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Napoli e l’idea di zona franca nella città contemporanea

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Academic year: 2021

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osservatorio italiano

Paola De Vivo

Napoli e l’idea di «zona franca»

Può contribuire uno strumento come quello della zona franca urbana al rilancio di Napoli, una città che sembra alle prese con un incessante declino che ne ostacola il cammino verso forme evolute di organizzazione sociale, politica ed economica? Sino a che punto il carattere innovativo che permea questa forma di intervento può concretamente aiutare la città a ricollocarsi nello scenario nazionale e internazionale?

L

a rivalutazione del ruolo della città nei processi di sviluppo economico e negli scambi internazionali ha dato luogo negli ultimi anni alla proliferazione di una letteratura specialistica, che si è essenzialmente soffermata su tre piani di analisi: la ridefinizione delle modalità di relazione che intercorrono tra la ristrutturazione dello Stato nazionale e i governi regionali e locali, l’europeiz-zazione, il fenomeno della globalizzazione. Sicuramente è possibile affermare alla luce delle acquisizioni che emergono dai molteplici studi sulle città, che queste ultime vivono, in particolare in Europa, un periodo di declino non congiunturale. Oggi si avverte la necessità di recuperare su questo versante ed è in corso un processo di riabilitazione anche culturale delle potenzialità dei centri urbani, con le città che vengono presentate e percepite come i luoghi nei quali si condensano i principali presupposti sociali per affrontare la competitività mondiale.

L’attenzione dedicata ai problemi delle città, dopo un periodo di scarsa con-siderazione goduta dalle politiche urbane, dovuta peraltro all’affermazione in molti Paesi di una corrente politica ispirata a un’impostazione di stampo neo-liberale, è ripresa con l’espansione economica di settori – dalla finanza all’edito-ria sino alla comunicazione – nei quali l’innovazione nelle conoscenze e nelle tecnologie è fondamentale e necessita di essere continuamente riprodotta.

I fenomeni di ristrutturazione spaziale dell’economia hanno contribuito all’ulteriore sviluppo di vere e proprie città «globali», caratterizzate da una forte capacità attrattiva, che hanno ridisegnato la geografia urbana intessendo reciprocamente delle complesse relazioni di scambio. In questa generazione di nessi funzionali e di sinergie interplanetarie, ciascuna città ha poi sviluppa-to una «competenza distintiva», denotando un percorso di sviluppo originale, che si traduce spesso in una specializzazione in particolari attività economi-che, produttive e dei servizi.

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Nella rete che si è costituita tra le maggiori città del mondo, si rinviene la posizione che esse hanno raggiunto, rispetto alle altre, nella divisione interna-zionale della produzione, del lavoro, della cultura. Si comprende, altresì, come questa fitta e intesa rete di scambi sia espressione essa stessa del grado di strutturazione raggiunto dal capitalismo a livello globale. Le città che predo-minano nello scenario internazionale sono quelle la cui performance competitiva è migliorata grazie alle capacità di governo delle elite politiche e amministrati-ve urbane, che hanno sapientemente dosato riforme nelle politiche economi-che con ingenti investimenti nel campo delle conoscenze e della formazione, predisponendo programmi d’intervento pubblico basati su una combinazione di strumenti tra loro strettamente integrati: incentivi per la diffusione e l’uti-lizzo di tecnologie innovative, per l’attrazione di investimenti e di capitale fi-nanziario dall’estero, per la formazione e lo sviluppo di capitale umano. Il punto è che il protagonismo delle città globali non si è arrestato davanti alla crescita economica; le amministrazioni locali più lungimiranti si sono in verità servite dell’incremento di risorse finanziare derivati da quest’ultima, ricollocando e destinando i profitti aggiuntivi a investimenti per le opere pub-bliche. La crescita economica ha così avuto un’altra funzione di stimolo nei processi di sviluppo urbano, contribuendo all’incremento della costruzione di infrastrutture civili, al mantenimento e all’ammodernamento dell’arredo ur-bano, alla riqualificazione d’intere aree, il cui degrado può compromettere od ostacolare un’ulteriore espansione del mercato.

Napoli è alla ricerca di una propria collocazione nella gara competitiva che si è aperta tra le città internazionali e nazionali. In fondo, ormai da più di tre lustri, anche in questa città si discute di politiche per la riqualificazione urbana, giungendo a formulare diverse ipotesi, concepite per intraprendere delle azioni finalizzate alla rigenerazione e al rilancio della città. Espressione di un tale fermento politico e culturale sono le numerose proposte avanzate per ridare ossigeno alla città: dalla definizione di un modello di pianificazione strategica alla riorganizzazione delle sue funzioni e competenze politiche e amministrative, con la riforma delle municipalità; dallo studio dei nessi funzionali del capoluogo con l’area metropolitana, una riforma mai decollata, sino al rapporto con le altre città della stessa regione.

