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Modelli di Welfare e logiche di intervento nei servizi sociali territoriali: verso una prospettiva di Social Investment? Welfare models and intervention strategies in the local Social Services: toward a Social Investment perspective?

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA IN SOCIOLOGIA E POLITICHE

SOCIALI

TESI DI LAUREA

Modelli di welfare e logiche di intervento nei servizi sociali

territoriali: verso una prospettiva di Social Investment?

Relatore

Prof. MATTEO VILLA

Candidata

GIOVANNA SPANEDDA

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INDICE

Introduzione 5 Ringraziamenti 9

Parte prima

Il contesto Cap. 1 Il Welfare Europeo 1.1 Cenni storici e modelli di sviluppo 11

1.2 La crisi del welfare fordista ed il suo processo di ristrutturazione 14

1.3 L’attuazione dei processi di riforma del welfare in Europa 20

1.4 Il sistema di Welfare in Italia 23

Cap. 2 Dinamiche demografiche e sociali, nuove pressioni sul Welfare 2.1 L’Europa sta invecchiando 34

2.2 Dinamiche demografiche e sociali: nuovi bisogni nell’Italia della crisi, nuove pressioni sul welfare 41

2.3 Il territorio del Valdarno Inferiore: dinamiche demografiche e sociali 55

2.4 Le dinamiche di spesa sociale al tempo della crisi: la situazione italiana 60

2.5 La spesa dei Comuni per i Servizi socio assistenziali 69

Parte seconda

Realtà territoriali e logiche di intervento Cap. 3 Quale modello di Welfare nelle politiche sociali del Valdarno Inferiore 3.1 Il paradigma del Social Investment 75

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3.2 Il modello dei servizi e la logica delle risposte: spunti per una ricerca 82

3.3 Indagine sui processi assistenziali a favore della popolazione anziana approccio culturale di riferimento e logiche di intervento 84

3.3.1 Il primo focus: i percorsi assistenziali a favore della popolazione anziana 85

3.3.2 Il secondo focus: il punto di vista degli operatori sulle logiche dei percorsi assistenziali 99

3.3.3 Conclusioni 105

Cap. IV Servizi per la popolazione anziana e modello di welfare nel Valdarno Inferiore nella prospettiva del Social Investment 4.1 I bisogni, la loro valutazione e le logiche di intervento 108

4.2 La presa in carico: l’integrazione, gli approcci alla famiglia 119

4.3 Conclusioni: una nuova prospettiva di intervento 124

Appendice 1.Le Vignette 127

2.Sintesi elementi emersi nel primo focus 133

3.Sintesi elementi emersi nel secondo focus 140

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Introduzione

Una politica di sostegno alle reti informali di sostegno familiare non può essere pensata né come politica per gli anziani né come politica per le donne, o per gli individui svantaggiati solamente. Occorre invece ripensare una vera e propria politica sociale a contenuto intergenerazionale. La cura tra generazioni non è però un compito solo familiare, il legame di cura, che è un codice donativo, può (se sussidiato) espandersi nel tessuto sociale, quando il valore del legame intergenerazionale e la sua attuazione vengono assunti come compito dall’intero sistema societario. Ciò consente di attualizzare la solidarietà tra generazioni senza la quale il sistema societario stesso non potrebbe esistere. La cura tra generazioni va quindi sostenuta e non solo utilizzata o, peggio, consumata.

(Riccardo Prandini, 2009)

Il dibattito culturale sul welfare in Italia, concentratosi storicamente su altri ambiti delle politiche pubbliche, ha lasciato in secondo piano il tema del Welfare Sociale, così facendo da specchio ad una politica nazionale che sinora non è riuscita a garantire diritti sociali di cittadinanza.

Questo atteggiamento di “minore attenzione” della politica permane nonostante i richiami e le raccomandazioni che l’Unione Europea rivolge ai paesi membri per l’adozione di politiche sociali innovative, caratterizzate da un forte investimento sul capitale sociale.

Ma i territori e le comunità locali, investiti da profonde trasformazioni demografiche, sociali ed economiche, che devono rispondere alle sfide poste da questi cambiamenti, esprimono una richiesta crescente di welfare sociale e l’estensione del disagio sociale ed economico determina un aumento della richiesta di sostegno nei confronti dei Servizi Sociali territoriali.

Questo lavoro si interroga sul tipo di risposta che i Servizi Istituzionali sono in grado di dare, mettendone a fuoco il modello di welfare e le logiche di intervento, cercando di capire quanto essi, nell’attuale quadro sociale ed economico, siano realmente in grado di sostenere gli individui e le famiglie nei loro percorsi di vita. «Quale strategia informa la nostra azione? In vista di cosa stiamo operando?». Questi sono i temi su cui vengono spinti ad interrogarsi gli operatori dei servizi pubblici della realtà territoriale assunta come ambito di indagine per il lavoro di ricerca condotto e descritto nella seconda parte.

L’elaborato si sviluppa assumendo come riferimento per l’analisi il paradigma del Social Investment, che è alla base del modello di welfare dei paesi scandinavi e che, nell’ultimo

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periodo, costituisce nell’ambito dell’Unione Europea un indirizzo comune per la riforma della politica sociale e viene proposto ai paesi membri come modello di sviluppo delle proprie politiche pubbliche.

La prima parte contestualizza la ricerca, che verrà condotta successivamente, tramite un’analisi di sfondo dello scenario europeo. Pertanto nel primo capitolo si procede ad una lettura comparativa dei principali modelli di welfare, con riferimento ai maggiori paesi dell’Europa a 15, evidenziandone gli aspetti salienti, il modo in cui questi elementi hanno influenzato il processo di ristrutturazione che ha interessato il welfare nella fase di passaggio dal sistema economico fordista a quello post-industriale. L’attenzione si concentra sul sistema di protezione sociale italiano, sulle sue caratteristiche principali e sul suo percorso storico: l’analisi evidenzia gli aspetti del familismo, del corporativismo, della categorizzazione ed infine della frammentazione territoriale, che fanno del nostro sistema sociale un’anomalia nell’attuale scenario europeo. Nel secondo capitolo la lettura si sposta sulle dinamiche demografiche e sociali che stanno investendo l’Europa nel suo complesso e che costituiscono sfide importanti per le politiche pubbliche. Dopo aver delineato a grandi linee la portata dei fenomeni a livello europeo ed italiano, facendo riferimento ai dati forniti da Eurostat ed Istat, si sofferma sullo scenario del territorio che costituisce l’ambito della ricerca, per capire quali sono le dinamiche prevalenti con cui gli individui e le famiglie devono fare i conti. Il materiale documentario, statistico e demografico di riferimento, in questo caso, è ricavato dall’ʺOsservatorio Socialeʺ Regionale Toscano, dalle banche dati Istat, dal ʺProfilo di saluteʺ del territorio del Valdarno Inferiore, dai dati forniti dal locale ʺCentro per l’impiegoʺ, da altre ricerche.

I dati presentati, mostrano quanto il sistema di protezione sociale nazionale e territoriale sia o meno ʺattrezzatoʺ per rispondere all’entità delle nuove sfide demografiche e sociali. Questa riflessione viene condotta a partire dai contenuti delle analisi proposte da parte della letteratura, (in particolare modo si fa qui riferimento al lavoro di Esping-Andersen e di Saraceno) che evidenziano la relazione tra le politiche pubbliche sociali e le dinamiche demografiche, tra le politiche sociali e i risultati raggiunti in termini di equità di genere e di equità generazionale, tra politiche pubbliche, tasso di fecondità, invecchiamento demografico e sviluppo economico e sociale dell’intero sistema. L’ultima parte del capitolo è dedicata ad un approfondimento della composizione della spesa di protezione sociale italiana, facendo riferimento in particolare ad un lavoro di ricerca, coordinato nel 2013 da Ranci Ortigosa, che ci restituisce una fotografia efficace delle logiche che caratterizzano storicamente il nostro sistema di protezione sociale. L’analisi della composizione di spesa dei Comuni per i servizi socio-assistenziali, componente residuale nell’insieme della spesa complessiva, ci introduce al lavoro di riflessione che verrà poi condotto nella seconda parte, dedicata al sistema di welfare sociale territoriale e alle sue logiche d’intervento.

