mosaico che ospita diversi gruppi etnici e religiosi. Per quarant’anni circa, le diverse anime che costellano la galassia della Costa d’Avorio, sono riuscite a non squalificarsi vicendevolmente poiché furono in qualche modo coniugate dalla leadership carismatica di Felix- Houphouët Boigny considerato il padre di tutti gli ivoriani. Quest’ultimo, senz’ombra di dubbio, deve larga parte della sua fortuna politica al boom delle esportazioni di cacao e caffè che negli anni sessanta e settanta si tradusse in quello che è passato alla storia con l’espressione di “Miracolo ivoriano”. Un miracolo economico che è stato in grado di trainare il successo del paese considerato, in passato, dalla maggioranza degli analisti un laboratorio di efficaci pratiche di governance e contestualmente un buon esempio d’inclusione e di coesione sociale. Poi però a un tratto negli anni ottanta l’incantesimo si è rotto. La globalizzazione ha messo a nudo i difetti, le lacune di quello che apparentemente sembrava essere un sistema economico, politico e sociale collaudato. Dopo la morte del presidente Boigny, si è aperta, nel paese una fase che ha visto le alterità ivoriane entrare in una crisi che ha assunto molteplici dimensioni conflittuali la più pericolosa delle quali è stata la guerra civile che ha visto sgretolarsi il patto nazionale ivoriano. Scopo del seguente lavoro è far luce su tale crisi delle alterità che è all’origine del fallimento del processo democratico della Costa d’Avorio. Per comprendere tale crisi della diversità è necessario guardare alla traiettoria seguita da politica, economia e società. Per questo motivo in un primo capitolo si prende in

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considerazione la genesi della crisi delle alterità ovvero il fatto che questa trae origine da tutta una serie di disfunzioni e lacune insite nel modello di sistema paese di derivazione coloniale e post-coloniale. In un secondo capitolo, invece, si osservano le determinanti e le differenti dimensioni assunte dalla crisi dell’alterità. Il terzo capitolo è dedicato all’analisi della guerra civile con particolare focus sui negoziati di pace. Il quarto, invece, introduce la questione elettorale che verrà poi ripresa nel quinto capitolo ove si prende in considerazione l’ultimo capitolo della crisi delle alterità ovvero la vicenda della crisi post-elettorale.

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Capitolo 1. La Costa d’Avorio fra espansione economica e inclusione

sociale: fu un vero miracolo?

1. La “Presidenza Imperiale” di Boigny

La parabola della Costa D’Avorio indipendente trae origine dalla figura carismatica di Felix Houphouët- Boigny. Negli ultimi decenni del regime coloniale francese, il Vecchio, come amavano chiamarlo i suoi compatrioti, fu, in grado di guadagnarsi il ruolo di attore protagonista del panorama socio- politico ivoriano. Félix- Boigny era un medico, ricco possidente terriero, che dal 1944 guidava il Sindacato Agricolo Africano. 1 In seguito irruppe sulla scena politica con l’incarico di deputato rappresentante della Costa D’Avorio, presso l’Assemblea Nazionale francese.2 Era il 1946, un’annata d’oro per il neo-eletto parlamentare africano che, grazie a straordinarie doti di persuasione politica, convinse i costituenti francesi, a sposare la causa dell’abrogazione della schiavitù presso tutte le popolazioni colonizzate. Il successo di tale iniziativa conferì al giovane leader africano una statura di rilievo tra le fila dei movimenti di decolonizzazione, che si stavano affermando a livello continentale. Fu, infatti, chiaro che la via dell’emancipazione ivoriana in particolare, e africana in generale, passava anche attraverso le preferenze strategiche da lui espresse. Ed è proprio tra le linee di tali scelte, che prende forma, nell’immediato dopoguerra, quel modello politico di governance denominato houphouëttismo. È stata questa una vera e propria filosofia di amministrazione della cosa pubblica, che ha permesso allo stesso leader ivoriano di restare saldamente ancorato al potere, sino alla data della sua morte. Chi scrive concorda con quel filone di pensiero che attribuisce la fortuna politica di Félix Boigny, da un lato, all’ascendente personale dello stesso, e dall’altro, alle sue capacità di vero e proprio “camaleonte della politica”. Sapersi adattare alle circostanze del momento, al mutare degli equilibri, al corso degli eventi; è stata questa la chiave del successo di Boigny. La cifra dominante dell’azione di Houphouët è stata

1 Il Sindacato Agricolo Africano fu creato nel 1944 al fine di combattere le pratiche discriminatorie nei confronti dei contadini africani. Tali pratiche, da sempre portate avanti dalla madrepatria, furono inasprite negli anni della seconda guerra mondiale, dal Governo filo-nazista di Vichy. In particolare l’allora leader sindacale Boigny reclamava per i coltivatori africani la possibilità di poter vendere direttamente i loro beni sul mercato, senza passare attraverso l’intermediazione dei coloni bianchi, un eguale trattamento rispetto ai colleghi europei, e la fine dei privilegi di questi ultimi che come noto disponevano di manodopera africana gratuita e che controllavano il grosso dei commerci.

2 L’elezione di Boigny fu il frutto di una scelta precisa adottata dal legislatore costituente francese del ’44. In seno ai lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, infatti, fu deciso di conferire ad ogni “Territoire d’outre- mer” il privilegio di essere rappresentati da un proprio delegato.

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senz’ombra di dubbio il pragmatismo. Il primo obiettivo dell’astro nascente della politica africana fu quello di spezzare le catene del giogo coloniale, che da fine ottocento, affiggevano il suo paese, senza però rompere il legame con Parigi. In linea con tale schema, cavalcando il leitmotiv postbellico dell’autodeterminazione dei popoli, l’ormai leader indipendentista, muove, pertanto, tutta una serie di tasselli che schiuderanno per la Costa d’Avorio, le porte della decolonizzazione. E così, nel ’46, trasforma la costola ivoriana del Rda3 nel Partito Democratico della Costa D’Avorio (Pdci) mostrando, quindi, un’iniziale propensione ad allinearsi alle indicazioni del Partito comunista francese. È in tale scenario che vanno quindi lette le decisioni, intraprese nel biennio 1949- 1951, di avallare la forte ondata di scioperi motivata dalla caduta del corso del cacao e di allearsi con l’Unione Democratica e Socialista, dell’allora ministro dei territori d’oltremare, François Mitterrand. Il matrimonio con la sinistra francese, però, s’interruppe quando Boigny, dal ’46 al timone del Rda, decise di spostarsi su posizioni moderate favorevoli al dialogo con Parigi. Il cambio di fronte gli fece guadagnare la stima dell’Eliseo; simpatia nei riguardi di Félix- Boigny, che si manifestò nella decisione di assegnargli per bene cinque volte incarichi ministeriali. È in tale veste che il leader ivoriano, poté giocare un ruolo decisivo in seno al tavolo delle riforme indirizzate nel senso di una transizione graduale della Costa d’Avorio verso l’indipendenza. In breve tempo la colonia ivoriana e, il suo esponente di punta si erano assicurati un’influenza tale da essere ormai considerati a pieno titolo, il faro dell’Africa Occidentale Francese (AOF)4. La consacrazione internazionale di Boigny arriverà il quattro Dicembre del 1958. A far seguito da tale data per la Costa d’avorio il traguardo della liberazione dal colonialismo non sarà più un miraggio. Il territorio d’oltremare, infatti, diviene una Repubblica in seno all’AOF. In considerazione del brillante cursus honorum, prevedibile fu l’elezione di Félix- Boigny alla guida dell’esecutivo.

La notorietà interna e internazionale, di quest’ultimo, spiegano anche perché il costituente ivoriano, in pieno odore d’indipendenza, decise di modellare sulla figura

3 Tale acronimo sta per Rassemblement Démocratique Africain. Si trattava di un movimento politico transterritoriale nato in seno all’Africa Occidentale Francese (AOF). La compagine inglobava l’insieme delle forze nazionaliste di estrazione progressista, che in accordo con il partito comunista francese, inviarono sino al ’51 delegati presso l’Assemblea Nazionale.