A fronte degli sforzi profusi dall’amministrazione cittadina, il decollo auspicato nello sviluppo stenta a innescarsi; vi è anzi un dualismo di fondo che impronta il processo di ristrutturazione urbana e il più complessivo ridisegno spaziale di questa città: è come se due movimenti antagonisti la spingessero in una direzione opposta. Da un lato, la sua collocazione a livello internazionale è del tutto marginale, mentre, dall’altro, essa è in una posizione di predominanza nella regione, che la configura addirittura come gerarchicamente superiore, rispetto agli altri capoluoghi di provincia (Salerno, Caserta, Avellino, Benevento). Alla supremazia di Napoli in termini di abitanti, di dotazione di servizi e di funzioni direzionali si contrappone però la crescita in città di una tensione, sempre più avvertita e percepibile dalla cittadinanza, relativa alla sostenibilità territoriale, ambientale e sociale e alle scadenti modalità di fruizione degli spazi e delle strutture urbane.

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Una delle cause che, almeno in parte, spiega la persistenza nel tempo di un tale dualismo, va ricercata nel fatto che Napoli è completamente esclusa dal circuito che connette a livello nazionale le città più rilevanti, strategiche e cen-trali per lo sviluppo economico del nostro Paese (Milano, Torino, Roma). Le altre città italiane hanno trovato, o stanno cercando sul serio, una loro specifi-ca identità e specializzazione nei specifi-cambiamenti che hanno attraversato il specifi- capi-talismo italiano e globale, mentre Napoli stenta a relazionarsi con esse perchè non riesce ad esprimere una sua precisa dimensione identitaria e, perciò, nep-pure a individuare un proprio tratto distintivo. È città di mare, è città post-industriale, è città d’arte, è città tuttora alla ricerca di un processo d’industria-lizzazione. A ben osservare, è tutto e niente allo stesso tempo.

Il risultato è che nella sfida tra quelle che sono definite le lepri del capita-lismo – le città – e le tartarughe statali, Napoli si ritrova affannosamente a correre senza avere una meta precisa da raggiungere. Le politiche urbane fini-scono, in tal modo, per indebolirsi ulteriormente, perchè chiamate a far fronte a una duplice sfida. Da un lato, mantenere le città all’avanguardia di un’eco-nomia sempre più mondializzata e competitiva; dall’altro, fare i conti con i ritardi accumulati, con il degrado urbano preesistente. Se è vero che nel ridisegno complessivo di tali politiche entrambe le sfide sono accolte e consi-derate come normali per lo sviluppo di un qualsiasi ambiente urbano, nel caso di Napoli, la priorità dell’azione di governo, il suo principio fondamentale, rimane colmare il ritardo che si è accumulato sul fronte dell’ammodernamento delle infrastrutture fisiche e, soprattutto, della formazione e della valorizzazione di risorse civiche. Bisogna, però, evitare il rischio di entrare nella trappola della dipendenza dalle condizioni di partenza, che finisce per divenire un alibi che frena le stesse ipotesi di trasformazione urbana e di ricerca di modelli d’innovazione politica e amministrativa. In che modo si può allora sfuggire a una tale trappola?

L’esperimento francese e le politiche territoriali italiane

Per rispondere all’ultimo interrogativo posto vale la pena riprendere il secon-do filo del ragionamento, quello che si articola su di un terreno più propria-mente empirico-operativo. Naturalpropria-mente, a questo punto il discorso ritorna inevitabilmente sull’istituzione in città della zona franca. Iniziando a esplorare la logica di sviluppo a cui è ispirato lo strumento, ben si capisce come esso è particolarmente adeguato per la cura sociale di quelle situazioni di marginalità che vivono principalmente le periferie urbane di grandi e medie città. Uno degli obiettivi che questa tipologia d’intervento si propone di realizzare è, in-fatti, quello di coniugare risanamento ambientale e urbanistico, crescita eco-nomica e integrazione sociale. È anche vero che, a ripassare soltanto mental-mente le proposte di politica economica e gli sviluppi delle politiche urbane di questi ultimi quindici anni, sembra quasi di assistere a un ritorno al passato. Proposte di politiche integrate che hanno assunto la complessità del territorio come elemento fondante dei programmi d’intervento, non sono di certo man-cate nel nostro Paese. Appare quasi superfluo ricordare l’abbondante offerta di forme di sperimentazione avviate con la stagione della programmazione

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negoziata, oppure con la progettazione integrata, o, ancora, con i programmi Urban, con i contratti di quartiere e così via.

