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Inconscio. la macchia cieca della filosofia e il corpo del godimento

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dicembre 2020

Prendersi cura delle parole

Pier Aldo Rovatti Premessa. Absit iniuria

verbis 3

Michele Serra La parola è come il pane 9 Pierangelo Di Vittorio Parole che non

funzionano. I saperi critici alla prova 18 Stefano Bartezzaghi Il metodo del doktor Kraus

per la cura delle parole 30

Gian Mario Villalta Totus in illis. Lingua, poesia,

comunicazione 39

Massimo Recalcati Il discorso del maestro 50 Davide Zoletto Senza parole? I migranti, noi,

gli albi 61

Ilaria Papandrea Fallimento 71

Beatrice Bonato Sopravvivenza 76

Donatella Di Cesare Anarchia 87

Annarosa Buttarelli Empatia 98

Marco Pacini Fine 106

Nicola Gaiarin Prendere in parola, non

alla lettera 117

Giovanni Leghissa Inconscio. La macchia cieca della filosofia e il corpo del godimento 127 Deborah Borca Curare le parole degli altri 139 MATERIALI Piccolo sillabo. Laboratorio

coordinato da Annalisa Decarli 147 POST In virus veritas [P.A.R.] 158

INTERVENTI

Antonello Sciacchitano Dall’infinito con

simmetria 163

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Inconscio. La macchia cieca della

filosofia e il corpo del godimento

GIOVANNI LEGHISSA

E

dmund Husserl, nell’Appendice XXI posta

nel sesto volume dell’Husserliana, scrive che non ha molto senso, per il fenome-nologo, occuparsi dell’inconscio.1 Prima si dovrebbe sapere bene

che cos’è la coscienza, solo poi, eventualmente, si può ipotizza-re che vi sia posto per un sapeipotizza-re che metta a tema la rilevanza dell’inconscio. È vero che la coscienza di cui Husserl si è sempre occupato è quella di un soggetto trascendentale che deve dar con-to di come sia possibile descrivere il decorso di ogni esperienza possibile – un soggetto, cioè, che ha come unico compito quello di fissare il polo verso cui si dirige la datità degli oggetti possibili. Il soggetto trascendentale husserliano, insomma, ha le fattezze di un personaggio concettuale, nel senso che assume quest’espres-sione per Deleuze e Guattari,2 e assomiglia assai poco a un

qua-lunque soggetto in carne e ossa – tanto più che abita in quel mon-do inesistente che è la Lebenswelt, la quale, a sua volta, non può coincidere con il mondo ambiente abitato dai viventi.3

Tuttavia, l’intera argomentazione svolta nella Krisis, a cui si connette il testo citato, porta alle estreme conseguenze un

para-1. Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936), a cura di W. Biemel, trad. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1983, pp. 498-500.

2. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), trad. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 1996, p. 51 sgg.

3. Su ciò, cfr. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo (1986), trad. di B. Argenton, il Mulino, Bologna 1996.

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dosso che, in fondo, si annuncia entro il tessuto della fenomeno-logia sin da quando Husserl iniziò ad analizzare la coscienza a partire dalla temporalità costituente, ovvero il paradosso secondo cui il soggetto trascendentale e il soggetto empirico sono lo stesso. Cominciando con le analisi del presente vivente – un presente mai stabile, fissabile una volta per tutte, preso in quel perenne movi-mento oscillatorio che è l’intrecciarsi di protensioni e ritenzioni – e passando per la tematizzazione del precategoriale e delle sintesi passive, Husserl giunge, a mano a mano che procede nel suo cam-mino di pensiero, a porre in stretta relazione intersoggettività e costituzione del mondo. E, nel fare ciò, incrocia inevitabilmente la funzione fondante della corporeità, la quale, una volta posta di-nanzi allo sguardo del fenomenologo, non può non intaccare, fino a farla sparire, la purezza del soggetto trascendentale.

