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Epidemiologia e terapia dello stroke cardioembolico in pazienti affetti da fibrillazione atriale

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1.

INTRODUZIONE

La fibrillazione atriale (FA) è la forma più comune di aritmia cardiaca ed è una tachiaritmia ad origine sopraventricolare caratterizzata da un’attivazione atriale caotica che determina una perdita della funzione meccanica atriale stessa. La FA avviene poichè segnali elettrici rapidi e caotici provocano una contrazione irregolare e inefficiente dal punto di vista emodinamico degli atri. [1] Nella FA, il cuore non si contrae con la normale efficienza con la quale dovrebbe. Questo può provocare un flusso turbolento all’interno delle due camere cardiache superiori con conseguente formazione di coaguli. Questi coaguli di sangue si possono spostarsi e, seguendo la circolazione arteriosa, possono avanzare fino al cervello, andando ad ostruire un’arteria cerebrale ristretta, interrompendo così il flusso sanguigno e provocando un ictus ischemico. La letteratura suggerisce che più del 90% dei coaguli di sangue responsabili di ictus nei pazienti affetti da FA viene generato in una sacca nella parte sinistra del cuore, l’auricola atriale sinistra (LAA). [2]

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La FA può essere di breve durata, con sintomi che si manifestano temporaneamente, o addirittura asintomatica ed è possibile che un episodio di FA si risolva senza alcun intervento. Tuttavia, questa patologia può essere persistente e necessitare di trattamento; talvolta è permanente e farmaci o altri trattamenti non possono ripristinare un ritmo cardiaco normale, limitandosi solo al controllo della frequenza cardiaca.

I fattori di rischio per la FA includono: stress emodinamico (scompenso cardiaco o ipertensione), ischemia atriale, infiammazione, cause respiratorie non cardiovascolari, uso di alcool e sostanze stupefacenti, disturbi endocrini (diabete), disturbi neurologici, fattori genetici ed età avanzata.

Le attuali stime della prevalenza di FA nei paesi sviluppati è approssimativamente del 0,9-2,5% della popolazione generale (nei paesi europei i soggetti affetti da FA sono quasi 12 milioni), con un’incidenza del 0,2-0,34% (in Europa ci sono 1-1,7 milioni di nuovi casi per anno). L’età media è in costante accrescimento e attualmente la fascia di età maggiormente colpita è quella tra i 75-85 anni; la prevalenza nel sesso maschile è dell’ 1,1%, mentre nelle

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donne è dello 0,9%. Nella popolazione generale, il rischio di sviluppare almeno un episodio di FA dopo i 45 anni di età è del 25% circa. [3]

Lo stimato aumento della prevalenza della FA è legata soprattutto all’invecchiamento rapido della popolazione con considerevole aumento delle persone anziane, popolazione a maggior rischio di sviluppare una FA, alla crescita demografica e all’aumento della sopravvivenza di soggetti affetti da patologie più strettamente associate alla FA, come l’ipertensione arteriosa, malattia coronarica e l’insufficienza cardiaca ( in tale situazione viene a mancare il 15-20% della sistole, attribuibile al contributo atriale). La diminuzione della qualità della vita, il rischio di malattie tromboemboliche, di scompenso cardiaco e della mortalità influenzano in modo significativo la prognosi. L’incidenza annuale di complicanze tromboemboliche nei soggetti affetti da FA è del 4,5%, rispetto allo 0,2-1,4% del resto della popolazione.

Questa aritmia quindi è associata ad un rischio di stroke quattro volte superiore alla popolazione sana e a un’incidenza di scompenso cardiaco e mortalità tre volte

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superiore alla norma. Nello stroke, la prevalenza della FA è del 18-31%.

Anche l’ospedalizzazione per FA è molto comune. Tale aritmia è la patologia cardiovascolare più comune nella società moderna e i suoi aspetti medici, sociali ed economici sono in costante crescita e lo saranno nei decenni a venire.

Lo stroke è la complicanza più comune della FA ed è una patologia caratterizzata dall’occlusione arteriosa di un vaso cerebrale che determina l’interruzione permanente o transitoria del flusso ematico a valle del vaso stesso, comportando necrosi del tessuto cerebrale e ischemia parenchimale. Le conseguenze possono variare, da asintomatiche ad una invalidità permanente, a seconda del vaso interessato e dell’estensione dell’area ischemica. Tenendo conto dell’impatto sociale ed economico di tale patologia, è opportuno attuare delle misure profilattiche nei soggetti affetti da FA.