L’avanzamento che si registra attraverso il dispositivo della zona franca urbana è notevole, poiché esso deve la sua origine a un’estrazione culturale e risponde a una matrice di contenuti la cui natura è senz’altro diversa rispetto a quanto abbiamo già, con esiti altalenanti, realizzato in Italia. Vi sono almeno tre aspetti da richiamare all’attenzione per rendersi conto del perché questo strumento affina e al contempo rielabora presupposti e insegnamenti emersi dalle precedenti politiche territoriali. Il primo è che riprende un’esperienza che ha dato degli esiti positivi in contesti urbani, come quelli francesi, affetti da problematiche sociali ed economiche non del tutto dissimili da quelle na-poletane. Il secondo è che riprende il tema della fiscalità di vantaggio, uscen-do fuori degli steccati troppo angusti degli incentivi diretti e automatici desti-nati prioritariamente alle imprese locali, rilanciando inoltre il ruolo interna-zionale della città attraverso la cattura di investimenti esteri. Il terzo rinvia alla costruzione sociale e istituzionale di pratiche innovative per implementare programmi di sviluppo, un tema che ha goduto di una certa fama nella lettera-tura specialistica, grazie a un filone di studi che si è soffermato soprattutto ad analizzare gli esiti di casi di «successo», ma dal quale non si è riusciti del tutto a trarre il necessario insegnamento, tanto che a tutt’oggi manca un «protocol-lo» che definisca degli standard minimi per l’attuazione delle stesse politiche territoriali.

La sperimentazione avvenuta in Francia rimane una pietra miliare di rife-rimento, sebbene vi siano altre nazioni che hanno dato luogo a esperienze simili. Ai nostri fini, è qui sufficiente accennare ai processi di trasformazione urbana intervenuti in contesti particolarmente disagiati di città francesi, se non altro perché, come si è appena detto, alcune delle condizioni socio-econo-miche di partenza delle zone in cui si è adottato lo strumento appaiono in parte analoghe a quelle che si rintracciano nella realtà napoletana. In Francia, dove il dispositivo è stato introdotto ormai da dieci anni, le zone franche urba-ne1 sono alcuni dei tasselli di un più vasto mosaico composto di un insieme di

politiche urbane, più note come Politique de la Ville. Le zone franche nascono per contrastare fenomeni di marginalità sociale e di segregazione urbana, me-diante un mix appropriato di interventi concepiti per la riqualificazione edili-zia, per avviare programmi di sostegno in campo economico, sociale e occupa-zionale, per sviluppare forme di mobilitazione e di partecipazione alla vita associata da parte degli abitanti del posto, nonché per ridurre i fenomeni di dispersione scolastica diffusi tra i giovani. Una strategia d’azione integrata che ha permesso di raggiungere gli obiettivi che lo strumento si era inizialmente prefisso, con un buon equilibrio tra la spesa pubblica e privata investita e le iniziative realizzate (si calcola che l’impegno finanziario assunto dall’ammini-strazione francese per le zone franche ammonta, al 2005, a ben 530 milioni di euro). Allo stato attuale, se ne contano 100 che insistono su oltre un milione e 600.000 abitanti, all’incirca il 2,6% dell’intera popolazione francese. Le cifre indicate dal ministero per la Coesione sociale, che ha monitorato e valutato l’impatto del dispositivo normativo, attestano una crescita esponenziale del

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numero di imprese in tali zone. In quelle di prima generazione quest’ultimo è praticamente raddoppiato nell’arco di cinque anni (da 11.000 a 21.000 secon-do la Commissione europea e dai rapporti dell’Onzus, Observatorie national des zones urbain sensibles) ed è triplicato il numero dei lavoratori impiegati. Inoltre, la crescita economica delle zone franche urbane di seconda generazio-ne è stata di cinque volte superiore a quella del resto del territorio francese, con effetti molto positivi sull’occupazione (13.900 imprese o stabilimenti inte-ressati dalle esenzioni a fronte di 67.700 lavoratori) e vi sono attese addirittura migliori per quelle della terza generazione (l’obiettivo è di creare 100.000 po-sti di lavoro entro il 2011).

La replicabilità dell’esperienza

Vale la pena riprendere, dopo questo rapido excursus sul caso francese, i con-tenuti delle domande formulate in apertura: si può replicare un esperimento di tale natura a Napoli (e ovviamente in altre realtà urbane del Sud dell’Italia), e, soprattutto, quali scenari sono prefigurabili sul terreno dell’attuazione2?

Naturalmente, è superfluo avvertire che esiste un problema di replicabilità delle esperienze in contesti differenti da quelli in cui si sono verificate: nel campo del sociale «sterilizzare» le variabili di disturbo ambientale è un’uto-pia; soprattutto quando si è impegnati a risolvere delicate problematiche so-ciali – criminalità, lavoro nero e minorile, abbandono ed evasione scolastica – si è sempre alle prese con la questione degli esiti imprevedibili di progetti e di strumenti pianificati «dall’alto». Il processo che origina dal percorso di attua-zione di qualsiasi dispositivo normativo è soltanto parzialmente controllabile secondo un ottica razionalistica, funzionalista o di evoluzionismo sociale. L’uso della comparazione sembra comunque offrire degli spazi per un confronto costruttivo, di certo rimane più complesso indagare in profondità i meccani-smi e le logiche d’azione che inevitabilmente accompagneranno un processo che, per ora, è in fieri. Ciò non blocca del tutto l’esercizio in corso, la prova è quella di rintracciare quegli elementi utili a rimarcare le diversità di fondo che caratterizzano i contesti nazionali e locali che si raffrontano, con il fine di trat-teggiare uno scenario che lasci intravedere gli eventuali punti di blocco e aiuti sin d’ora riflettere sulle loro cause e, soprattutto, sulle soluzioni da individua-re per rimuoverli. Si tratta, insomma, per una volta di cercaindividua-re di giocaindividua-re d’an-ticipo.