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La seconda parte, con il terzo e quarto capitolo, ha come oggetto l’indagine, condotta attraverso una specifica attività di ricerca, sul modello di organizzazione e sui percorsi operativi che caratterizzano l’attività dei Servizi Sociali nell’ambito della ʺSocietà della Salute del Valdarno Inferioreʺ. Questa struttura è il modello organizzativo dell’assistenza territoriale socio-sanitaria che la Regione Toscana ha scelto per sviluppare l’integrazione del sistema sanitario con quello socio assistenziale. L’obiettivo, a cui il testo si dedica nella seconda parte, è proprio quello di capire, a partire dai dati emersi dal lavoro di ricerca, quanto l’operatività dei servizi sociali, nell’ambito di tale modello organizzativo, e nel territorio prescelto, si avvicini o si discosti dai principi del Social Investment e con quale ricadute in termini di efficacia degli interventi stessi.

Dopo una premessa in ordine alle caratteristiche principali del Paradigma del Social Investment, dopo il necessario riferimento agli atti e documenti della UE, che richiamano tale prospettiva, il terzo capitolo prosegue con la descrizione della attività di ricerca ʺpartecipataʺ, condotta nell’ambito dei Servizi Sociali della SDS Valdarno Inferiore, con la collaborazione delle/degli Assistenti Sociali che qui lavorano.

La ricerca, di carattere qualitativo, condotta a partire dall’analisi e riflessione sugli interventi specificamente attivati nei confronti della popolazione anziana, ha mantenuto sullo sfondo le politiche sociali rivolte alla totalità della popolazione. Si è basata sulla conduzione di due successivi Focus Group, che hanno lavorato nel primo caso alla Descrizione e analisi dei processi assistenziali in tre situazioni tipo e nel secondo alla Analisi delle logiche di intervento. Il primo gruppo focus ha lavorato utilizzando il metodo delle “vignette”, il secondo quello del “problem setting”. In entrambi i casi la conversazione è stata guidata attraverso domande stimolo che hanno consentito di sollecitare la discussione ma al tempo stesso di mantenerla entro i limiti dell’indagine, dando al contempo particolare attenzione al punto di vista degli operatori. I risultati dei due focus vengono restituiti in questo capitolo. Il materiale documentario relativo alla ricerca (le vignette, i risultati di sintesi del lavoro dei due gruppi) è presentato in appendice.

Nel quarto ed ultimo capitolo, dedicato alle conclusioni, vengono commentati i risultati della ricerca, con una particolare attenzione al tipo di bisogni presi in carico, alle modalità che caratterizzano il processo di presa in carico, alle logiche di intervento prevalenti. Il quadro complessivo conferma la presenza di un modello di servizi ancora fortemente improntato ad una logica familistica, di sussidiarietà passiva, dove l’intervento del servizio pubblico assume un carattere residuale rispetto all’impegno chiesto alla famiglia. Un modello di servizi che fatica ad adattare la sua strategia complessiva ai cambiamenti demografici, sociali ed economici che stanno investendo il territorio, che fatica ad assumere tra i suoi obiettivi prioritari quelli dell’equità di genere, dell’equità intergenerazionale e sociale. I principi dichiarati della

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ʺappropriatezzaʺ e ʺpersonalizzazioneʺ dell’intervento sono in realtà compromessi dalla riduzione dello spazio tecnico professionale dedicato alla valutazione e alla relazione con la persona. Lo specifico professionale del Servizio Sociale appare infatti ʺcompressoʺ in procedure di valutazione standardizzate che producono risposte standardizzate, scarsamente efficaci.

…..Emerge un sistema che, in assenza di diritti sociali riconosciuti, opera frequentemente in base ad una logica di intervento orientata all’emergenza e all’urgenza, che sta progressivamente abbandonando le logiche di intervento basate sulla prevenzione, sul rafforzamento e valorizzazione delle competenze individuali e relazionali. Emerge un modello organizzativo che propone la frammentazione degli interventi e non ne promuove l’integrazione, dove gli operatori, compressi tra un mandato professionale ed uno istituzionale, smarriscono talvolta il senso del loro operare.

Il sistema territoriale dei servizi sociali nel suo complesso non riesce quindi ad affrancarsi dai condizionamenti e dai limiti della cornice della politica sociale nazionale e dalla cultura che la informa.

Ma gli operatori mostrano, messi nella condizione di farlo, una capacità di analisi e di proposta significativa. Probabilmente stimolati dall’efficacia del metodo di lavoro utilizzato nella ricerca, hanno da subito attivato un percorso proficuo di analisi dei processi, della propria operatività, e di autovalutazione, utilizzando al meglio le opportunità offerte dal gruppo ed individuando anche spazi e percorsi per un possibile cambiamento.

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Ringraziamenti

Desidero ringraziare coloro che, a diverso titolo, hanno contribuito alla realizzazione di questa tesi:

per il contributo dato alla realizzazione pratica del lavoro di ricerca ringrazio le colleghe ed i colleghi, Assistenti Sociali, Irene Baldinotti, Manuela Cupidi, Patrizia Giani, Andrea Mirri, Ornella Pieracci, Annalisa Ragusa, Eleonora Spinelli, Valentina Taddei e Maria Venuto;

per l’autorizzazione alla conduzione della ricerca nell’ambito della Società della Salute ʺValdarno Inferioreʺ, ringrazio il Direttore Tecnico, dr. Franco Doni:

Ringrazio inoltre il Professore Matteo Villa per i suggerimenti, le sollecitazioni teoriche e gli spunti offerti durante lo svolgimento di questo lavoro.

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Parte Prima

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Capitolo 1. Il Welfare Europeo

1.1 Cenni storici e modelli di sviluppo

Nella seconda meta’ del xx sec la forte crescita economica che ha interessato i paesi occidentali Europei ha determinato una significativa estensione delle loro politiche sociali, favorendo un generale processo di redistribuzione del reddito ed un elevato livello di coesione sociale, attraverso il consolidamento dei sistemi pensionistici, la creazione dei sistemi sanitari pubblici e l’erogazione di prestazioni assistenziali a favore delle fasce più deboli della popolazione In realtà lo sviluppo del welfare nei diversi paesi europei non ha seguito linee omogenee di sviluppo dando luogo a sistemi di welfare diversi, classificati, secondo alcune teorie prevalenti, nei Modelli liberale, conservatore-corporativo, socialdemocratico e mediterraneo.

I modelli proposti hanno la funzione di delineare a grandi linee l’orientamento generale di impostazione e di struttura dei diversi sistemi di welfare, ma non possono certo ricomprendere le molte sfumature e diversità che caratterizzano le esperienze concrete dei singoli Paesi, né possiamo immaginare che vi sia una corrispondenza perfetta tra il modello e i Paesi a cui lo stesso viene riferito. La classificazione qui utilizzata è essenzialmente orientata dal criterio analitico che ispira il lavoro, ormai classico, di Esping-Andersen, che è la base di riferimento per la elaborazione teorica ulteriore, in chiave di implementazione ma anche critica, di molti autori intervenuti successivamente nel dibattito. Questi modelli in sintesi tendono a rappresentare il diverso modo di regolazione delle condizioni di equilibrio tra le tre principali istituzioni sociali Stato, Famiglia e Mercato, applicato nelle democrazie occidentali, e che determina i diversi processi di gestione dei bisogni sociali. Secondo Esping-Andersen ogni sistema di regolazione produce effetti diversi sulla “demercificazione”, cioè sul livello di indipendenza degli individui dal mercato del lavoro, e sulla “destratificazione”, cioè sul livello di indipendenza dallo status sociale di appartenenza (Esping-Andersen 1999).

Vedremo più avanti come, nell’analisi dei processi di evoluzione e riforma del sistema di welfare europeo, alcuni autori abbiano introdotto per distinguere i moderni sistemi di welfare ulteriori ed interessanti criteri di classificazione, tra cui per esempio quello di governance, basato sui meccanismi regolativi del ruolo degli attori pubblici e privati.