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2. MANAGEMENT DELLA FIBRILLAZIONE ATRIALE

Le linee guida ESC (European Society of Cardiology) del 2010 per la gestione della fibrillazione atriale hanno subito un aggiornamento nel 2012, con il contributo dell’ EHRA (European Heart Rhythm Association), in seguito all’uscita di nuovi anticoagulanti orali (dabigatran, rivaroxaban, apixaban).

2.1 Screening della fibrillazione atriale

La principale raccomandazione per la prevenzione dello stroke è una diagnosi precoce di FA prima che si manifestino le prime complicazioni. Dati recenti estratti da pazienti con devices impiantati e studi epidemiologici effettuati tramite monitoraggio elettrocardiografico secondo Holter hanno dimostrato che episodi silenti di FA erano associati ad un rischio incrementato di stroke rispetto alla popolazione sana.

Quindi la raccomandazione prevede, per i soggetti di età pari o superiore ai 65 anni, un opportuno screening per FA attraverso la palpazione del polso radiale, seguita dalla

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diagnosi in quei soggetti che presentano un polso irregolare.

2.2 Stroke e valutazione del rischio di sanguinamento

E’ convenzionale dividere la FA in “valvolare” e “non valvolare”, purché non esista una definizione uniforme di questi termini. Tuttavia il termine valvolare è impiegato per descrivere una FA associata ad una patologia valvolare reumatica (principalmente stenosi mitralica) o a valvole cardiache proteiche.

Le suddette linee guida avevano come uno dei principali scopi quello di identificare realmente i pazienti con un “vero basso rischio” che non necessitano di alcuna terapia antitrombotica, e di dimostrare con più evidenza l’uso dei nuovi anticoagulanti orali in alternativa agli antagonisti della vitamina K (per esempio il warfarin), che fino a poco tempo fa rappresentavano l’unica scelta terapeutica.

Il rischio di stroke deve essere valutato nel tempo e devono essere categorizzati i soggetti affetti da FA in basso, moderato o alto rischio, anche se per questi ultimi il valore predittivo è moderato.

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A dispetto delle sue limitazioni, la terapia anticoagulante orale con antagonisti della vitamina K (AVK) è stata prescritta finora in eguali proporzioni, senza rispettare la categorizzazione in basso, moderato o alto rischio.

Se la terapia con AVK non veniva utilizzata, l’acido acetilsalicilico era spesso prescritto in alternativa. L’evidenza per l’effettiva prevenzione dello stroke con tale molecola è debole, con un potenziale effetto dannoso. Data la validità dei nuovi anticoagulanti orali, l’utilizzo della terapia antiaggregante piastrinica (associazione clopidogrel-aspirina, o aspirina in monoterapia) per la prevenzione dello stroke in soggetti con FA dovrebbe essere limitata a quei pochi pazienti che rifiutano qualsiasi forma di anticoagulanti orali.

L’associazione clopidogrel-aspirina ha un’efficacia addizionale, se comparata alla sola aspirina in monoterapia, ma ha altresì un rischio addizionale per emorragie maggiori.

Pertanto, l’aspirina in monoterapia dovrebbe essere limitata a quei soggetti che rifiutano la terapia anticoagulante orale e che non possono tollerare l’associazione a causa, per esempio, di un eccessivo rischio di sanguinamento.

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Non c’è evidenza di un rischio minore di mortalità totale o per malattie cardiovascolari con l’aspirina nella popolazione affetta da FA e, persino nella popolazione non affetta da FA, la profilassi con aspirina nei soggetti senza patologie cardiovascolari principali non riduce la mortalità per malattie cardiovascolari stesse e i benefici nell’infarto miocardico non fatale sono in ulteriore contrasto con importanti eventi di sanguinamento.