In questa prospettiva, un primo aspetto che colpisce dagli indizi che si colgono, riguarda una diversità di significato attribuita alle finalità dello stru-mento dai due governi nazionali. L’azione del governo francese a favore del-l’integrazione sociale sembra puntare molto più decisamente sullo strumento delle zone franche per innescare cambiamenti profondi e duraturi nei quartie-ri urbani: trasformazioni dell’ambiente, sviluppo di servizi pubblici di qualità e dei mezzi di trasporto. Dopo i recenti disordini nelle banlieues, ristabilire un ordine territoriale, e anzi mettere ordine in una situazione sociale che presenta tratti di reale complessità, rimane in Francia una priorità governativa. Che dire a proposito del caso italiano? In Italia, il governo centrale si è impegnato con l’ultima finanziaria approvata a rendere disponibili delle risorse

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che da attivare per risolvere, allo stesso modo, quei fenomeni diffusi di disagio sociale ed economico che caratterizzano le strutture urbane, limitando tutta-via l’intervento «ad aree e quartieri degradati nelle città del Mezzogiorno». Su di un terreno simbolico, si riconosce un’accentuazione, nell’impostazione go-vernativa, maggiormente orientata a tamponare o risolvere le problematiche dell’arretratezza sociale ed economica, piuttosto che a porre al centro del prov-vedimento, come nel caso francese, la questione dell’esclusione sociale. In pra-tica, in Italia, il debolissimo progetto di politica meridionalista ormai esisten-te, comporta che l’azione governativa individui di volta in volta in finanziaria provvedimenti specifici – il cuneo fiscale, le stesse zone franche… – ma un disegno unitario su come aggredire i mali del Mezzogiorno, in verità, continua a scarseggiare. Certo, vedere ridotta la questione meridionale al problema ur-bano, è fuori d’ogni dubbio, davvero troppo limitante. A Milano sono scop-piate delle rivolte urbane dovute a flussi d’immigrazione, come quelli cinesi, neppure recenti, e a Torino vi sono intere zone della città – si pensi a San Salvario – preda di criminalità comune e organizzata. La situazione delle real-tà meridionali non è però paragonabile a quella delle citreal-tà settentrionali, dove si tratta di fenomeni di disagio sociale circoscritti e rapidamente riconducibili sotto l’egida dell’ordine pubblico.

Detto ciò, e investigando adesso l’azione del governo locale, un altro esem-pio che torna utile, ai fini del confronto tra Italia e Francia, è rappresentato dalla scelta degli indicatori per la perimetrazione della zona franca urbana; una scelta non scevra da intrinseche difficoltà e conseguenze sul terreno poli-tico e amministrativo. Fermo restando che anche su quest’aspetto si è nell’at-tesa di conoscere l’esito delle decisioni che saranno prese a livello comunitario e nazionale (ovvero dal Cipe), per Napoli l’identificazione oggettiva dei biso-gni e delle condizioni di partenza dei territori dove insediare un programma di attrazione di investimenti privati e pubblici, non è propriamente scontata. Di là dal dibattito suscitato in città circa le due ipotesi, centro storico e area orien-tale, dove eventualmente localizzare la zona franca, in Francia hanno scelto di delimitare tali zone a quartieri con più di 10.000 abitanti3, selezionandole

at-traverso: a) il tasso di disoccupazione; b) la quota di giovani di età inferiore ai 25 anni; c) il livello di scolarizzazione; d) il potenziale fiscale per abitante. Ora, si tratta di criteri che nella situazione napoletana, e per lo più in quella regio-nale e meridioregio-nale, appaiono per se stessi poco selettivi, nel senso che, pur-troppo, il set di indicatori individuato finisce per caratterizzare quasi unifor-memente la criticità della condizione sociale di interi quartieri cittadini. L’ado-zione di tali criteri non garantisce perciò un’oggettività nella scelta, anche se può divenire una sorta di orientamento più «lasco» che aiuta a discriminare i territori urbani più «sensibili» al disagio sociale e al degrado ambientale. Di sicuro, a volersi soffermare freddamente sull’applicazione dei criteri utilizzati in Francia, si arriverebbe, con ogni probabilità, a scegliere direttamente Scampia4, altro che centro storico o Napoli Est. L’estensione delle aree

fran-che su cui si ipotizza di realizzare l’intervento è, a dir poco, sterminata – il centro storico ha ben 400.000 abitanti – rispetto alle dimensioni previste nel caso francese. Da un certo punto di vista, è in fondo un falso problema quello

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su cui si è appuntata l’attenzione nel dibattito cittadino, sia per le risorse che saranno disponibili – 100 milioni di euro da ripartire, si presume, su quindici zone franche – sia per la perimetrazione, che come si è appena detto, stando all’esperienza francese investirebbe una superficie e una dimensione della po-polazione molto ridotta. Ecco perché vale la pena ritornare a ragionare di più sul quadro di insieme che compone la strategia d’intervento e sul metodo d’at-tuazione, riportando l’analisi agli altri due aspetti interessanti dell’esperienza francese, in primo luogo la questione della fiscalità di vantaggio nelle zone franche e, in seguito, la costruzione delle pratiche per lo sviluppo.

