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Bruxismo e patologia cardiovascolare: studio pilota comparativo

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Academic year: 2021

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Indice

Razionale

... 3

Parafunzioni e Bruxismo ... 3

Attività dei Muscoli Masticatori ... 3

Epidemiologia ... 6

Eziologia ... 6

Fattori Periferici ... 7

Fattori centrali ... 8

Eziologia cervicale del bruxismo ... 11

Segni e sintomi del bruxismo ... 12

Terapia ... 16

Ipertensione arteriosa ... 17

Pressione arteriosa durante lo stress ... 18

Terapia ... 19

Patologie Cardiovascolari ... 20

Sindromi coronariche acute ... 21

Aspetti eziopatogenetici ... 22

Classici Fattori di Rischio Aterosclerotico ... 23

Management dei fattori di rischio classici di CHD ... 25

Nuovi Fattori di Rischio Aterosclerotico ... 26

Fattori di rischio trombotico ... 31

Aspetti Fisiopatologici ... 32

Infarto Acuto del Miocardio ... 34

Fisiopatologia ... 35

Segni e Sintomi ... 36

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2

Stress ... 37

Stress, attivazione biologica e risposte comportamentali ... 39

Introduzione ... 42

Stress, qualità di vita, rischi e somatizzazione ... 42

Stress lavorativo e rischio psicosociale ... 43

Approccio clinico ... 43

Disturbi psicoaffettivi e malattie cardiovascolari ... 44

Meccanismi fisiopatologici ... 46

Bruxismo e patologie cardiovascolari ... 48

Materiali e metodi ... 50 Analisi statistica ... 53 Risultati ... 53 Discussione... 55 Conclusioni ... 56 Bibliografia ... 58

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3

Razionale

Parafunzioni e Bruxismo

Attività dei Muscoli Masticatori

(Okeson J.P, 2003)

L’attività dei muscoli masticatori può essere divisa in due tipi essenziali:  Funzionale, che include il masticare, il parlare ed il deglutire

 Parafunzionale (non funzionale), che include serrare o strisciare sui denti (bruxismo) e varie abitudini orali.

Il termine iperattività muscolare è stato anche usato per descrivere qualunque incremento di attività muscolare al di sopra o al di sotto di quello necessario per la funzione. Quindi l’iperattività muscolare include non solo le attività parafunzionali di serrare, bruxare, e altre abitudini orali, ma anche qualunque generale variazione nei livelli del tono muscolare. Funzioni e parafunzioni sono entità cliniche differenti. Le prime sono attività muscolari molto controllate che consentono al sistema masticatorio di attuare la funzione necessaria con il minimo danno alle strutture. Riflessi protettivi sono costantemente presenti, per proteggere contro contatti dentali potenzialmente dannosi. Contatti interferenti sui denti durante la funzione hanno effetti inibitori sull’attività funzionale dei muscoli. Le attività funzionali sono quindi direttamente influenzate dall’occlusione.

Le parafunzioni sono attività orali non finalizzate ad uno scopo ed estranee alle normali funzioni del sistema occluso-masticatorio (deglutizione, fonazione, masticazione). Questo include bruxismo, serramento, ed alcune abitudini orali come mordersi le labbra e/o le guance, spingere la lingua contro i denti, succhiare le dita e l’onicofagia. Le parafunzioni possono provocare, nel tempo, un sovraccarico funzionale a carico dell’apparato stomatognatico (con effetti destruenti sui denti, parodonto, ricostruzioni protesiche o implantoprotesiche ed articolazioni temporomandibolari), cefalee e dolori muscolari (Cuccia 2008).

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4 Alcune di queste attività sono responsabili dei sintomi DTM (Seligman 2000, Gavish 2000).

Le attività parafunzionali vengono divise in due grandi gruppi:

Attività parafunzionali da svegli: morsicatio e aspiratio di guance, labbra e lingua, onicofagia, mordere oggetti quali penne, matite o mollette per capelli, svariate abitudini posturali dannose (mantenere la mandibola in determinate posizioni eccentriche durante varie attività, masticazione unilaterale, movimenti mandibolari specifici associati al suonare di particolari strumenti come il violino e strumenti a fiato, appoggiare la mandibola sulla mano mentre si legge o si guarda la televisione) queste attività vengono definite anche abitudini viziate. Attività parafunzionali svolte durante il sonno: consistono

essenzialmente nel Bruxismo.

Le due locuzioni “parafunzione da svegli” e “parafunzione durante il sonno” sono da preferire alle ormai vecchie definizioni di parafunzione

diurna e parafunzione notturna, perchè non necessariamente veglia e

sonno corrispondono a giorno e notte (Palla 2001).

L’American Academy of Orofacial Pain definisce il bruxismo come una parafunzione del sistema masticatorio, caratterizzata da movimenti periodici e stereotipati di serramento e/o digrignamento dei denti (American Academy 2001).

Nella dizione di bruxismo rientrano quindi:

Serramento o clenching (sinonimi: bruxismo statico, centrico o verticale): è caratterizzato da movimenti mandibolari di pochissimi millimetri, con usura dentaria localizzata a livello dei versanti palatali del settore antero-superiore e dei versanti vestibolari antero-inferiori

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5 Figura 1: Bruxismo da serramento

Digrignamento o grinding (sinonimi: bruxismo dinamico, eccentrico od orrizzontale): è caratterizzato da ampi movimenti mandibolari in lateralità e protrusione, con una maggior usura dei margini incisali dei denti anteriori di entrambe le arcate e del settore vestibolare posteriore (Salvetti 2006) (Figura 2).

Figura 2: Bruxismo da digrignamento

Per semplicità, possiamo definire il bruxismo come una parafunzione orale caratterizzata da un’attività ritmica dei muscoli masticatori che causa un contatto forzato delle superfici dentali durante il sonno. Esso è accompagnato da serramento o digrignamento dei denti, che può essere talmente forte da essere udito da terze persone (Ohayon 2001).

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6

Epidemiologia

La prevalenza del bruxismo, senza distinzione tra serramento e digrignamento, si attesta tra il 3,7% (Hublin 1998) e il 20% (Carlsson 2000), con valori molto differenti tra i vari studi e in base all’età del campione. Secondo Magnusson et al. il bruxismo colpisce mediamente il 10% della popolazione e tende ad aumentare con l’età (Magnusson 1993). Questo dato però non viene confermato da altri studi. Infatti Antonio et al. (Antonio 2006) riportano una prevalenza del bruxismo nei bambini compresa tra il 7% e il 15% (soprattutto nel sesso femminile), dato che si discosta da quanto confermato da Knutson (Knutson 2003), secondo cui in bambini sotto gli 11 anni la prevalenza del bruxismo si aggira tra il 14% e il 20%: la prevalenza di solito aumenta tra i 7 e i 10 anni, per poi diminuire e scomparire con l’eruzione della dentatura definitiva. Quindi il bruxismo giovanile sembra una condizione autolimitante che non progredisce necessariamente verso il bruxismo dell’adulto (Kieser 1998).

Eziologia

Nonostante la difficoltà nell’interpretazione della letteratura, dovuta per lo più a un persistente disaccordo riguardo alla definizione e alla diagnosi di questo disordine, la maggior parte degli autori sono concordi nell’affermare la natura multifattoriale dell’eziologia del bruxismo.

Lobbezoo et al. (Lobbezoo 2006) riconoscono:

 Fattori periferici: rientrano in questa categoria i fattori morfologici;  Fattori centrali: distinti in fattori patofisiologici e fattori psicologici. Considerando insieme tutte le evidenze scientifiche, Lobbezoo et al.

(Lobbezoo 2001) sono arrivati alla conclusione che il bruxismo sembra essere regolato principalmente a livello centrale e non a livello periferico.

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Fattori Periferici

Soprattutto in passato, un’opinione diffusa era che il bruxismo fosse causato da fattori morfologici.

Tra questi ricordiamo le discrepanze occlusali – precontatti, iperbilanciamenti (Salvetti 2006), overjet e overbite eccessivi o inversi (Sari 2001) – e le deviazioni nell’anatomia delle strutture ossee della regione

oro-facciale.

Per molto tempo si è ritenuto che i precontatti e gli iperbilanciamenti scatenassero l’attività parafunzionale tramite la stimolazione, per via riflessa, dei muscoli elevatori della mandibola, indotta da recettori parodontali (Salvetti 2006).