A tale proposito, le linee guida ESC, quindi, come già accennato, raccomandano di identificare attentamente soggetti con FA a “basso rischio reale” (come per esempio soggetti di età inferiore ai 65 anni ed episodio di FA isolata), invece di focalizzarsi sui soggetti ad alto rischio. E’ opportuno essere maggiormente inclusivi, piuttosto che esclusivi, per valutare i comuni fattori di rischio di stroke. Sebbene il CHADS2 score [Congestive heart failure,

Hypertension, Age≥ 75, Diabetes, Stroke (doubled)] sia semplice, esso non include alcuni dei comuni fattori di rischio per lo stroke e le sue limitazioni sono state dimostrate. Per esempio, molti soggetti classificati a basso rischio tramite il CHADS2 (score = 0) presentano un tasso

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di stroke > 1,5% per anno, e quindi tale score non identifica sufficientemente i soggetti a basso rischio reale. Le linee guida ESC 2010 hanno enfatizzato una modifica nello stratificare i pazienti nelle tre categorie, raccomandando un approccio basato sui fattori di rischio definiti “maggiori” e “non maggiori ma clinicamente rilevanti”, espresso con l’acronimo CHA2DS2-VASc

(Congestive heart failure/left ventricular dysfunction, Hypertension, Age ≥ 75 [doubled], Diabetes, Stroke [doubled]- Vascular disease, Age 65-74. and Sex category [female]). Esso include i più comuni fattori di rischio per stroke che si ritrovano nella pratica clinica quotidiana e si è rivelato migliore del precedente nell’identificare i pazienti a basso rischio reale.

Parallelamente, la scelta terapeutica va fatta pesando il rischio di stroke e quello emorragico. A tale proposito le linee guida ESC 2010 hanno identificato, come miglior approccio valutativo, lo score HAS-BLED [Hypertension, Abnormal renal/liver function, Stroke, Bleeding history or predisposition, Labile INR, Elderly (age>65, frailty), Drugs/alcohol concomitantly]. Nei pazienti con

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HAS-BLED score ≥ 3 è opportuno monitorare la terapia ed eliminare i fattori di rischio emorragico reversibili.

E’ da precisare che tale metodo di valutazione non ha il fine di escludere i pazienti dalla terapia anticoagulante orale, ma quello di dare precise informazioni, e non supposizioni, sul rischio emorragico del singolo paziente.

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CHA2DS2-VASc score

Congestive heart failure 1

Hypertension 1 Age ≥ 75 2 Diabetes mellitus 1 Stroke/TIA/thromboembolism 2 Vascular disease (*) 1 Age 65-74 1

Sex category (female) 1

Max 9

(*) prior myocardial infarction, peripheral artery disease, aortic plaque

HAS-BLED score

Hypertension (PAS> 160 mmHg

1

Abnormal renal function 1

Abnormal liver function 1

Bleeding predisposition 1 Labile INR 1 Stroke 1 Elderly (> 65 years) 1 Drugs 1 Alcohol 1 Max 9

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2.3 Raccomandazioni

La terapia antitrombotica profilattica è raccomandata in tutti i pazienti affetti da FA, eccetto in quelli (indipendentemente dal sesso) che sono a basso rischio (età < 65 anni ed episodio isolato di FA) o che mostrano controindicazioni.

La scelta della terapia antitrombotica dovrebbe essere basata sul rischio assoluto di stroke/tromboembolismo e di sanguinamento e dovrebbe essere valutato il concreto beneficio clinico per ciascun paziente.

Nei pazienti con un CHA2DS2- VASc pari a zero (età < 65

anni e singolo episodio di FA) che sono a basso rischio e non presentano alcun fattore di rischio, la terapia antitrombotica non è raccomandata.

Contrariamente, nei pazienti con uno score ≥ 2, è raccomandata la terapia anticoagulante orale, senza controindicazioni.

Infine, nei pazienti con uno score pari a 1, la terapia

anticoagulante orale dovrebbe essere presa in

considerazione, valutando il rischio di sanguinamento. E’ altresì da ricordare che le donne di età inferiore ai 65 anni con un singolo episodio di FA (ma che comunque

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hanno uno score di 1 in virtù del loro sesso) sono da considerarsi a basso rischio, pertanto non necessitano di terapia antitrombotica.

In caso di rifiuto della terapia anticoagulante orale da parte del paziente, dovrebbe essere presa in considerazione una

terapia antiaggregante piastrinica, utilizzando

l’associazione aspirina 75-100 mg e clopidogrel 75 mg al giorno (per i pazienti a basso rischio di sanguinamento) oppure, meno efficientemente, aspirina 75-325 mg al giorno.

Lo score HAS-BLED rappresenta il miglior approccio valutativo del rischio emorragico del paziente elegibile alla terapia anticoagulante.