Successivamente, coloro che hanno deciso di seguire Husserl sulla strada del paradosso appena evocato – si pensi in particolare a Derrida e Blumenberg – non solo hanno calcato la mano sulla necessità di ammettere che, per articolare la questione filosofica della fondazione, bisogna in qualche modo fare spazio all’intrec-cio tra sfera empirica e sfera trascendentale, ma hanno anche esal-tato il ruolo della corporeità intesa quale territorio in cui il pensie-ro incontra il ppensie-roprio limite, quale punto in cui la carne del mondo – per usare una felice espressione di Merleau-Ponty, autore a sua volta non estraneo alle riflessioni che qui vengono condotte – op-pone la massima resistenza alla presa del concetto. Chi ha deciso di spingere in massimo grado – cioè fino al punto in cui la filosofia può restare sé stessa – la riflessione sull’intersecarsi della sfera em-pirica e di quella trascendentale ha anche postulato, non casual-mente, la necessità di far lavorare assieme i concetti della filosofia con quelli della psicoanalisi.

Il primo tra questi ovviamente è quello di inconscio, senza il quale non stanno in piedi né l’edificio teorico della psicoanalisi, né la psicoanalisi come pratica clinica. In questa vicenda il pun-to chiave, però, non consiste nel fatpun-to che in tal modo la filosofia allarga i propri confini concettuali, annettendo al proprio interno territori che prima le sarebbero rimasti estranei. Se si trattasse di

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questo, si configurerebbe anzi una situazione in cui dell’inconscio non ne è più nulla: esso verrebbe incorporato, con un gesto di ca-rattere imperialistico, dal discorso filosofico e finirebbe col per-dere ogni rilevanza. Il punto, invece, è che l’inconscio freudiano – anche, e soprattutto, nel modo in cui viene ripreso da Lacan – non è un concetto. Se deve esserlo, esso assomiglia piuttosto a quei concetti operativi di cui si è dotata la fenomenologia nel suo zigza-gante procedere verso i paradossi della fondazione fenomenologi-ca.4 In ogni caso, non è il nome di una cosa, non serve a designare

un campo oggettuale le cui proprietà verrebbero da esso delimi-tate e definite.

L’inconscio, se produce effetti, li produce sempre nachträglich, cioè in relazione a esperienze, atti cognitivi di varia natura, de-cisioni e comportamenti che, in quanto non sono riconducibili a una piena padronanza del soggetto, costringono a ipotizzare che quest’ultimo non possa dominare coscientemente la sfera in cui si muove quale attore chiamato a rispondere di fronte ad altri – di fronte cioè a quel complesso di intrecci relazionali che costitui-scono l’intersoggettività. Ma è chiaro che, proprio in virtù del rap-porto che lega la costituzione intersoggettiva del mondo alla que-stione della fondazione trascendentale, un pensiero filosofico che voglia fare i conti con l’inconscio deve confrontarsi con l’ipotesi che quest’ultimo non sia solo il nome di un’istanza psichica, ma sia anche ciò che permette di vedere quel che la filosofia non vede quando opera in vista di una chiarificazione concettuale sia di ciò che c’è, sia di ciò che permette la conoscibilità di ciò che c’è.

Freud, che parte da neurologo5 per poi sviluppare una forma

inedita di psicologia, introduce la nozione di inconscio per poter leggere il lato oscuro dei vissuti psichici nell’assenza – secondo lui provvisoria6 – di un’adeguata conoscenza dei meccanismi neurali

4. Cfr. E. Fink, Operative Begriffe in Husserls Phänomenologie, “Zeitschrift für philo-sophische Forschung”, 11, 1957, pp. 321-337.

5. Cfr. K. Pribram, M.M. Gill, Freud neurologo: studio sul “Progetto di una psicologia” (1976), trad. di A. Guglielmi, Boringhieri, Torino 1978.

