Il tema della categorizzazione e frammentazione (cfr. 1.4), che è uno degli aspetti che maggiormente condiziona la storia del welfare italiano, riaffiora ripetutamente nella ricerca, durante l’analisi dei percorsi e delle modalità di presa in carico, mostrando la sua stretta relazione con il tema della integrazione.
La normativa regionale toscana, n 41/2005, “Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale”, riprendendo gli indirizzi dettati dalla legge 328/2000, sembra delineare un sistema di welfare a carattere universalistico-selettivo, dal momento che afferma, all’art 2, il carattere di universalità del sistema, e precisa, all’art. 7 com. 6, che l’accesso prioritario agli interventi e ai servizi è riservato «ai soggetti in condizione di povertà o con reddito limitato o situazione economica disagiata ». In realtà contestualmente, al titolo V , introduce un sistema di organizzazione delle politiche sociali basato su categorie di popolazione, di bisogni e di interventi, distinguendo tra politiche per gli anziani, per i minori, per i disabili, per gli immigrati e i nomadi, introducendo quindi da subito nel sistema una contraddizione (non solo di termini) tra universalismo e categorizzazione. Allo stesso modo il principio di selettività annunciato, in assenza di criteri e regole per la sua attuazione, risulta impraticabile. La contraddizione insita tra i principi dichiarati e la pratica, che in ogni caso deriva dalla concreta e possibile attuazione degli indirizzi normativi stessi, ci restituisce un modello assai diverso e distante dagli obiettivi ambiziosi dichiarati nel titolo della normativa. I servizi sociali territoriali si sono quindi strutturati sulla base di tali indirizzi e l’organizzazione nel territorio del Valdarno si è articolata in settori corrispondenti alle diverse categorie di popolazione individuate dalla normativa regionale: anziani, minori e famiglie, adulti e disabili. L’erogazione dei servizi e delle prestazioni stesse è organizzata per categorie e produce progetti di intervento sulle situazioni individuali e familiari che faticano a tenere insieme una visione orientata ai principi del Social Investment, realmente capace di intercettare e quindi agire sui rischi del ciclo di vita e sui rischi intergenerazionali. L’organizzazione del sistema dei servizi, strutturata sulla base di categorie di popolazione e categorie di prestazioni, è meno predisposta ad un approccio preventivo ed olistico, che guardi all’individuo e alla famiglia secondo il ciclo di vita e non per categorie e bisogni frammentati (cfr.3.1).
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della categorizzazione dei bisogni e degli interventi, con la convinzione che essa esprima la prevalenza di una cultura specialistica che pervade, evidentemente, non solo i servizi sanitari ma anche quelli sociali. Ma la specializzazione, pur mettendo in campo operatori esperti, dotati di maggiore competenza e qualificazione, se non è accompagnata da un’operazione costante di riflessività del sistema sul suo stesso operare, rischia di produrre barriere, ostacolare l’effettiva attuazione di percorsi integrati e non consente di raggiungere l’obiettivo dichiarato di rispondere in modo più efficace alle domande delle persone. Accade infatti che, nell’ambito degli stessi servizi socio assistenziale espressi dalla SDS, l’integrazione non trovi così’ facile attuazione. L’articolazione dei servizi sociali della Società della salute Valdarno Inferiore in Unità Operative corrispondenti a settori diversi di popolazione non è stata affiancata dalla previsione di necessari momenti di raccordo e di integrazione tra le stesse UOS, e tra queste ed i servizi socio sanitari, per la gestione di situazioni multiproblematiche o di particolare complessità, fatta eccezione per quanto previsto da normative specifiche di settore. In realtà il regolamento di organizzazione della SDS Valdarno Inferiore prevede, all’art. 16, l’attivazione di Gruppi operativi di progetto per specifici percorsi assistenziali, per la progettazione di percorsi assistenziali complessi, che coinvolgano più tipologie di operatori professionali o più target di popolazione, ma il dispositivo dell’articolo limita di fatto l’attuazione di queste modalità di integrazione a specifici progetti a carattere sperimentale ed innovativo: e infatti un gruppo operativo di progetto trasversale alle due SDS Valdarno Inferiore e Empolese Valdelsa è stato attivato per il coordinamento e l’attuazione del Progetto per la non autosufficienza, che ha appunto avuto finora un carattere sperimentale.