I fattori di rischio correggibili, come ad esempio un pressione arteriosa non controllata, un INR labile, l’assunzione concomitante di aspirina o alcol, dovrebbero essere “aggrediti” e ridotti al minimo.

L’HAS-BLED dovrebbe servire proprio a questo, e non ad escludere i paziente dalla terapia.

Il rischio di sanguinamento con la terapia antiaggregante piastrinica è da considerarsi in modo similare agli anticoagulanti orali, specie nella popolazione anziana.

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Per i pazienti con FA persistente da più di 48 ore oppure quando la durata è sconosciuta, è raccomandata la terapia anticoagulante orale per almeno tre settimane prima e per almeno quattro settimane dopo la cardioversione.

Nei pazienti con FA recidivante o con fattori di rischio per stroke, la terapia anticoagulante orale dovrebbe essere continuata nel tempo senza prendere in considerazione l’eventuale ripristino di un ritmo sinusale con la cardioversione. [4]

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3.

ANTICOAGULANTI

ORALI:

ASPETTI

RILEVANTI DELL'USO

3.1 Meccanismo d’azione

Il warfarin e gli altri derivati coumarinici agiscono inibendo l’azione della vitamina k nella gamma carbossilazione dei residui di acido glutammico sui fattori della coagulazione II, VIII, IX e X.

Senza la gamma carbossilazione, queste proteine non possono partecipare alla coagulazione.

Il warfarin si lega all’enzima microsomiale epatico vitamina k 2,3 epossido reduttasi, e in tal modo inibisce la produzione ciclica della forma ridotta della vitamina k.

Essa è un cofattore necessario nella carbossilazione delle proteine della coagulazione vitamina k-dipendenti [5,6].

Il warfarin è una miscela racemica degli enantiomeri (R)- e

(S)-. Esso è completamente assorbito dal tratto

gastrointestinale e raggiunge il picco di concentrazione plasmatica in 90 minuti. Inoltre circola altamente legato alle proteine plasmatiche e ha un’emivita media che va dalle 36 alle 42 ore.

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Infine è ampiamente metabolizzato dagli enzimi microsomiali epatici. Differenti isozimi del sistema citocromo P450 metabolizzano l’ (R)- e (S)-warfarin [7,8].

3.2 Variabilità nella risposta alla dose

Età

La risposta alla dose di warfarin è altamente variabile tra gli individui.

I pazienti anziani sono particolarmente sensibili all’effetto anticoagulante del warfarin, ma questa aumentata sensibilità non è completamente spiegabile alla luce delle evidenze disponibili.

I cambiamenti farmacocinetici nel paziente anziano sono trascurabili. L’assorbimento del warfarin, la biodisponibilità, e il volume di distribuzione sono essenzialmente non dissimili dal soggetto giovane [9]. Non c’ è una differenza discernibile nel metabolismo del warfarin e la sua clearance nonostante una ben documentata riduzione nelle dimensioni del fegato e nel flusso sanguigno portale [10,11,12,13].

Alcuni dati suggeriscono che ci potrebbe essere un decremento nella clearance del meno potente (R)-warfarin nel paziente anziano [14], ma questa ipotesi non è stata confermata [15].

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Gli effetti età-correlati della riduzione del legame proteico sembra avere un significato clinico poco rilevante [16,17]. I cambiamenti nella farmacodinamica nel paziente anziano non sono stati ben caratterizzati. Queste risposte sono dipendenti dall’affinità e dal numero dei recettori al farmaco, dalla trasduzione del segnale, dalle risposte cellulari, e dalla regolazione omeostatica [18].

Vitamina k

Diversi fattori contribuiscono alla variabilità della risposta alla dose di warfarin.

La variabilità nella dieta dell’apporto di vitamina k, l’interferenza con la sintesi batterica di vitamina k nell’intestino, e il ridotto assorbimento della vitamina k hanno tutti la potenzialità di indurre un’instabilità nell’effetto anticoagulante del warfarin [19,20].

Pazienti con una ridotta riserva di vitamina k hanno un rischio

maggiore per il potenziamento dell’effetto

ipoprotrombinemico del warfarin.

Sebbene l’uso di antibiotici a largo spettro possano interferire con la sintesi di vitamina k da parte della flora intestinale, il potenziamento dell’effetto del warfarin è limitato a quei

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nel soggetto anziano, ed ai pazienti con malattie acute o croniche.