6. Freud ha sempre pensato che, un giorno, molti dei problemi posti dalla psicoanalisi avrebbero trovato una soluzione adeguata grazie al lavoro di ricerca compiuto dalle neuro-scienze. A distanza di decenni, tuttavia, le neuroscienze, rispetto a molte domande

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crucia-dai quali emerge la mente cosciente. Ma lo stesso Freud, quando specula sui fondamenti ontologici ed epistemologici della psico-analisi,7 trasforma tale nozione in qualcosa che non “sta nella

men-te” di un individuo, ma si trova alle spalle di ogni possibile evento di individuazione nel reame delle forme viventi. Quando specula, Freud fa cioè dell’inconscio il nome di ciò che serve ad articolare, addirittura in sede metafisica, la genesi del vivente. In Jenseits des

Lustprinzips il percorso della riflessione si espande fino a

insinuar-si nelle pieghe di quella matrice materica in cui l’organico e l’inor-ganico sono già da sempre fusi assieme – una matrice che poi non cessa di lasciare le proprie tracce nel continuum dei vissuti psichici individuali, segnatamente nella forma del Todestrieb. In altre paro-le, è lo stesso Freud a tendere la mano ai filosofi – come fa con gli antropologi quando vuole estendere la portata della psicoanalisi verso i fenomeni sociali e storico-culturali.

Da questo invito freudiano, tuttavia, non è scaturita alcuna rot-tura epistemologica tale da rendere la nozione di inconscio il pun-to di incrocio tra saperi diversi, ciascuno dei quali, seguendo la metodica che gli è propria, interroga ciò che non si vede quando un soggetto conoscente osserva le proprie operazioni. Con altri concetti essenzialmente contestati8 è andata diversamente:

nessu-no, tra coloro che studiano la società, la cultura, la religione, si so-gnerebbe oggi di fornire definizioni precise e univoche di tali no-zioni, eppure i cultori delle scienze umane e i biologi che studiano i fenomeni sociali, culturali e religiosi si accontentano di

muover-li poste dalla psicoanamuover-lisi, restano prive di risposte – lo si ammette con onestà per esem-pio in J. Panksepp, L. Biven, Archeologia delle emozioni. Origini neuroevolutive delle

emo-zioni umane (2012), trad. di C. Sinigaglia, Raffaello Cortina, Milano 2014 (in particolare

pp. 300-303). Per capire in che termini sia sensato parlare di inconscio all’interno del pro-gramma di ricerca delle scienze cognitive, si veda F. Dentale, A. Gennaro, Inconscio. Fra

ri-cerca clinica e scienza cognitiva, il Mulino, Bologna 2005.

7. Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), trad. di A.M. Marietti e R. Co-lorni, in Opere, vol. IX: L’Io e l’Es e altri scritti 1917-1923, a cura di C. Musatti,

Boringhie-ri, Torino 1989, pp. 187-249. Al fine di individuare il senso – pur precario e aporetico – di tale speculazione freudiana, rimando alla lettura che di quest’opera viene compiuta in J. Derrida, “Speculare – su ‘Freud’” (1980), in La cartolina. Da Socrate a Freud e al di là, a cura di S. Facioni e F. Vitale, Mimesis, Milano-Udine 2017, pp. 231-347.

8. W.B. Gallie, Essentially Contested Concepts, “Proceedings of the Aristotelian Society”, 56, 1955-56, pp. 167-198.

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si entro un’aria di famiglia sufficientemente riconoscibile quando, dialogando tra loro, isolano gli invarianti e le trasformazioni che caratterizzano ciò che gli umani fanno quando interagiscono negli spazi del collettivo per dar vita, poniamo, a istituzioni democrati-che, o produrre artefatti come le opere d’arte, oppure assemblare quei sistemi di credenze che si manifestano nel mito.