Nel 1985 Williamson (Williamson 1985) affermava che il capo inferiore dello pterigoideo laterale agisce spingendo la mandibola in avanti e medialmente. Se sono persi i contatti dei denti anteriori, di modo che non si riesca ad avere la disclusione dei posteriori, il massetere e lo pterigoideo mediale entrano subito in contrazione e protraggono la mandibola sul lato lavorante durante l’escursione. Ciò impartisce un eccessivo carico ai denti posteriori in direzione laterale e all’articolazione temporo-mandibolare (ATM) durante i movimenti mandibolari ciclici, causando bruxismo.

Gli autori che sostengono la teoria del fattore occlusale vengono definiti da Carlsson e Magnusson “occlusionisti” (Carlsson 2000). Tra questi ricordiamo sicuramente Ramfjord (Ramfjord 1961), che nel 1961 notava come uno dei fattori comunemente presenti nel bruxismo fosse una discrepanza tra la relazione centrica e la massima intercuspidazione, che può causare contrazioni asimmetriche o elevate nei muscoli masseteri e temporali durante la deglutizione. Nello stesso articolo, Ramfjord affermava che il molaggio selettivo eliminava il bruxismo in tutti i pazienti. Lavori recenti, basati su tecniche statistiche più appropriate, hanno messo in dubbio questi dati, basati solo sull’esperienza clinica, sia negli adulti che nei bambini (Manfredini 2004). Tuttavia ancora oggi, alcuni autori, tra cui Griffin (Griffin 2003), ribadiscono che per trattare adeguatamente il

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8 bruxismo bisogna stabilire un’armonia tra la massima intercuspidazione e la relazione centrica. Comunque Manfredini et al. (Manfredini 2003), sulla base di una revisione della letteratura, ricordano la persistenza di una mancanza di studi metodologicamente corretti che ci permettano di confutare definitivamente l’importanza del fattore occlusale nell’eziologia del bruxismo. Palla (Palla 2001) comunque ribadisce che la risposta alla presenza di un’interferenza occlusale è individuale, per quanto riguarda sia le possibili alterazioni dei cicli masticatori sia le variazioni delle forza occlusale o l’insorgenza del bruxismo e/o dei segni e sintomi di una mioatropatia. Inoltre questi disturbi, sempre secondo Palla, quando subentrano sono normalmente di breve durata.

Fattori centrali

a. Fattori psicologici

Numerosi fattori psicologici, tra cui stress e personalità, sono frequentemente menzionati in relazione al bruxismo.

Secondo alcuni autori lo stress rappresenta un aumento di energia che, una volta prodotta dal nostro organismo, deve essere rilasciata assolutamente (Molina 1988).

Le modalità di rilascio sono due: la prima è esterna e avviene tramite urla, imprecazioni, agitazioni, scagliando oggetti o qualsiasi altra manifestazione violenta; nonostante siano molto sgradevoli, queste modalità sono probabilmente le più sane.

Il secondo tipo di rilasciamento dell’energia è interno: si possono manifestare allora ulcera gastrica, ipertensione, asma, disturbi cardiaci, cefalee e anche attività muscolari parafunzionali come il bruxismo (Rugh 1979). E’ stato dimostrato che questo tipo di rilasciamento dello stress è di

gran lunga il più comune.

Dal punto di vista psicoanalitico, si afferma che l’attività parafunzionale rappresenta una regressione fino alla fase orale dello sviluppo (o il

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9 permanere patologico della stessa), nella quale la bocca e la faccia sono usate per sfogare la frustrazione, lo stress e la rabbia (Molina 1988).

Lo stato emozionale dell’individuo è controllato dall’ipotalamo, dal sistema reticolare e soprattutto dal sistema limbico. L’influenza di questi centri si effettua tramite l’attivazione delle fibre fuso-motorie, che determinano la contrazione delle fibre muscolari intrafusali. I fusi vengono così sensibilizzati a tal punto che i muscoli possono venir contratti di riflesso in seguito a qualsiasi minimo allungamento muscolare. Si determina così un’iperattività muscolare che, nei casi di particolare tensione emotiva, può portare a digrignamento o serramento dei denti, anche in assenza di qualsiasi tipo di interferenza occlusale. Infatti lo stato emotivo di un paziente influenza entrambe le attività parafunzionali, da sveglio e durante il sonno; le interferenze occlusali sembrano attivare solo quelle da sveglio

(Molina 1988).

Per quanto riguarda la personalità, di solito i bruxisti differiscono dai soggetti di controllo per la presenza di maggiori livelli di ostilità (Molina 2002), depressione e sensibilità allo stress (Manfredini 2003, Manfredini 2004).

I bambini bruxisti sono apparentemente più ansiosi dei non bruxisti

(Monaco 2002), mentre i cinquantenni bruxisti solitamente sono single e hanno livelli di istruzione superiori (Johansson 2004).

b. Fattori patofisiologici

Studi condotti nei laboratori del sonno hanno dimostrato che il bruxismo durante il sonno è parte di una risposta di attivazione (arousal response) del sistema nervoso centrale (SNC), insieme ad altre manifestazioni, quali movimenti corporei, alterazioni della frequenza respiratoria e cardiaca, onde K e α nell’elettroencefalogramma (EEG) (Salvetti 2006).

Nello specifico, i bruxisti presentano un numero superiore di episodi di piccoli movimenti corporei di piccola durata (inferiore ai 5 secondi).

In uno studio di Bader et al. (Bader 2000) la differenza nei movimenti corporei tra i bruxisti e i soggetti di controllo diventava significativa

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10 soprattutto dopo la quarta ora di sonno. Questi piccoli movimenti erano contrazioni, balzi o altri movimenti bruschi e improvvisi delle estremità, privi però della periodicità riscontrata nei movimenti degli arti durante il sonno.

Il bruxismo, soprattutto nella forma del digrignamento, è classificato dall’ICSD (Interntional Classification of Sleep Disorders) all’interno dei disordini del sonno, nel gruppo delle parasonnie. Di solito si verifica negli stadi del sonno non-REM, soprattutto nel secondo stadio e nei passaggi tra uno stadio e l’altro.

Il bruxismo durante il sonno si verifica raramente da solo. Diversi studi lo hanno associato a Obstructive Sleep Apnea Syndrome (OSAS), una parasonnia caratterizzata da apnee durante il sonno, sonnolenza diurna e sonno non ristoratore.

Lavigne et al. (Lavigne 1997) hanno descritto un’associazione tra bruxismo

e diagnosi di insonnia, disordini dei movimenti periodici degli arti e restless

legs syndrome (sindrome delle gambe senza riposo).

Numerosi fattori neurochimici, farmaci e sostanze illecite (droghe), sono menzionate in letteratura in relazione al bruxismo.

Numerosi studi affermano che gli inibitori selettivi del re-up-take della serotonina hanno un’influenza indiretta sul sistema centrale dopaminergico, che è il sistema che si ipotizza sia coinvolto nella genesi del bruxismo, soprattutto dopo un uso prolungato (Lobbezoo 2001).

Numerosi casi clinici avvalorano questa tesi per quanto riguarda l’uso di fluvoxamina, citalopram e vanlafaxina (Jaffee 2000, Wise 2001, Miyaoka 2003).

Ohayon et al. (Ohayon 2001) hanno riscontrato associazioni significative con il consumo giornaliero di tabacco, alcool e caffeina. La quantità è risultata determinante solo per la caffeina.

Infine ricordiamo che numerose patologie, di natura soprattutto psichiatrica e neurologica, e traumi sono stati considerati in relazione al bruxismo: infarto dei gangli basali, paralisi cerebrale, sindrome di Down, morbo di Parkinson, disordini da stress post-traumatici e sindrome di Rett (Lobbezoo 2001).

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11 Per quanto riguarda i disordini psichiatrici, Ohayon et al. hanno riscontrato la presenza di associazione tra il Diagnostic and statistical manual of

mental disorders (DSM-IV) e il bruxismo, soprattutto per quanto riguarda

stato d’animo, ansietà, fenomeni allucinatori, disordini bipolari, depressione e adjustment disorders (sindrome da adattamento).

