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La regione alpina tra crisi e ripresa

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Academic year: 2021

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CAPITOLO VIII. LA REGIONE ALPINA TRA CRISI E RIPRESA. 1.Lo stato sabaudo nel «secolo di ferro».

Secolo di crisi economica e di conflitti in tutta Europa, il Seicento fu tuttavia un’epoca di svolta per lo stato sabaudo, in cui furono gettate le basi dello sviluppo futuro. Si trattò di un periodo contrassegnato quasi continuamente da guerre in gran parte combattute sul territorio piemontese, che mutarono profondamente i connotati geo-politici della regione, rimodellandone anche i confini.

La pace di Lione del 1601, che mise fine alla prima congiuntura bellica, iniziata nel 1588, segnò infatti un primo importante aggiustamento del confine con la Francia. Il ducato perdeva le province savoiarde del Bugey e della Bresse al di là del Rodano, fiume che diventava così la linea di demarcazione tra i due stati, tuttavia l’annessione del marchesato di Saluzzo escludeva i francesi dalla Pianura padana, consolidava la frontiera alpina sud occidentale, chiudendo l’accesso della Valle Stura e dava una maggiore compattezza ai domini sabaudi.

Le successive paci di Cherasco (1631) e di Westfalia (1648) rappresentarono altre due tappe del lungo processo di ridefinizione territoriale del ducato. Se però da un lato i Savoia, grazie all’acquisto di ampie parti del Monferrato, con Trino e Alba in particolare, allargarono i possedimenti nel Piemonte sud-orientale, dall’altro la cessione di Pinerolo e Perosa consentirono alla Francia di allargare il corridoio che attraverso il Monginevro e l’alta Val Chisone garantiva loro un comodo passaggio in Italia.

Gli stati sabaudi, comunque sia, continuarono a rimanere una realtà di frontiera, per cui nonostante il deciso orientamento verso gli spazi peninsulari, le terre al di là dei monti mantennero una notevole importanza strategica, soprattutto come cuscinetto che consentiva di proteggere la parte italiana del ducato, che ormai per qualità e quantità stava progressivamente superando quella transalpina.

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Le oscillazioni della politica ducale tra Spagna e Francia, che caratterizzarono fino agli anni trenta i governi di Carlo Emanuele I (1580-1630) e del figlio Vittorio Amedeo I (1630-37), ebbero riflessi anche sulla realtà economica e culturale. In una prima fase l’adesione al fronte asburgico significò l’instaurazione di solidi rapporti commerciali, finanziari e artistici con Milano e Genova, grazie anche alla presenza a Torino di una folta schiera di mercanti, banchieri e artigiani originari della Lombardia e della Liguria. In seguito, l’atteggiamento filo francese inaugurato dalla reggente Madama Cristina (1637-1663) e mantenuto con qualche oscillazione dai successori, corrispose allo spostamento verso nord-ovest del baricentro economico-politico dell’Europa e contribuì ad orientare la produzione manifatturiera piemontese verso mercati come Lione e in seguito l’Inghilterra.

Del resto, a causa della struttura prevalentemente agricola e del peso modesto del sistema industriale, l’economia subalpina risentì meno della recessione che colpì duramente le regioni più sviluppate dell’Italia centro settentrionale. Il Piemonte uscì dunque dalla «crisi del Seicento» in qualche modo rafforzato rispetto alle altre realtà delle penisola, potendo contare su un’attività proto industriale destinata a svolgere un ruolo trainante nel secolo successivo, su un emergente ceto imprenditoriale locale e su attivo intervento statale, mirante a sostenere e regolamentare i nuovi settori produttivi.

Questi fattori cominciarono tuttavia ad agire positivamente soltanto nella seconda metà del secolo, perché nella prima il ducato fu coinvolto quasi di continuo in vicende belliche, che misero a dura prova le istituzioni ereditate da Emanuele Filiberto. A questo proposito non ci furono trasformazioni significative nella struttura amministrativa, anche se occorre sottolineare almeno due aspetti nuovi, riconducibili alle necessità dettate dalla guerra e dalla gestione di una compagine territoriale sempre più estesa e complessa.