“Inconscio” è diventata certo una parola di uso comune, ma al tempo stesso essa pare refrattaria a ogni dispersione nel magma discorsivo dell’enciclopedia e sembra condannata a farsi utilizzare quasi esclusivamente da chi, nel setting analitico, si incontra con le variegate e ambivalenti manifestazioni del desiderio. Se però si ammette che il corpus testuale freudiano e lacaniano, preso nel suo insieme, possa contenere qualcosa di più che una riserva ac-cattivante di topoi da utilizzare a proprio piacimento per arricchire il discorso filosofico, pare opportuno mantenere viva l’attenzione verso ciò che la vaghezza della nozione di inconscio indica. Tale vaghezza, come mostra Derrida in un saggio in cui l’inconscio vie-ne compreso quale archivio, non attesta un venir meno della con-cettualità, o una menomazione operante nel regno dei concetti, ma rimanda a ciò senza di cui non vi sarebbero né concetti né il rigore proprio del discorso filosofico.9 L’inconscio, inutile come concetto

perché non serve a descrivere una “cosa” che sta da qualche parte, serve ad articolare la promessa che vi sia la vita di una coscienza che sa riflettere su sé stessa e sui propri atti, fino a farsi quel per-no attorper-no a cui ruota ogni episteme chiamata a rendere conto di ciò che c’è nel mondo.

Da quanto detto sin qui, se si vuole salvare la nozione di incon-scio, e accordare una qualche plausibilità teoretica agli effetti che essa è supposta produrre, pare che si debba preliminarmente ac-cogliere un discorso sulla fondazione che tenga assieme sia la ne-cessità di far cominciare la discorsività filosofica da qualche parte, sia la comprensione del fatto che all’inizio non c’è una cosa

de-9. Cfr. J. Derrida, Mal d’archivio (1995), trad. di G. Scibilia, Filema, Napoli 1996, p. 40. Sulla nozione derridiana di archivio, e su come tale nozione permetta di intersecare in modo produttivo filosofia e psicoanalisi, mi soffermo in G. Leghissa, Tra enciclopedia e

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terminata – dove quest’ultima espressione designa il determinarsi del fondamento, il suo farsi uno per poter generare la serie di tutto ciò che c’è nel regno del pensabile. Quando dispiega le credenzia-li di cui può munirsi il programma filosofico della decostruzione, Derrida, per esempio, fa riferimento a quella Nachträglichkeit che governa l’intera macchina dell’inconscio freudiano. Senza questa mossa teorica, il discorso derridiano sulla différance non starebbe in piedi, e si trasformerebbe semplicemente in una delle tante ver-sioni della teologia negativa.10 Se si dice che all’origine c’è la

diffe-renza, e non un fondamento solido e univocamente determinato, senza con ciò voler però esonerare il discorso filosofico dal farsi carico della necessità di interrogare l’atto della fondazione, allora il fatto che l’origine si mostri dopo, il fatto cioè che essa produca effetti differiti, nella forma della traccia, non può che essere pen-sato nei termini dell’inconscio freudiano.

La decostruzione certo non si pone come una sorta di psicoana-lisi della filosofia, tuttavia non sarebbe concepibile alcun pensiero della differenza in assenza di ciò che Freud ha mostrato quando intese individuare nelle tracce inconsce ciò che si conserva can-cellandosi.11 Attraverso la nozione di différance, Derrida si pone

l’obiettivo di volerci offrire un nuovo pensiero della storicità, del differirsi del senso nelle sue istanziazioni storiche; ma lo fa dichia-rando l’impossibilità, per il gesto decostruttivo, di chiamarsi fuo-ri dalle operazioni che esso porta a compimento in seno all’ofuo-riz- all’oriz-zonte che comprende il darsi di ogni testualità filosofica. Perciò è lecito affermare che la decostruzione sarebbe impossibile senza quel l’evento in qualche modo epocale che è la scoperta freudiana dell’inconscio. Partendo dall’esempio offerto da Derrida, viene al-lora da chiedersi se non sia il caso di dire che la filosofia contem-poranea, presa nella sua interezza, non sia quel discorso che riesce

10. Cfr. J. Derrida, Margini della filosofia (1972), trad. di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, p. 46 sgg.

11. Ciò mi pare vero non solo per Derrida, al quale qui faccio esplicito riferimento, ma per tutti gli autori che in un modo o nell’altro, che abbiano pagato o meno il loro debito nei confronti della psicoanalisi, si sono impegnati a edificare una filosofia basata sulla no-zione di differenza.