Eziologia cervicale del bruxismo

I bruxisti severi possono presentare un aumento degli input nocicettivi verso il sistema trigeminale. Si è scoperto che il sistema trigeminale si connette con la materia grigia del midollo cervicale superiore (C1 e C2) e sembra essere molto ampio, in termini sia di attività sensitiva che di attività motoria riflessa. Questa continuazione della materia grigia del tratto spinale del nervo trigemino, insieme con le corna dorsali dei tre segmenti cervicali superiori del midollo spinale, viene definita nucleo trigeminocervicale. Quindi il nucleo trigeminocervicale è il nucleo

nocicettivo essenziale della porzione superiore del collo, della testa e della gola. A prescindere dalla reale innervazione delle strutture di questa regione, gli stimoli nocicettivi che partono da queste strutture sono mediati da questo nucleo. Le disfunzioni muscolo-articolari del rachide cervicale superiore, come le sublussazioni, causano un’attività afferente patologica diretta verso il nucleo trigeminocervicale, che può colpire i muscoli masseteri e temporali, causando bruxismo, o i riflessi tonici del collo, causando torsione pelvica e asimmetria nell’allineamento della lunghezza delle gambe in posizione supina (Knutson 2003).

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Segni e sintomi del bruxismo

Nella maggior parte dei casi, segni e sintomi del bruxismo non sono molto evidenti e presentano molte similitudini con quelli esibiti dai pazienti con problemi parodontali o articolari.

A volte, invece, essi sono talmente tipici da permettere di porre una diagnosi immediata.

 Usura dentaria

L’usura dentaria è un riscontro estremamente comune e può variare da piccole aree lucenti della superficie dello smalto, note come faccette di abrasione, al cedimento esteso della struttura del dente. Non sono interessati solo i denti naturali, bensì anche i restauri, come otturazioni, corone, protesi mobili (Carlsson 2000). In letteratura, tra le numerose cause di usura dentaria viene menzionato anche il bruxismo. In realtà la questione è ancora del tutto irrisolta, in quanto alcuni autori hanno riscontrato un’associazione statisticamente significativa tra bruxismo e faccette da abrasione (Pintado 1997, Xhonga 1977), altri no (Pergamalian 2003).

In uno studio di Pergamalian et al. le faccette da usura erano correlate con l’età, ma non con il bruxismo. Inoltre il bruxismo non sembrava accelerare l’usura dentaria nè peggiorare o causare disordini cranio-cervico-mandibolari (DCCM). Bisogna infatti ricordare che l’usura dentaria dipende sia da fattori intrinseci (come differenze nello spessore e nelle durezza dello smalto) sia da fattori estrinseci (tipo di cibo masticato).

Alcuni autori, come Vèlez et al. (Vèlez 2007), assumono posizioni intermedie, affermando che il bruxismo può causare faccette da usura più intense rispetto a quelle presenti nei soggetti non bruxisti. (Figura 3)

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13 Figura 3: Aree di usura presenti

sulla superficie occlusale di un molare inferiore.

 Fratture impreviste di denti o di protesi

Nel bruxismo eccentrico possono verificarsi fratture sia in denti intatti che in denti indeboliti dalla presenza di grosse otturazioni (per esempio le mesio-occluso-distali). Come noto, si fratturano con più facilità i denti non vitali.

Anche elementi di protesi, soprattutto le corone in porcellana, possono rompersi. Ciò si verifica tanto più facilmente quanto minore è stata l’attenzione prestata all’adattamento occlusale dell’elemento protesico all’atto della sua inserzione in bocca (Molina 1988).

Negli ultimi anni un numero crescente di ricercatori sta concentrando l’attenzione sul bruxismo come potenziale fattore di rischio per il fallimento implantare, dato che la principale causa di detto fallimento è rappresentata dal sovraccarico implantare e che durante il bruxismo si sviluppano forze molto superiori a quelle normalmente presenti durante la masticazione (Ragonesi 2006).

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14  Aumento della mobilità dei denti

Il bruxismo può determinare l’aumento della mobilità dei denti anche in assenza di lesioni parodontali. In caso di parafunzione durante il sonno, la mobilità dei denti è maggiore al mattino che durante il giorno.

All’esame radiografico possiamo notare eventualmente un aumento dello spazio parodontale con forma a clessidra. Inoltre questi denti tendono ad avere un’ipersensibilità termica soprattuto al freddo e, nei casi gravi, si può arrivare anche alla necrosi pulpare (Antonio 2006, Molina 1988).

 Disordini cranio-cervico-mandibolari

Il bruxismo può, secondo alcuni autori, innescare o peggiorare la sintomatologia tipica dei DCCM in tutte le sue forme (articolari, muscolari e miste), mentre secondo altri no (Pergamalian 2003).

A livello muscolare, nei soggetti bruxisti è possibile notare un ipertono generalizzato della muscolatura masticatoria con conseguente resistenza a qualsiasi manovra manipolativa. Questo ipertono può riflettersi eventualmente anche sulla muscolatura cervicale. Spesso si evidenzia un’ipertrofia mono o bilaterale dei masseteri e/o dei temporali (Molina 1988).

Per quanto riguarda le forme articolari, il bruxismo può peggiorare un DCCM già presente mediante l’aumento della pressione intrarticolare. Se l’ATM è intatta, è possibile riscontrare un rumore articolare tipico della II classe di Bell.

Sulle radiografie di molti bruxisti è possibile notare appiattimenti sia del condilo sia della fossa articolare nella direzione in cui viene esercitata la forza durante la parafunzione.

Può accadere che le usure articolari siano più evidenti rispetto a quelle dentali (Molina 1988).

 Cervicalgia e cefalea muscolo-tensiva

A mandibola stabilizzata, i muscoli elevatori della mandibola svolgono anche la funzione di flessori del capo e, in condizioni di equilibrio, i muscoli

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15 cervicali, sviluppando un’azione estensoria, preservano e sostengono la posizione del capo.

Condizioni di disequilibrio mandibolare e contemporanea iperattività dei muscoli masticatori elevatori della mandibola, sviluppata in corso di serramento parafunzionale, costringono probabilmente a un sovraccarico non equilibrato ed eccessivo anche i muscoli del collo e, oltrepassata la soglia di adattamento, causano lo sviluppo di disfunzione cervicale con dolore (Vèlez 2007).

E’ possibile ipotizzare un rapporto causa-effetto tra cefalea, dolore facciale, cervicalgia e bruxismo soprattutto se i dolori tendono per esempio ad essere più accentuati la mattina al risveglio rispetto al resto della giornata (associazione con digrignamento notturno) (Carlsson 2000, Catanzariti 2005)(Figura 4).

Figura 4: Aree interessate da sovraccarico muscolare.  Alterazioni della postura della testa e del rachide cervicale

Il sistema masticatorio, il collo e le spalle sono connessi sia anatomicamente sia fisiologicamente. Il bruxismo può colpire tutte queste regioni, determinando un’alterazione della postura della testa e dell’omeostasi del sistema cranio-cervicale.

La postura della testa può essere dovuta a fattori scheletrici o a fattori occlusali. Durante la dentizione primaria, l’occlusione dentaria cambia, determinando eventualmente modificazioni nella postura del capo. Se

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16 però le dimensioni delle arcate dentarie rimangono stabili e la postura del capo si modifica, bisogna sospettare altre cause, come il bruxismo.

I bruxisti presentano una postura della testa più anteriore e inferiore rispetto ai non bruxisti, mentre il collo tende ad essere cifotico: ne consegue un’iperflessione della testa. Questa postura della testa induce ipertono dei muscoli masticatori e cervicali (Vèlez 2007).

 Esostosi mascellari e mandibolari

Il digrignamento, in presenza di un fattore osseo positivo (osso molto resistente), può creare esostosi nelle ossa mascellari. Queste esostosi rappresentano una reazione di difesa del tessuto osseo contro le notevoli forze cui viene sottoposto (McCoy 2002).

 Rumori

A volte i pazienti bruxisti, durante il digrignamento, producono un rumore tipico dovuto allo sfregamento dei denti fra loro. Durante il serramento il rumore è invece assente.

I rumori si manifestano per lo più nei bambini (Molina 2001).

Terapia

Il trattamento del bruxismo, e più in generale di tutte le attività parafunzionali, deve essere volto all’eliminazione del fattore eziologico principale coinvolto nella genesi del bruxismo stesso. Inoltre deve mirare alla prevenzione del peggioramento della salute orale, obiettivo ottenuto principalmente mediante l’utilizzo di dispositivi interocclusali.

In generale possiamo suddividere le metodiche di trattamento del bruxismo in due grandi categorie, di seguito descritte.