Le opportunità offerte da un regime fiscale e contributivo meno oneroso per le imprese5 è il vero fattore di avanzamento che si registra nelle politiche

territoriali sinora sperimentate in Italia, sebbene un regime agevolato per le imprese per se stesso non è, ovviamente, una novità assoluta nel panorama dei dispositivi e degli strumenti elaborati per promuovere e stimolare la crescita economica e di mercato. È l’articolazione complessiva del provvedimento fran-cese a destare invece un vero interesse, e ciò non tanto perché, come abbiamo già accennato, la sua riproduzione ne garantisce in via automatica il successo, ma per quanto si può apprendere dall’analisi delle decisioni che hanno, alla fine, condotto alla concessione degli aiuti. Dalle motivazioni, dalle condizioni e dai vincoli imposti dalla legislazione comunitaria6, si traggono, infatti, delle

linee guida per indirizzare l’istituzione delle future zone franche urbane italia-ne, sia per ciò che concerne il percorso che ne potrebbe agevolare il loro rico-noscimento sia per l’approvazione delle esenzioni al loro interno. Inoltre, at-traverso l’esame delle procedure e delle modalità di attuazione per ottenere le esenzioni fiscali e contributive si coglie in pieno la portata e il contributo inno-vativo che la sperimentazione francese offre alle stesse politiche urbane italia-ne. Innanzi tutto, si attua una fiscalità di vantaggio in modo più selettivo e concentrato rispetto al raggiungimento di un obiettivo che non è riferito, tout

court, alla crescita economica. In pratica, l’attrazione degli investimenti privati

è soltanto una delle priorità dell’intervento, cioè la leva per orientare l’azione prevalentemente al sostegno alla piccola e media imprenditoria, ma sulla scia di quanto avvenuto in Francia, è il legame tra le agevolazioni destinate all’im-presa e le condizioni per l’impiego dell’offerta di lavoro a offrire all’intervento pubblico un carattere di originalità.

L’esistenza di una garanzia «normativa» nel coinvolgimento lavorativo dei residenti nei quartieri di pertinenza, o in altri quartieri in difficoltà, della ma-nodopera locale nelle attività agevolate aiuta l’occupazione a crescere e inco-raggia soggetti deboli a partecipare attivamente al mercato del lavoro. Non solo. Le imprese sono spesso restie a insediarsi in aree marginali e periferiche delle città e a eseguire investimenti in zone in cui, pur essendoci condizioni vantaggiose nei regimi agevolativi, come quelle realizzabili sul fronte fiscale, si paventa la possibilità di incorrere in costi aggiuntivi derivanti dai rischi sociali (criminalità, disagio sociale, degrado ambientale, inefficienza della Pubblica amministrazione). Il calcolo che esse logicamente fanno è sino a che punto tali costi e rischi sono compensati con un programma per lo sviluppo urbano inte-grato, in cui nel «pacchetto delle agevolazioni» si comprendano anche azioni

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per la «riduzione» delle incertezze ambientali. Da qui, nell’intervento france-se, l’uso di pratiche integrate per lo sviluppo, con i programmi avviati dal governo centrale soprattutto nelle aree deindustrializzate, a forte disoccupa-zione e degrado ambientale e sociale, che tendono a una «rigeneradisoccupa-zione» del-l’intero tessuto urbano, con un forte investimento nelle attività di formazione e addestramento professionale rivolte a fasce di popolazione più svantaggiate, in particolare ai giovani in cerca di occupazione, ai disoccupati e alle minoran-ze etniche; con un analogo investimento nelle politiche di risanamento territo-riale, a partire dal miglioramento delle infrastrutture e degli insediamenti ur-bani; con l’attribuzione di una notevole rilevanza alle politiche di sviluppo dell’imprenditorialità locale, dalla attuazione delle quali ci si attendono bene-fici in termini soprattutto di creazione di nuova occupazione. Un impegnativo lavoro che è realizzato attivando tutte le sinergie proficue e le forme di coope-razione possibili tra i soggetti istituzionali che vivono il territorio, con un gran numero di attori locali viene, infatti, coinvolto nel programma di sviluppo governativo e interagisce nel definire e attuare le politiche territoriali per so-stenere lo sviluppo d’impresa, sino a costituire un vero e proprio network, il quale si occupa in sostanza di provvedere ai bisogni di competizione e di cre-scita delle piccole imprese locali ponendo l’accento sul concetto di partnership. Questa rapida analisi di quanto realizzato in Francia, si ritiene possa valere a evidenziare in quale, decisiva misura, le relazioni tra i soggetti istituzionali interessati e i contenuti della loro azione incidano congiuntamente nel percor-so d’attuazione delle zone franche, generando inedite forme di governo

coope-rativo del territorio. Ancora una volta, l’insegnamento che si trae è che la

regolazione dello sviluppo soltanto in parte è ascrivibile alla politica d’incentivazione fiscale, dimostrando che quest’ultima è stata, anche nel caso francese, la condizione necessaria, ma di certo non sufficiente, a garantire una buona riuscita dell’intervento pubblico.