Interazioni farmacologiche del warfarin

Ci sono diversi meccanismi attraverso i quali i farmaci possono interferire con la risposta anticoagulante del warfarin. L’induzione degli enzimi microsomiali epatici di farmaci come la carbamazepina [21] e la rifampicina [22] incrementa il metabolismo del warfarin e inibisce il suo effetto anticoagulante.

Anche la colestiramina inibisce l’effetto del warfarin riducendo il suo assorbimento nell’intestino [23].

I farmaci che risultano potenziare la risposta anticoagulante del warfarin sono numerosi [24,25]. L’inibizione del metabolismo del (S)-warfarin attraverso la competizione farmacologica per l’isoenzima del citocromo P450, CYP2C9, è il più potente meccanismo per spiegare l’effetto ipoprotrombinemico del warfarin. L’(S)- enantiomero è da 2 a 5 volte più potente nella sua attività anticoagulante rispetto all’(R)-warfarin [26].

La competizione per il CYP2C9 è il meccanismo alla base dell’effetto potenziante del trimetoprim-sulfametossazolo [27] e il metronidazolo [28].

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Farmaci che inibiscono la clearance del meno potente (R)-warfarin alterano il tempo di protrombina riducendolo.

Omeprazolo [29], cimetidina [30] e dileuton [31] interferiscono tutti con la clearance del (R)-warfarin. L’amiodarone ha un marcato effetto potenziante che è lento all’inizio e che può impiegare diverse settimane prima che il prolungamento del tempo di protrombina sia scoperto [32]. L’amiodarone interferisce con il metabolismo di entrambi gli isomeri (R)- ed (S)- [33].

La rimozione del warfarin dai siti di legame alle proteine nel plasma è il meccanismo ipotizzato per l’effetto potenziante dell’acido valproico [34] e possibilmente anche la fenitoina [35].

L’effetto di un incremento della frazione non legata del warfarin, comunque, ha vita breve a causa di una sua aumentata clearance epatica.

L’aumentato catabolismo delle proteine della coagulazione vitamina k-dipendenti è il meccanismo atto a sottolineare l’effetto potenziante della levotiroxina [36].

I farmaci più imputati a potenziare la risposta anticoagulante del warfarin includono:

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Analgesici, anti-infiammatori, e antipiretici

• Acetaminophen

• FANS

celecoxib (Celebrex); diflunisal (Dolobid); fenoprofene (Nalfon); piroxicam (Feldene); rofecoxib (Vioxx); tramadolo (Contramal)

• Prednisone (riportato anche come inibitore)

• Propoxifene (darvon) Antibiotici • Cefalosporine ceftriazone (Rocefin) • Tetracicline doxiciclina (Miraclin) • Macrolidi claritromicina (Klacid) eritromicina • Chinoloni ciprofloxacina (Ciproxin) levofloxacina (Levoxacin) • Sulfonamidi trimethoprim-sulfametossazolo (Bactrim)

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• Altri metronidazolo Anticonvulsivanti fenitoina (Aurantin) valproato (Depakin) Antidepressivi

• Inibitori selettivi del reuptake della serotonina paroxetina (Daparox) sertralina (Zoloft) Antifungini fluconazolo (Diflucan) itraconazolo (Sporanox) Antiaritmici amiodarone (Cordarone) propafenone (Rytmonorm) propanololo Diuretici

acido etacrinico (Reomax) Farmaci attivi sul tratto gastrointestinale

omeprazolo (Antra) cimetidina (Biomag) Ipolipemizzanti

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lovastatina (Mevacor) simvastatina (Sivastin) Altri allopurinolo (Ziloric) levotiroxina ( Eutirox) pentossifillina (Trental) tamoxifene (Tamoxene) Comorbidità

Pazienti con malattie epatiche hanno un’aumentata risposta ipoprotrombinemica a causa della ridotta sintesi delle proteine della coagulazione. Anche lo scompenso cardiaco congestizio sembra potenziare l’effetto del warfarin attraverso un meccanismo sconosciuto.

Una diarrea protratta verosimilmente impedisce la sintesi e l’assorbimento della vitamina k dall’intestino a causa del rapido transito intestinale.

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3.3 Monitoraggio della terapia con warfarin e

considerazioni sulle dosi

3.3.1 Valutazione di laboratorio dell'intensità anticoagulante

L'intensità dell'anticoagulazione veniva valutata con la rilevazione del tempo di protrombina ed espressa come rapporto tra il tempo di protrombina del paziente e il tempo di protrombina rilevabile in un pool di plasmi normali da intendersi come “controllo”.