Terapia occlusale: consiste in qualsiasi trattamento atto a correggere

l’alterazione della posizione mandibolare e/o i contatti occlusali dei denti, e viene attuata direttamente dall’odontoiatra. Essa può essere suddivisa in:

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17 a. Reversibile (dispositivi interocclusali): cambia solo temporaneamente la situazione occlusale di un paziente e viene effettuata nel modo migliore tramite una placca in acrilico;

b. Irreversibile (molaggio selettivo, ortodonzia, protesi): consiste nella modificazione permanente delle superfici occlusali dei denti.

Terapia non occlusale: non viene attuata necessariamente mediante

l’esclusivo lavoro dell’odontoiatra, bensì con l’aiuto di figure mediche e paramediche (psicologo, psichiatra, fisioterapista).

Ipertensione arteriosa

(ESH/ESC 2013)

L’ipertensione arteriosa è definita da valori di pressione sistolica ≥ 140 mmHg e/o pressione diastolica ≥ 90 mmHg.

La pressione arteriosa è la forza esercitata dal sangue sulle pareti delle arterie, essa garantisce agli organi un adeguato apporto di ossigeno. L’ipertensione si manifesta quando tale apporto supera le necessità dell’organismo. Gli organi recettori e i muscoli rifiutano questo eccesso ed i piccoli vasi che portano loro il sangue si restringono per non farlo passare.

La pressione arteriosa varia in funzione di vari fattori, quali l’età, lo stato emotivo, l’attività fisica. Aumenta generalmento dopo i 35 anni e nella donna dopo l’inizio della menopausa.

La maggior parte degli ipertesi non presenta sintomi specifici; segnali di un’ ipertensione non controllata possono essere la cefalea mattutina localizzata dietro la nuca e che scompare dopo alcune ore, i capogiri, le palpitazioni, l’epistassi nasale, l’affaticamento, i disturbi della vista, l’impotenza.

Esistono due forme d’ipertensione:

 Ipertensione essenziale: dipende da diversi fattori (nervosi, familiari, ormonali, nutrizionali, ma anche l’abuso di alcool e fumo).

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18  Ipertensione secondaria: può essere causata da malattie renali, da disordini neurologici, da malattie endocrine, da farmaci e sostanze chimiche o cibi.

Più del 90% dei casi rientra nella prima categoria, solo il 5% nella seconda, il resto è dovuto a fattori ereditari.

Scarsi e poco paragonabili tra loro sono i dati disponibili sulla prevalenza dell’ipertensione arteriosa e l’andamento temporale dei valori di pressione sanguigna in differenti paesi europei (Pereira 2009). La prevalenza complessiva dell’ipertensione risulta compresa tra il 30% e il 45% nella popolazione generale, con un netto incremento con il crescere dell’età. Sembra inoltre esserci una marcata differenza dei valori medi della pressione sanguigna tra i diversi paesi, senza sistematici trend nelle variazioni della pressione nel corso della precedente decade (Banegas 2012,Danon-Hersch 2009, Erem 2009).

Esiste l’evidenza che, solo una piccola frazione di ipertesi presenti un incremento isolato dei valori di pressione sanguigna, mentre la stragande maggioranza mostra anche altri fattori di rischio cardiovascolari. Inoltre, quando presenti contemporaneamente, l’ipertensione e altri fattori di rischio cardiovascolari possono potenziarsi a vicenda, risultando in un maggior rischio cardiovascolare rispetto alla somma dei singoli componenti.

Pressione arteriosa durante lo stress

Differenti tipi di stress mentale sono stati impiegati per indurre un aumento della pressione sanguigna come ad esempio problemi matematici, tecnici o compiti decisionali (Fagard 2008).

Tra i danni causati dallo stress, l’ipertensione rappresenta la conseguenza più grave, perchè può portare alla morte.

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19 La determinante emozionale dell’ipertensione fu indicata già nel 1939 da Alexander, il quale parlò di “personalità ipertensiva” a proposito di manager di grosse imprese, o di persone investite di personalità professionali di altro tipo. Da allora tale personalità si vuole caratterizzata da tre aspetti fondamentali:

 Ira repressa

 Tendenza alla sottomissione degli altri o propria  Ansia

Fattori dunque predisponenti all’ipertensione e alle malattie cardiocircolatorie.

Una recente metanalisi suggerisce che un’abnorme risposta pressoria agli stress mentali acuti si associ ad effetti negativi sul futuro rischio cardiovascolare (Chida 2010).

Le conseguenze di un’ipertensione non curata possono essere molto gravi, si va dalla cardiopatia ischemica all’ictus cerebrale, alla vasculopatia periferica e allo scompenso cardiaco.

Le complicanze cardiovascolari, con la percentuale del 44%, rappresentano la principale causa di morte nel nostro paese.

Terapia

L’ipertensione si cura innanzitutto con la correzione del regime alimentare, se quello seguito è sbagliato, e con il mutamento dello stile di vita del paziente.

L’obesità rappresenta una delle principali cause di ipertensione, l’indice di massa corporea (BMI), calcolato in base all’altezza e al peso dovrebbe essere inferiore a 25 negli uomini e a 24 nelle donne.

La dieta alimentare per l’iperteso prevede in primo luogo la riduzione del sodio, associata all’assunzione di cibi contenenti potassio (banane, kiwi,

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20 arance), acidi grassi omega 3 (soprattutto pesce), di cereali, frutta in genere e verdura.

Importante è ridurre il contenuto di grassi, preferibile l’olio d’oliva, bere poco vino e quasi niente superalcolici. Mentre è importante bere almeno 2,5 litri di acqua al giorno, per stimolare la diuresi.

In quanto allo stile di vita, è indispensabile una regolare e quotidiana attività fisica (passeggiata, corsa, sport), ma anche un generale atteggiamento attivo, come andare a piedi anzichè in automobile. Importante per i pazienti fumatori è smettere di fumare.

Se una dieta alimentare corretta o le modifiche dello stile di vita non fossero sufficienti, è indispensabile il ricorso alla terapia farmacologica. Tra i farmaci utilizzati per la terapia dell’ipertensione ritroviamo:

 Diuretici: riducono la quantità di liquidi in circolo.

 β-bloccanti e calcioantagonisti: diminuiscono la forza delle contrazioni cardiache e dilatano le pareti delle arterie.

 Ace-inibitori: bloccano la produzione di renina (sostanza capace di innalzare la pressione sanguigna) da parte del rene.

 Sartani: bloccano la produzione di alcune sostanze, favorendo la vasodilatazione e la diuresi.

Patologie Cardiovascolari

Le malattie cardiovascolari (Cardio Vascular Disease – CVD) rappresentano attualmente la principale casua di mortalità e morbilità nei paesi occidentali; malgrado si sia osservata nell’ultimo decennio, una riduzione dei decessi legata a più efficaci trattamenti medici e chirurgici, la mortalità è morbilità è in aumento nei paesi dell’Est Europa e dell’Africa per l’adozione di stili di vita tipici dei paesi industrializzati.

Attualmente le malattie cardiovascolari rappresentano la più comune causa di morte in tutto il mondo (The World Health Reporter 1997).

(21)

21 Nell’ambito delle CVD la maggiore incidenza è determinata dalle arteriopatie coronariche (Coronary Artery Disease – CAD) responsabili di una serie di manifestazioni cliniche raggruppate nella denominazione di sindromi coronariche acute e delle quali l’infarto acuto del miocardio (Acute Myocardial Infarction – AMI) rappresenta la forma più grave.

Ogni anno negli Stati Uniti:

 Sei milioni di individui sono ricoverati con diagnosi di “dolore toracico” (Lee 1987)

 Si registrano 500.000 decessi per AMI

 Il 5% dei pazienti sono rilasciati dal Pronto Soccorso senza essere correttamente diagnosticati

 Morbilità e mortalità sono maggiori nei pazienti AMI inviati a casa rispetto a quelli correttamente diagnosticati; il 20% dei costi di malpractice di Pronto Soccorso si riferisce a questa popolazione

(Dunn 1986).

Ogni anno in Italia 400.000 individui sono colpiti da AMI e sebbene il numero dei decessi sia in costante diminuzione in entrambi i sessi secondo i dati ISTAT, aumenta il numero di soggetti con complicazioni che necessitano di continui controlli, cure e trattamenti (Mortalità in Italia 1970-1992).