Prefigurando uno scenario di attuazione

Da quanto appena esposto, è bene convincersi sin d’ora che le misure agevola-te possono avere una loro significatività ed effetto nel rilancio complessivo degli investimenti pubblici e privati di Napoli, ma non hanno un’incidenza di carattere «strutturale», essendo concepite unicamente come risposte a situa-zioni eccezionali di crisi delle strutture urbane; anzi, esse sono limitate nel tempo, fermo restando che può essere sia concessa la possibilità di una proro-ga, oppure che si delinei un piano graduale d’uscita dal beneficio delle esen-zioni. La consapevolezza da acquisire è che, in prospettiva, i nodi da sciogliere sono quelli che in città ritornano perennemente al pettine: i vincoli a cui è sottoposto il patrimonio edilizio, la criminalità organizzata e diffusa sul terri-torio, la dequalificazione delle risorse umane o, all’inverso, con livelli di istru-zione addirittura troppo elevati per il contesto di riferimento, la debolezza dei capitali di investimento privati, la bassa propensione delle banche a finanziare progetti di investimento privati e/o a partecipare al cofinanziamento di opere pubbliche.

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la localizzazione delle imprese, in una città satura e alla ricerca di una riconversione industriale, dove tuttavia i vincoli urbanistici previsti dal piano regolatore – o quelli della tutela del patrimonio storico e ambientale, oppure quelli burocratici per la concessione di autorizzazioni e permessi – sono così stringenti da non permettere la rapida ripresa di un ciclo di appalti pubblici finalizzati al risanamento urbano e/o alla costruzione ex-novo di spazi per l’in-sediamento di attività imprenditoriali e per la riqualificazione delle strutture già esistenti. È presumibile, pertanto, che gli investimenti privati sarebbero frenati nella loro espansione, mentre la stessa realizzazione delle opere pubbli-che finirebbe per bloccarsi a causa dei veti incrociati da parte di burocrazie eccessivamente tarate sul rispetto dei vincoli formali e procedurali (ed estre-mamente gelose delle proprie prerogative e competenze istituzionali). Una stra-da stra-da seguire per uscire stra-da questa prevedibile impasse, è quella che si riferisce alle pratiche attivate, anche in Francia, per promuovere un’urbanistica «consensuale», in cui politiche di concertazione tra soggetti pubblici e privati hanno consentito di trovare degli accordi di massima per «flessibilizzare» l’uso degli strumenti urbanistici in funzione dei bisogni di sviluppo della collettivi-tà. È lecito attendersi, inoltre, che il rilancio dell’edilizia pubblica e privata può richiamare l’attenzione di gruppi d’interesse criminali, tradizionalmente pronti, come la storia del Mezzogiorno insegna, a cogliere illegalmente le op-portunità di mercato che si dischiudono da questo settore. Può risvegliare poi l’interesse di gruppi di speculatori, posto che neppure questi ultimi si sono mai tirati indietro nel dare un ragguardevole «contributo» agli abusi paesaggistici che abbondano nella città di Napoli e in altre realtà meridionali. Accanto a una deriva camorristica/speculatoria che potrebbe originare da un rilancio dell’edilizia, vi è un altro pericolo da contenere, quello di una diffusio-ne e pediffusio-netraziodiffusio-ne di gruppi criminali diffusio-nelle attività economiche vere e proprie (dal riciclaggio di denaro sporco in attività lecite all’usura).

Il pessimismo che sembra traboccare da questo scenario può apparire ec-cessivo rispetto alle aspettative benefiche che, in ogni caso, si ritiene potranno discendere dall’implementazione dello strumento di cui si discute. Tuttavia, i rischi di un’ingerenza di gruppi d’interessi criminali vanno tenuti preventiva-mente in conto e posti sotto osservazione, poiché lo strumento, per definizio-ne, va a incidere su aree «sensibili» a queste problematiche. Va da sé, in altre parole, che sono proprio i peculiari caratteri di arretratezza economica e di marginalità sociale delle strutture urbane su cui esso interviene che devono ancora di più allertare l’attenzione delle istituzioni pubbliche locali. In caso contrario, si tratterebbe di una colpevole omissione, di un reiterarsi di com-portamenti, da parte delle classe politica e delle altre amministrazioni compe-tenti su questa materia, il sottovalutare sistematicamente l’importanza di una bonifica del territorio dai gruppi criminali. Un ostacolo allo sviluppo econo-mico che si ripropone nelle aree d’istituzionalizzazione delle zone franche, con l’aggravante che le iniziative da intercettare hanno come riferimento prin-cipalmente le aziende estere, le quali in uno scenario globale dispongono di un’ampia possibilità di scelta per la localizzazione e, di conseguenza, potreb-bero preferire territori più «tranquilli» sotto questo versante.