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Si tratta dell’espansione degli apparati burocratici del governo centrale e degli uffici preposti all’amministrazione economico-finanziaria, che furono creati al fine di reperire risorse per far fronte alle crescenti spese militari. A questo riguardo gli storici hanno parlato di un’ «ipertrofia amministrativa», destinata a durare nel tempo e a diventare parte integrante del processo di organizzazione dello Stato moderno in Piemonte. Gli organismi della burocrazia offrirono importanti possibilità di carriera a un ceto di funzionari di estrazione «borghese», i quali riuscirono così ad entrare nell’ élite dirigente del ducato. Allo stesso tempo crebbe l’influenza degli hombres de negocios , gli «uomini d’affari», dapprima stranieri e poi in numero sempre più crescente originari dei territori subalpini.

I problemi derivanti dall’espansione della finanza pubblica e dell’amministrazione fiscale, determinarono le principali innovazioni istituzionali, come la creazione del Magistrato straordinario, aggiunto nel 1622 alla Camera dei Conti con l’intento di gestire le imposte appunto «straordinarie» e l’economia di guerra. Nello stesso anno venne attuata una nuova ripartizione territoriale, che da sette portò a dodici le province del Piemonte, con il conseguente aumento delle prefetture. In ciascuna provincia agiva un referendario ducale, con lo scopo di operare una più omogenea distribuzione dei carichi militari tra i singoli comuni.

La ricerca di una maggiore equità nella riscossione delle imposte fu alla base di tutta una serie di provvedimenti emanati dai duchi nei primi decenni del XVII secolo, che miravano da un lato a rafforzare il controllo statale sulla realtà economica e sociale piemontese e dall’altro a garantire la solvibilità dei soggetti contributivi, città e comunità rurali, costretti spesso ad indebitarsi e ad alienare i beni collettivi per far fronte alle tasse. In Piemonte, come accadde in Savoia e nelle confinanti regioni alpine (Delfinato e Provenza), nel corso del Seicento si impose una «questione fiscale», che ridisegnò i rapporti tra le periferie e il governo centrale.

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Nonostante le guerre, continuò il processo di rafforzamento dello stato, testimoniato da interventi «centralizzatori» quali l’emanazione nel 1632 delle Costituzioni in materia giudiziaria e l’avvio di una riforma monetaria. A ciò si aggiunse nel 1635 l’istituzione del Consiglio delle fabbriche e fortificazioni, al quale venne affidato l’importante compito di gestire la politica urbanistica. Dai primi anni del Seicento Torino fu infatti al centro di un vasto programma di rinnovamento: vennero realizzati i portici di Piazza Castello e ci fu l’apertura della Via Nuova, (l’odierna Via Roma), della Piazza Reale (ora Piazza San Carlo) e della Porta Nuova, con un primo ingrandimento verso sud. Si tratta del completamento della strategia di «magnificenza», perseguita da Carlo Emanuele I e che aveva portato all’erezione delle prime «delizie sabaude», quali il Regio Parco, Mirafiori e la «vigna» del cardinale Maurizio di Savoia, l’attuale villa della Regina.

Il processo di «modernizzazione» non venne interrotto neppure dalla peste, che colpì tutto il ducato tra 1630 e 1631. Certo, nel complesso la popolazione fu duramente colpita, tanto che solo verso il 1700 tornò ai livelli di un secolo prima. Alcuni storici affermano che l’epidemia ridusse gli abitanti di un terzo o della metà e le fonti coeve parlano di oltre 8000 morti a Torino (che ne contava poco più di 20000), di 5000 a Chieri, di 1300 a Vercelli. A Racconigi e Pinerolo sembra che i decessi interessarono i due terzi dei residenti, mentre a Carmagnola circa un quarto (1855 su 7610). Soltanto dopo il 1660, grazie alla pace, si realizzò un’inversione di tendenza, che favorì una ripresa proseguita quasi ininterrottamente fino al 1750.

Superato il momento critico rappresentato dal conflitto tra «principisti» e «madamisti», la reggenza di Cristina di Francia, pur tra le difficoltà della guerra contro la Spagna, rappresentò un momento di assestamento della società e del governo sabaudi. Il favore concesso dalla reggente alla nobiltà feudale, non comportò l’esclusione dagli uffici e dagli onori degli esponenti dei ceti «borghesi», anche se questi si dovettero adattare ad un ruolo subordinato rispetto all’ élite

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aristocratica. Tra le due componenti si realizzò un equilibrio fragile, che tuttavia rese possibile l’ascesa sociale e l’integrazione.