Sindromi coronariche acute

Le Sindromi Coronariche Acute (Acute Coronary Syndrom – ACS) rappresentano l’epilogo di complesse situazioni eziopatogenetiche che iniziano con una lesione arteriosa coronarica ed evolvono, con una serie di eventi a cascata, in un’ischemia più o meno protratta del miocardio risultante dalla rottura di una placca aterosclerotica e associata a trombosi coronarica (Fuster 1999).

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Aspetti eziopatogenetici

La naturale storia delle Sindromi Coronariche Acute procede in distinti stadi. Il primo stadio è rappresentato da un periodo asintomatico durante il quale si forma all’interno delle arterie coronariche, una placca aterosclerotica costituita da un “Core” centrale lipidico e da una capsula fibrosa. L’American Heart Association (AHA) ha elaborato una classificazione delle lesioni aterosclerotiche (I,II,III,IV,V,VI) basata sulla composizione istologica e sulla struttura (Fuster 1994).

Le lesioni I-III sono precursori silenti delle lesioni avanzate (IV-VI) da cui originano gli eventi clinici. Nelle prime tre decadi di vita la composizione delle lesioni è prevalentemente lipidica; dopo questo periodo la composizione diviene imprevedibile. La formazione di lesioni dell’intima dell’aorta e delle arterie coronariche tipicamente subisce un’accelerazione a 25-30 anni per gli uomini e 40-45 anni per le donne (Figura 5).

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23  Precursori silenti (I,II e III)

L’accumulo di lipidi nell’intima promuove reazioni cellulari specifiche ed è l’evento fondamentale nell’iniziazione delle lesioni. Man mano che l’accumulo di lipidi procede, le dimensioni e la complessità della lesione aumentano. Ogni stadio di progressione può stabilizzarsi temporaneamente o permanentemente, richiedendo o meno stimoli addizionali per progredire.

 Lesioni avanzate (IV, V e VI)

Le lesioni avanzate generalmente contengono depositi extracellulari di lipidi tali da influenzare la struttura dell’intima e, negli stadi avanzati, anche la media e l’avventizia. Sono legate all’insorgenza di eventi ischemici. Possono o meno essere causa di assottigliamento del lume arterioso e talvolta non sono visibili tramite angiografia. Comunque l’assenza di restringimento del lume non preclude la significatività clinica in quanto le complicazioni possono svilupparsi improvvisamente.

La placca “Stabile” (I-III) è poco soggetta a rottura, restringe progressivamente il lume coronarico determinando le manifestazioni cliniche stabili della cardiopatia ischemica; si forma in risposta ad una disfunzione o ad un danno endoteliale (ipotesi della risposta al danno di Russel Ross) innescato da diversi fattori (Ross 1986).

Classici Fattori di Rischio Aterosclerotico

La conoscenza dei diversi fattori di rischio, del peso relativo di ognuno di loro e del significato moltiplicativo di uno rispetto agli altri è importante nel determinare il rischio cardiovascolare globale, e permette di agire sulla malattia aterosclerotica in senso preventivo determinando sostanziali effetti a lungo termine sull’outcome dei pazienti in molti casi (Linee guida per prevenzione e valutazione del rischio delle CVD 2001).

(24)

24 I fattori di rischio includono stili di vita e caratteristiche biochimiche modificabili e caratteristiche individuali non modificabili (Second Joint Task Force of European on Coronary Prevention 1998).

In un individuo che sviluppa i segni di coronopatia, o di altra malattia aterosclerotica, i fattori di rischio modificabili contribuiscono in maniera sostanziale alla progressione della malattia ed alla prognosi (Tabella 1).

Stili di vita Caratteristiche Biochimiche Modificabili

Caratteristiche Individuali Non Modificabili

Fumo di tabacco Elevato colesterolo totale

e LDL-colesterolo Età/ Sesso Eccessivo consumo di

alcool Ridotto HDL-colesterolo Dieta iperlipemica ed

ipercalorica Ipertrigliceridemia

Storia familiare di arteriopatie coronariche

o periferiche

Inattività fisica Ipertensione/ Diabete

Storia personale di malattie aterosclerotiche

Stress Obesità

Fattori trombogenici

Tabella 1. Fattori di rischio di cardiopatia coronaria.

Il rischio di CHD, raramente dipende da un singolo fattore; nella maggior parte dei casi, esso è determinato dal sinergismo di due o più fattori di rischio, che esplicano un effetto moltiplicativo sul rischio individuale.

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Management dei fattori di rischio classici di CHD

Iperlipidemie

Numerosi dati, derivanti da studi sia epidemiologici sia osservazionali, hanno dimostrato che soggeti con elevati livelli plasmatici di colesterolo totale (CT) presentano un aumento di rischio di sviluppare CHD. Le prime evidenze di questa correlazione sono emerse dai risultati del famoso studio a lungo termine, condotto su oltre 5.000 abitanti di Framingham nel Massachusetts, USA. Questo studio ha dimostrato che ogni incremento dell’1% di CT è associato con un aumento di incidenza di CHD del 2-3%

(Castelli 1992).

Ulteriori evidenze circa la correlazione tra elevati livelli di colesterolo e CHD sono state fornite dallo studio MRFIT (La Rosa 1990), e dallo studio Seven Countries (Verschuren 1990).

Gli autori del PROCAM hanno, inoltre, dimostratto un’associazione significativa e indipendente tra livelli sierici di trigliceridi (TG) e incidenza di eventi coronarici maggiori (Assmann 1998).

Una relazione inversa è stata dimostrata tra le concentrazioni del C-HDL ed il rischio di CHD; il colesterolo HDL svolge il suo primario ruolo antiaterogeno; rimuovendo i lipidi dalle arterie e trasportandoli al fegato per l’escrezione, ma altre proprietà contribuiscono al suo effetto protettivo. Per ridurre il rischio di CHD sono raccomandati sostanziali cambiamenti dello stile di vita (fumo, dieta, esercizio fisico).

Ipertensione

L’ipertensione colpisce il 50% della popolazione adulta ed è uno dei principali fattori di rischio per CHD. Numerosi studi dimostrano che il trattamento antipertensivo si associa ad una significativa riduzione della mortalità per CHD (Hansen 1998, Second Joint Task Force 1998).

(26)

26 Diabete

Le CVD rappresentano le maggiori complicanze e la più frequente causa di morte nei pazienti diabetici. In genere l’aterosclerosi e le sue complicanze sono più precoci e da due a quattro volte più frequenti negli adulti diabetici rispetto ai soggetti sani; la progressione dell’aterosclerosi è più rapida nei diabetici rispetto ai non diabetici. L’iperglicemia contribuisce alla disfunzione endoteliale, la quale a sua volta inibisce la vasodilatazione, incrementa la proliferazione delle cellule muscolari ed il processo di trombogenesi ed eterogenesi. Nei pazienti diabetici è di estrema importanza il controllo dell’iperglicemia unitamente a quello degli altri fattori di rischio.

Nuovi Fattori di Rischio Aterosclerotico

I fattori di rischio classici, spiegano non più del 50-60% degli eventi coronarici, pertanto nella valutazione del rischio di cardiopatia ischemica, devono essere considerati i “nuovi” fattori di rischio la cui tendenza è documentata in numerosi studi e la cui identificazione permette di accrescere le conoscenze sui diversi meccanismi fisiopatologici della malattia con possibilità di migliorare gli interventi preventivi e terapeutici. Tra i più importanti nuovi fattori di rischio devono essere considerati:

 Iperomocisteinemia  Parametri di infiammazione  Parametri di infezione  Lipoproteine (Lp(a))  Stress ossidativo/antiossidanti Iperomocisteinemia

L’omocisteina (Hcy) è un aminoacido solforato che deriva dal metabolismo intermedio della metionina, un aminoacido essenziale introdotto con le proteine alimentari.

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27 Un aumento anche moderato dell’omocisteina nel sangue si associa ad un incremento del rischio di malattia aterosclerotica con interessamento dei distretti vascolari coronarico e cerebrale; è ipotizzata anche una forte associazione dell’iperomocisteinemia e la malattia tromboembolica.