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La limitatezza del raggio d’intervento della zona franca potrebbe invece consentire un controllo più serrato del territorio e di prevedere con largo an-ticipo delle incisive azioni di contrasto alla criminalità. Tali azioni si devono necessariamente concentrare a monte e a valle delle filiere produttive e delle zone prescelte per l’intervento. A monte, la mancanza di capitali iniziali da avviare nell’attività imprenditoriale spinge spesso alla ricerca di capitali finan-ziari «alternativi» (come l’usura); a valle, nel controllo particolareggiato della fase di distribuzione di beni e servizi sul territorio, dedicando attenzione alle possibili forme di riciclaggio delle risorse finanziarie ottenute illegalmente. L’illegalità delle attività imprenditoriali, oltre che nella natura dei finanziamenti e degli investimenti, si materializza nella produzione e nella vendita di merci contraffatte, commercializzate in mercati sommersi paralleli a quelli regolari. Infine, l’esecuzione delle opere pubbliche e i relativi appalti sono stati, spesso, fonte di commistione tra interessi criminali, politici e amministrativi. Per fron-teggiare le forme di devianza sociale e ridimensionare il ruolo dei gruppi cri-minali che controllano il territorio, ancora una volta può essere d’ausilio ricor-rere alle pratiche della concertazione, intensificando i rapporti istituzionali tra i soggetti variamente coinvolti in queste problematiche (forze dell’ordine, guar-die municipali, istituzioni scolastiche e universitarie ecc.) affinché le azioni di contrasto a riguardo siano integrate negli obiettivi repressivi e di prevenzione da perseguire.

In definitiva, per accrescere l’interesse delle imprese di livello internazio-nale a insediarsi nelle zone franche si potrebbe strategicamente offrire un «pchetto integrato» di azioni che comprendano congiuntamente la stipula di ac-cordi sulla sicurezza territoriale con un insieme agevolazioni, esenzioni, e ini-ziative tese alla conoscenza e alla valorizzazione delle potenzialità imprendito-riali. Attraverso la sperimentazione del dispositivo sulle zone franche si po-trebbe addirittura arrivare a una certificazione preventiva sulla sicurezza e la legalità territoriale, un vero e proprio «marchio» di qualità, che potrebbe fun-gere da stimolo per la «cattura» di potenziali investitori internazionali e con-vincere il governo nazionale, negli ultimi tempi piuttosto scettico sulle capaci-tà degli amministratori locali, che questa volta si fa sul serio.

Zona franca e rilancio della città

Per concludere, c’è da chiedersi in maniera realistica se a Napoli vi siano le condizioni necessarie per portare a compimento un’iniziativa così ambiziosa. In una città dove tutte le negatività sembrano sommarsi tra loro, quasi frenan-do qualsiasi spirito d’intrapresa, ritorna la frenan-domanda: si può uscire dal determinismo delle condizioni di partenza grazie al dispositivo della zona franca urbana?

Può servire, a tale scopo, tirare le fila del discorso sin qui abbozzato, per rispondere con un’affermazione positiva, soffermandosi sulle ragioni princi-pali che spiegano perchè è il governo cittadino a giocare la partita più rilevante e, in ultima istanza, più difficile a proposito del provvedimento di cui stiamo discutendo. L’istituzione della zona franca in città può divenire un’occasione positiva per cercare di forzare e scardinare un’impostazione degli strumenti di

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indirizzo, che ha visto prevalere, mediante la pianificazione strategica, un ap-proccio sistemico alle politiche urbane e per lo sviluppo, ma che rischia di riprodurre un altro dualismo: una separazione tra la mission di lungo periodo, che proietta la città nel futuro tra più di un decennio, e l’articolazione della sua strategia d’attuazione nel breve e medio periodo, che deve necessariamen-te scandire su di un arco necessariamen-temporale molto più ristretto i ritmi della program-mazione, della gestione e del controllo nell’esecuzione del ciclo d’interventi di volta in volta prescelti e da realizzare.

Come in una sorta di paradosso, infatti, sembra che quella visione politica che riconosce la città come un organismo complesso e unitario, le cui funzioni concorrono tutte nel loro insieme al suo sviluppo, finisce per intralciare, anzi-ché agevolare, l’azione amministrativa. I cinque quadranti7 in cui è ripartita la

città di Napoli, analizzati in maniera sinottica, dimostrano qual è l’obiettivo finale che il governo cittadino si propone di raggiungere: la sua «rigenerazione» attraverso il rilancio competitivo e il recupero dal degrado degli spazi urbani più periferici. A fronte di un encomiabile sforzo di sistematizzazione e di ridefinizione del quadro delle scelte strategiche da compiere per la città, però, la definizione delle priorità da aggredire, la scala dimensionale ritenuta più adeguata per gli interventi, gli indicatori d’impatto e i criteri procedurali che orientano e selezionano la decisione pubblica appaiono per lo più lacunosi. Bagnoli e Napoli Est, territori dove ormai da più di un decennio è in corso un programma di riqualificazione urbana, simboleggiano in tal senso l’incompiu-tezza di una strategia che tenta di affrontare congiuntamente le problematiche dell’arretratezza cittadina, ma finisce per non venirne mai a capo.