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12 dalla classificazione tradizionale.

Nel Modello liberale , il ruolo dello Stato è minimo, con prestazioni erogate in base al means-test, prova dei mezzi, con una prevalenza di programmi assistenziali basati sul bisogno rispetto a programmi fondati sui diritti. Lo Stato quindi riduce al minimo il suo intervento nella regolazione del mercato ed il Sistema incentiva il ricorso a schemi assicurativi non statali. Gli effetti sul sistema di relazioni individuo-mercato e individuo-sistema sociale sono quelli di una bassa demercificazione e di una bassa destratificazione. Questo modello è prevalentemente riconducibile all’esperienza dei pesi di tradizione Anglosassone, come il Regno Unito, l’Irlanda e gli USA, anche se con necessarie distinzioni tra i vari Paesi. Nella sua forma più integrale il modello può essere riferito agli USA, dove sicuramente il mercato è il principale meccanismo di regolazione in un sistema sociale molto individualistico, mentre nei Paesi Anglosassoni Europei la presenza ed il ruolo dello Stato è certamente più significativa e si registra una diffusione più ampia e articolata di servizi sociali, tanto da poter collocare il modello liberale europeo in una posizione intermedia tra quello universalistico dei paesi scandinavi e quello sud europeo1. Il Modello conservatore-corporativo o bismarkiano, prevalentemente riconducibile ai sistemi di welfare adottati da Germania, Austria, Francia e Olanda e Belgio, pur assegnando alla famiglia un ruolo di primo piano nell’intervento in situazioni di disagio, la sostiene con trasferimenti monetari generosi e con servizi diversificati. E’ un modello caratterizzato da schemi assicurativi pubblici collegati alla posizione occupazionale, con forme di computo collegate ai contributi o alle retribuzioni. In questi modelli lo Stato ha un ruolo sussidiario rispetto a quello individuale, familiare o delle associazioni intermedie. Si ha una spesa maggiore in politiche attive del lavoro, una maggiore attenzione ai percorsi formativi scuola-lavoro, interventi di sostegno al reddito più generosi in caso di disoccupazione. Gli effetti sul sistema individuo-mercato e individuo-sistema sociale sono di media demercificazione e di destratificazione medio-bassa.

Nel Modello socialdemocratico, prevalentemente riferibile ai sistemi dei Paesi scandinavi, Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia, si ha una predominanza di schemi universalistici di sicurezza sociale, con alti standard di prestazioni, destinate a tutti i cittadini. Si tratta di prestazioni basate sulla cittadinanza e non sulla contribuzione, finanziate dalla fiscalità generale. In questi sistemi di welfare lo Stato è centrale e l’occupazione pubblica, rilevante da un punto di vista quantitativo, ma anche fortemente qualificata, è un elemento determinante per la crescita dell’economia. Il sistema scandinavo si è ulteriormente differenziato dagli altri, integrando le misure di protezione del reddito con servizi sociali e generosi trasferimenti a favore delle donne occupate e delle famiglie, trasformandosi in “stato dei servizi” (Ibidem, p. 137).

1 Dobbiamo comunque sottolineare come tra UK e Irlanda le differenze siano notevoli e che nel caso Irlandese il welfare state è molto più residuale.

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In questo modello gli effetti sul sistema individuo-mercato e individuo-sistema sociale sono di alta destratificazione e demercificazione.

Il Modello mediterraneo, tipico dei paesi del sud dell’Europa, Italia, Grecia, Spagna e Portogallo2, è in parte affine al modello continentale perché ha le stesse caratteristiche corporative ma allo stesso tempo si contraddistingue per una accentuata componente familistica e assistenzialistica e per una certa frammentarietà del sistema. I paesi del sud Europa, a cui questo modello viene comunemente riferito, nella prima fase di sviluppo del loro sistema di welfare hanno seguito il modello Bismarkiano-occupazionale, in linea con gli altri Paesi continentali, ma nella fase successiva si sono significativamente differenziati, accentuando rispetto agli altri il ruolo attribuito alla famiglia nella risposta ai bisogni assistenziali e nella assunzione di rischi sociali. Non la sostengono però in modo significativo in questo compito, né attraverso prestazioni monetarie particolarmente generose né attraverso la produzione di servizi diversificati, non seguendo in ogni caso gli sviluppi fatti dagli altri paesi conservatori che hanno invece teso ad ampliare la platea ed i livelli di copertura dei rischi sociali. E’ un modello basato su un principio di sussidiarietà passiva, in cui lo Stato riconosce socialmente e legalmente il ruolo delle reti primarie ma non le sostiene con interventi strutturati ed interviene solo nell’impossibilità delle stesse ad agire un ruolo di protezione dei soggetti più deboli. In questo modello le politiche sociali non sono organizzate per servizi a favore di cittadini ma sono prevalentemente organizzate su base previdenziale, in un quadro piuttosto frammentato, che crea, come dice Ferrera (2006)

[…] un sistema di protezione dualistico e polarizzato, con picchi di elevata generosità per alcune categorie (peraltro fortemente protette anche sotto il profilo della stabilità del posto di lavoro) e vere e proprie lacune di protezione per altre categorie (p.42).

In Italia, dove questo fenomeno ha assunto caratteristiche peculiari, data la particolare protezione garantita a favore di alcune categorie di lavoratori, rispetto ad altre categorie di lavoratori e di cittadini, il processo di demercificazione e di destratificazione non appare essenzialmente condizionato dallo status sociale ma piuttosto sembra essere trasversale alla struttura di classe, evidenziandosi una fondamentale distinzione tra chi è titolare di forme di protezione particolarmente forte, i cosiddetti “insiders”, e chi è titolare di diritti o forme di protezione deboli o del tutto privi di protezione, gli “outsiders”. Il modello mediterraneo ha quindi una bassa capacità redistributiva ed accentua le diseguaglianze sociali. Questo fenomeno in alcuni Paesi, Spagna ed Italia in particolar modo, come vedremo più avanti, assume inoltre

2 Nella analisi di Esping Andersen in realtà il sistema Italiano, insieme a quello Spagnolo, viene collocato nel campione dei paesi afferenti al modello conservatore- corporativo, ma in questa analisi ci appare più opportuno collocarlo nell’ulteriore modello mediterraneo, introdotto da altri autori.

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una forte connotazione territoriale, a seguito dei processi di decentramento amministrativo che si verificano negli anni 70 e dei processi successivi di decentramento politico-regolativo. Il processo di integrazione europea, che nel 2004 ha visto l’ingresso nell’Unione dei paesi ex comunisti dell’ Europa centro orientale, chiama in causa l’esistenza di un ulteriore quinto modello o Welfare della transizione (Ferrera, 2006; Carbone e Kazepov, 2007). Anche in questi paesi si sviluppa un modello di Welfare non omogeneo ma caratterizzato piuttosto da processi di consolidamento differenziati da paese a paese, i cui elementi comuni sono il profondo cambiamento strutturale dell’economia, con una forte instabilità nella capacità produttiva, la forte stratificazione sociale, con un forte rischio di povertà ed esclusione sociale.

Il processo di integrazione europea porta con sé anche un inevitabile percorso di contaminazione tra i modelli originari che si accompagna al processo di ristrutturazione del welfare europeo, iniziato già nella seconda metà degli anni ’70 e ancora in corso.

1.2 La crisi del Welfare Fordista ed il suo processo di ristrutturazione

Con il termine di “welfare fordista“ si fa riferimento al ruolo di primo piano in genere

assunto dallo stato nella erogazione diretta di servizi e prestazioni di welfare; questo orientamento ha caratterizzato la maggior parte dei Paesi Europei nella fase più importante di estensione delle politiche sociali (Bosi, 2005). Essi infatti, sulla base della teoria economica del capitalismo Keynesiano, hanno per molto tempo considerato il sistema di welfare un fattore di produzione e pensato a lungo che il sistema di tutela sociale e la crescita economica si sostenessero a vicenda (Buti et al., 1999).