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ad articolare la questione della fondazione liberandosi da quella malattia ontologica che consiste nel pensare che il fondamento sia

un qualcosa di essente solo perché essa viene dopo la scoperta

freu-diana dell’inconscio.

Si configura qui un quadro teorico in cui il prendersi cura dell’inconscio significa fare spazio a una zona di indecidibilità che possa ospitare dentro la riflessione filosofica quel limite al di là del quale la filosofia cessa di essere tale. In un saggio volto a mostrare per quali ragioni il metaforico e il concettuale non siano separabi-li l’uno dall’altro, Derrida afferma che la macchina discorsiva che la filosofia ha da sempre messo in moto per isolare la differenza tra metafore e concetti non è dominabile dall’esterno: quando la filosofia si interroga sui tropi che le hanno permesso di generare la propria concettualità, nutrendo il sogno di poter separare net-tamente la seconda dai primi, essa gira attorno a una “macchia cieca”, attorno a un buco che non potrà essere mai riempito.12 Che

questa macchia cieca del pensiero, che questa zona di indecidibi-lità non manovrabile attraverso la potenza chiarificatrice del con-cetto, intrattenga una stretta relazione con l’inconscio ci viene in-dicato dal modo in cui quest’ultimo viene attivato quale operatore nel pensiero di Lacan.

Riprendendo due elementi chiave dell’analisi freudiana del sogno, la Verdichtung e la Verschiebung, Lacan vede nell’una e nell’altra le basi metaforiche e metonimiche su cui si edifica la narrazione dell’inconscio.13 Se si suppone che l’inconscio

fun-zioni come un linguaggio, che non significa niente perché ciò che esso mette in scena sono i giochi combinatori resi possibili dai vari intrecci dei significanti, allora esso si rivela una macchi-na che, senza l’intervento di un soggetto, produce quell’universo simbolico con cui il soggetto dovrà poi confrontarsi per attinge-re quel poco di verità che gli è concessa al fine di cavarsela alla meno peggio con il proprio desiderio. Ma sarebbe riduttivo

pen-12. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 298.

13. J. Lacan, “L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud” (1957), in

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sare che le prestazioni di tale macchina riguardino solo il sogget-to nevrotico che si sotsogget-topone all’analisi. La stessa filosofia – se se-guiamo le indicazioni offerte da Derrida – non può fare a meno di esporsi al rischio che deriva dall’ammettere che una compo-nente non piccola del proprio desiderio di padronanza dipenda dalle possibilità combinatorie di una metaforicità che si dispiega, con relativa autonomia, nelle pieghe del linguaggio. E ciò vale an-che per la letteratura: in un testo coevo a quello lacaniano citato sopra, Calvino prova a spingersi ancora più lontano nel tentativo di attribuire a qualcosa che non è dominabile dalla coscienza, ma appartiene all’autopoiesi dello stesso linguaggio, il generarsi di ogni artefatto narrativo, sia esso mitico o letterario. Riflettendo sull’impatto delle teorie del discreto, nate in ambito matematico e cibernetico e prese quale punto di partenza delle teorie dei si-stemi complessi, Calvino identifica l’atto dello scrivere con il far-si e disfarfar-si del linguaggio, il che porta lo scrittore stesso a farfar-si “macchina scrivente”,14 attore inconsapevole preso entro un gioco

che non è stato lui a stabilire e a delimitare.

Tuttavia, dell’inconscio freudiano si coglie tutta la portata solo riferendosi a ciò che esso dissemina nelle pieghe dell’esperienza del soggetto – ovvero il Trieb. Solo in questo modo si rende giusti-zia alla forza non significante che l’inconscio possiede, forza che lo rende estraneo a quel campo in cui il soggetto vorrebbe esercitare una piena padronanza attraverso il sapere. Per essere più precisi: solo prestando la dovuta attenzione all’economia libidica si tocca con mano, per così dire, che c’è di mezzo la corporeità – quella corporeità che la fenomenologia husserliana ha il merito di aver sì messo a tema, ma che non ha saputo investigare fino in fondo, non avendo potuto interrogare l’inconscio che essa non può non lasciar vedere.