4 L’AOF fu un’architettura artificiosa creata nel 1895 dai francesi al fine di tutelare i propri interessi economici. Di essa facevano parte le colonie francesi di Costa d’ Avorio, Senegal, Guinea francese, Sudan francese (odierno Mali), Niger, Mauritania e Alto Volta (attuale Burkina Faso). Tali territori, a seguito dell’approvazione della Costituzione del 1946, ottennero il rango di Territori d’oltremare. La federazione si sciolse quando nel 1960 tutti i territori dell’AOF divennero Stati indipendenti.

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dello stesso, l’impianto costituzionale della ormai prossima futura entità statale. È quindi nel segno della personalità di Félix- Houphouët Boigny che il sette Agosto del 1960 nasce la Repubblica della Costa d’Avorio. È la sua presenza, il suo prestigio, il suo impegno politico, che persuasero i Padri fondatori e le massime autorità ivoriane dell’epoca, a investire di ampi poteri la carica presidenziale. A tal proposito va ricordato che ai sensi delle legge fondamentale ivoriana, il Presidente della Repubblica è contestualmente Capo dello Stato e dell’Esecutivo nonché dell’esercito e della pubblica amministrazione. A lui spetta, in via esclusiva, dettare l’indirizzo politico del governo; nominare e revocare i ministri; indicare il presidente delle Corte Suprema. È altresì colui, che veglia sulla Costituzione, sul rispetto di trattati e accordi internazionali. Incarna l’unità nazionale e garantisce la continuità dello Stato. Resta in carica per cinque anni e non sussistono limiti alla sua rielezione. Nel periodo d’interregno che precede la formalizzazione dell’indipendenza, furono, pertanto, gettate le basi di quella, che a tutti gli effetti è stata una vera e propria “Presidenza Imperiale”.

In linea con gli orientamenti politici in voga nel periodo immediatamente successivo alla terza ondata di decolonizzazioni, la neonata Costa d’Avorio assunse i contorni di una Repubblica presidenziale di stampo monocratico che faceva perno attorno ad un unico partito, nel caso di specie al PDCI del Segretario Boigny. Il favor africano nei riguardi del monopartitismo, come noto, fu giustificato, nella maggior parte dei casi, dall’esigenza di forgiare processi coerenti e contestualmente coesi di Nation- building. A tal riguardo, lo storico, esperto di affari africani, Arrigo Pallotti5, c’informa in merito alle funzioni attribuite in tal senso al partito unico.. Nello specifico esso fu lo strumento attraverso cui le leadership nazionaliste africane intendevano, in primo luogo, trascendere a quell’insieme di cleaveges di matrice etnica, sociale e politica, che ostacolavano, a detta di molti, lo sviluppo in chiave moderna della Nazione africana. Modernizzazione che poteva realizzarsi, secondo la comune vulgata, solo attraverso una sostituzione dei vertici coloniali con la dirigenza illuminata africana. La nuova borghesia africana doveva assumere, pertanto, il controllo sui corpi istituzionali di varia natura e sui processi economico- produttivi. Inoltre si riteneva che nel monolite ideologico, rappresentato dal partito unico, risiedesse quella condizione necessaria e sufficiente per portare avanti gli urgenti programmi di natura politica,

5 Cfr. A. Pallotti, Alla Ricerca della democrazia. L’Africa sub- sahariana tra autoritarismo e sviluppo, Rubettino, Catanzaro 2013, pp.29 e ss.

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sociale ed economica, che avrebbero dovuto consentire agli Stati africani di colmare quel gap che persisteva in termini di sviluppo con il mondo occidentale.

Nel caso ivoriano, la stretta sulla società non fu, tuttavia, totale. Contrariamente alla retorica che si limita a individuare nel PDCI, il dominus assoluto dei meccanismi di potere ivoriani, la realtà dei fatti dimostra che il partito fu in verità un primus inter pares. Il modello di governance, frutto del genio di Boigny e dell’aristocrazia di partito, infatti, si è risolto, nella sostanza, in un’intricata dinamica di relazioni, che hanno plasmato il quadro politico, economico, e sociale ivoriano articolandolo su più livelli. L’egemonia del partito unico, quindi, non tanto si espresse nella capacità di controllo ma quanto in quella di coordinamento delle varie facce che compongono il prisma della Costa D’Avorio. L’antropologo Jean Pierre Chauveau ha sapientemente descritto tale stato di cose attraverso l’espressione despotismo decentralizzato6. In tal

modo ha voluto evidenziare lo stretto legame venuto a instaurarsi, all’indomani dell’indipendenza, da un lato tra Stato- Partito e strutture di potere, e dall’altro tra Stato- Partito e cittadinanza. Tali legami si sono materializzati in un patto nazionale fondato sul compromesso tra Stato e parti sociali.

Nei due decenni successivi alla nascita della Costa d’Avorio, il compromesso houphouëttiano ha retto alla prova dei fatti. Anzi, si è rivelato vincente. Ha, infatti, consentito, alla giovane Nazione dell’Africa occidentale, di conoscere un periodo di prosperità economica e di stabilità sociale senza eguali. Circostanza questa che, nel quadro d’incertezza generale del continente, ha fatto parlare di “miracolo ivoriano”. Il sorprendente dinamismo economico fu trainato dalle esportazioni di generi primari quali caffè, cotone ma soprattutto fave di cacao, delle quali la Costa d’Avorio divenne il principale produttore internazionale. Si stima che nel periodo 1974- 1978, delle oltre novecentomila tonnellate di cacao prodotte a livello mondiale, quasi un terzo fosse di origine ivoriana.

Dare significato al “miracolo ivoriano” vuol dire analizzare la natura e l’evoluzione di un complesso gioco di plurimi compromessi, alla luce di quella che è stata l’espansione di un particolare settore della società: l’Economia di piantagione. Non è un caso che siano in molti a sostenere che sia stata questa a organizzare lo spazio

6 Si esprime così M. Mamdani, Citizens and Subject. Contemporary Africa and Legacy of Late

Colonialism, citato in J. -P. Chaveau, fonciére et construction nationale en Côte d’Ivoire. Les enjeux silencieux d’un coup d’État, «Politique Africaine», 2000, Vol. 78, Nº.2, cit. p.102.

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ivoriano secondo lo schema Centro- Periferia.7 L’introduzione delle colture di cacao e caffè non è stata però una novità del regime di Boigny. Furono i primi coloni europei, sul finire del IXX secolo, a realizzare le prime piantagioni. Nel disegno dell’Impero coloniale francese, la Costa d’Avorio era destinata, infatti, a diventare un possedimento agricolo, votato all’esportazione. Il governo di Parigi non esitò quindi a utilizzare la forza per imporre in ciascun villaggio la presenza di almeno una piantagione di caffè e una di cacao; una quota ben definita dei prodotti doveva poi essere devoluta alle autorità locali francesi che gestivano i commerci. Inizialmente, dati gli esigui ricavi, le nuove colture non furono apprezzate dagli agricoltori africani.8 Le cose però cambiarono dopo la Prima Guerra Mondiale quando sia la popolazione rurale, che l’élite ivoriana iniziarono a rendersi conto della centralità assunta dalle colture di esportazione, nella dinamica dell’economia nazionale. Nelle more di una Costa d’Avorio fresca d’indipendenza, il neo- eletto presidente Félix- Boigny, in linea con l’indirizzo politico emancipazione sì, ma senza sacrificare la liaison con la Francia, decise, pertanto, di proseguire lungo la direttrice dell’economia di piantagione. Ciò nei fatti voleva dire puntare su di un modello di stampo liberale incentrato su crescita e apertura verso il mondo esterno. La decisione di affidarsi al settore agricolo per realizzare il processo di modernizzazione del paese fu la naturale conseguenza di una serie di fattori contingenti. In primo luogo tutti sanno che il territorio ivoriano è soggetto a condizioni metereologiche favorevoli all’agricoltura. Piogge abbandonanti, una temperatura media che oscilla tra i 24 e i 27 °C e tassi di umidità adeguati rappresentano i punti di forza del clima. In seconda battuta occorre porre l’accento sul fatto che negli anni sessanta, larga parte del suolo fertile era ancora rimasta inesplorata. Nello specifico le zone più appetibili per gli insediamenti agricoli erano le regioni dell’ovest e del sud-ovest. È con riguardo a queste che fu pensata dal regime, la politica di “mise en valeur de la rente forestiére”. In un vero e proprio revival all’ivoriana di quello che fu il mito della frontiera americana, i vertici del PDCI promossero l’occupazione dei c.d. territori utili, ponendo specifiche condizioni. Si apprende, infatti, dalla legge n° 71- 338 del 12 luglio 1971 che “i proprietari terrieri erano tenuti a coltivare e a mantenere in buono stato le terre che esse sfruttano, pena la