La standardizzazione di tale rapporto nei laboratori è considerata necessaria per le differenti sensibilità dei vari reagenti tromboplastinici usati nelle analisi.

L'INR ha sostituito il rapporto del tempo di protrombina come misurazione universale accettata per la valutazione dell'intensità dell'anticoagulazione [37].

Per calcolare l'INR, il rapporto del tempo di protrombina è elevato alla potenza dell'ISI dello specifico reagente utilizzato.

3.3.2 Raccomandazioni per l'introduzione della terapia anticoagulante

La diminuzione dell'attività warfarin-indotta dei fattori carbossilati della coagulazione è una funzione dell' emivita di ciascun fattore, che varia da 5 ore per il fattore VII a 72 ore per il fattore II.

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Il tempo di protrombina può essere allungato dopo soltanto 2 o 3 giorni di terapia, ma questo rappresenta primariamente la depressione del fattore VII.

L' effetto antitrombotico del warfarin viene ottenuto soltanto dopo 5-7 giorni con la deplezione del fattore II.

Nei pazienti con patologie trombotiche trattati con eparina, è richiesto un minimo di 4 giorni di sovrapposizione con il warfarin per sopprimere adeguatamente i livelli del fattore II [38].

Idealmente, la dose induttiva di warfarin raggiungerebbe un INR terapeutico entro 4 giorni senza oltrepassare il range richiesto ed esporre quindi i pazienti ai rischi di una eccessiva anticoagulazione.

Nel paziente anziano la dose raccomandata risulta minore rispetto agli altri individui appartenenti ad altre fasce di età, essendo gli anziani più sensibili alla terapia.

Questo è giustificato dal fatto che in tali soggetti sono più frequenti situazioni che predispongono ad una maggiore sensibilità agli anticoagulanti, come:

• malattie epatiche;

• insufficienza cardiaca congestizia;

• assunzione di più farmaci che aumentano l'effetto anticoagulante;

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• minor assunzione di vitamina k con la dieta;

• aumentata affinità dei recettori;

• diminuzione del peso corporeo [39].

3.3.3 Monitoraggio della terapia anticoagulante orale

Dopo l'inizio della terapia con warfarin, un controllo dell'INR quotidiano è raccomandabile finchè non sia stata raggiunta una stabilità anticoagulante.

E' prudente controllare l'INR settimanalmente per diverse settimane ancora per assicurare tale stabilità. La frequenza dei test dell'INR sarà poi dettata dalla variabilità dell'INR stesso.

L'aggiustamento nel dosaggio per deviazioni minori dal range terapeutico possono essere fatte con sicurezza incrementando il dosaggio del 10%.

E' imperativo che l'INR sia monitorato in tempi più ravvicinati durante periodi di malattia, fluttuazioni nella dieta, e quando vengono iniziate nuove terapie.

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4. NUOVI ANTICOAGULANTI ORALI

I nuovi anticoagulanti orali rappresentano una alternativa al warfarin, permettendo la somministrazione anche a quei soggetti con scarsa compliance, nella fattispecie la popolazione anziana.

A differenza del complesso eparina/AT, che ha una capacità limitata di inibire il FXa incorporato nel complesso litico trombinasi, i nuovi inibitori diretti del FXa inibiscono sia il FXa libero, che il FXa legato alle piastrine.

Gli inibitori diretti della trombina, a differenza degli indiretti, non si legano alle proteine plasmatiche e producono una risposta anticoagulante più prevedibile. A differenza delle eparine, inoltre,

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non si legano al PF4 piastrinico. Infine si legano e inattivano direttamente la trombina sia legata alla fibrina, sia in fase libera.

Caratteristiche dei NAO

Management pratico:

• Dabigatran: nel paziente anziano (>75 anni) è consigliato dosaggio 110 mg x 2 volte/die ed è controindicato in caso di compromissione grave o severa della funzionalità renale (ClCr <30 ml/min)

• Rivaroxaban: nel paziente anziano non vengono consigliati aggiustamenti del dosaggio (solo monitoraggio laboratoristico), controindicato solo in insufficienza renale severa (ClCr <15 ml/min).

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• Apixaban: raccomandata riduzione del dosaggio nel paziente ultraottantenne se presenta anche peso < 60 kg e/o creatinina > 1.5 mg/dL; controindicato solo in insufficienza renale severa (ClCr <15 ml/min).