Ma già nella seconda metà degli anni ‘70 i profondi mutamenti di ordine economico-produttivo e sociale, che contrassegnano il passaggio dal sistema di produzione fordista al sistema post-industriale, segnano l’inizio della crisi del sistema di welfare, che appare inadeguato a far fronte ai nuovi problemi sociali ed economici che si presentano. Vengono infatti a mancare le premesse sociali ed economiche che erano alla base dei modelli di welfare universalistico ed occupazionale, cioè una piena occupazione, un equilibrio demografico stabile ed una struttura stabile della famiglia, basata sulla divisione dei ruoli.

Sul piano dei mutamenti economici nei paesi Europei industrializzati, segnati dalle crisi petrolifere degli anni 70, si registra un rallentamento della crescita economica e produttiva con un incremento significativo dei tassi di disoccupazione: il tasso di disoccupazione nell’Europa continentale tra la metà degli anni 70 ed i primi anni 80 aumenta mediamente del 10% (Carbone e Kazepov, 2007). Sulla disoccupazione incide in modo importante anche il fenomeno del decentramento produttivo, perché l’attività economica è sempre meno legata ai mercati interni e

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si colloca sempre più nel mercato mondiale in un processo di globalizzazione; l’occupazione diventa flessibile e si deve adattare ad un mercato variabile, con un aumento significativo di lavoratori saltuari e precari. L’acuirsi del processo di segmentazione3

del mercato del lavoro rende necessaria l’adozione di misure di protezione/ammortizzatori sociali in grado di rispondere ai nuovi caratteri assunti dal mercato del lavoro.

Sul piano dei mutamenti sociali si registra un significativo cambiamento della struttura demografica, con un aumento della popolazione anziana, determinato dal declino della fecondità, verificatosi nel periodo che va dagli anni 60 alla seconda metà degli anni 70, dall’aumento della speranza di vita alla nascita e dal generale miglioramento delle condizioni di vita e della assistenza sanitaria. L’invecchiamento demografico della popolazione condiziona gli indici di vecchiaia4 e gli indici di dipendenza, cioè il rapporto tra la popolazione con un’età superiore ai 65 anni, che accede al reddito attraverso il meccanismo redistributivo del sistema pensionistico, e la popolazione in età tra i 15 e i 64 anni, cioè la popolazione attiva nel mercato del lavoro.

Questa dinamica demografica, che porta con sé un aumento significativo della domanda di cura da parte di una quota crescente della popolazione, mette in discussione anche i sistemi di organizzazione dei due pilastri dei moderni sistemi di welfare: i servizi per l’assistenza sanitaria e sociale ed i sistemi pensionistici. Nel primo caso perché la popolazione anziana, maggiormente esposta ai rischi di malattie e non autosufficienza, esercita una pressione importante sui servizi e sulla spesa sanitaria, nel secondo caso perché una quota ridotta di popolazione attiva nel mercato del lavoro deve sostenerne un’altra crescente ed inattiva.

In questi stessi anni si assiste inoltre ad una profonda trasformazione sociale e culturale del ruolo femminile: l’acquisizione da parte della donna di nuovi diritti e di un ruolo attivo nel mercato del lavoro condizionano in modo decisivo la struttura della famiglia e l’istituzione matrimoniale. Si assiste progressivamente all’innalzamento dell’età al matrimonio, alla diffusione delle separazioni e dei divorzi, alla affermazione progressiva di nuove forme di convivenza. Soprattutto l’ingresso della donna nel mondo del lavoro mette in crisi il modello di famiglia nucleare che è alla base del modello di welfare fondato sul paradigma fordista e che prevede una rigida distinzione di ruoli di genere, per cui la forza lavoro impiegata nella attività produttiva è maschile mentre il lavoro di cura in ambito familiare è di esclusiva competenza della figura femminile. La assunzione da parte della donna del duplice ruolo di soggetto attivo nel mercato del lavoro a fianco di quello prevalente nella funzione di cura in ambito familiare,

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Con il termine segmentazione si indica il fenomeno della divisione tra fasce di lavoratori molto protetti, con una occupazione stabile, e fasce di lavoratori con scarse garanzie e minima stabilità

4 L’indice di vecchiaia è dato dal rapporto percentuale tra popolazione in età superiore ai 65 anni e quella in età inferiore ai 15 anni

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la assunzione da parte delle figura femminile del ruolo di capofamiglia nell’ambito dei nuovi nuclei monoparentali, determina l’affermazione progressiva di nuovi importanti bisogni legati alla conciliazione dei tempi di lavoro e di cura: «Questo cambiamento ha un effetto importante sui meccanismi regolativi dei sistemi di welfare perché contribuisce a modificare la suddivisione dei compiti di cura tra famiglia, Stato e mercato» (Carbone e Kazepov, 2007 p. 114). Le politiche di conciliazione dei tempi di lavoro e di vita, diverranno negli anni seguenti un elemento centrale delle politiche sociali, coinvolgendo diversi ambiti di intervento: dalle politiche del lavoro, relativamente alle misure contrattuali e normative di disciplina dei tempi di lavoro e dei permessi e congedi finalizzati a sostenere il lavoro di cura e le funzioni genitoriali, alle politiche educative, volte a garantire i servizi educativi per l’infanzia, alle politiche assistenziali, volte a garantire servizi di assistenza agli anziani e di sostegno alle loro famiglie. In questo periodo di profonde trasformazioni la quota di spesa pubblica destinata al Welfare cresce quindi costantemente: «la percentuale di spesa pubblica in sicurezza sociale sul prodotto interno lordo passa tra il 1960 ed il 1975 dal 10,9% al 25% in Svezia, dal 15,4% al 23,7% nella Repubblica federale tedesca e dall’11,7% al 21,2% in Italia» (Ibidem p.51).

Il rapporto tra spesa sociale e PIL continua negli anni successivi a crescere nella maggior parte degli stati europei e nel periodo che va dal 1970 al 1994 aumenta di circa 10 punti, passando ad un valore medio che va dal 19 al 28,5% e che nel 1999 è pari ad ¼ del PIL, circa la metà della spesa pubblica (Buti et al., 1999). Nello stesso arco di tempo nella maggior parte dei paesi europei il calo nei tassi della crescita economica determina la formazione di deficit pubblici. Le profonde trasformazioni demografiche, sociali ed economiche, in particolare la cessazione della fase espansiva dell’economia europea, la crisi dei bilanci pubblici e la necessità di un loro risanamento, sono quindi alla base della spinta ad una decisa revisione della spesa pubblica e, nell’ambito di questa, al ripensamento dei sistemi di welfare. La crisi del welfare, iniziata nella seconda metà degli anni 70, si protrae per tutto il periodo degli anni 80 e, nell’ambito del dibattito politico e culturale che si sviluppa su questo tema, trovano facile terreno le visioni e gli orientamenti che in modo particolare mettono sotto accusa i costi della spesa sociale, l’inefficienza dell’apparato burocratico amministrativo, e l’inefficienza delle stesse politiche sociali5.

Già negli anni 80 si consolida in molti paesi europei un processo di decentramento amministrativo che avrà poi particolare importanza nel decennio successivo

La ristrutturazione dello Stato sociale avviata negli anni 80 sarà orientata proprio dalle critiche

5 Tutti questi processi, la crisi, le critiche e i percorsi di riforma, non sono avvenuti allo stesso modo nei vari paesi e anche le differenze tra i modelli di welfare, sopra descritti, hanno avuto la loro influenza su di essi; dobbiamo inoltre precisare che. non necessariamente l'aumento della spesa abbia voluto e voglia dire, soprattutto in alcuni Paesi tra cui l’Italia, un welfare migliore.

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rivolte all’apparato burocratico amministrativo. Il principale obiettivo da raggiungere verrà identificato nell’alleggerimento del bilancio pubblico e nella riduzione dei costi. Uno degli strumenti adottati è stato innanzitutto quello del decentramento amministrativo. Si tratta della inaugurazione di una politica di welfare, ideologicamente giustificata dall’esigenza di valorizzare le comunità locali, che ha come fine ultimo quello di fronteggiare l’appesantimento dell’apparato del welfare state, accusato di espansione incontrollata e di un’eccessiva autonomia decisionale rispetto alle autorità politiche (Carbone, Kazepov, 2007, p.54).