Tale processo venne favorito anche dal consolidamento della struttura statale, che si realizzò attraverso la definitiva formalizzazione di alcuni organii, come il Consiglio di Stato e il Consiglio delle Finanze, che in precedenza erano dipendenti dalla discrezionalità del principe e che ora erano chiamati a fornire pareri sulle maggiori questioni relative al governo dello stato. E’ in questo contesto istituzionale che vennero elaborati importanti provvedimenti destinati a incidere sulla realtà economica e sociale piemontese, come quelli che miravano alla revisione del catasto, al fine di operare una migliore distribuzione delle imposte e di limitare i privilegi del clero.

Gli interventi in tal senso si intensificarono durante il ducato di Carlo Emanuele II, iniziato nel 1663. Già nel 1661 era stato istituita la «Delegazione sopra il buon governo delle comunità», che diede inizio ad un’importante operazione di risanamento delle finanze comunitarie e di riordino delle amministrazioni locali. Il processo di ammodernamento non fu interrotto neppure dalla disastrosa guerra contro Genova del 1672 e gli effetti positivi dei provvedimenti degli anni precedenti vennero consolidati dall’opera del ministro Giambattista Truchi «il Colbert piemontese», il quale mise in atto un vasto piano di riforma del sistema economico subalpino. La breve reggenza di Giovanna Battista di Savoia-Nemours (1675-1684) proseguì il rinnovamento. Contrariamente al giudizio negativo datone per lungo tempo dalla storiografia, il suo governo deve essere giudicato, sottolineandone gli elementi di continuità e di innovazione , che ne fecero il necessario ponte tra l’epoca di Carlo Emanuele II e quella successiva di Vittorio Amedeo II. Oltre agli interventi in economia, la reggente si impegnò in una politica mirante a realizzare un modello di Stato ben regolato, al cui interno i ceti sociali erano inseriti in modo organico e subordinati al potere sovrano. Bisogna inoltre ricordare che va attribuito alla seconda

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«Madama Reale», il merito di aver portato a compimento l’ulteriore ampliamento della città, questa volta in direzione del Po.

A questo contesto bisogna richiamarsi per comprendere l’evoluzione della vita culturale piemontese nel corso del Seicento. Da una posizione piuttosto marginale, la corte torinese riuscì a inserirsi in pochi decenni in un circuito internazionale, grazie soprattutto all’impulso dato nel primo quarto del XVII secolo da Carlo Emanuele I, con la costruzione della grande Galleria e con il mecenatismo che portò a Torino poeti di fama come Marino, favorendo altresì i contatti con un ambiente artistico all’avanguardia come quello romano.

Il processo di elaborazione di un sistema culturale capace di definirsi in modo autonomo e di offrire all’esterno un’immagine riconoscibile, continuò poi con Madama Cristina e con i suoi successori ed ebbe come tappe significative due opere che si allacciavano alla migliore tradizionale culturale europea: l’Histoire généalogique de la Maison de Savoye di Samuel Guichenon e la grande impresa del Theatrum Sabaudiae, che fornì all’opinione pubblica europea un quadro, sia pur idealizzato, del mondo sabaudo.

Alla costruzione di un’immagine prestigiosa della dinastia contribuì la politica architettonica portata avanti dai duchi per tutto il secolo, che portò alla realizzazione non soltanto di importanti spazi aulici (è il caso del Castello del Valentino e del Palazzo reale, opera di Carlo e Amedeo di Castellamonte), bensì di edifici religiosi come la Cappella della Sindone, progettata dal famoso Guarino Guarini. Non vanno infine dimenticate le nuove residenze ducali, dalla discreta «vigna» di Madama Cristina, alla fastosa Reggia di Venaria Reale, destinata a suscitare l’invidia di Luigi XIV. Fino a quando durò la pace sancita a Cateau-Cambrésis, la Savoia conobbe un periodo di sviluppo, che però ebbe termine non appena la regione sul finire del Cinquecento fu nuovamente coinvolta nello scontro tra lo stato sabaudo e i suoi vicini. Nel 1589 ci fu un’invasione da parte degli svizzeri, mentre dal 1590 in poi continue furono le incursioni francesi. Alla guerra si aggiunsero le

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conseguenze di una congiuntura meteorologica sfavorevole, nota agli studiosi come «piccola glaciazione», caratterizzata da un abbassamento delle temperature, che provocò l’allargamento dei ghiacciai e un cambiamento del clima, con inverni rigidi e particolarmente nevosi, a cui seguivano primavere ed estati piovose, con frequenti inondazioni.