7 Si pronunciano in tal senso J. –P. Chaveau e J. –P. Dozon, Colonization, économie de plantation et

société civile en Côte d’Ivoire, « Cahiers ORSTOM, Serie Sciences Humaines», 1985, Vol. 21, N°.1,

cit., p.66.

8 La popolazione contadina, infatti, preferiva concentrarsi sulla produzione di colture maggiormente redditizie quali il caucciù la cui coltivazione era molto diffusa all’epoca.

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confisca di queste da parte dello Stat”. Si è detto che attraverso tale artificio il Governo del PDCI abbia voluto mettere al lavoro quella schiera di piccoli- medi agricoltori che costituivano la maggioranza della popolazione. L’attenzione nei riguardi di coloro che avevano maggiormente subito le angherie francesi, portò la leadership ivoriana a regolare la dialettica fondiaria attraverso le lenti del capitalismo di Stato. Difendere i piccoli proprietari terrieri dallo strapotere dei grandi divenne il motivo conduttore del dirigismo economico incardinato dal PDCI. Nella nuova idea di Stato ivoriano era la forza lavoro del singolo individuo, la sua capacità di realizzare le proprie ambizioni a definire la ricchezza della Nazione. Non stupisce quindi che i quadri dirigenti del partito unico abbiano deciso di mobilitare la macchina statale nella direzione dell’economia agricola. È nel solco di tale tendenza che va quindi letta la decisione di Boigny d’istituire ben quattro formazioni ministeriali, consacrate alla causa del settore primario. E così, il Ministero dell’agricoltura fu accompagnato dal Ministero delle acque e delle foreste, dal Ministero dello sviluppo rurale e dal Ministero della Produzione animale. Gli organi ministeriali furono coadiuvati, nella loro mission di mise en valeur de la rente forestiere, da tutta una serie di “istituzioni della frontiera”.9 Il fulcro di tale complesso istituzionale furono varie società di emanazione statale tra le quali si distingueva la Cassa di stabilizzazione e di sostegno dei prezzi agricoli. 10 Come suggerisce il nome stesso, principale compito dell’organismo fu quello di garantire un ritorno economico ai contadini. Nell’esercitare la sua funzione di società protettrice degli interessi di piccoli-medi agricoltori, la Cassa non agiva direttamente, acquistando dai produttori il frutto del loro lavoro, bensì indirettamente ovvero regolando il commercio interno ed estero del cacao. Nello specifico, va detto che essa rilasciava licenze, attraverso cui i venditori locali potevano acquistare i semi di cacao e stabiliva il prezzo che gli stessi venditori dovevano corrispondere ai contadini. Nella misura in cui, inoltre, i funzionari della Cassa di stabilizzazione dovevano essere interpellati in occasione di ogni singola transazione commerciale con l’estero, essa finiva altresì per incidere sul prezzo delle esportazioni. L’ente, tra le altre cose, fissava anche delle quote alle esportazioni di beni. Lo Stato- partito esercitò, quindi, un vero e proprio monopolio sulla filiera di

9 A parlare in maniera esplicita d’ istituzioni della frontiera è stato J. –P. Chaveau, Question foncière et

construction…, op. cit.

10 Nota con l’acronimo francese CAISTAB, tale società fu creata attraverso decreto presidenziale nel settembre del ’66. L’organo è il frutto della decisione del Governo ivoriano di operare una fusione tra due strumenti-l ’uno la cassa di stabilizzazione dei prezzi del cacao, l’altro, la cassa di stabilizzazione dei prezzi del caffè-, creati negli ultimi anni dell’occupazione francese.

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cacao, attraverso il meccanismo messo in piedi con la Caistab. A quest’ultima, il Governo ivoriano decise di affiancare dispositivi di supporto tecnico e finanziario, nel tentativo di promuovere la produzione agricola. Tra i primi meritano menzione la Società per lo sviluppo della motorizzazione dell’agricoltura e la Società d’assistenza tecnica per la modernizzazione agricola della Costa d’Avorio, che in diverso modo, operarono a favore di una meccanizzazione del settore11. Quanto al profilo finanziario viene in rilievo il ruolo che fu ricoperto dalla Banca Nazionale per lo sviluppo agricolo. Fondata tardivamente rispetto ad altre controllate statali12, la Banca forniva un ampio ventaglio di soluzioni di credito. Coloro che si rivolgevano a essa potevano, infatti, contare su crediti di valore, prestiti per realizzare investimenti o per acquistare attrezzature, prestiti commerciali, prestiti utili al fine di fronteggiare periodi di magra. I potenziali debitori, inoltre, sempre tramite l’ente di credito, usufruivano della possibilità di dar luogo a piani di accumulo. Tali risparmi potevano essere utilizzati per sbloccare eventuali prestiti bancari.

La politica governativa di valorizzazione della produzione agricola si manifestò anche in un’intensa attività di natura propagandistica attraverso la quale lo Stato- partito s’impegnò a elargire bonus, a coloro i quali raggiungevano determinati livelli di produzione agricola. Lo strumento maggiormente innovativo, della campagna di mobilitazione del mondo rurale, furono i concorsi statali. A tal riguardo l’attenzione non può che ricadere sulla Coppa Nazionale del progresso. Alla competizione potevano partecipare tutti i coltivatori che avevano un appezzamento sul territorio nazionale. Nei piani dell’amministrazione centrale, la Coppa nazionale rispondeva a una serie di esigenze. Economicamente parlando la competizione doveva facilitare la partecipazione del mondo rurale allo sviluppo del paese. Dal punto di vista socio-culturale, invece, l’obiettivo era quello di migliorare le condizioni di vita della popolazione contadina. È in tal senso che è opportuno interpretare le disposizioni del bando di concorso che invitavano i partecipanti a favorire l’istruzione dei loro figli. La vera ragione che indusse il governo a servirsi di tale strumento fu, tuttavia, squisitamente politica: coinvolgere attivamente i contadini nelle dinamiche del partito unico. La necessità di crear un forte legame con la cittadinanza spiega quindi il perché dell’intervento massiccio dello Stato post coloniale nel dominio dell’economia. Si è

11 Per approfondimenti si veda M. Zike, La rébellion ivoirienne contre les multinationales, Édition Ami, Abidjan 1990, pp. 31-33.