Nella psicoanalisi lacaniana sembra che tutto si risolva entro la cornice del linguaggio. “Un significante è ciò che rappresenta

14. I. Calvino, “Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo com-binatorio)” (1967), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Mondadori, Mila-no 1995, p. 206.

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il soggetto per un altro significante”,15 recita una delle

espressio-ni più note di Lacan, la quale rende bene l’idea di come l’incon-scio, supposto funzionare come un linguaggio, formi quella rete in cui il soggetto è preso, sia che dica cose sensate, sia che sogni, sia che si lasci devastare dal sintomo. Tuttavia, anche nella prima fase della sua riflessione, Lacan non manca di rilevare lo stretto intreccio che esiste tra corporeità e linguaggio. “Il linguaggio non è immateriale. È corpo sottile, ma è corpo. Le parole sono prese in tutte le immagini corporee che imprigionano il soggetto”,16 si

afferma negli Écrits. Ma già nel seminario del 1957-58 Lacan scri-ve che “l’analisi ci ricorda un fatto noto a tutti, e cioè il caratte-re vagabondo, sfuggente, inafferrabile del desiderio. Esso sfugge precisamente alla sintesi dell’io […]. Sebbene sia sempre io che desidero, la cosa non si potrà cogliere in me se non nella diversi-tà dei desideri. Attraverso questa diversidiversi-tà fenomenologica, […] si manifesta un rapporto più profondo, il rapporto del soggetto con la vita e, come si dice, con degli istinti”; e ancora: “Il deside-rio è identico alla sua manifestazione somatica”.17 Nel testo delle

lezioni dell’anno successivo leggiamo: “Di ciò che costituisce il nostro rapporto con l’inconscio, vale a dire il significante, siamo noi a fornire il materiale […] con il nostro immaginario, in altri termini con il nostro rapporto con il nostro corpo […]. È con le nostre membra che componiamo l’alfabeto di quel discorso che è inconscio”.18

Nel seminario del 1964, parimenti, il corpo torna a essere un elemento centrale nel discorso lacaniano, al punto che si afferma l’identità strutturale tra il modo in cui la pulsione si articola a li-vello corporeo e il modo in cui gli investimenti significanti si di-stribuiscono nello spazio inconscio che si pone tra la realtà e il

15. J. Lacan, “Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freu-diano” (1960), in Scritti, cit., vol. II, p. 822.

16. Id., “Funzione e campo della parola e del linguaggio” (1953), in Scritti, cit., vol. I,

p. 294.

17. Id., Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio, 1957-1958 (1998), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2004, pp. 329 e 346.

18. Id., Il Seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione, 1958-1959 (2013), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2016, p. 305.

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soggetto.19 Già dai pochi dati testuali qui riportati, in altre parole,

risulta che sarebbe un fraintendimento voler affermare che Lacan solo nella fase più tarda del suo pensiero – per esempio nei

Semi-nari XX e XXIII – avrebbe restituito alla corporeità tutto il peso che

essa assume nella trattazione freudiana dell’inconscio. Sostenere che ci sia un nesso tra godimento sessuale e linguaggio vuol dire, da un lato, che del godimento dell’ostrica o del castoro noi non sappiamo nulla, dall’altro che senza il linguaggio non giungerebbe a prodursi quella distanza tra il soggetto parlante e il godimento che costringe il soggetto stesso a interrogarsi su quel buco di sape-re che chiamiamo inconscio.