Le cause che determinano iperomocisteinemia sono spesso multifattoriali: - Genetiche: riduzione o assenza di enzimi della transulfurazione e

rimetilazione

- Età/sesso: l’omocisteina aumenta con l’età; la concentrazione è maggiore negli uomini rispetto alle donne; dopo la menopausa la concentrazione aumenta (Anderson 1992)

- Alterata funzionalità renale: esiste una correlazione positiva tra iperomocisteinemia e creatinemia nelle insufficienze renali croniche. I pazienti con insufficienza renale cronica hanno un più alto rischio di sviluppare una malattia cardiovascolare suggerendo l’ipotesi che l’iperomocisteinemia possa rappresentare un fattore di rischio aggiuntivo

- Nutrizionali: deficit di vitamina B6, vitamina B12 e folati (Kang 1987)

- Stati patologici: neoplasia, psoriasi, diabete non insulino dipedente - Stili di vita: alcolismo, tabagismo, alto consumo di caffè (Nygard

1998)

- Farmaci: metotrexate, azaribina, fenitoina, carbamazepina, contraccettivi orali (Ueland 1989).

Il possibile ruolo di un alterato metabolismo dell’omocisteina sulla patogenesi della malattia aterosclerotica, è stato ipotizzato già nel 1976

(Wilcken 1976).

Studi clinici e sperimentali (Stampfer 1992, Arnesen 1993, Arnesen 1995, Duell 1998) dimostrano che concentrazioni aumentate di omocisteina sono responsabili delle tendenze aterogeniche e trombotiche di pazienti con omocisteinuria e iperomocisteinemia costituendo un fattore di rischio per malattie cardiovascolari, cerebrovascolari ed ateropatie periferiche.

(28)

28 Una meta-analisi di 27 studi in cui sono stati reclutati circa 4000 pazienti, ha dimostrato che l’omocisteina:

 E’ un fattore di rischio indipendente dagli altri fattori

 Il rischio di malattia aterosclerotica aumenta all’aumentare della concentrazione plasmatica

 Il rischio ed il danno vascolare prodotti dall’omocisteina sono continui e graduali

 Per un incremento di 5 μmol/l di omocisteina, è calcolata una odds ratio (OR) di 1,6 e di 1,8 per il rischio di coronopatia negli uomini e nelle donne rispettivamente (Boushey 1995).

E’ stato dimostrato che l’associazione di iperomocisteinemia e aumento di colesterolo LDL ha un effetto moltiplicativo sul rischio di malattia coronarica, mentre l’effetto è additivo per l’associazione con il fumo o l’ipertensione; generalmente il rischio è maggiore nelle donne rispetto agli uomini (Graham 1997).

Numerosi successivi studi, hanno fino ad oggi confermato l’ipotesi che condizioni di lieve e moderata iperomocisteinemia si associa a malattie vascolari precoci di tipo arterioso e venoso; condizioni di grave iperomocisteinemia (omocisteina > 200 μmol/l) con omocisteinuria dovute a mutazioni genetiche di cistatotionina β-sintetasi (CBS) si accompagnano soprattutto ad eventi tromboembolici; i pazienti che mostrano diminuzione dei livelli di omocisteina passando da una condizione di iperomocisteinemia severa (> 200 μmol/l) ad una condizione di iperomocisteinemia moderata (< 50 μmol/l) in seguito al trattamento con vit. B6, presentano una notevole riduzione del rischio di trombosi.

Eventi tromboembolici sono stati dimostrati anche in casi di moderata iperomocisteinemia (Den Heijer 1998, Selhub 1998, Ray 1998).

Studi prospettici hanno dimostrato che la mortalità complessivamente si correla con la concentrazione dell’omocisteina, indipendentemente dagli altri fattori di rischio quali ipercolesterolemia, ipertensione, fumo, diabete

(29)

29 I livelli plasmatici di omocisteina rappresentano un fattore predittivo di ristenosi ed eventi avversi cardiaci maggiori dopo angioplastica coronaria

(Schnyder 2002).

Parametri di infiammazione: CRP

Il ruolo dei marcatori di infiammazione nell’ambito delle sindromi coronariche acute è stato preso in considerazione da quando, a partire dagli anni 90, studi anatomo-patologici hanno evidenziato la presenza di cellule infiammatorie nelle placche aterosclerotiche di soggetti deceduti per infarto o morte improvvisa; le cellule infiammatorie non si ritrovano nell’intima normale.

Studi successivi hanno evidenziato il ruolo diretto dell’infiammazione nella patogenesi dell’aterosclerosi e nelle manifestazioni cliniche della malattia aterosclerotica, sia nelle fasi precoci sia nel passaggio da placca stabile a placca instabile (Ross 1999, Wicher 1999).

Tra tutti i markers sitemici dell’infiammazione emerge la proteina C-reattiva (C-reactive proteine: CRP).

La CRP è una β-globulina appartenente alla famiglia delle pentrassine. Scoperta nel 1930 da Tillet e Frances deve il nome alla sua capacità di legare il polisaccaride C somatico dello Streptococcus Pneumoniae.

E’ secreta dagli epatociti stimolati dall’IL-6, che a sua volta deriva dai monociti/macrofagi attivati da stimoli proinfiammatori o immunologici

(Pepys 1996, Young 1991); la sua esatta funzione non è ancora chiara. In presenza di calcio la CRP lega in maniera specifica residui di fosforilcolina dei polisaccaridi microbici provocando l’attivazione della via classica del complemento, opsonizza il microrganismo per la fagocitosi, esplicando così la sua azione di difesa per l’organismo; induce la produzione di Tissue Factor che stimola l’attivazione della coagulazione; la produzione di Tissue Factor spiegherebbe il ruolo della CRP nella CVD. Numerosi studi prospettici epidemiologici su individui asintomatici, hanno evidenziato una diretta associazione tra i livelli della CRP ed eventi coronarici, dimostrando che la CRP è un forte ed indipendente indicatore

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30 di eventi coronarici futuri in soggetti sani (Rifai 2001, Koenig 1999, Ridker 1999).

Un aumento della CRP in soggetti con normali valori di colesterolo LDL determina un drammatico incremento del rischio di CHD, suggerendo che il dosaggio della CRP è un indicatore di rischio maggiore rispetto a quello dei lipidi.

L’associazione tra alta CRP ed aumento del colesterolo, aumenta in maniera significativa il rischio di eventi ischemici (Ridker 2007).

Lipoproteina (a) o Lp (a)

La Lp (a) è costituita da una molecola lipidica LDL-simile ricca in colesterolo esterificato, in cui la apo B100 si lega alla apo (a).

La apo (a) sono presenti nella popolazione in numerose isoforme di differente peso molecolare geneticamente determinato e la concentrazione plasmatica di Lp (a) è inversamente proporzionale al peso molecolare.

Non è ancora chiaro il ruolo fisiopatologico della Lp (a); sembra che favoriscano la proliferazione delle cellule muscolari nelle pareti del vaso, così come la forte analogia con la molecola del plasminogeno potrebbe, attraverso un meccanismo di antagonismo competitivo, inibire la fibrinolisi e promuovere la trombosi; secondo alcuni autori, un’alta concentrazione di Lp (a) identifica soggeti che hanno un alto rischio di cardiopatia coronarica

(Sandholzer 1992, Chen 1996).

I soggetti a rischio hanno necessità di modificare i fattori di rischio, in particolar modo la concentrazione di colesterolo LDL; livelli elevati di Lp (a) e il colesterolo LDL hanno un’azione sinergica nella malattia aterosclerotica (Maher 1990); la diminuzione del livello di colesterolo LDL riduce notevolmente il potenziale atero-trombotico delle Lp (a).

Alcuni studi non confermano la relazione tra i livelli sierici di Lp (a) e il rischio di cardiopatia ischemica mettendo in dubbio l’utilità di uno screening di massa per questa lipoproteina (Moliterno 1995).

(31)

31 Stress ossidativo/ antiossidanti

Lo stress ossidativo è un importante fattore nello sviluppo dell’aterosclerosi, in particolare si ritiene che il metabolismo ossidativo delle LDL costituisca il punto di partenza del processo aterosclerotico

(Jialal 1996).

Le LDL sono normalmente coinvolte nel trasporto di colesterolo attraverso le pareti dei vasi per arrivare alle cellule. L’ingresso nelle cellule è modulato dai recettori per le LDL, la cui sintesi è regolata dalla quantità di colesterolo presente all’interno della cellula. Il flusso di LDL, VLDL e IDL attraverso le pareti dei vasi è regolato direttamente dalle rispettive concentrazioni plasmatiche. In particolari condizioni (ipertensione, fumo, stress, diabete) si assiste all’ossidazione delle LDL che penetrano attraverso l’endotelio e mediano una risposta di tipo infiammatorio.