Così, la scansione temporale e la dotazione di risorse finanziarie per gli investimenti, per la costruzione delle opere, per l’apertura dei cantieri, e, so-prattutto per la loro chiusura, sembrano più il frutto di scelte estemporanee o dettate dall’emergenza, che di una strategia di programmazione basata sui prin-cipi della concentrazione e selettività. L’azione amministrativa finisce per di-sperdersi in più di una direzione, alimentando delle spinte centrifughe, innal-zando i costi finanziari e quelli di coordinamento organizzativo delle singole iniziative, tutto ciò aggravato dalle deboli forme di monitoraggio, di controllo formale e sostanziale, nell’esecuzione dei lavori.

In buona sostanza, se si tralascia l’impianto pianificatorio, una simile impostazione delle politiche urbane dimostra veramente qual è il suo più grande limite, quello di trascurare di occuparsi della complessità di gestione e attua-zione degli interventi e di sopravvalutare la dotaattua-zione di capacità organizzativa della macchina burocratica, attribuendole degli standard di efficacia ed effi-cienza di gran lunga superiore a quelli che, per ora, essa riesce effettivamente a raggiungere. Prendere atto dell’esistenza di alcuni limiti nella capacità di governo e d’esecuzione dei provvedimenti, significa dover riconoscere e ac-cettare, è vero, una forma di debolezza amministrativa. Un tale vincolo può, tuttavia, trasformarsi in un’opportunità. Può essere cioè la leva per cercare dei rimedi per superarla. La zona franca diviene un espediente utile per innestare delle operazioni di micro-chirurgia nella cura dei mali sociali cittadini, tenen-do sotto stretta osservazione un programma per lo sviluppo urbano attraverso

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osservatorio italiano

azioni integrate e un monitoraggio costante, essendo più controllabile una pic-cola estensione di territorio e anche più facilmente coordinabile l’azione dei soggetti preposti alla sua gestione e attuazione, è probabile che si raggiungono più facilmente gli esiti di sviluppo desiderati.

Soltanto conseguendo degli obiettivi anche piccoli, ma concreti e tangibi-li, si può accrescere la credibilità dell’azione del governo cittadino. Si tratte-rebbe di un risultato per niente trascurabile in una città attraversata in questo periodo da un profondo disagio e di fronte ormai a un peggioramento siste-matico delle sue condizioni di vita sociale ed economica, dove la responsabili-tà per ciò che accade è dei governanti locali, sottoposti perciò a continui e insidiosi attacchi mediatici e politici ed anzi talvolta accusati dalle più alte cariche dello Stato di trascurare di risolvere anche i normali problemi che insorgono nell’ordinaria amministrazione.

n o t e

1 L’istituto delle zone franche urbane è stato introdotto in Francia con la l. n. 987 del 14 novembre del 1996 (Pacte de Relance pour la Ville). Nel corso di questi dieci anni vi è stata una continua rivisitazione normativa, dovuta alle modifiche imposte dalla Commissione europea e da quelle dettate dagli orientamenti generali dell’Unione in materia di politiche regionali. Ciò ha prodotto un quadro normativo molto articolato nei suoi contenuti, con diverse «generazioni» di zone franche e con regimi disciplinari che, a un certo punto, hanno richiesto una armonizzazione.

2 Le seguenti riflessioni risentono di un quadro normativo ancora incerto, in assenza di un testo ufficiale definitivo e della posizione che assumerà la Commissione europea e lo stesso Cipe. 3 Il limite scende a 8.500 per le zone franche di terza generazione.

4 Scampia è il quartiere più degradato di Napoli.

5 Un regime che prevede varie forme di esenzione dei tributi e della contribuzione sociale, modulate nel tempo in relazione alla data di istituzione e di avvio delle zone franche urbane e a quella dell’installazione al loro interno delle imprese. Il sistema delle esenzioni vigente, tenuto conto dei limiti e dei casi d’eccezione, può essere così schematizzato: 1) esenzione dalla tassa professionale; 2) esenzione dalla tassa fondiaria; 3) esenzione dall’imposta sugli utili; 4) esenzione dai contributi sociali a carico del datore di lavoro; 5) esenzione dai contributi sociali personali di maternità e malattia. 6 Per il diritto comunitario le deroghe e le esenzioni concesse in zona franca urbana si configurino come veri e propri aiuti finanziati dal bilancio statale e, in quanto tali, necessitino della approvazione della Commissione europea (ex art. 88 del Trattato Ce) a garanzia e tutela della libera concorrenza. 7 Identificati nel piano strategico come il quadrante centrale, occidentale, settentrionale, orientale e

water-front in funzione dei caratteri economici e sociali che presentano e delle potenzialità che

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