12 La Banca fu creata solo nel ’69, in sostituzione di precedenti istituti di credito messi a punto, in diversi periodi, per rendere fruibili mezzi finanziari ai contadini bisognosi

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parlato, e non a torto, di uno Stato regolatore che ha deciso di vestire i panni del contadino, nella ricerca di legittimazione sul piano elettorale. Lo Stato- Contadino ivoriano ha stretto un tacito compromesso con i piccoli- medi coltivatori. In cambio di fedeltà politica, il Pdci garantiva ai suoi potenziali elettori, da un lato protezione economica e dall’altro il godimento di livelli di vita tutto sommato accettabili se paragonati agli standard continentali. A tal riguardo è necessario richiamare nuovamente l’attenzione sulla Cassa di stabilizzazione e di sostegno dei prezzi dei prodotti agricoli. Grazie al ruolo di regolazione della filiera di cotone e cacao, la Cassa, infatti, poteva contare su di un ammontare di risorse che furono sapientemente impiegate per dotare i villaggi contadini d’infrastrutture, costruire ospedali, finanziare le istituzioni scolastiche di vario livello, potenziare e inaugurare nuove linee elettriche etc.… Tali iniziative favorirono l’emergere di una classe media giovane che scelse la dimensione urbana per realizzare le proprie aspirazioni. Il regime non restò indifferente al nuovo ceto emergente. Si ripromise, infatti, di aiutarlo a realizzare il sogno dell’ascesa sociale. È in tale promessa che si sostanza il secondo dei compromessi houphouëttiani: quello con la gioventù rurale cui furono assicurati scolarizzazione e posti di lavoro nel pubblico impiego. La contropartita era sempre la stessa: il sostegno elettorale.

Nel gestire quelle risorse necessarie a venir incontro alle esigenze del proprio elettorato, il partito unico fu attento a mantenere i legami con la realtà locale. Per vincere la sfida della territorialità, decise di reinventare quell’insieme di strutture che sin dall’epoca coloniale avevano fatto da collante tra centro e periferia. Non è un caso quindi che durante il regno del partito unico, les chefferies continuarono a essere considerati come i titolari legittimi dell’amministrazione dei villaggi; che gli ex consigli di notabili furono rimpiazzati dai consigli di sotto- prefetti; che ai capi cantone di epoca coloniale si siano avvicendati deputati e segretari di sezione e di villaggio. La singolarità di tali formazioni risiedeva nel loro modo di agire; esse, infatti, svolgevano le loro funzioni combinando le regole ufficiali, provenienti dal centro con le pratiche informali della periferia.

Nel novero delle istituzioni della frontiera ivoriane, non dobbiamo dimenticarci di quella serie di corpi intermedi, che intervennero in funzione di mediazione tra le parti sociali. Associazioni di cittadini, personalità di spicco del mondo accademico, dirigenti d’impresa svolsero un ruolo cruciale nella diffusione, su larga scala, della

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retorica di partito. A essi, infatti, fu lascito il compito di trasmettere le politiche governative, in particolare i programmi agricoli.

È in tale complesso groviglio di relazioni che sì concretizzò il despotismo decentralizzato all’ivoriana. L’abilità politica di Félix Houphouët- Boigny è stata quella di aver saputo coordinare le varie alterità della società; il partito nelle sue ramificazioni nazionale e locale, il mondo dell’’impresa, la realtà rurale, la società civile attiva, tutti furono attratti all’orbita del Presidente. La prosperità economica garantiva la concordia sociale. Il Vecchio era riuscito, infatti, a costruire un sistema di gestione del potere di natura paternalistica, “apparentemente” in grado di accontentare parti sociali e strutture di potere. Non è un caso, quindi, che la maggioranza degli ivoriani lo chiamava, affettuosamente Papà- Houphouët.

2. All’origine del miracolo ivoriano.

La vicenda dell’houphouëttismo è la storia di un modello di gestione del potere che, nelle intenzioni dei suoi promotori, doveva servire a superare l’insieme di quelle divergenze che erano state caratteristiche della traiettoria di sviluppo coloniale. Come evidenziato però dalla critica,13 così non fu. Le iniziative del Governo monocolore Pdci, infatti, più che difendere gli interessi dei piccoli- medi agricoltori finirono per curare quelli delle grandi imprese locali e straniere, in particolare francesi.

Del resto occorre tenere bene a mente il fatto che lo Stato post- coloniale ivoriano nasce e si legittima nel panorama della Françafrique. Come noto, l’espressione fu utilizzata dai detrattori dell’allora governo francese a guida gollista per descrivere la strategia di politica estera, intrapresa dall’Eliseo, a far data dagli anni sessanta. Indicativo è il fatto che, tale termine sia emerso sulla falsariga di un’espressione, coniata dallo stesso Boigny: quella di France- Afrique. La ragion d’essere della Françafrique può essere compresa solo rivolgendo lo sguardo alla posizione internazionale di Parigi, all’indomani del secondo conflitto mondiale. La Francia uscì notevolmente ridimensionata dalla guerra. Il destino del suo Impero coloniale era compromesso; nel giro di un decennio, questo sarebbe stato sacrificato sull’altare della decolonizzazione. A metter fine al dominio coloniale transalpino, fu la guerra d’Algeria. Come noto l’evento determinò una svolta nella politica interna e nel sistema istituzionale francese grazie al ritorno sulla scena del leader della Resistenza: Charles

13 Per una critica al sistema di gestione del potere di Boigny si veda per tutti J. –P. Dozon, Les clés de la

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De- Gaulle. Dopo aver dato i natali alla quinta Repubblica francese e divenutone il Presidente, il vecchio generale impresse una nuova linea di politica estera tesa a spostare l’asse della politica africana di Parigi, dalla regione maghrebina a quella subsahariana. Artefice della nuova strategia estera fu colui che è balzato alle cronache con l’appellativo di uomo d’ombra del gollismo: Jacques Foccart. Soprannominato “Monsieur Afrique”, Foccart è considerato il padre putativo della dottrina della françafrique che nelle sue intenzioni era funzionale a preservare gli interessi economici francesi e a poter permettere a Parigi di esercitare il ruolo di gendarme dell’Africa subsahariana nelle dinamiche della Guerra Fredda. Al politico gollista si deve anche, il merito del “miracolo ivoriano”. Come Segretario Generale alla presidenza della Repubblica per gli affari africani e malgasci, fu, infatti, lui a favorire gli Accordi di difesa, siglati nel 1960 da Boigny e De- Gaulle,14 che dovevano

garantire al paese africano quella stabilità necessaria alla realizzazione dello sviluppo economico. In cambio il Presidente Boigny decise di non intaccare i vecchi legami tra Stato ivoriano e imprese francesi, che poterono così continuare a giovarsi di un regime fiscale e normativo agevolato. A titolo d’esempio si ricordi che alle imprese estere era consentito superare quei limiti di tonnellaggio, di norma applicati alle esportazioni di semi di cacao non trasformati. Sono questi non a caso, gli anni in cui si consolida il potere di colossi dell’agroalimentare quali la francese Cemoi, le americane Cargill e ADM, la multinazionale svizzera Barry Callebaut. Del resto, lo stesso leader africano aveva tutto l’interesse a non lasciarsi sfuggire i capitali esteri. Questi, infatti, costituirono una linfa vitale per le casse di uno Stato costantemente impegnato nella realizzazione di ambiziose opere pubbliche. Tra queste, quella che all’epoca richiese i maggiori sforzi fu senz’altro la costruzione del porto di San Pedro15.

Il capitale estero fu utile soprattutto per mantenere in piedi quel groviglio di relazioni clientelari sulle quali si reggeva il regime autoritario del partito unico. Conservare lo status quo clientelare significava innanzitutto espandere quel sistema burocratico- amministrativo locale che costituiva l’anello di congiunzione tra Governo centrale e sue ramificazioni locali. Non stupisce quindi che proprio negli anni della presidenza imperiale di Boigny abbia avuto luogo quell’ipertrofia della macchina statale ivoriana

14 Con tale intesa dal carattere bilaterale la Francia s’impegnava a garantire l’incolumità del Presidente mantenendo un proprio contingente armato in Costa d’Avorio.

15 Inaugurato il 4 Dicembre del 1972 dallo stesso Presidente Boigny, alla presenza dell’omonimo nigeriano Hamani Diori, il porto di San Pedro è la seconda infrastruttura più importante del paese, dopo quella di Abidjan e la prima con riguardo alle esportazioni di fave di cacao

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che sempre più ha assunto contorni elefantiaci. Per avere un’idea delle dimensioni assunte dal sistema amministrativo, basti pensare che il numero di dipartimenti aumentò di oltre quattro volte nel periodo 1961- 1974. Si passò così da quattro a ventisei divisioni amministrative territoriali. Tale espansione permise allo Stato- partito di dar seguito alle promesse cui al patto houphouëttiano. Le strutture di potere decentrate, infatti, venivano incontro al desiderio locale di aver un dialogo diretto con l’amministrazione centrale, alle ambizioni lavorative dei giovani scolarizzati, alle necessità pratiche in termini di servizi e infrastrutture della popolazione rurale ivoriana.