Tale situazione mise in crisi l’economia agraria, favorendo le carestie, che a più riprese colpirono la popolazione. Per tutta la prima metà del Seicento i cattivi raccolti furono frequenti, in particolare negli anni 1615-16, 1621-22, 1628-32, 1641-45, 1649-53. In concomitanza scoppiarono epidemie di peste e di altre malattie contagiose, che erano endemiche nei sistemi socio-economici dell’epoca e che si manifestavano appena si rompeva il sottile equilibrio tra risorse alimentari e popolazione. Già vi era stata una pandemia in Maurienne nel 1564-65, ma il contagio assunse notevoli proporzioni soprattutto alla fine del secolo, quando la peste comparve a Chambéry e di nuovo in Maurienne tra 1596 e 1599, colpendo poi la tutta la Savoia nel 1615 e nel 1629-31 (insieme al Piemonte), mentre nel 1639-40 interessò la sola Tarantaise.

Duramente colpite dalle avversità, le province savoiarde dovettero anche sopportare il peso di una crescente tassazione. Se nel 1565 la pressione fiscale era sotto le 200.000 livres , nel 1619 arrivava a 1.700.000, nel 1634 oltrepassava i due milioni e nel 1639 raggiungeva la cifra di 3.500.000 livres . Le continue guerre in cui fu impegnato il ducato sabaudo tra la fine del XVI e la metà del XVII secolo ebbero pesanti conseguenze per la Savoia, che a più riprese venne invasa e occupata dai francesi. Nel corso di tali vicende un ruolo importante ebbe la fortezza di Montmélian, che subì due assedi, il secondo dei quali nel 1630 durò ben tredici mesi. La sua importanza dal punto di vista strategica rimase però inalterata e il duca Carlo Emanuele II nel 1656 ne ordinò il completo ammodernamento.

Data la condizione privilegiata del clero e della nobiltà e la tendenza dei ceti possidenti a cercare l’esenzione, la pressione fiscale gravò soprattutto sul popolo minuto e sui contadini. E’ stato

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calcolato che in Tarantaise solo un terzo degli abitanti viveva in condizioni discrete, mentre il resto era sui livelli di sussistenza o costretto alla mendicità. A determinare l’impoverimento generale contribuivano non soltanto il fisco statale, che riscuoteva la taglia, bensì le decime signorili ed ecclesiastiche e i frequenti alloggiamenti militari.

Le comunità di montagna in genere riuscirono ad affrontare meglio la difficile congiuntura seicentesca, in quanto si erano formate nel corso di un lungo processo storico di co-evoluzione delle società locali e degli ecosistemi naturali alpini. Ne erano derivate tecniche produttive e forme di organizzazione giuridico-sociali capaci di dare risposte efficaci ai grandi mutamenti climatici, come nel caso della sopra citata piccola età glaciale. In questo sistema la terra apparteneva quasi totalmente agli agricoltori e l’ambiente forniva risorse più abbondanti. Alpeggi e beni comuni consentivano di mantenere il bestiame e di ricavare denaro dalla vendita di formaggi e carni da macello. La situazione era peggiore nelle comunità della media e bassa vallata, dove i contadini erano costretti spesso a vendere le loro proprietà ai ricchi e i comuni si indebitavano. Questa condizione non portò tuttavia a rivolte significative come quelle avvenute nella vicina Francia tra gli anni trenta e cinquanta del Seicento.

Una soluzione per ristabilire l’equilibrio tra popolazione e mezzi di sussistenza fu l’emigrazione, che consentiva anche di mandare al paese d’origine parte dei soldi guadagnati all’estero. Essa assumeva tre forme: stagionale, temporanea, definitiva e a partire dal Cinquecento divenne un fenomeno naturale per la società savoiarda. Ogni anno per esempio partivano dal Faucigny gruppi di facchini e venditori ambulanti verso la Germania, mentre muratori e scalpellini si dirigevano in Svizzera e Franca Contea. Dalla Tarantaise e dalla Maurienne si muovevano invece frotte di spazzacamini.

Un miglioramento nelle condizioni del paese si ebbe nella seconda metà del Seicento, specie dopo la pace dei Pirenei del 1659, che mise fine alla guerra con la Spagna. Nonostante altre

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carestie, che periodicamente colpirono la provincia nel 1661-62, 1674-75, 1678-80, l’economia in qualche modo si riprese, pur continuando a mantenere caratteri di marcato sottosviluppo.