• TUTTI i NAO controindicati in pazienti con insufficienza epatica descritta da cirrosi epatica in classe C Child-Pugh o da valori di transaminasemia superiori di 2 volte il basale.

Per lo switch da AVK a DOAC, le raccomandazioni prevedono di iniziare dabigatran quando il valore di INR è < 2 e rivaroxaban quando è < 3. I DOAC possono essere somministrati all’orario stabilito di EBPM per il loro switch o 2 ore dopo la sospensione di eparina non frazionata.

Nei pazienti con ictus cardioembolico in fase acuta le raccomandazioni prevedono di iniziare il DOAC subito nel TIA,

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tra 3 e 5 giorni nell’ictus lieve, tra 5 e 7 giorni nell’ictus di moderata gravità e dopo 14 giorni nell’ictus di severa gravità. I DOAC si sono dimostrati non inferiori al warfarin nel trattamento anticoagulante del paziente che viene sottoposto a cardioversione elettrica della fibrillazione atriale.

Per le procedure invasive emodinamiche cardiologiche in urgenza e quando c’è necessità anche di doppia antiaggregazione, non vi sono sufficienti dati.

Studi RE-LY, ROCKET e ARISTOTLE (e ENGAGE) hanno dimostrato non inferiorità rispetto a warfarin sia in termini di efficacia sia in termini di sicurezza nella profilassi tromboembolica dei pazienti con FA.

Pertanto, gli aspetti a favore dei DOAC rispetto agli AVK sono:

• Non necessitano di una fase di induzione per l’effetto anticoagulante→non necessitano di una fase di embricazione con anticoagulanti parenterali

• Raggiungono rapidamente il picco di concentrazione plasmatica

• Farmacodinamica lineare→rapporto dose/risposta ed effetto anticoagulante prevedibile

• Eliminazione rapida

• Non aggiustamento della dose →dosaggio fisso giornaliero

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• Non interagiscono con il cibo

Scarsa interazione con altri farmaci

• Derivazione sintetica

• Maggiore rapidità dell’effetto anticoagulante

• Assenza di interazione con il sistema di anticoagulanti naturali (proteina C e S)

• Inibizione sia della trombina, sia del fattore Xa libero o legato alla trombina

L’unica eccezione è l’incremento significativo, riscontrato nei dosaggi più elevati dei DOAC rispetto a warfarin, di sanguinamenti gastrointestinali [40].

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5. STUDIO E METODI

Questo lavoro è stato effettuato mediante uno studio osservazionale, descrittivo, di pazienti ricoverati presso la U.O. Medicina d’Urgenza Universitaria in un periodo compreso dal gennaio 2011 al maggio 2014, valutando i dati anamnestici e la diagnosi principale di DRG tramite lo studio delle cartelle cliniche e della documentazione al momento della dimissione. Sono stati presi in considerazione pazienti affetti da FA e ricoverati per ictus ischemico cerebrale o TIA (totale 50 pazienti). Il primo studio caso-controllo è stato effettuato comparando i casi, ricoverati per evento ischemico cerebrale, e i controlli, ricoverati per altre patologie, ma anch’essi affetti da FA e anch’essi con indicazione alla terapia anticoagulante (ovvero con CHA2DS2

-VASc ≥ 2).

In questo gruppo di pazienti misti, valutando i fattori di rischio per ictus/TIA, abbiamo osservato che i pazienti con età > 75 sviluppava più frequentemente un ictus (39.2% vs 7.3%, p< 0.001).

Inoltre la vasculopatia periferica risultava una variabile positiva (63.0% vs 15.0%, p<0.01). Infine, dato questo più interessante, i soggetti in terapia anticoagulante orale in range terapeutico sviluppavano l’evento ischemico meno frequentemente dei

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soggetti non in range terapeutico o che non assumevano la TAO (9.8% vs 44.0%, p<0.01).

L’ultimo dato rilevato, ma non per questo meno importante, è stata la valutazione della terapia antiaggregante. Sono risultati maggiori i soggetti con ictus in terapia antiaggregante di quelli che non assumevano alcuna terapia (45.5% vs 25.6%, p=0.026). A partire dalle suddette variabili (età, vasculopatia, TAO e terapia antiaggregante), e inserendole in un modello statistico di regressione logistica, ne è derivato un buon modello con una corretta predizione dell’85% dei soggetti (vedi Tab. 1).