A proliferare non furono soltanto le strutture di potere statale ma anche quelle parastatali. Non fu questa una coincidenza. La creazione di tali enti, spesso avvenuta attraverso processi paralleli e clandestini, fu, infatti, legata all’esigenza di Boigny di circondarsi di uomini di fiducia da inserire nei settori clou della pubblica amministrazione. Tali figure furono quegli investitori e imprenditori ivoriani, esponenti di quella borghesia illuminata locale che guidò il paese durante gli anni del boom. Gli investimenti stranieri, in definitiva, furono il vero motore del dinamismo economico poiché, resero possibile la traduzione sul piano reale, della politique de mise en valeur de la rente forestiere. La deferenza economica nei riguardi dell’ ex- madrepatria si manifestò non solo nei rapporti con il capitale privato ma anche in quelli con il Tesoro francese. A tal proposito è impossibile non citare la decisione di Boigny, di non abbandonare la moneta coloniale: il franco Cfa. La valuta in questione indicava il franco delle colonie francesi africane. Era stata introdotta nel 1945 dai francesi a seguito della Conferenza di Bretton Woods al fine di evitare che le colonie incorressero in uno stato di impoverimento causa l’elevato deprezzamento che aveva interessato il franco francese (FRF) dopo la seconda guerra mondiale. Si decise di fissare un cambio fisso tra CFA E FRF; nello specifico 1 Cfa corrispondeva a 1.70 FRF. A Nel post indipendenza diversi stati decisero di affidarsi alla valuta coloniale. Oltre al cambio fisso si optò per la piena convertibilità della valuta africana con la moneta francese. Come contropartita, alle autorità francesi era riservata la facoltà di intervenire direttamente nella politica monetaria degli stati che utilizzavano il Cfa. Un altro caposaldo del miracolo economico ivoriano fu la la presenza sul territorio di una cospicua manodopera, a basso costo, disposta a mobilitarsi nella direzione indicata dallo Stato- Contadino: l’allora fertile e perlopiù inabitata zona delle foreste.

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Sulla provenienza e sulla natura identitaria di tale popolazione migrante occorre soffermarsi al fine di poter introdurre quella che si è rivelata essere forse la più grande contraddizione del despotismo decentralizzato alla Boigny: la crescita del divario, in termini di sviluppo, tra le varie anime etniche e geografiche del mosaico ivoriano. Come altre realtà africane, la Costa d’Avorio può essere descritta alla stregua di un puzzle composto di uno svariato numero di gruppi etnici. Nel caso ivoriano, i tasselli del puzzle sono circa una sessantina, raggruppabili in quattro grandi famiglie che a loro volta fanno capo ai principali poli geografici del paese. E così a un Nord- ovest occupato dai Mandé16 fa eco un nord- est abitato da ceppi di origine voltaica17; mentre a sud ovest domina il gruppo Krou18, nel sud- est vive la comunità Akan19. Tra i Mande si distinguono etnie quali i Don, i Dourà, i Gouro, i Malinké e da ultimo di Dioula che però popolano le regioni est del settentrione. Qui l’etnia principale di riferimento è quella dei Senoufò. Godiè, Beté, Wé, Néyo e Yacouba, invece, sono le più importanti ramificazioni del nucleo Krou; infine quanto agli Akan, va detto che si articolano prevalentemente in Agnì, Lagunari e Baoulé. Tale assetto demografico è il risultato della stratificazione di una complessa rete di movimenti migratori, di natura tanto endogena quanto esogena, che si sono susseguiti nel corso dei vari secoli, sulla scia delle maggiori trasformazioni economiche. Fu così che nel corso del X secolo, lo sviluppo delle attività commerciali di natura transahariana, determinò l’emergere dei primi insediamenti di popolazione Mandé nelle regioni settentrionali. Qui mercanti Dioula, dell’antico Impero del Mali, fondarono le prime città. Si ritiene comunemente che i nuovi arrivati abbiano, non solo contribuito allo sviluppo dei commerci ma anche alla diffusione del culto islamico nell’area. La storiografia ci informa che nel ‘500, emigrarono dal Ghana, in Costa d’Avorio, i gruppi Akan che scelsero di stabilirsi nelle regioni centro- occidentali e sulla costa. Nello stesso periodo, al Sud, le comunità lagunari dei Kru, emersero quali principali intermediari dei portoghesi allora impegnato nello sviluppo del commercio triangolare. Gli Europei portarono con sé

16 I Mandé (o Mande) sono uno dei principali gruppi etnici dell’Africa Occidentale. Sono chiamati così perché parlano la lingua Mande; si ritiene siano i fondatori dei più grandi e antichi imperi dell’Africa Occidentale.

17 I gruppi Voltaici come suggerisce il nome sono quelli proveniente dalle regioni dell’Alto Volta, antica denominazione del moderno Burkina Faso.

18 I Kru sono una famiglia etnica africana composta di ventuno tribù che presentano caratteristiche linguistiche e culturali affini. Di queste sei si trovano in Liberia e le altre 15 in Costa d’Avorio. Queste ultime in particolare occupano la regione della foresta Tai.

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missionari cristiani che si cimentarono in una missione evangelica tesa a coniugare culti tradizionali e morale cattolica.

Per lungo tempo, gli equilibri economici, etnici, religiosi e geografici del territorio ivoriano seguirono una propria naturale evoluzione che fu però stravolta quando il microcosmo ivoriano e quello europeo allacciarono contatti. I pionieri francesi e inglesi, che per primi all’inizio dell’ottocento si affacciarono sulle zone litorali della Costa d’Avorio, operarono una prima distinzione tra popoli della savana e i popoli delle zone forestiere. Mentre i primi furono considerati abili commercianti e buoni contadini, i secondi furono relegati allo status di bushmen ovvero di genti primitive, indolenti, da civilizzare. Ma la vera e propria rivoluzione copernicana fu quella messa in atto dall’autorità coloniale francese sul finire del XIX secolo. L’essenza di tale trasformazione radicale è da ricollegarsi alla decisione coloniale di organizzare su base gerarchica le varie etnie che costellavano l’universo ivoriano. Tale operazione vide impegnarsi in prima linea personalità di spicco del mondo francese; in particolare si deve all’illustre amministratore coloniale, l’etnologo Ernest François Maurice Delafosse, il merito di aver introdotto nel vocabolario dell’epoca, il concetto di famiglie etnografiche e di aver operato delle classificazioni al loro interno. Tutto ciò, in una logica di divide et impera, funzionale a far emergere la compiacenza o meno dei popoli colonizzati nei riguardi della madrepatria. Le comunità, infatti, che si dimostravano più docili potevano aspirare ad avere un rapporto privilegiato con Parigi e quindi a ricoprire cariche di rappresentanza che conferivano loro tutta una serie di vantaggi. Va da se, quindi, che le varie formazioni etniche locali, chi prima, e chi dopo, decisero di allinearsi alle esigenze del potere coloniale e pertanto in via indiretta alle sollecitazioni del modello economico di piantagione. È corretto quindi affermare che nel caso ivoriano, la genealogia etnica fu il frutto di un’azione congiunta tra potere coloniale e potere locale. Vero è, infatti, che i francesi nella misura in cui etichettarono le varie anime che compongono il mosaico di popoli ivoriano, plasmarono, organizzarono la società è altrettanto vero tuttavia che nel fare ciò furono assecondati dalla dimensione locale. Non a caso Dozon e Chaveu20 hanno utilizzato la metafora

20 Sul punto si vedano J.-P. Dozon, J.-P. Chaveau, Au coeur des ethnies ivoirienne…L’état, in E. Terray (a cura di), L’État contemporain en Afrique, L’Harmattan, Paris, 1987, che distinguono due momenti chiave nella vicenda coloniale. L’uno relativo a quella che loro chiamano la fase di produzione creatrice, corrispondente all’azione della potenza coloniale che attraverso il lavoro dell’etnografia distinse i vari gruppi etnici organizzandoli secondo la scala gerarchica. L’altro, invece, lo fanno corrispondere alla fase di incomprensione produttiva che si caratterizza per il fatto che la società coloniale fa propria la gerarchizzazione operata dalla madre patria e ne amplifica il significato.