L’assenza di modalità di relazione strutturata tra i percorsi assistenziali che fanno capo alle tre Unità Operative Semplici, la mancata previsione di spazi strutturati di comunicazione tra i diversi operatori e di riflessività condivisa tra le tre strutture organizzative, sembra quindi condizionare in modo importante l’aspetto cruciale dell’integrazione all’interno dello stesso servizio sociale professionale. Le relazioni tra gli operatori delle diverse Unità Operative sono tenute insieme sulla base della disponibilità dei singoli operatori e questo incide sulla capacità del servizio nel suo insieme di mettere in circolo le informazioni, le riflessioni sulla pratica e sulla metodologia, di creare connessioni e contribuire alla formazione di una nuova dimensione culturale del modello di servizi.
La complessità dei nuovi rischi sociali, in un sistema di welfare nazionale e territoriale che si basa sulla “delega alla famiglia” e la contrazione stessa delle risorse disponibili, richiamano invece la necessità del rafforzamento della dimensione dell’integrazione sia nella struttura organizzativa sia nell’operatività. Di questo gli operatori appaiono consapevoli e ne sottolineano la necessità con la prospettiva di introdurre, proprio attraverso l’integrazione, elementi significativi ed efficaci d’innovazione del sistema dei servizi. La complessità dei nuovi bisogni,
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unita alla ridotta disponibilità di risorse, richiede una risposta altrettanto complessa che dovrebbe declinarsi in una diversa e rinnovata gestione delle risorse “organizzative”, tale da favorire percorsi costruiti sulla persona, che rendano più agevole una valutazione integrata del suo contesto di vita, della sua storia personale e familiare, delle sue necessità e delle sue risorse, che facilitino l’integrazione di più competenze professionali e l’integrazione di diverse misure di intervento.
Il primo focus ha evidenziato come proprio i servizi per la non autosufficienza, dove la dimensione sociosanitaria è prevalente, rappresentino l’ambito nel quale, in misura maggiore, il principio dell’integrazione ha trovato un buon livello di attuazione. L’attività di 6 anni nell’ambito del progetto per la non autosufficienza, anche grazie alla struttura formale delineata dalla normativa regionale, ha costituito un buon terreno di incontro tra i servizi sociali aziendali e servizi sociali dei comuni e più in generale tra servizi sociali e servizi sanitari. La condivisione di percorsi e di spazi operativi comuni, nella quotidianità del lavoro, ha reso possibile una “reale” comunicazione, contribuendo anche a produrre un vissuto di “comune appartenenza”, indipendentemente dall’ente istituzionale di provenienza. Ciò è vero soprattutto per gli operatori del Servizio Sociale professionale della ASL 11 (coordinamento e gestione servizi residenziali e semiresidenziali e liste di attesa, Servizio Sociale Ospedaliero) e della U.O.S Anziani della SDS Valdarno Inferiore, coinvolti alla stessa stregua nei percorsi integrati sulla non autosufficienza; altrettanto si può dire per gli operatori che compongono la UVM (medico attività sanitarie distrettuali, assistente sociale UOS Anziani SDS e servizio infermieristico USL). Mentre continua ad essere difficile la relazione con quegli operatori, soprattutto sanitari, che non fanno stabilmente parte della struttura ma sono comunque chiamati a collaborare e cooperare con essa: medici di medicina generale, specialistica, reparti ospedalieri8. La motivazione principale di questa minore disponibilità probabilmente è riconducibile proprio alla prevalenza, nell’ambito del sistema culturale istituzionale, di quella dimensione sanitaria-medicalizzante e specialistica, a cui prima si faceva riferimento, che ancora non consente di apprezzare le opportunità offerte dall’integrazione fra la dimensione sanitaria e sociale nella lettura del bisogno e nella operatività. Sarebbe quindi auspicabile un investimento della struttura organizzativa, USL in particolare, finalizzato a promuovere specificamente tra gli operatori sanitari una sensibilizzazione e riflessione su questo aspetto.
Sulla scorta dell’esperienza condotta dal servizio sociale della Unità operativa anziani,
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Fatta eccezione per alcune realtà organizzative maggiormente coinvolte, in ragione della loro specificità, nelle attività del “Progetto per la persona non autosufficiente”, quali per esempio la “UOC di Cura e Riabilitazione delle fragilità” Con essa è costante l’attività di raccordo degli operatori della UVM per la gestione delle dimissioni ospedaliere e per l’attivazione di misure finalizzate alla stabilizzazione clinica del paziente, al recupero funzionale e rientro a domicilio o nell’ambiente più idoneo quando l’opzione domiciliare non è possibile per problemi clinici e/o fragilità sociale.