Il passaggio tra XVII e XVIII secolo costituì invece un altro momento difficile. Il rinnovato stato di guerra tra il ducato e la Francia provocò danni, a causa del transito e dell’occupazione delle truppe d’oltralpe (1690-96, 1703-13). La fortezza di Montmélian fu ancora sottoposta a due durissimi assedi: uno nel 1690-91, l’altro nel 1705. Il governo di Parigi impose un rigido fiscalismo, che si aggiunse alla congiuntura climatica sfavorevole (dal 1680 al 1700 ci furono una dozzina di inverni prolungati, con gelate, piogge e fenomeni estremi, che rovinarono le colture).

Dopo essere riuscita a sfuggire alle vicende belliche per gran parte del Cinquecento, anche la Valle d’Aosta fu alla fine coinvolta nelle guerre che interessarono lo stato sabaudo nella prima metà del Seicento. Non potendo chiudere come in passato le proprie frontiere, la regione venne ripetutamente attraversata dalle armate alleate o nemiche, che seguivano due principali direttrici di marcia: la strada del Piccolo San Bernardo, che permetteva il trasferimento di truppe dai territori d’oltralpe in Italia e dal Piemonte in Savoia, Francia e Paesi Bassi; la via del Gran San Bernardo, utilizzata soprattutto dai mercenari che dalla Svizzera scendevano a combattere sul suolo italiano. Con l’aumento delle spese militari, la politica dei duchi nei confronti della Valle si caratterizzò per una crescente pressione fiscale, che colpì i privilegi locali. Particolarmente onerosa per l’economia rurale era la tassa sul sale, elemento indispensabile per la conservazione di scorte alimentari, la fabbricazione dei formaggi e l’alimentazione del bestiame. Fino alla metà del XVI secolo i valligiani avevano acquistato il sale rosso in Savoia o nel Vallese, perché più adatto alla salatura dei formaggi locali rispetto al prodotto marino importato dal Piemonte e la cui distribuzione costituiva un monopolio ducale. Nel 1596 Carlo Emanuele I stabilì pure la gabella sul vino, tentando inoltre di introdurre l’Ufficio dell’Insinuazione e fissando il tabellionato, cioè l’imposta sulla redazione degli atti pubblici.

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Come le regioni confinanti al di là delle Alpi, anche la Valle fu interessata dalla «piccola glaciazione» di fine Cinquecento. Alla crescita dei ghiacciai corrispose una forte riduzione di foreste e alpeggi, mentre i passi, percorribili soltanto tre o quattro mesi l’anno, vennero meno utilizzati per gli scambi commerciali. Per contro gli studi più recenti sembrano dimostrare che il peggioramento del clima non impedì una progressione in altitudine delle culture cerealicole, che resistevano anche a quote elevate, specialmente grano e segale per la panificazione, orzo e avena per i foraggi. La difficile congiuntura fu aggravata dalla peste del 1630, che già in precedenza si era manifestata episodicamente nella regione. L’epidemia acuì la crisi avviata dai mutamenti climatici e dalla politica sabauda, trasformando la Valle d’Aosta da crocevia dei commerci internazionali in uno spazio chiuso. La carenza di manodopera dovuta all’improvviso calo demografico (le fonti coeve danno un numero di morti oscillante tra la metà e i due terzi della popolazione, che contava circa 60 mila abitanti), provocò l’abbandono dei terreni coltivati ad alta quota, che tornarono ad essere invasi dalle foreste. Venne meno la manutenzione dei terrazzamenti e del complesso sistema irriguo, così che le colture specializzate per l’esportazione (vino, noci, mandorle) furono riconvertite in colture per l’autoconsumo.

Per far fronte alle difficoltà venne potenziato il ruolo di alcune figure tipiche della società agraria valdostana, come ad esempio gli champiers e i bornelliers. I primi erano guardie campestri, incaricate di evitare che vigneti e frutteti venissero danneggiati o subissero furti. I secondi invece avevano il compito della manutenzione delle fontane, unica forma di distribuzione dell’acqua potabile esistente nella Valle. Tutte le comunità avevano inoltre proprie guardie campestri, la cui istituzione aveva radici antiche, risalenti almeno al tardo medioevo.