In questa fase, in cui l’economia è fortemente condizionata dalla globalizzazione, gli Stati vengono progressivamente affiancati/sostituiti nella loro funzione di governo dell’economia da organismi sovranazionali quali, per esempio, il Fondo Monetario internazionale e l’Ocse; nell’ambito del processo di consolidamento della UE, di rafforzamento istituzionale della sua funzione di governo e di regolazione del sistema economico nei confronti dei paesi membri, si affermano, negli anni 90, le politiche di rigore di bilancio imposte dal trattato di Maastricht (1992). Si avvia quindi nella maggior parte dei paesi europei un processo di ristrutturazione del welfare, da molti autori definito di ricalibratura, finalizzato sì a realizzare effetti redistributivi della spesa sociale, capaci di rispondere ai nuovi bisogni, ai nuovi profili di rischio, ma anche, sotto la spinta delle forti pressioni, a realizzare un significativo ridimensionamento della spesa pubblica. La sfida principale che l’Europa si trova a dover affrontare nella seconda metà degli anni 90 è proprio quella di tenere insieme l’esigenza di contenimento della spesa sociale e contestualmente la necessità di dare una risposta ai nuovi bisogni che si presentano.

Le azioni di ricalibratura adottate, e che nella loro attuazione pratica vedono differenze significative tra i diversi Paesi, hanno per oggetto il ridimensionamento e l’adeguamento redistributivo di alcune tutele: è il caso delle riforme dei sistemi pensionistici, nei confronti dei quali vengono adottate norme meno generose di indicizzazione delle prestazioni, si prevede un aumento dell’età pensionabile ed un prolungamento dei periodi contributivi necessari per l’ammissibilità al trattamento pensionistico.

Parallelamente si introducono nuovi schemi di protezione sociale a favore di nuove categorie di rischio, maggiormente esposte alla vulnerabilità sociale, per esempio a favore delle persone in cerca di occupazione, con l’introduzione della misura del reddito minimo di inserimento anche nei paesi che sino a quel momento ne erano privi6. Si promuovono nuovi servizi territoriali più vicini e corrispondenti ai nuovi bisogni delle famiglie: in particolare servizi educativi per l’infanzia e servizi di assistenza alle persone non autosufficienti ma si introducono anche misure per la razionalizzazione della spesa sanitaria e per una sua riorganizzazione.

6 la ricalibratura dovrebbe prevedere un'ampia trasformazione redistributiva, funzionale e normativa; ma alcuni stati, e tra questi l’Italia, sono intervenuti su aspetti molto più parziali. In Italia per esempio non è stato adottata su scala nazionale la misura del reddito minimo di inserimento.

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E’ in questo contesto che l’Unione Europea introduce nei confronti degli stati nazionali due ulteriori elementi di regolazione delle politiche di welfare: la localizzazione della politiche sociali e la esternalizzazione di una serie di funzioni e servizi sino a quel momento gestiti dai singoli stati. Questi nuovi indirizzi avranno una particolare importanza e ricaduta nella riorganizzazione delle politiche socio assistenziali, sia per quanto riguarda l’organizzazione territoriale dei servizi sia per quanto riguarda l’ingresso di nuovi soggetti/ attori nei sistemi di welfare.

I concetti teorico-culturali che sottendono questo ulteriore significativo processo di trasformazione del sistema sociale europeo, e che da quel momento in poi compariranno ripetutamente nella documentazione ufficiale della UE e nelle normative nazionali di riferimento, sono quelle di sussidiarietà e di integrazione (Carbone, Kazepov, 2007).

Negli anni ’90 quindi la maggior parte dei paesi aderenti alla UE introducono elementi significativi di riforma dei loro modelli di welfare avviando un processo complessivo di riorganizzazione istituzionale finalizzato a conciliare le esigenze di razionalizzazione della spesa con le esigenze di differenziazione territoriale delle politiche sociali. Carbone e Kazepov (Ibidem, p.127), sostengono che proprio il principio di sussidiarietà legittima i processi di «rescaling», cioè di riorganizzazione territoriale delle politiche sociali, e di «governance», cioè l’ingresso di nuovi attori nella programmazione e gestione dei servizi.

Il concetto di sussidiarietà nella sua dimensione verticale definisce la distribuzione delle diverse funzioni di politica sociale ai diversi livelli di governo centrale e territoriale, in un processo definito appunto di rescaling; nella dimensione orizzontale definisce il processo di coinvolgimento di nuovi attori privati, nella definizione e gestione dei servizi, governance, tradizionalmente di esclusiva competenza dei soggetti pubblici.

Questi nuovi soggetti privati, non profit, sono componenti della società civile: famiglie, organizzazioni del volontariato e associazioni, cioè l’insieme dei soggetti che costituiscono il Terzo Settore, che senza scopo di lucro, partecipano da ora in poi anche alla definizione delle politiche territoriali oltre che alla loro attuazione. Già nel periodo a cavallo tra gli anni 70 e la metà degli anni 80, durante la crisi del Welfare europeo, il Terzo Settore aveva avuto una significativa crescita e assunto un ruolo rilevante nella produzione dei servizi, assumendo una funzione complementare a quella dello Stato nella risposta al complesso dei bisogni sociali. Nel nuovo contesto degli anni 90 il Terzo Settore assume una nuova funzione divenendo soggetto attivo nella strutturazione delle politiche sociali: all’interno della riorganizzazione delle politiche sociali europee il ruolo pubblico e quello privato si integrano in un nuovo modello di sistema sociale, definito appunto Welfare Mix, nel quale alle agenzie tradizionali di Famiglia, Mercato e Stato si aggiunge il Terzo Settore.

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pur vero che esso si diversifica nella sua traduzione pratica nell’ambito dei diversi Paesi, in base al diverso equilibrio che si viene a creare tra i vari soggetti, in ragione della struttura preesistente di welfare e del suo sistema regolativo.

A questo proposito appare interessante riportare seppure in estrema sintesi la classificazione dei diversi modelli di welfare operata da Carbone e Kazepov (Ibidem, p. 103-105) in base ai meccanismi regolativi del ruolo giocato da attori pubblici e privati, cioè in base ai modelli di «governance». Secondo i due autori si possono individuare diversi modelli di welfare corrispondenti a diversi modelli di gestione.

Nel «modello clientelare», caratterizzato dalla relazione tra politici e i diversi stakeholder, portatori di interessi specifici, il perseguimento degli interessi pubblici passa in secondo piano e i soggetti politici conferiscono risorse a gruppi specifici in cambio di supporto politico. Nel «modello corporativo», caratterizzato dalla attività negoziale, attori pubblici e privati, democraticamente rappresentativi di categorie più ampie, partecipano ad uno stesso tavolo finalizzato al raggiungimento di un punto di compromesso o convergenza. Nel «modello manageriale», basato su obiettivi di efficacia ed efficienza nella gestione dei servizi, sulla competizione tra fornitori di servizi e sulla valorizzazione della scelta dell’utente, il rapporto tra gli attori politici e i fornitori di servizi è caratterizzato dalla dimensione contrattuale-burocratica. «Il modello pluralista» è caratterizzato da una forte competizione fra i diversi interessi in campo e il soggetto politico ha il ruolo di mediatore; in questo modello particolare importanza assume la capacità di mediazione e di gestione dei conflitti. «Il modello partecipativo» incoraggia la partecipazione più ampia possibile di individui e gruppi ai processi di governo, di definizione, gestione ed implementazione delle politiche e gli attori principali sono i soggetti politici ed i referenti dei vari gruppi sociali che cercano di agire un controllo popolare sulle politiche sociali. Il «modello populista», è invece caratterizzato dalla mobilitazione collettiva, finalizzata alla formazione di consenso.

Secondo la classificazione adottata dagli autori alcuni sistemi di welfare sembrano favorire determinati modelli di governance rispetto ad altri, per cui il sistema di welfare socialdemocratico ha consentito l’istituzionalizzazione di un mix tra elementi del modello manageriale ed elementi del modello partecipativo, nei sistemi conservatori si è prevalentemente affermato un modello di governance corporativo, nei sistemi liberali un mix di governance pluralista e corporativista, mentre nei sistemi familistici un mix tra modello populista e clientelare (Ibidem).