Effetti delle LDL ossidate:

 Effetto chemiotattico sui monociti.  Citotossicità e immunogenicità.

 Inibizione della vasodilatazione mediata da NO.  Formazione di cellule schiumose.

Fattori di rischio trombotico

La progressione della lesione delle arterie coronariche è tipicamente imprevedibile, veloce e non lineare. Le lesioni sembrano attraversare cicli di rottura e riparazione con periodi di instabilità clinica. E’ possibile che siano causate da successive rotture e riparazioni delle placche che portano all’ispessimento della parete dei vasi. Diversi meccanismi che agiscono sinergicamente, sono chiamati in causa come potenziali fattori determinanti l’attivazione o l’instabilità della placca (Fuster 1992):

 Accelerata sintesi, alterata organizzazione, aumentata degradazione della matrice extracellulare.

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32  Alterata composizione del “Core” centrale: elevate concentrazioni di materiale necrotico e di esteri del colesterolo piuttosto che colesterolo insolubile, responsabili di una riduzione di consistenza della placca e dotati di elevata capacità trombogenica.

 Variazione della componente cellulare: aumentato numero di macrofagi, responsabili della degradazione della matrice (secrezione delle metalloproteinasi) e della produzione di Tissue Factor, e ridotto numero di cellule muscolari lisce.

 Infiammazione: forte presenza di cellule infiammatorie, macrofagi, linfociti T attivati, in risposta ad agenti infettivi presenti all’interno della placca (Clamydia Pneumoniae, Citomegalovirus, Helycobacter pylori) p secondaria a fattori esterni alla placca (radicali liberi). La placca aterosclerotica diventa instabile e la capsula fibrosa va incontro a fissurazione, erosione o rottura dando luogo ad una ”lesione complicata” o lesione del VI tipo con esposizione dei fattori trombogenici del core al flusso sanguigno. L’esposizione del Tissue Factor e di altri fattori determina attivazione piastrinica, innesco della via estrinseca della coagulazione, formazione di fibrina, sviluppo di trombosi e vasocostrizione con conseguente occlusione o sub occlusione dell’arteria coronaria (Koven 1995).

Al momento della rottura della placca un numero rilevante di fattori locali e sistemici condizionano il grado e la durata della deposizione trombotica

(Falk 1995); i fattori sistemici possono essere responsabili dell’attivazione

del processo emo-coagulativo con trombosi coronarica ostruttiva in assenza di rottura classica della placca (Hamsten 1993, Braodhurst 1990).

Aspetti Fisiopatologici

Nella maggior parte dei casi il meccanismo responsabile di un’improvvisa evoluzione della coronopatia è la rottura della placca aterosclerotica all’interno dell’arteria coronarica con esposizione dei componenti trombogenici al flusso sanguigno e formazione del trombo nella sede di una stenosi preesistente (Davies 1985).

(33)

33 Le conseguenze cliniche dipendono dalla rapidità della formazione del trombo, dall’entità della compromissione della perfusione, dalla presenza di un circolo collaterale, dalla richiesta di ossigeno da parte del miocardio danneggiato e dalle condizioni del miocardio preesistenti all’occlusione. Se la trombosi è tale da determinare solo una riduzione del flusso di sangue attraverso la stenosi coronarica, ne risulta un’ischemia miocardica associata ad angina instabile o una necrosi miocardica che caratterizza l’AMI subendocardico (Non-Q-wave AMI). Quando la trombosi è così estesa da occludere completamente l’arteria coronarica con interruzione totale e permanente del flusso, ne risulta un infarto acuto transmurale (Q-wave AMI).

In altri casi il trombo coronarico può essere instabile; la sua frammentazione e l’embolizzazione distale, possono determinare aree di necrosi in numerose e larghe regioni del miocardio vitale oppure, aree microscopiche di necrosi cellulare che lasciano intatta la maggior parte del miocardio (infarto ischemico meno severo).

Le diverse condizioni fisiopatologiche determinano:

a. Diversi aspetti elettrocardiografici delle sindromi coronariche acute L’ECG di pazienti con ischemia può presentarsi con segmento ST sovraslivellato o non sovraslivellato. La maggior parte dei pazienti con ST sovraslivellato sviluppa un Q-Wave AMI (QwMI) e solo una minoranza sviluppa un Non Q-Wave AMI (NQMI).

I pazienti senza ST sovraslivellato sono definiti NSTEMI (Non ST elevation AMI). Il NSTEMI è causato da microembolizzazione distale di un trombo non occlusivo che determina solo aree microscopiche di necrosi cellulare. La maggior parte dei paziente con NSTEMI sviluppa successivamente un NQMI e solo una piccola parte sviluppa un QwMI (Figura 6).

b. Diverso outcome clinico e diversa prognosi, espressione di una progressione di gravità del danno miocardico

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34 Figura 6. Definizione elettrocardiografica di ACS.

Braunwald EB. Heart Disease: a Textbook of Cardiovascular Medicine. Philadelphia, PA: WB Saunders, 1997.

Infarto Acuto del Miocardio

E’ una sindrome clinica caratterizzata da dolore toracico conseguente all’occlusione, improvvisa e prolungata di un ramo arterioso coronarico che determina la necrosi ischemica delle cellule miocardiche correlate alla coronaria.

L’occlusione coronarica nel 90% dei casi è trombotica, nel 10% dei casi consegue a condizioni diverse non trombotiche: emboli dal cuore sinistro (endocardite infettiva, fibrillazione atriale, trombi murali del ventricolo sinistro da pregresso AMI), coronariti, malattie del collageno vascolare, traumi cardiaci etc.

La necrosi ischemica ha inizio nel subendocardio 20 minuti dopo l’occlusione improvvisa di un’arteria coronaria ed entro 6h nel 70% dei casi si estende al subepicardio diventando transmurale; entro 24h la necrosi diventa transmurale nel 100% dei pazienti.

La cicatrice fibrosa infartuale è sottile, meccanicamente e elettricamente inattiva, deformabile dalle forze di stiramento.

SINDROME CORONARICA ACUTA

Sopralivellamento ST Non sopralivellamento ST

IMA Q IMA non Q Angina instabile

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35

Fisiopatologia

L’estensione della zona infartuata (Infarct Size) è determinata dalle modalità di occlusione del vaso coronario:

Necrosi transmurale: interruzione totale del flusso in assenza di circolo collaterale. La sede della necrosi miocardica è strettamente correlata al ramo coronarico occluso (Tabella 2): nel 90% dei casi è colpito solo il ventricolo sinistro (Left Ventricle – LV), mentre nel 10% sono colpiti contemporaneamente i due ventricoli.

Arteria coronaria sinistra: Ramo discendente anteriore

Parete anteriore del LV, setto antero-inferiore, muscolo papillare

anteriore

Arteria coronaria sinistra: Ramo circonflesso

Parete laterale del LV, parete posteriore, atrio sinistro

Arteria coronaria destra

Parete inferiore del LV, ventricolo destro (RV), nodo senoatriale (NSA),

nodo atrio-ventricolare (NAV), atrii, setto mediale, muscolo papillare

posteriore

Tabella 2: Coronaria occlusa e relativa sede di necrosi.

Necrosi subendocardica: interruzione transitoria del flusso (< 3 ore) o stenosi subocclusiva con importante circolo collaterale.

Necrosi parcellare: microembolizzazioni distali della placca aterosclerotica.

L’infarct size è molto importante nel determinare il decorso clinico (Sobel 1972): se la necrosi è < 10% della massa miocardica non si rilevano segni di alterata funzione ventricolare.

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36 Importanti effetti emodinamici intervengono quando la necrosi interessa il 15-25% della massa miocardica con rapida insorgenza di disfunzione del ventricolo sinistro, incremento della pressione telediastolica e riduzione della frazione di eiezione del LV (Swan 1993); se la necrosi interessa il 25-40% del tessuto miocardico, l’infarto può complicarsi con edema polmonare acuto (EPA) e/o shock cardiogeno.

Unitamente alla disfunzione diastolica e sistolica può sopraggiungere un’insufficienza mitralica, nel caso in cui la regione ipoperfusa del LV corrisponda a quella dei muscoli papillari (Kono 1992).