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della profezia che si auto-avvera per spiegare come l’azione creatrice dell’etnografia transalpina sia stata avvallata dagli stessi ivoriani che hanno interiorizzato prima e proseguito poi l’insegnamento coloniale. Il concreto articolarsi delle relazioni tra madrepatria e colonia è quindi all’origine di tutte le contraddizioni che hanno e continuano a caratterizzare il processo di Nation- building ivoriano.

Tutto ha inizio nel 1893 quando i primi coloni s’insediarono nelle regioni della Bassa Costa. Qui trovarono nelle popolazioni Nzima21 degli ottimi interlocutori in materia di produzione e commercio di beni preziosi quali oro, avorio, olio di palma e gomma. I tempi non erano ancora maturi per l’elaborazione di un vero e proprio progetto economico su vasta scala. Le cose però cambiarono quando agli albori del XX secolo la presenza francese si fece più intensa. Iniziò a prender corpo l’idea di fare della Costa d’Avorio una colonia dedita all’economia di piantagione; le fertili regioni forestiere del Sud furono individuate come la “Terra di Caanan22”, il luogo ideale, ove poter ospitare le colture di cacao e caffè. Il problema è che tali regioni erano abitate da popolazioni che nell’immaginario coloniale erano considerate primitive poiché acefale e dedite a insulse e anacronistiche pratiche animiste. Furono queste le aree che si dimostrarono maggiormente restie alla penetrazione coloniale; l’esercito francese impiegò diversi anni prima di aver ragione della popolazione indigena. Completata la pacificazione, i francesi decisero di affidare alle Genti del Nord, in particolare ai Dioula, il compito di portare avanti la missione civilizzatrice nel Sud della Costa d’Avorio. Questi, infatti, grazie alla loro plurisecolare tradizione commerciale e al loro essere dediti a un culto autentico come quello islamico, furono considerati quali il gruppo etnico in grado di ricoprire il ruolo di avanguardia economica del progresso. Contestualmente la madrepatria decise di organizzare trasferimenti forzati di manodopera contadina Senoufò23 dal nord verso il sud-est del paese; qui furono costrette a emigrare anche le popolazioni di stanza presso i vicini territori saheliani di Benin e Senegal. Ciò ha fatto dire all’antropologo Dozon che sin dai tempi della Costa d’Avorio, intesa come cellula amministrativa dell’Impero coloniale francese, abbia avuto luogo la “dequalificazione della popolazione autoctona rispetto agli allogeni del

21 Si tratta di popoli Akan che vivono nel sud- ovest del Ghana e nel sud- est della Costa d’Avorio. 22 Fu questa un’espressione utilizzata dall’amministrazione francese di quegli anni.

23 Si ritiene che i francesi abbiano scelto di operare un trasferimento forzato di tale gruppo etnico in quanto questo ritenuto essere caratterialmente docile e allo stesso tempo abile nell’attività agricola.

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Nord e agli stranieri, proveniente da altre realtà africane24”. Nel frattempo, nelle regioni del sud-est, fu operata una classificazione tra le stesse popolazioni residenti. Al vertice della piramide furono posizionati gli agnì che, resisi conto dell’importanza che andava assumendo l’economia di piantagione, decisero di lanciarsi nel settore. Il fatto che tali comunità Akan, fossero dotate di una struttura di potere ben definita – tra gli agni, infatti, potevano individuarsi dei capi, dei veri e propri re in grado di interfacciarsi con il potere coloniale- e che da sempre fossero impegnate nell’agricoltura di rendita, fece guadagnare loro la fiducia di Parigi che ne fece, assieme ai Dioula i loro principali alleati nella regione. L’importanza assunta dagli agnì fu evidente soprattutto se si guarda ai privilegi che furono loro accordati dall’autorità coloniale. Non solo furono esentati dalla pratica dei lavori forzati; a essi, infatti, fu anche consentito di riunirsi attorno ad associazioni locali. Un gradino sotto agli Agnì vi erano i cugini Baoulé. Questi provenivano dalle regioni centro- settentrionali ricomprese tra i fiumi Bandama e Nz’ì. I loro territori inadatti per la coltivazione del cacao spinsero i francesi a incoraggiarne la migrazione verso le regioni orientali del meridione. Inizialmente i rapporti tra i vari gruppi furono abbastanza sereni. Vi era, infatti, una tacita spartizione dei ruoli: ai Dioula i commerci, agli Agnì la gestione della terra e ai Baoulé l’attività agricola manuale. Tale meccanismo di divisione del lavoro non era, tuttavia, così rigido. Poteva essere derogato. E ciò avvenne, nella misura in cui Dioula e Baoulé iniziarono a negoziare con la popolazione locale agni, la possibilità di poter diventare, a loro volta, produttori di cacao, sulla base dell’istituto tradizionale del tutorat.

Tale convenzione di natura agraria, caratteristica delle società contadine dell’Africa occidentale, regola le relazioni tra gruppi etnici rispettando un principio morale: il diritto di ogni individuo di poter accedere alla terra al fine di provvedere al sostentamento suo e dei propri cari. In nome di questo precetto etico, quindi, gli Agnì non poterono rifiutarsi di consegnare la terra ai quei buoni stranieri – Baoulé e Dioula- che mostravano il rispetto delle regole e la volontà di integrarsi nell'ambiente locale. Il migrante, a sua volta, mostrava la sua gratitudine nei riguardi del proprio tutore ripagandolo con prodotti agricoli, contribuendo alle spese eccezionali, quali ad esempio i funerali, che il tutore doveva affrontare. Questo scambio reciproco aveva

24 Si è esprime così J. –P. Dozon, L’étranger et l’allochtone en Côte d’Ivoire, in B. Contamin, H. Memel- Fotê (a cura di), Le modéle ivorien en questions. Crises, ajustement, recompositions, Paris 1997, Karthala, cit.p.787.

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poi, effetti positivi sull’intero tessuto comunitario, in quanto garantiva la coesistenza armonica tra i vari membri e l’allargamento della comunità stessa. È in tal modo che furono gestite le relazioni di natura politica economica e sociale quali il trasferimento dei diritti fondiari e l’integrazione dei migranti nel tessuto locale. Come sapientemente messo in luce da Jean- Pierre Chaveau, infatti, nella formulazione originaria dell’istituto del tutorat possiamo individuare sia una componente socio-politica che una componente fondiaria che trovano un punto di sintesi nel carattere transgenerazionale dell’istituto ovvero nel fatto che la relazione creava un legame permanente tra gruppi poiché si trasmetteva di generazione in generazione25. Il problema è che l’istituto del tutorat, cosi come concepito dalla tradizione mal si adattava a un tipo di società, quale quello coloniale, ove si stavano affermando nuovi dogmi quali proprietà privata e monetizzazione dei sistemi di produzione. La fragilità dell’istituto fu evidente quando l’economia di piantagione iniziò a espandersi. La crescita dei volumi economici legati alla produzione di cacao e caffè, infatti, determinò un mutamento di paradigma di non poco conto. Gli autoctoni, intravedendo nell’istituto l’opportunità di poter accumulare una rendita, iniziarono a gestire i possedimenti terrieri non più come avveniva in principio, in forma collettiva ma bensì individuale; dall’altro lato, invece, sempre più iniziarono a chiedere ai migranti, in cambio dell’usufrutto della terra, il pagamento di un contributo economico. E così che in luogo del principio morale, le questioni fondiarie, in Costa d’Avorio iniziano a essere inglobate nella logica del libero mercato. A complicare ulteriormente il quadro, vi era poi il fatto che il pagamento di una tassa non implicava il passaggio di proprietà a favore del migrante. La ratio del tutorat, infatti, vieta che si possano effettuare trasferimenti di diritti fondiari secondo gli schemi classici della compravendita. Ciò condusse, nella pratica, all’emergere di tutta una serie di conflitti che ruotavano attorno al contenuto dei diritti fondiari e agli oneri in carico ai non autoctoni che occupavano le terre. I francesi, tentarono, invano, di ovviare a tale discrasia, elaborando un quadro legale normativo che però non fu mai preso in considerazione dalla popolazione. Questa preferì continuare ad affidarsi al tutorat. L’istituto, tuttavia, aveva ormai perso la sua iniziale ragion d’essere e si era trasformato in un meccanismo attraverso cui le autorità locali amministrative, in conformità a un mero