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Negli ultimi due decenni il Welfare europeo cambia completamente volto sia per la tipologia di politiche sociali che vengono attuate, sia per la struttura che esso assume. Sul piano delle politiche sociali molti paesi europei si caratterizzano infatti per l’adozione di politiche sociali innovative basate sulla logica della attivazione e della integrazione.

Con il concetto di politiche attive si fa prevalentemente riferimento all’insieme di misure di terza generazione, finalizzate alla reintroduzione nel mercato del lavoro e più in generale ai processi di inclusione sociale, secondo un approccio teorico e metodologico basato sulla responsabilizzazione individuale e sulla valorizzazione delle competenze. L’erogazione di prestazioni a carattere economico non ha più un carattere passivo ma, nell’ambito di un vero e proprio rapporto contrattuale tra il cittadino e l’istituzione, si integra con altri servizi di supporto e di accompagnamento (interventi di formazione e riqualificazione, partecipazione al mercato del lavoro) alla attuazione di un piano individualizzato di intervento che ha come finalità ultima la risoluzione della situazione di bisogno e dipendenza.

E’ in questa logica che in molti paesi europei, fatta eccezione per la Grecia e l’Italia, come avremo modo di approfondire nel paragrafo dedicato al Welfare Italiano, si introduce il reddito minimo di inserimento come misura di accompagnamento ad interventi finalizzati al reinserimento occupazionale e sociale.

Come sottolinea Kazepov (2011, p.114) questo passaggio alle politiche attive di «terza generazione» si declina però con modalità molto diverse tra i vari paesi: in alcuni casi, come avviene nei sistemi dei paesi nordici che afferiscono al modello socialdemocratico, si sottolineano i valori dell’empowerment, dell’integrazione e della coesione sociale e si attribuisce alle politiche sociali il valore di un investimento sul benessere di tutta la società; in altri casi, riconducibili ai sistemi di welfare dei paesi anglosassoni, le politiche attive perseguono prevalentemente l’obiettivo di una riduzione della dipendenza degli individui dalle politiche sociali, in una ottica prevalente della riduzione dei costi. In questa logica la condizione sociale ed economica è essenzialmente letta in termini di responsabilità individuale e le forme assunte dagli interventi sembrano quasi assumere un carattere punitivo, nel quale l’obbligo lavorativo è la condizione di accesso ai sussidi. Nei Paesi dell’Europa continentale si ha una sintesi tra queste due posizioni e le forme di «condizionalità» (Ibidem, p.115) si accompagnano a misure finalizzate non solo all’inserimento lavorativo ma ad una più amplia inclusione sociale. Questo è quanto accade in parte anche nei Paesi che si rifanno al sistema Sud-Europeo ma, come approfondiremo più avanti nell’analisi del modello di welfare italiano, all’interno di un quadro normativo di welfare molto frammentato e privo del riconoscimento di diritti di inclusione. Sul piano della struttura del sistema gli elementi più significativi del processo di trasformazione consistono nella territorializzazione e nel coinvolgimento di ulteriori attori nei processi di regolazione, gestione e attuazione delle politiche. Nella maggior parte dei paesi

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Europei vi è la tendenza omogenea a valorizzare il livello locale, che diventa sempre più importante, anche in ragione del principio di sussidiarietà sostenuto dalla UE dal trattato di Maastricht in poi, ed in ragione dei processi di programmazione partecipata che promuovono le iniziative locali.

Kazepov (2009), in una analisi comparata, evidenzia alcuni tra gli aspetti positivi e alcuni corrispondenti nodi critici che si presentano nei diversi sistemi di welfare nazionali prodotti dal processo di sussidiarizzazione. Tra gli aspetti positivi particolarmente interessante è la possibilità di sperimentare a livello locale, grazie al contributo di una molteplicità di attori, pubblici e privati, soluzioni nuove e creative, adeguate alle specifiche problematiche presenti nei diversi territori; e ancora la valorizzazione delle risorse locali e la valorizzazione del processo decisionale che si colloca nel territorio stesso. Tra i nodi critici in particolare emergono la necessità di un coordinamento territoriale degli attori coinvolti nella definizione, gestione e attuazione dei servizi, il rischio della istituzionalizzazione delle differenze sub-nazionali , il rischio di un indebolimento del controllo democratico sui criteri di accesso degli attori alla gestione. Vedremo più avanti come questi elementi di criticità assumano particolare rilievo nel processo di trasformazione del sistema di Welfare italiano.

Gli indirizzi e le tendenze che interessano complessivamente i paesi che partecipano al processo di integrazione europea, come già detto, delineano nelle singole realtà scenari molto diversi perché influenzati dal sistema originario di regolazione di welfare preesistente.

Nel Regno Unito, che si riferisce al modello Liberale, il processo di riforma del welfare state ha riguardato in modo particolare le politiche del lavoro e quelle assistenziali e sia i governi conservatori che laburisti hanno mantenuto il means test, la responsabilizzazione degli utenti e l’obbligatorietà della loro attivazione, come elementi caratterizzanti il sistema. Sul piano della governance si registra la presenza di più attori, anche del settore privato for profit, soprattutto nel campo della formazione ed occupazione, ed il coordinamento quindi di attori pubblici e privati in vista di una maggiore efficienza delle prestazioni. Questo processo ha avuto inizialmente una ricaduta sulla articolazione delle politiche sociali, determinando una frammentazione degli interventi tra regioni e città, ma la tendenza attuale è quella del ritorno verso una definizione a livello centrale dei criteri che definiscono l’accesso alle prestazioni e verso un maggior coordinamento delle iniziative decentralizzate (Kazepov, 2009).

Nei paesi scandinavi che afferiscono al modello socialdemocratico con una tradizione consolidata nelle politiche attive del lavoro, l’introduzione di elementi di attivazione nell’assistenza sociale (residuale sino agli anni 90) si accompagna alla individualizzazione dei piani di intervento, alla cui definizione partecipano gli stessi utenti, e l’obbligatorietà è meno rilevante di quanto lo sia nel sistema liberale. Per quanto riguarda il processo di governance in questi Paesi la realizzazione dei programmi di assistenza sociale si realizza prevalentemente

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tramite l’integrazione e la collaborazione tra i diversi attori (in particolare servizi sociali e uffici del lavoro ma anche tra servizi sociali e sanitari), mentre l’apertura nei confronti degli attori privati rimane limitata, anche se in crescita. Le istituzioni pubbliche e statali mantengono comunque un forte ruolo di indirizzo e coordinamento, delineando un modello di governance di tipo manageriale. L’articolazione territoriale delle politiche sociali e la forte autonomia degli enti locali ha determinato una certa diversificazione delle misure socio assistenziali erogate a livello locale e quindi negli ultimi anni si è affermata la necessità di definire standard comuni e di realizzare forme di coordinamento istituzionale. La tendenza prevalente è quindi quella di demandare al livello locale la dimensione gestionale e mantenere al livello centrale nazionale la funzione di regolazione e di programmazione

Nei Paesi che si riferiscono al sistema di Welfare Corporativo l’attuazione delle politiche di attivazione è stata condizionata da una tradizione meno strutturata rispetto ai paesi nordici e si registra un atteggiamento più rigido nei confronti degli utenti, con la revoca dei sostegni ottenuti in caso di comportamenti che violano il contratto con servizi pubblici. La forte tradizione federalista di alcuni Paesi ha facilitato il processo di territorializzazione delle politiche e il loro adattamento ai bisogni territoriali. E’ in questo contesto che si colloca il significativo coinvolgimento del Terzo Settore, ed in particolare delle Associazioni di Volontariato, nella programmazione e gestione degli interventi, con la affermazione di un modello di governance di tipo corporativo, basato sulla negoziazione tra gli attori. In ogni caso le prestazioni sono vincolate a standard nazionali e la regolazione intermedia Stato-Comuni è svolta dai Lander e dai Cantoni, rispettivamente in Germania e Svizzera, e dai Departments in Francia, dove prevale un’organizzazione centrale.