Se dunque non ha senso dire che “c’è l’inconscio”, è però vero che ci sono corpi capaci di godimento, i quali restano perennemen-te estranei alla padronanza del soggetto. Ed è di questo rapporto mancato con il godimento corporeo che la nozione di inconscio deve dar conto. In altre parole, quest’ultima può coprire una man-canza nel discorso, può instaurarsi nel dominio della teoria quale “trucco concettuale” atto a supplire una mancanza nell’ordinamen-to enciclopedico dei saperi, perché, prima ancora di ciò, il soggetnell’ordinamen-to parlante non ne sa nulla del proprio godimento.20 Si capisce meglio,

così, in che senso il soggetto trascendentale e il soggetto empirico coincidano: come il primo, non potendo più ricorrere alle presta-zioni della teologia per dire l’oltre, l’al di là della pensabilità, deve confrontarsi con il sapere a cui l’analista attinge durante il setting, così il secondo, anche nel caso fortunato in cui riesca a far stare as-sieme in modo non nevrotico desiderio e godimento, anche quando la propria attività sessuale sia segno del l’amore,21 deve arrendersi

19. Cfr. Id., Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi,

1964 (1973), a cura di A. Di Ciaccia, Torino, Einaudi 2003, p. 176.

20. Su ciò, cfr. A. Zupancˇicˇ, Che cosa è il sesso? (2017), trad. di P. Bianchi, Ponte alle Grazie, Firenze 2018; e L.F. Clemente, Lacan e il buco del sapere. Psicoanalisi, scienza,

er-meneutica, Orthotes, Napoli-Salerno 2018.

21. Non sempre il sesso è segno dell’amore, ma non è certo escluso che lo sia. Tuttavia, nelle riflessioni condotte qui, non si è potuto approfondire il nesso che lega i due, dal mo-mento che l’esperienza dell’amore, pur restando ancorata alla dinamica pulsionale del de-siderio, si sviluppa entro una cornice fatta di pratiche, attitudini ed emozioni che non sono interamente riconducibili alla sfera della sessualità.

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di fronte alla sostanziale imprendibilità di ciò che governa il pro-prio godimento.

Freud ha affrontato più volte il tema della Ichspaltung.22 Sia che

si distacchi dal mondo esterno perché sorgente di trauma, sia che si debba difendere dalle proprie pulsioni interne, l’Io freudiano è sempre un Io scisso, che deve tutelarsi da richieste che non riesce a soddisfare. Quando queste richieste provengono da quella mate-ria godente che è il proprio corpo, la coscienza si trova a dover gal-leggiare su una materia fluida, debordante, la quale non sarà mai padroneggiabile, perché a essa – ed è qui che la nozione di incon-scio trova tutto il suo senso – non sarà mai conferibile un senso.

Non diverse sono le indicazioni che provengono da Lacan quando riflette sull’impossibilità di inserire il godimento in una cornice che garantisca una qualche forma di padronanza:

Il dialogo di vita e morte […] assume un carattere drammati-co solo a partire dal momento in cui, nell’equilibrio tra vita e morte, interviene il godimento. Il punto vivo, il punto d’emer-genza […] [del]l’essere parlante, è quel rapporto disturbato con il proprio corpo che si chiama godimento. Il discorso ana-litico ci dimostra che questo ha come centro, come punto di partenza, un rapporto privilegiato con il godimento sessuale. Se il valore del partner altro, quello che ho designato rispet-tivamente con l’uomo e con la donna, è inavvicinabile per il linguaggio, è precisamente in quanto il linguaggio funziona in origine come supplenza del godimento sessuale. Esso or-dina in tal modo l’intrusione del godimento nella ripetizione corporea.23

Se insomma ci fosse un sapere del corpo desiderante, questo coin-ciderebbe con quello di un’autocoscienza protesa verso lo spirito

22. Cfr. per esempio S. Freud, “La scissione dell’Io nel processo di difesa” (1938), trad. di L. Baruffi, in Opere, vol. XI: L’uomo Mosé e la religione e altri scritti, 1930-1938, a

cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1989, pp. 553-560.

23. J. Lacan, Il Seminario. Libro XIX. …o peggio, 1971-1972 (2011), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2020, p. 37 sgg.

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assoluto, capace di assorbire in sé ogni negatività. Ringraziando il cielo, l’inconscio, che supponiamo muova, in qualche modo, i gesti del corpo desiderante, non è invece maneggiabile; ma non è escluso che i cieli, rimasti muti dopo la rivoluzione copernicana, parlino proprio attraverso l’inconscio.

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