Segni e Sintomi

 Dolore: presente nell’85% dei casi, è causato dalla persistente ischemia del miocardio vitale a rischio. E’ caratterizzato da senso di peso oppressivo retrosternale (irradiato spesso al giugulo, alla gola, talora alla mandibola, alla schiena in sede interscapolare, sul versante ulnare dell’arto superiore sinistro, al braccio destro) o epigastrico, di durata superiore ai 20 minuti ed insensibile ai nitroderivati, può essere accompagnato da sudorazione, astenia, nausea, senso di morte imminente.

 Pallore

 Dispnea e intensa astenia ma non dolore (nel 10% dei casi)  Assenza di sintomi (nel 5% dei casi), pazienti anziani e diabetici

 Edema polmonare acuto e/o shock circolatorio (nei casi con estesa necrosi)

Criteri diagnostici di AMI: World Health Organization (WHO)

I criteri diagnostici di Infarto Acuto del Miocardio sono stati definiti dalla World Health Organization (WHO 1979):

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37  Modificazioni ECG tipiche ed inequivocabili: onde QST > 1,5 mV in almeno due derivazioni precordiali e/o sovraslivellamento ST > 1,0 mV in altre derivazioni seguite da inversione dell’onda T per almeno 24 ore.

 Elevazione degli enzimi sierici.

La presenza contemporanea di almeno due elementi su tre consente di identificare correttamente un infarto acuto del miocardio con una specificità del 90%, tuttavia una sensibilità < 55%, rende i suddetti criteri del tutto inadeguati per una diagnosi precoce (Ryan 1999):

 Il dolore toracico può non essere presente (diabetici e anziani) e può non essere specifico di ischemia cardiaca: approssimativamente solo il 70-80% dei pazienti con AMI ha i segni clinici dell’ischemia (Kannel 1987, Grimm 1987) così come meno del 25% dei pazienti ricoverati con dolore toracico riceve successivamente una diagnosi di AMI.

 L’elettrocardiogramma non è diagnosticato in circa il 50% dei pazienti (Mc Queen 1983, Goldberg 1988, Gibler 1990).

 Gli enzimi (AST, LDH, CPK) dei quali si considera l’innalzamento con tipica curva di rilascio, sono essi stessi aspecifici perchè soggetti ad interferenze biologiche e metodologiche.

Stress

“Stress”, secondo Selye, l’autore che introdusse il concetto in medicina sul finire degli anni ’30, è “la risposta aspecifica dell’organismo ad ogni richiesta su di esso” ed è un meccanismo fondamentale di adattamento e sopravvivenza (Selye 1951).

Stress non è affatto sinonimo di qualcosa di negativo, di disagio o malattia, significato che ha assunto nel linguaggio comune solo negli anni successivi. Una condizione acuta di sollecitazione, fisica o psichica, produce uno stato di stress nell’organismo. Questo stress in genere ha

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38 uno scopo come reazione che consente all’organismo di adattarsi e sopravvivere.

Nella storia della vita sulla Terra, ogni organismo superiore ha beneficiato di una valida reazione di stress in varie circostanze. Esempi classici sono le reazioni di lotta o di fuga di fronte ad una minaccia, in cui si manifestano complesse sequenze di modificazioni sia biologiche, centrali e periferiche, che emozionali e comportamentali (Biondi 1992).

Una condizione del tutto fisiologica in cui si presenta una reazione intensa di stress naturale è nel travaglio di parto (Pancheri 1985, Pancheri 1986). In altri casi la reazione di stress può invece avere significato negativo e può essere precursore di malattia.

Selye individuò patologie da stress della fase acuta e della fase cronica. In linea generale tale distinzione è ancora valida, ma ormai molto generica, poichè il quadro delle conoscenze si è incredibilmente arricchito e reso complesso. Soprattutto perchè dal concetto di stress suscitato da stimoli più puramente fisici, l’interesse si è volto alle condizioni di stress suscitate da stimoli psichici e simbolici, quelli con cui più comunemente gli esseri umani hanno a che fare.

Non è la reazione di stress di per sè ad essere negativa, ma il modo, i tempi, le condizioni in cui si manifesta, tre esempi comuni sono:

 L’attivazione dell’organismo è sproporzionata rispetto allo stimolo.  L’attivazione dell’organismo è protratta per troppo tempo e porta ad

esaurimento delle risorse di risposta.

 Presenza di attivazione biologica senza concomitante attivazione comportamentale (Biondi 1992).

Il concetto di stress è importante perchè ha permesso di spiegare come fattori psichici possono influenzare le reazioni e gli equilibri biologici e, in taluni casi, produrre condizioni di malattia somatica, anche grave, attraverso precisi e ormai ben studiati processi fisiopatologici.

In altre parole, studiando la fisiologia e la fisiopatologia della reazione di stress si ha modo di studiare le vie di connessione tra la mente e il corpo e

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39 come da processi emozionali si giunga a concrete modificazioni della biologia, non solo transitorie e funzionali, ma in vari casi lesionali e durature.

Stress, attivazione biologica e risposte comportamentali

Lo stress nel suo senso originario è dunque una reazione, innescata da stimoli, gli stressors, ed è una risposta comune ed essenziale della vita. E’ costituito da reazioni fisiche e comportamentali, in cui apprendimento e genetica partecipano in genere in pari misura e strettamente integrate. In questo senso il termine stress può essere letto come “risposta coordinata di attivazione biologica e comportamentale dell’organismo”. La reazione di stress interessa aree biologiche e del comportamento diverse a seconda dello stimolo in causa e a seconda del significato che esso assume per l’organismo.

Sono stati distinti diversi tipi di stress psico-biologico, ciascuno contraddistinto dall’attivazione preferenziale di determinate strutture encefaliche e da determinati comportamenti (Biondi – Pancheri 1992):

 Stress della sopravvivenza dell’individuo: connesso all’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene e ipotalamo-midollo-surrenale (catecolamine) e a comportamenti di attacco-fuga.

 Stress dell’attaccamento e perdita affettivi: connesso all’attivazione di vari sistemi neurotrasmettitoriali (serotonina, noradrenalina) e degli oppioidi, e ai comportamenti di attaccamento, di separazione, dall’infanzia all’età adulta, e implicanti sia l’individuo che il gruppo.  Stress della riproduzione e sessualità: connesso ai sistemi

dell’ossitocina, GnRH, prolattina e all’organizzazione di comportamenti di contatto, corteggiamento e riproduttivi.

 Stress del supporto vitale: basato principalmente sui sistemi brain-gut axis, del sistema neurovegetativo parasimpatico, e volto ad assicurare il mantenimento delle funzioni fisiche di base e la sopravvivenza fisica

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40 dell’organismo. E’ associato ai comportamenti appetitivi e di ricerca del cibo.

Questi sistemi non sono ovviamente separati in modo rigido tra loro e la loro organizzazione è su base geneticamente programmata, con la loro modulazione determinata dall’apprendimento e da fattori sociali.

Si definisce “evento stressante” un evento oggettivamente identificabile, delimitato e circoscritto nel tempo, che modifica in modo variabile ma sostanziale l’assetto di vita della persona richiedendole uno sforzo di adattamento alla nuova situazione di entità significativa.

Gli eventi stressanti più spesso in causa in clinica, sono eventi che coinvolgono la vita affettiva come “perdite” reali (separazioni, divorzi etc) o perdite prevalentemente “simboliche” (perdite di ruolo).

A parte eventi stressanti, più o meno esattamente delimitati nel tempo, comuni fonti di stress sono situazioni ad elevato coinvolgimento emozionale, di tipo cronico o subcronico, che durano mesi e talvolta anni, e che vedono l’individuo impegnato senza poter reagire in modo valido, allontanandosi o affrontando ed eliminando direttamente la fonte di stress. Rientrano in quest’ambito situazioni conflittuali lavorative, familiari, affettive, anche di più modesta gravià ma perduranti e vissute in condizione di inibizione dell’azione.

Studi successivi hanno portato ad indagare in modo più attento lo stress nell’uomo e il ruolo di avvenimenti e eventi stressanti dell’esistenza nell’eziopatogenesi di disturbi e malattie sia psichiatrici che somatici. Lo stress è stato implicato come co-fattore nell’eziopatogenesi di numerosi disturbi e malattie somatiche, tra cui coronopatia e infarto miocardico, ipertensione, malattie infettive, gastrointestinali, dermatologiche ed anche nei tumori (Biondi 1992).

Attualmente è accertato che eventi e situazioni di stress emozionale indotte da vari avvenimenti e situazioni della vita sono in grado di produrre modificazioni significative a carico di numerosi parametri endocrini

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