Tab.1

R

R2 di Cox e Snell = 0.35 R2 di Nagelkerke =0.49 B= coefficiente di regressione

ES= errore standard OR= odds ratio

I.C.95% = intervallo di confidenza

B ES(B) OR I.C. 95% età 0.101 0.030 1.106 1.04-1.17 vasculopatia 2.190 0.453 8.935 3.6-21.7 TAO -2.252 0.581 0.105 0.03-0.33 Tp antiaggregante 0.391 0.506 1.479 0.55-3.99

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Riassumendo la tabella sopra riportata, la terapia anticoagulante orale è risultata un fattore protettivo per l’ictus, mentre l’età > 75 anni e la vasculopatia sono risultati i fattori di rischio statisticamente significativi. La terapia antiaggregante, di contro, non è risultata protettiva.

Il secondo studio caso-controllo è stato effettuato valutando tutti i soggetti che non assumevano terapia anticoagulante orale o che non avevano raggiunto il range terapeutico.

Abbiamo quindi registrato l’età media dei soggetti che sviluppavano ictus contro quelli che non presentavano l’evento ischemico (84.48 vs 76.25).

Valutando anche qui i vari fattori di rischio del CHA2DS2-VASc,

l’ipertensione è risultata significativa ( 56.3% vs 32.7%, p=0.030), così come l’età > 75 anni (61.8% vs 6.3%, p< 0.001). Il dato maggiormente significativo è stato mostrato dalla vasculopatia (80.0% vs 20.0%, p< 0.001). Anche lo scompenso cardiaco, se pur non significativo, era presente più frequentemente nei soggetti che sviluppavano ictus.

Anche questo modello è risultato buono, e predittivo nell’ 83% della popolazione esaminata (vedi Tab. 2).

(34)

Test di Hosmer-Lemershow Chi-quadrato= 11.952 Df= 8

Significatività= 0.153

Tab.2

R2 di Cox e Snell= 0.457 R2 di Nagelkerke = 0.612

B ES(B) OR I.C. 95% età 0.101 0.030 1.106 1.04-1.17 vasculopatia 2.190 0.453 8.935 3.6-21.7 TAO -2.252 0.581 0.105 0.03-0.33 Tp antiaggregante 0.391 0.506 1.479 0.55-3.99

(35)

Abbiamo quindi utilizzato una procedura di classificazione automatica mediante albero decisionale con metodo CHAID (Chi-squared Automatic Interaction Detection), utilizzando le variabili vadculopatia, età > 75 anni, ipertensione arteriosa come variabili predittive, e ictus/TIA come variabile risposta.

Il modello ha inquadrato correttamente l’87% dei casi individuando le variabili più direttamente connesse alla variabile dipendente.

(36)
(37)

Nei soggetti affetti da FA, il fattore di rischio più “pesante” è risultata la vasculopatia, successivamente l’età ed infine l’ipertensione arteriosa.

L’ultimo dato da far notare è che, tra i pazienti ricoverati per ictus, il 96.9% risultava affetto da vasculopatia periferica ed aveva un’età > 75 anni.

Questa risulta pertanto la popolazione maggiormente

rappresentativa di un reparto medico ospedaliero, a cui la terapia profilattica sarebbe maggiormente indicata.

(38)

6. CONCLUSIONI

Molti pazienti ricoverati per ictus ischemico cerebrale o TIA, affetti da FA e con indicazione alla terapia anticoagulante, in realtà non assumevano tale terapia.

Questa considerazione, sebbene appaia scontata, mette in risalto la necessità di valutare attentamente il paziente a rischio

ischemico cerebrale, al fine di evitare eventi potenzialmente fatali o invalidanti e di conseguenza ricoveri altrimenti potenzialmente evitabili o riducibili.

La terapia anticoagulante orale con antagonisti della vitamina K risulta spesso non praticabile, a causa, oltre alle controindicazioni organiche, alla scarsa compliance del paziente stesso o del rifiuto dello stesso.

Situazione questa che potrebbe essere evitata con l’utilizzo dei nuovi anticoagulanti orali.

Sebbene la loro efficacia sia dimostrata non inferiore al warfarin, l’utilizzo di quest’ultimo è raccomandato ogni qual volta sia possibile, ottenendo una maggiore sicurezza in termini di riduzione del rischio di stroke.

(39)

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