25 Cfr. in tal senso J.-P.Chaveau, Transferts fonciers et relation de “tutorat” en Afrique de l’Ouest.

Évolutions et enjeux actuels d’une insitution agraire coutumière, «Le Journal des Science Sociales»,

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criterio discrezionale, dirimevano i conflitti fondiari. In sostanza, i capi dei singoli cantoni potevano interpretare, a loro piacimento, la clausola del tutorat, privilegiando gli interessi delle popolazioni autoctone o quelli delle popolazioni straniere. Poiché, all’epoca, i rapporti di forza demografici nelle regioni della Bassa Costa, erano sbilanciati a favore degli ultimi, di fatto, si delineò un processo di progressiva alienazione della terra che, dalle mani degli autoctoni agnì, passò a quelle degli allogeni Baoulé. Questi, ultimi, infatti, non si erano mai riconosciuti nell’istituto, e approfittando del quadro d’incertezza normativa, iniziarono ad avanzare rivendicazioni territoriali, appoggiandosi a quell’insieme di norme varate dal potere coloniale. Nel fare ciò, furono assecondati dal Governo francese che vedeva di buon occhio i trasferimenti Baoulé nella zona, poiché funzionali ai piani di diffusione dell’economia di piantagione. Non è un segreto che, grazie alla collaborazione di Dioula e Baoulé, il territorio della Bassa Costa sia diventato, negli anni trenta, il perno dello sviluppo economico coloniale. Il coinvolgimento dello Stato coloniale si è in definitiva risolto in una strumentalizzazione dell’istituto tutorat volta a favorire il trasferimento dei diritti fondiari in favore dei non autoctoni. Sempre Chaveau26 rileva di come la monetizzazione dei sistemi di produzione, e quindi implicitamente dei trasferimenti fondiari, l’individualizzazione nella gestione fondiaria e l’intervento dello Stato coloniale abbiano di fatto snaturato l’istituto del tutorat. Lo hanno svuotato di significato in particolare poiché hanno determinato quella che l’antropologo definisce una dissociazione tra componente fondiaria e componente sociopolitica del tutorat. La perdita del legame tra i elementi chiave dell’istituto è avvenuto in quanto si è perso il carattere intergenerazionale della pratica consuetudinaria. In parole semplici il tutorat si è trasformato da istituto che regolava le relazioni fondiarie tra i vari gruppi in maniera permanente in uno strumento utile al fine di negoziare, di volta in volta, le medesime relazioni. Cosa ancor più preoccupante, l’istituto ha finito per favorire, nel silenzio generale, il trasferimento non solo dei diritti ma della terra nei confronti di migranti.

Le variazioni intercorse nell’ambito del regime di proprietà fondiaria non furono, infatti, prive di conseguenze. Esse lasciarono l’amaro in bocca alla popolazione agnì che espresse tutto il suo malessere nel 1934 con la formazione dell’Associazione in difesa degli interessi degli autoctoni della Costa d’Avorio (ADIACI). Ufficialmente

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riconosciuta nel ’38 dal governatore francese, l’organizzazione si batté da un lato contro il processo di espropriazione delle terre agni a favore di Baoulé e Dioula, e dall’atro, invece contestava l’eccessivo impiego, da parte francese di manodopera contadina straniera. Gli agni lamentavano, altresì, il fatto che alla crescita demografica dei migranti avesse fatto seguito un’occupazione da parte di questi dei ruoli più importanti nel settore dell’amministrazione. Il potere coloniale, dal canto suo, riuscì a contenere tali rivendicazioni che tuttavia lasciarono il segno. Con l’istituzione dell’ADIACI, il termine autoctono, infatti, entra prepotentemente nel dibattito socio- politico, culturale ivoriano. Si potrebbe semplicisticamente affermare che l’esperienza dell’associazione abbia rappresentato il primo esempio di presa di coscienza, da parte della popolazione autoctona, con riguardo all’esistenza di un’identità nazionale ivoriana. In realtà gli Agni che promossero la creazione dell’ADIACI, intendevano difendere il principio dell’autoctonia in riferimento al loro paese d’origine e non all’intero territorio della Costa d’Avorio. Ciò ha fatto dire a taluni che dietro la vocazione ivoriana dell’ADIACI, in verità si nascondeva un particolarismo di natura regionale27. Tale identità fu forgiata, in epoca coloniale, sulla base della dicotomia: autoctoni- migranti.

Il processo di sviluppo che aveva interessato le zone di Sud-est si replicò, nel corso degli anni quaranta, nelle regioni silvestri dell’Ovest. Anche qui, l’esecutivo coloniale, incoraggia i trasferimenti delle Genti del Nord, e delle comunità burkinabé, provenienti dall’Alto Volta, all’epoca dei fatti, parte integrante della colonia ivoriana e soprattutto dei Baoulè. In particolare quest’ultimi nel corso degli anni trenta avevano guadagnato un posto di rilievo nel progetto di sviluppo economico coloniale. Le condizioni climatico-ambientali della loro storica regione d’origine ne facevano i candidati ideali per l’implementazione della coltura di caffè. Molti di coloro i quali si erano trasferiti altrove decisero di tornare alla base e da qui iniziarono ad accumulare possedimenti terrieri. Da qui poi si lanciarono verso la conquista delle regioni dell’Ovest. I nuovi “protetti” di Parigi questa volta, però si trovano di fronte la comunità locale Kru, in particolare i Beté, nei confronti dei quali i francesi furono meno permissivi. Mentre a est il controllo francese sulla popolazione locale agni fu blando, a ovest la stretta fu molto forte. Ciò si spiega con l’antipatia coloniale nei riguardi dei Beté. La ragione per la quale tale gruppo etnico fu posto ai margini

27 In tal senso si esprimono J.-P. Dozon, J.-P. Chaveau, Ethnie et état en Cote d’Ivoire, « Revue française de science politique», Gennaio 1988, Vol. 38, N°.5,cit.p.739.

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dell’assetto etnico- gerarchico, non tanto è da ricercarsi nell’insieme di quelle false dicerie che tendevano a descrivere i popoli in questione come malvagi e parassitari, ma quanto nel fatto che essi si rivelarono poco utili alla causa dell’economia di piantagione. Ai Beté fu assegnato il ruolo di manodopera di riserva. La ragione è molto semplice. Questi, infatti, non potevano vantarsi come altre comunità di un solido passato contadino; a distinguerli è sempre stata l’attività guerriera. Non è un caso che siano stati coloro i quali complicarono maggiormente il processo di occupazione francese. I rapporti tesi tra l’autorità coloniale e il mondo Beté furono riconfermati anche all’indomani della pacificazione. In particolare mal tollerato fu l’atteggiamento di molti giovani che si rifiutavano di prestare lavoro forzato; così come il rifiuto da parte della popolazione Kru di pagare le imposte. I Beté subirono, ancor più dei vicini agni, quel processo di alienazione terriera che favorì gli allogeni, in particolar modo i Baoulé. Nel caso delle regioni di Sud- ovest, quindi, la disparità tra autoctoni e migranti è ancora più accentuata. Ciò spiega la nascita in quegli anni della Mutualità Betè, un’associazione che apertamente si dichiarava etnica. La mutualità in questione, infatti, si riproponeva di rappresentare gli interessi particolari di una regione, quella di sud-ovest e al suo interno di un popolo, il proletariato Beté. Mettendo in pratica la medesima strategia di penetrazione che avevano adottato nelle aree di sud est, i Baoulé riuscirono a far grandi fortune.