Anche nel Welfare Mediterraneo sono stati introdotti recentemente piani di intervento fondati su logiche di attivazione: in Spagna e Portogallo sono state introdotte negli anni 90 misure di reddito minimo di inserimento ispirate al modello francese. Mentre l’Italia, pur avendo sperimentato tra il 1998 e il 2002 il reddito minimo di inserimento, rimane, insieme alla Grecia l’unico paese dell’Europa a 157

a non aver adottato un sistema assistenziale attivo in tal senso. Per quanto riguarda i processi di governance, il modello mediterraneo presenta una significativa frammentarietà al proprio interno perché, mentre si assiste negli ultimi anni ad una forte apertura al privato sociale e in particolare alle organizzazioni non profit e alle associazioni di volontariato, il sistema di regolazione delle relazioni tra questi attori ed i soggetti pubblici/istituzionali variano fortemente a livello locale «spaziando da modelli clientelari e populisti a forme più strutturate di governance corporativa o manageriale, in base al contesto

7 Con l’espressione Europa a 15 si fa riferimento al gruppo di Nazioni che costituivano l’Unione europea prima dell’allargamento effettuato nel 2004 e che ha consentito l’ingresso nell’Unione di altri 10 Paesi. Con l’allargamento del 2007 (adesione di Bulgaria e Romania) e del 2013 (adesione della Croazia) i Paesi membri della UE sono complessivamente 28.

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territoriale e subnazionale in cui hanno luogo» (Carbone e Kazepov 2007, pag 135).

1.4 Il sistema di Wefare Italiano

Facendo riferimento alla classificazione richiamata nel primo paragrafo il sistema di Welfare italiano può essere genericamente ricondotto al Modello mediterraneo per la presenza di alcuni caratteri che accomunano il sistema sociale dei paesi del sud Europa, in particolare il familismo, il carattere clientelare delle politiche e la frammentarietà del sistema (Ferrera, 2006), (Bertin e Fazzi, 2010), (Kazepov, 2011).

A questi caratteri se ne aggiunge un altro, che costituisce un aspetto peculiare del nostro sistema istituzionale, e che è dato, soprattutto nel settore delle politiche socio assistenziali, dall’affermazione non tanto di un unico modello nazionale di welfare quanto piuttosto di una molteplicità di sistemi di welfare regionali e territoriali, tra loro profondamente diversi, tanto da configurare il sistema italiano come un sistema a sé nel panorama europeo.

Anche la struttura della spesa sociale (Tab. 1.1, Tab. 1.2), che non ha avuto variazioni significative negli ultimi decenni, ci dà la misura della presenza di questi caratteri. Essa è infatti storicamente assorbita dalla spesa previdenziale e dai trasferimenti monetari a favore di alcune categorie di soggetti a discapito del finanziamento di servizi rivolti alla globalità della popolazione, che rimangono strutturalmente ridotti (Arlotti, 2009), (Migliavacca e Ranci, 2011), (Cerniglia, 2012).

La spesa per i servizi si concentra prevalentemente sui servizi sanitari mentre rimane residuale la spesa per i servizi sociali ed assistenziali, per la famiglia, per la disoccupazione, per l’abitazione, per la vulnerabilità e l’esclusione sociale.

Se si analizzano più da vicino i caratteri che sono alla base del nostro sistema di welfare vediamo come essi, pur traendo origine dalla cultura sociale e politica del nostro Paese degli inizi del 900, permangano alla base delle scelte politiche più recenti.

La scarsa attenzione all’assistenza appare soprattutto riconducibile, secondo opinione largamente condivisa dai vari autori, al familismo del nostro sistema istituzionale, i cui modelli sono radicati nella cultura del paese, e che attribuisce alla famiglia una funzione fondamentale di ammortizzatore sociale e di produzione di servizi di cura, ruolo quest’ultimo specificamente riservato dalla cultura paternalistica e patriarcale del nostro Paese alla figura femminile. Il familismo ha dunque frenato l’affermazione e lo sviluppo di una moderna rete di servizi, soprattutto nel meridione del Paese dove questi elementi culturali hanno maggior peso.

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Tab.1.1 Spesa per la protezione sociale in Italia nel 2011 ( in milioni di €)

Settori % Spesa

Previdenza 67,2% 280.761

Sanità 24,9% 105.418 Di cui 47% per assistenza ospedaliera 13,2% per servizi sanitari 9,6% per farmaci

Assistenza 8,0 % 32.886

Di cui 3/4 per prestazionii in denaro e di queste il 45,3% in pensioni di invalidità per un importo pari a 14.904 milioni

Dati elaborati da Ministero del lavoro e delle poltiche sociali (2012)-Rapporto sulla Coesione Sociale, p.51

Tab.1.2 Anno 2011- Spesa per la protezione sociale in Italia comparata con quella dell’Europa a 15 in % sul totale della spesa

2011

Prestazioni contro

l’esclusione Politiche contro

la disoccupazione Politiche per la famiglia

Italia 0,1% 2,9% 4%

Media

U.E 1,4% 5,9% 7,7%

Dati elaborati da Ministero del lavoro e delle politiche sociali (2012) Rapporto sulla Coesione sociale anno, p. 50

Dobbiamo comunque evidenziare come alla dimensione culturale abbia corrisposto un orientamento ambivalente e strumentale della Politica che ha sempre attribuito alla famiglia un ruolo ed una responsabilità centrale nel sostegno alle fragilità sociali, senza supportarla adeguatamente in questa funzione. Le misure di sostegno alla famiglia, infatti, si sono limitate nel tempo a trasferimenti monetari in forma diretta, attraverso pensioni e sussidi, ed in forma indiretta, attraverso il complesso e frammentato sistema delle detrazioni fiscali8, mentre si è cristallizzata nel tempo l’assenza strutturale di servizi.

Solo nel 1999 sono state adottate, per la prima volta, misure economiche specifiche per le famiglie: la sperimentazione del reddito minimo di inserimento, approvata con il D.L. n 237/1998, con l’obiettivo di colmare la distanza del nostro sistema rispetto agli altri Paesi

8 Il sistema delle detrazioni fiscali, in assenza di una cornice organica, perde nel tempo il valore iniziale di strumento fiscale per acquisire, unitamente agli assegni familiari, quello di strumento di politica per la famiglia, e diviene progressivamente uno strumento sempre meno adatto a garantire un idoneo sostegno alle famiglie perché costituisce un beneficio economico solo per chi deve pagare le imposte e non ha alcun effetto sugli incapienti che costituiscono una platea di soggetti in aumento (Guerra, 2011)

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Europei, fu avviata nel biennio 1999/2000 e poi estesa ai due anni successivi ma non è stata mai, finora, portata a regime, anche per l’intervento della riforma del titolo V della Costituzione che ha attribuito, anche in questa materia, la competenza esclusiva alle Regioni, salva la definizione dei Liveas da parte dello Stato. Nel 1999 fu introdotta anche la misura dell’assegno economico ai nuclei familiari numerosi (con almeno tre figli) con basso reddito, l’unica misura assistenziale espressamente riservata alla famiglia e che permane attualmente sull’intero territorio nazionale.