Il maggior controllo esercitato dai duchi non incrinò, almeno nei primi decenni del Seicento, l’alleanza con l’emergente nobiltà di servizio, di estrazione borghese, che si era affermata anche nella Valle grazie all’espansione della burocrazia. Tale nuovo ceto, che trovava espressione in

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famiglie come i Roncas, i Vaudan e i Passerin, si inserì nell’élite dirigente locale e grazie ad una fitta rete di legami parentali e di alleanze matrimoniali riuscì a controllare le principali istituzioni locali, sia civili, sia religiose.

Nella seconda metà del secolo la situazione invece cambiò. L’appoggio concesso dalla classe politica locale ai principi Maurizio e Tommaso di Savoia contro la cognata Madama Cristina si rivelò una mossa fallimentare, che indusse quest’ultima a non avere più fiducia nei valdostani e a cercare di limitarne il più possibile l’autonomia. Tale azione venne perseguita, affidando a truppe piemontesi il presidio delle fortezze della Valle (in primo luogo Bard) e utilizzando funzionari originari di altre provincie del ducato piuttosto che membri dell’aristocrazia aostana.

Questo processo fu del resto favorito dalla riduzione numerica della nobiltà e dall’estinzione dei principali casati. In seguito alla peste infatti scomparirono dieci delle sessantotto famiglie esistenti (circa il 13% del totale) e le restanti furono costrette ad organizzare matrimoni al di fuori della Valle, avviando il progressivo trasferimento dei diritti feudali a casate forestiere. I vuoti però vennero presto colmati da una nuova noblesse de robe , che acquistò prestigio grazie a oculate strategie matrimoniali con la vecchia aristocrazia fondiaria, oberata dai debiti e indotta a cedere i propri diritti alla piccola nobiltà di toga o a famiglie agiate di origine borghese.

Antichi e nuovi signori continuarono comunque a difendere strenuamente i privilegi acquisiti, opponendosi non soltanto agli interventi del governo ducale, bensì alla richieste delle comunità di compilare dei registri che permettessero di suddividere i tributi in modo più equo, abolendo le esenzioni. Anche nella Valle d’Aosta, al pari di altri territori al di qua e al di là delle Alpi, emerse dunque il problema della perequazione e la stesura del catasto, che si protrasse dal 1628 al 1674 senza giungere però ad alcun risultato, creò una serie di conflitti sociali che avvantaggiarono l’azione centralizzatrice dei funzionari sabaudi.

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Nonostante le difficoltà di un secolo di crisi, il processo di rafforzamento dello stato si realizzò anche in una realtà periferica come Nizza. Le tappe del consolidamento del potere centrale furono nel 1613 l’introduzione dell’Ufficio dell’Insinuazione, che obbligava i notai a registrare e a conservare tutti gli atti rogati e nel 1614 la costituzione del Senato, supremo tribunale della provincia. Quest’ultimo provvedimento mirava ad affermare la superiorità della giustizia ducale nei confronti dell’alta nobiltà locale, il cui ultimo sussulto autonomistico fu rappresentato dalla rivolta del conte di Boglio Annibale Grimaldi, che però venne duramente repressa.

Indebolita dalle guerre di religione, in cui era stata coinvolta data la vicinanza con la Provenza, e sottoposta sempre più al controllo sabaudo, l’aristocrazia feudale andò in crisi e venne progressivamente sostituita da una nobiltà minore, composta da elementi di estrazione borghese e di recente nobilitazione, la cui gerarchia fu regolata nel 1627 dal governo torinese con un apposito editto, che definiva i criteri necessari per poter entrare nel ceto nobiliare. La politica sabauda favorì in questo modo la fusione tra la borghesia e la nobiltà.

L’azione dei duchi mirò ad incoraggiare la trasformazione sociale, da un lato attraverso la parziale eliminazione delle vecchie famiglie nobili, dall’altro favorendo lo sviluppo di Nizza, in vista di farne la vera capitale giudiziaria, commerciale e intellettuale della provincia. In questo senso un ruolo importante venne svolto dal Collegio dei dottori in legge, istituito da Emanuele Filiberto nel 1559 e riformato nel corso del Seicento, che divenne una vera e propria Università, in grado di conferire la laurea. Tale opportunità spinse i giovani a conseguire il dottorato, nella speranza di accedere alla cariche pubbliche, che davano diritto alla nobilitazione.