Contro ogni previsione coloniale si era formata in Costa d’Avorio una borghesia media terriera Baoulé che progressivamente acquisì un ruolo centrale nella dialettica politica ed economica del paese. Dozon e Chaveu28 concordano sul fatto che la posizione di primo piano assunta dai Baoulè sarà cruciale per quanto attiene il movimento di emancipazione ivoriano; sempre gli stessi tuttavia, rilevano che essa abbia anche ingenerato nelle regioni forestiere un processo di cristalizzazione etnica. I principali gruppi etnici della regione, infatti, si sono trincerati ciascuno dietro un proprio scudo ideologico. E così alla visione progressista, modernista impersonata dalla dinastia baoulè si sono affiancate il credo conservatore degli Agni, che sempre più tesero a rifugiarsi attorno alle loro strutture organizzative di stampo reale, e la filosofia autoctona di un popolo betè che avendo preso coscienza della perdita del proprio patrimonio fondiario si riunì intorno alla mutualità betè. Félix Houphouët Boigny fu il più illustre esponente dell’universo Baoulè. . Divenuto padrone nel corso

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degli anni trenta di centinaia d’ettari di terreno, Boigny fonda nel ’44 assieme ad altri colleghi, sempre Baoulé, il Sindacato Agricolo Africano e riesce a ottenere l’abolizione dei lavori forzati, molto cara, in particolare ai suoi. Quando poi decide di presentare la propria candidatura all’assemblea nazionale francese sa benissimo che ha bisogno di alleati, se vuole vincere la competizione elettorale. In particolare a opporsi a Boigny, e quindi al mondo Baoulé, furono proprio quegli agni che non vedevano di buon occhio il fatto che l’asse delle attenzioni e dei favori coloniali si fosse spostato da loro verso i cugini akan. Questi pertanto decisero di muoversi attraverso il Comitato di azione patriottica della Costa d’Avorio (CAPACI), che si pose in continuità con l’Adiaci. La mossa non lasciò però indifferenti stranieri e allogeni del Nord che decisero di fare quadrato attorno alla figura di Boigny29, il quale, grazie alla nuova

alleanza, uscì vittorioso dalla competizione elettorale. Approfittando delle aperture coloniali30, i vertici della nuova alleanza politica decisero di saldare la loro unione in una nuova formazione politica: nacque così il Pdci. Seguirono il loro esempio altre realtà; e così nacquero diversi partiti, in risposta a quello che era percepito come lo strapotere di Boigny. Il primo, in ordine d’importanza fu il Partito progressista della Costa d’Avorio che succedette al Capaci in rappresentanza degli interessi degli interessi agni ovvero degli autoctoni delle regioni di sud- ovest. Alla guida fu posto Kouamé Benzéme, noto per essere stato il primo avvocato della storia ivoriana. Contro lo strapotere allogeno e straniero si mossero anche i piccoli proprietari autoctoni del Centro- Ovest che si riconobbero nella figura di Dignan Bailly, dal ’47 di un partito progressista, il Movimento socialista Africano (Msa). A difesa della comunità autoctona dell’Ovest, vi fu anche, a partire dal 1949, il Blocco democratico eburneo di Etienne Djamouent, nato a seguito di una scissione31 avvenuta internamente al Pdci. Il proliferare di tali formazioni politiche testimonia l’avvento di una stagione multipartitica peculiare nella Costa d’Avorio degli anni ’50. Fu un multipartitismo singolare che assunse le sembianze di un pericoloso tribalismo politico che si nutriva di elementi etnici e territoriali. Non a caso vi è chi sostiene che il regionalismo, in Costa d’Avorio, sia sempre stato inteso come una forma di segregazione etnica

29 Per maggiori informazioni sul punto si veda J.-P. Dozon, Les clés de la crise…,op.cit., pp. 99 e ss. 30 Le autorità francesi favorirono l’emergere di formazioni pseudo- partitiche, al fine di contrastare l’eccessivo peso assunto dalla borghesia Baoulé che in quegli anni, guidata da Boigny si era spostata su posizioni vicine al partito comunista.

31 La scissione fu motivata dal fatto che Djaoument e i suoi, riuniti in precedenza nell’UOCOCI- Unione degli originari di sei circoli della Costa d’Avorio- non videro di buon occhio l’alleanza che venne a crearsi alla fine degli anni quaranta tra Pdci e Partito comunista francese.

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pregiudizievole all’unità nazionale.32Questo vivo scenario partitico pre- indipendenza, si trasformò però con l’avvento al potere di Boigny, in un tribalismo politico apparentemente afono. Nel volgere di qualche anno, infatti, il leader del Pdci, eliminò tutti i suoi oppositori33 e instaurò un regime monocolore Baoulé che non ammise alcuna forma di dissenso. La baoulizzazione della società ivoriana, iniziata negli anni trenta del novecento, proseguì nei primissimi anni dell’Indipendenza quando il Presidente Boigny decise di portare a compimento il disegno egemonico del proprio gruppo di appartenenza. Il vecchio presidente elaborò a tal proposito un modello di coesione sociale di stampo paternalista, da lui stesso definito attraverso l’espressione geopolitica nazionale. Il fondamento della nuova dottrina post- coloniale fu la costruzione del mito della superiorità della famiglia akan e in particolare del clan baoulè. Si tratta di un falso mito come sapientemente argomentato dal celebre antropologo Memel Fote, in quanto privo di fondamento storico34. Nonostante ciò, tuttavia, tale leggenda è riuscita a far breccia nell’immaginario collettivo ivoriano plasmando la percezione reciproca dei vari gruppi etnici. La borghesia baoulè fu quindi eretta a baluardo del sistema di governo in virtù delle sue straordinarie capacità di sapersi adattare al mutare degli eventi, della sua attitudine al negoziato, della sua bramosia imprenditoriale e di eccelse doti morali. Come rilevato dal sociologo Francis Akindé, in tal modo si è affermato in Costa d’Avorio un “modello di gestione paternalistico della diversità sociale35” che ha individuato nella borghesia illuminata Baoulé la forza motrice dello Stato Ivoriano. Quasi nessuno osava sfidare apertamente il potere di Boigny e dei suoi clienti, per evitare di incombere nella marginalizzazione sociale. In termini politici furono quindi gli allogeni, soprattutto i Baoulé, a trarre i maggiori benefici dal miracolo ivoriano. La posizione centrale assunta dalla nuova casta politica si ripercosse poi positivamente sulle loro popolazioni di origine verso le quali furono principalmente dirette le risorse del paese; in primis il diritto di utilizzo della terra. Va da sé quindi che il compromesso houphouëttiano non ha riguardato tutti nello stesso modo. L’accordo con il mondo rurale fu in realtà un accordo con il mondo rurale dei Baoulé e dei Dioula nonché degli stranieri provenienti dai limitrofi paesi

32 Si esprime così L. Nguessan Zoukou, Régions et régionalisation en Côte d’Ivoire, L’Harmattan, Paris 1990, cit.p.7.

33 Si veda ancora una volta J. –P. Dozon, Les clés de la…, op.cit., cap. 2

34 Si veda a tal riguardo la ricostruzione del pensiero di Meml fote fatta da F. Akindes The roots of the

military- political crisis in Côte d’Ivoire, Nordiska Afrikainstitutet, Uppsala 2004.

35 A esprimersi così è F. Akindés, The roots of the military- political crisis in Côte d’Ivoire, Nordiska Afrikainstitutet, Uppsala 2004, cit. p.12.

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