Il carattere clientelare delle politiche sociali del Welfare italiano è sottolineato da diversi autori. Per Ferrara (2006, p. 47) le sue origini sono riconducibili alla peculiarità della storia italiana del secondo dopoguerra, fortemente condizionata dalla presenza di un «governo dei partiti, in un contesto di alta polarizzazione ideologica tra desta e sinistra e bassa statualità». In questa cornice il welfare della Prima Repubblica assume i connotati di un «sistema di potere» ampiamente utilizzato da «una partitocrazia distributiva» ai fini dell’acquisizione del consenso elettorale e di adesioni, attraverso modalità particolaristico clientelari. Ascoli(1999) parla di un clientelismo di tipo categoriale-corporativo, che caratterizza il sistema di welfare nel suo complesso e di cui si trova facile evidenza nel sistema previdenziale, soggetto nel corso degli anni a una quantità impressionante di aggiustamenti normativi, volti ad affermare particolari garanzie a vantaggio di categorie diverse. Ascoli afferma inoltre che l’utilizzo delle prestazioni del sistema di welfare nell’ambito di meccanismi di scambio politico-clientelare ha nel tempo trovato attuazione non solo « […] al livello alto del Parlamento […]» ma anche «[…].in un circuito “basso” di manipolazione clientelare popolato di attori collettivi quali le organizzazioni sindacali, i partiti politici, le burocrazie pubbliche periferiche» (Ibidem, p. 219-220). Efficacemente descrive come tale meccanismo abbia avuto la sua più evidente manifestazione nei processi di gestione del riconoscimento della pensione di invalidità, negli anni a cavallo tra la fine degli anni 60 ed il 1984, anno di riforma della legge sulla pensione di invalidità. In tali processi si attribuiva e si incentivava il “ruolo promozionale” dei Patronati, strettamente legati alle Organizzazioni Sindacali, e si attribuiva alle OO.SS stesse, che hanno peraltro una forte relazione con le principali formazioni politiche, un’importante funzione di partecipazione al Comitato Provinciale INPS, dove la pratica veniva valutata. Nel 1974 l’Italia aveva più pensionati per invalidità che per vecchiaia e se, dopo la riforma del 1984 fino al 1990, le pensioni di invalidità erogate dall’INPS calano di 712.000 unità, nello stesso periodo aumentano di 510.000 unità le pensioni di invalidità concesse dal Ministero degli Interni (Ibidem).

L’altro carattere del nostro sistema di welfare, cioè il particolarismo, trae origine dal peso principale che la spesa previdenziale ha storicamente assunto, determinato dall’avvio nel 1898 delle prime assicurazioni sociali obbligatorie, basate sul modello Bismarckiano-occupazionale. Queste sono state le prime misure di protezione sociale decise dallo Stato e rivolte a determinati

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gruppi sociali; da lì in poi lo Stato Sociale avrà sempre a riferimento, per i suoi interventi pubblici, una categoria o un gruppo, con prestazioni differenziate a seconda dei soggetti a cui si riferiscono e con una particolare propensione ad elaborare programmi sulla base dello status acquisito con la partecipazione al mercato del lavoro. Come precisa Ascoli

[ ] il pregiudizio anti-cittadinanza, anti-universalistico, così come una cultura dei diritti conquistabili solo con la partecipazione al mercato del lavoro regolare, hanno sempre albergato profondamente nella cultura italiana, in generale, e in quella riformista, in particolare (Ibidem, p. 218)

A tutt’oggi la base della protezione sociale nel nostro Paese è ancorata alla posizione lavorativa e ciò fa sì che l’attuale crisi del mercato esponga più facilmente le famiglie alla povertà e alla esclusione sociale.

Secondo Ferrara (2006, p 45) all’interno del sistema di welfare previdenziale si afferma anche una «distorsione di natura distributiva, che si manifesta nella diversità di criteri per l’accesso alle prestazioni e nella differente generosità delle stesse fra le diverse categorie occupazionali: un divario di prestazioni, tale da creare gruppi sociali molto garantiti, altri semi garantiti e altri assolutamente non garantiti. Di questo ultimo gruppo fanno storicamente parte i lavoratori occupati nell’economia sommersa, in particolar modo diffusa nel meridione, ed oggi anche i lavoratori soggetti alle nuove regole della flessibilità e alle nuove tipologie contrattuali atipiche che, impossibilitati ad acquisire una condizione occupazionale stabile nel mercato del lavoro, non hanno alcuna forma di tutela in caso di perdita della occupazione. Lo stesso criterio contributivo, alla base del sistema previdenziale italiano, è rimasto a lungo valido solo in termini teorici (almeno sino all’attuazione dei più recenti provvedimenti di riforma) ed ha determinato un’iniqua redistribuzione del reddito, garantendo un vantaggio ai ceti sociali più ricchi e privilegiando alcune categorie rispetto ad altre: dipendenti pubblici, artigiani, coltivatori diretti, hanno potuto usufruire di meccanismi di calcolo superiori ai criteri di equità attuariale e ricevere di più rispetto a quanto contribuito (Carbone e Kazepov, 2007).

L’unico elemento di rottura in quella che Ascoli (1999, p. 217) definisce «la cultura lavoristica e occupazionalistica del sistema di previdenza sociale» è costituito dall’istituzione della pensione sociale nel 1969: questa è l’unica forma di tutela che il nostro sistema prevede a favore del cittadino divenuto anziano, senza aver maturato con il proprio lavoro il diritto alla pensione. La pensione sociale comunque, insieme ai trattamenti pensionistici minimi, si manterrà sempre su un livello vicino alla soglia di povertà, mentre i trattamenti di pensione privilegiati, garantiti ad altre categorie di soggetti, contribuiranno nel tempo in modo significativo all’espansione della spesa previdenziale. I caratteri di categorialità/frammentarietà

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del sistema previdenziale e di non equa redistribuzione determinano quindi nel tempo il peso preponderante della spesa previdenziale sul complesso della spesa sociale, trasferendo inoltre sulle nuove generazioni il costo dell’indebitamento pubblico necessario. Il percorso di riforma del sistema previdenziale, iniziato con la riforma Amato del 1992, ha progressivamente eliminato parte degli elementi di “criticità” del sistema pensionistico italiano (sopprimendo le baby pensioni, aumentando l’età del pensionamento, modificando il sistema di calcolo, dal retributivo al contributivo, riducendo la generosità delle prestazioni e introducendo la previdenza integrativa) e ridotto la spesa pubblica ad esso destinata, ma ha spostato interamente sull’individuo i rischi legati all’assicurazione contro la vecchiaia.

Il nuovo sistema previdenziale, riformato con notevole ritardo, in un quadro economico e produttivo profondamente mutato, in un mercato del lavoro caratterizzato dalla precarietà e dalla diffusione di contratti atipici, sembra infatti destinato a creare nuove e gravi ineguaglianze. E’ evidente la difficoltà che hanno i giovani ed i lavoratori atipici ad accedere alle prestazioni di previdenza integrativa (dati i bassi salari) e a maturare, sulla base del nuovo sistema contributivo, rendite pensionistiche adeguate, in ragione del prolungamento dei periodi non lavorativi a cui sono costretti dalla attuale crisi occupazionale. Appaiono inoltre destinate ad aumentare le distanze fra il livello medio delle pensioni da lavoro erogate al Nord e al Sud, in conseguenza dei diversi mercati del lavoro. Nel complesso il nuovo sistema previdenziale sembra destinato a far lievitare il rischio povertà tra i futuri pensionati: le simulazioni danno per il decennio 2040-2050 una quota fra il 40% ed il 50% di pensionati da lavoro sotto la soglia di povertà (Natali, 2011, p. 77).

Alla frammentazione del sistema delle tutele si accompagna la frammentazione territoriale delle politiche socio assistenziali poiché, in assenza di una cornice normativa nazionale di riferimento i servizi si sono sviluppati sull’intero territorio in modo molto disomogeneo, riproponendo anche nel sistema di Welfare il divario tra il nord ed il sud del Paese, divario che si ritrova nei principali aspetti della vita economica ed istituzionale-amministrativa sin dalla unificazione.

Il dualismo territoriale italiano cresce ulteriormente negli ultimi decenni e mostra una distanza sempre più elevata tra nord e sud, sia in termini di sviluppo economico, sia in termini di qualità di welfare. (Fantozzi 2011), (Ferrera 2006). Mentre nelle regioni del Nord si afferma, come dice Ascoli (2011), un sistema di welfare più vicino al modello continentale europeo, con una maggiore estensione dei servizi e con una loro migliore qualità, «[…] con burocrazie pubbliche e governi locali maggiormente attrezzati ad affrontare le nuove sfide (anche di fronte ai rilevanti processi di decentramento ormai avviati con decisione)[…]» (p.307), nel Sud, dove maggiore è il bisogno di un welfare produttore di regolazione sociale e di benessere, i servizi sono scarsamente presenti e di bassa qualità, e prevale un sistema fortemente condizionato dal

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