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nell’ambito dei percorsi rivolti alla non autosufficienza, gli sforzi di integrazione fra le tre Unità Operative della SDS potrebbero concentrarsi proprio sul percorso di valutazione del caso, immaginando un nuovo modello organizzativo che preveda un intervento congiunto degli operatori delle diverse U.O., e sulla presa in carico, attraverso la designazione di un case manager principale, che abbia il compito di tenere insieme i fili dell’attività integrata sul caso, evitando il rischio della «spersonalizzazione dell’intervento». Un’organizzazione ed un metodo di lavoro di questo tipo ci consentirebbero di realizzare una maggiore relazione tra le risorse, tra le strategie, di personalizzare l’intervento, aumentando la capacità di risposta e riducendo, almeno in parte, i vincoli dati da risorse riferite ad ambiti di intervento separati e dalla frammentazione dell’organizzazione. Ciò consentirebbe, come dice Gori (2014), di evitare processi di «frammentazione» degli interventi e favorire invece «[…] percorsi di messa in condivisione, per la migliore riuscita dell’intervento a favore della persona[….]» (p. 198). L’estensione del disagio sociale ed economico, determinato dalla crisi, aumenta il numero di richieste nei confronti dei servizi ed il carico di lavoro degli assistenti sociali; al tempo stesso la complessità dei bisogni richiede un maggiore investimento di tempo nella relazione operatore- persona. Nel lavoro degli Assistenti Sociali la relazione con il cittadino ha un rilievo cruciale sia nella fase della valutazione e definizione progettuale sia nella fase di attuazione degli interventi. La condizione di “fragilità sociale” potrà infatti essere letta in modo efficace solo se l’operatore avrà il tempo e lo spazio mentale per il necessario “ascolto”, se avrà il tempo per leggere questa fragilità nel contesto di vita individuale e familiare, cercando di capire quali eventi, e come, hanno inciso o potrebbero incidere sull’equilibrio individuale, familiare, sul sistema di relazioni. La definizione e attuazione di un progetto di intervento, che non si esaurisca in una semplice erogazione di prestazioni, ma si muova in una prospettiva di promozione del cambiamento e in una logica di rafforzamento delle capacità dell’individuo/della famiglia, di autodeterminazione, e quindi anche di prevenzione, avrà bisogno anch’essa di tempo. Tempo da dedicare, nell’ambito della relazione, alla costruzione di un percorso di fiducia nel quale promuovere e sostenere la motivazione individuale e/o familiare all’assunzione di un ruolo attivo nel progetto stesso; tempo per creare le necessarie connessioni con gli altri servizi, con le risorse attivabili e presenti nel sistema dei servizi, nel territorio. Nel lavoro con le famiglie di anziani non autosufficienti, per esempio, sarà possibile ottenere un maggior coinvolgimento dei familiari come parte attiva del progetto, non solo condividendo con loro la definizione del progetto assistenziale, ma anche sostenendoli in percorsi finalizzati ad acquisire maggiori competenze, offrendo loro strumenti per il contenimento dello stress e dell’ansia.
Ma gli operatori testimoniano quanto un maggiore investimento di tempo sia difficilmente conciliabile con un sistema orientato al risparmio, alla standardizzazione. Il registro culturale
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burocratico e amministrativo che informa il sistema dei servizi, gli aspetti organizzativi, finiscono per condizionare e strutturare il punto di vista degli operatori, incidendo in modo importante sul loro approccio alle storie di vita personali, e non favoriscono un approccio orientato al Social Investment. Infatti la standardizzazione del lavoro (prevalente nei servizi rivolti alla non autosufficienza), l’esiguità delle risorse, anche quelle professionali da dedicare alla relazione operatore-persona, che caratterizza tutti i servizi, «influenzano il nostro modo di guardare le storie personali», dicono gli operatori quando devono spiegare perché, nell’ambito del primo focus, abbiano, inizialmente, sottovalutato i rischi sociali di una certa importanza presentati dalle vignette utilizzate nella ricerca (cfr. 3.3.1).
L’utilizzo ripetuto delle procedure standardizzate, l’attenzione eccessiva ai tempi di risposta, sacrificano la dimensione relazionale della presa in carico e spingono l’operatore ad un approccio che sembra penalizzare la dignità e la peculiarità del lavoro sociale. Le risorse di “tempo lavoro”, già esigue, sono ulteriormente depauperate dall’incremento di compiti di tipo burocratico amministrativo, e diminuisce ulteriormente lo spazio da dedicare alla relazione, alla lettura e alla analisi e interpretazione del bisogno, che pure è fondamentale in un’ottica di prevenzione e gestione efficace degli interventi.
Gli operatori, soprattutto quelli che lavorano con le situazioni di disagio sociale ed economico espresse dai singoli e dalle famiglie, dichiarano quindi di prendere prevalentemente in carico le situazioni più drammatiche, connotate dal carattere dell’emergenza e dell’urgenza, lasciando indietro «criticità e fragilità che, non sostenute oggi, diverranno nuove emergenze domani». Sembra profilarsi un ulteriore registro del modello culturale ed organizzativo del sistema, quello che Saruis (2008) definisce come il “paradigma dell’emergenza”.
Il paradigma culturale ed organizzativo “dell’emergenza” verrebbe a creare nella prospettiva dell’operatore una discrepanza tra mandato professionale, orientato ad incidere al meglio sulle condizioni del richiedente, a rispettarne tempi e valorizzarne risorse, e mandato istituzionale, orientato all’efficienza nell’impiego delle risorse, al taglio dei costi, anche a scapito dell’efficacia. Un paradigma basato sulla figura di un operatore “disagiato”, impegnato ad affrontare le proprie difficoltà, piuttosto che quelle di chi si rivolge al servizio. Un operatore impegnato in un compito impossibile, con strumenti inadeguati, esposto a pressioni di varia provenienza e, pertanto a rischio di burn-out .[…]
In questa situazione il rischio è che “gli operatori optino per la passività, adeguandosi allo stato delle cose, costruendosi nicchie di sopravvivenza, cercando nella salvaguardia della propria esperienza professionale il senso del proprio agire; affidandosi [….] all’assunzione di responsabilità limitate, dove il campo delle competenze specialistiche e dei protocolli delimita lo spazio entro cui intervenire.(pp.13-14).
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La cultura che informa il sistema dei servizi condiziona la loro operatività e l’approccio nei confronti degli individui e delle famiglie. Accade così che il modo di rapportarsi alla famiglia sia diametralmente opposto nel caso in cui l’istituzione guardi ad essa come un necessario “strumento” per l’adempimento da parte del servizio pubblico della sua funzione di supporto (come nel caso degli interventi previsti a favore della non autosufficienza) oppure nel caso in cui la si guardi come un problema, quando la famiglia si rivolge all’istituzione per chiedere aiuto nei momenti di difficoltà che incontra nel percorso di vita. Nel primo caso l’approccio sarà orientato complessivamente alla famiglia-sistema, con un’osservazione attenta alle relazioni e alle risorse e alle criticità, ma con l’obiettivo prevalente e dichiarato di capire quali e quante risorse possano essere reperite al suo interno ed “utilizzate/ finalizzate” all’assunzione, da parte della stessa, più ampia possibile, della funzione di cura; un approccio dunque di tipo ”strumentale”. Nel secondo caso, per tutte le ragioni già viste in precedenza, la risposta prevalente sarà quella dell’approccio categoriale al bisogno, della specializzazione e della risposta frammentata.
Il modello culturale che informa il sistema di welfare non condiziona soltanto l’operatività dei servizi ma, in un percorso circolare, contribuisce anche ad informare il modello culturale del sistema sociale a cui si rivolge. Le famiglie infatti, complice anche la crisi economica, a fronte di un servizio pubblico che ritrae progressivamente il proprio investimento da una azione di supporto, a fronte di servizi privati di cura sempre più costosi, rinunciano ad avanzare la richiesta di un riconoscimento del proprio diritto a servizi di supporto. In un percorso circolare di rinforzo del carattere familistico del nostro modello istituzionale e culturale le famiglie gestiscono in autonomia i loro problemi, finchè questi non assumono un carattere emergenziale che le obbliga, a quel punto, ad avanzare richieste a cui i servizi, a loro volta, sempre più rispondono con un approccio emergenziale.