Per tutto il secolo, comunque sia, Nizza dovette fronteggiare un notevole problema, il crescente indebitamento della comunità, che come abbiamo visto affliggeva anche molti comuni piemontesi (il disavanzo del bilancio municipale tra 1650 e 1660 raggiunse i 100 000 scudi). Gli organi comunali tentarono senza successo di porre rimedio a tale situazione, cambiando le regole dell’imposizione

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fiscale e cercando in qualche modo di bilanciare la tassazione tra i vari ceti sociali. Fu però il fallimento di questa gestione finanziaria che permise al governo sabaudo, così come era accaduto in Francia, di intromettersi decisamente nell’amministrazione locale, dando così inizio a quel processo che avrebbe condotto nel Settecento alla definitiva eliminazione degli antichi privilegi della provincia.

2.Delfinato e Provenza nel quadro politico-amministrativo del Regno di Francia.

La provincia francese che confinava con la Savoia, vale a dire il Delfinato, aveva diversi tratti in comune con i territori savoiardi. Si trattava infatti di un’area di frontiera relativamente poco urbanizzata, pur contando molte comunità rurali. Tradizionalmente si segnalavano soltanto una decina di villes, tra cui emergevano Briançon, Embrum, Gap, Grenoble, Montélimar,Romans, Valence e Vienne. La regione era divisa in tre parti dai caratteri geomorfologici ben distinti: la zona montagnosa, quella pianeggiante e la zona oltre il Rodano.

Il blocco alpino si estendeva ad est e sud-est della provincia e presentava città piccole, ciascuna delle quali aveva una sua particolare importanza, grazie per esempio all’antica presenza di una sede arcivescovile (è il caso di Embrun) o alle possibilità di commercio offerte dalle vallate che mettevano in comunicazione con il Piemonte e l’Italia (è il caso di Briançon e in misura minore di Gap). I colli dell’Agnello, della Croce e del Monginevro erano infatti caratterizzati da un intenso passaggio di uomini e merci. Inoltre, la rilevanza di tali vie di comunicazione, come abbiamo visto, aumentò nel Cinquecento a causa delle esigenze militari e portò alla realizzazione di nuove fortificazioni, come ad esempio Exilles e Châeau Queyras.

La parte pianeggiante si apriva invece a nord verso Lione ed aveva un grande snodo stradale nella località di Pont-de-Beauvoisin, vera porta d’ingresso delle mercanzie, ma anche degli eserciti,

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che provenivano dalla Savoia. La valle del Rodano costituiva il limite occidentale del Delfinato e vi sorgevano importanti centri quali Valence, città universitaria, Vienne, sede di un’arcidiocesi e Romans.

In questo territorio fondamentale era il ruolo dei fiumi, vale a dire del sistema idrografico costituito dal Rodano e dai suoi affluenti. Il primo permetteva i collegamenti lungo l’asse nord-sud, mettendo in comunicazione la Provenza e il Mediterraneo con Lione e la Franca Contea, mentre i secondi favorivano i rapporti con la Savoia e di conseguenza con l’Italia, grazie ai bacini della Durance e dell’Isere.

Non meno importanti, però, erano le vie di terra, la cui struttura era per molti versi simile a quella del vicino Piemonte. Intorno ad alcune arterie principali, che a partire dal XVII secolo assunsero un’importanza crescente in quanto routes royales , si sviluppò una rete di percorsi paralleli e interscambiabili, che dava origine ad una circolazione capillare. All’inizio del Seicento le Strade reali erano due: la Lione-Pont-de-Beauvoisin e la Lione-Provenza lungo la valle del Rodano. Regione di transito, dal punto di vista economico il Delfinato godeva della benefica influenza di distretto lionese, che a partire dal tardo medioevo aveva conosciuto una crescente fortuna, grazie alle industrie della seta e della stampa e alle fiere, che ancora per tutto il secolo XVI richiamarono mercanti e banchieri. Certo, non mancavano città con attività manifatturiere, come Vienne, dove venivano prodotte carta, armi, armature e tessuti di seta o Romans, in cui era attiva l’industria tessile ed era fiorente il commercio di sale e grano con le valli alpine. In effetti, la regione presentava un’economia differenziata, che offriva varie possibilità di sviluppo. Le montagne mettevano a disposizione legno e risorse minerarie, in pianura pascoli estesi favorivano l’allevamento del bestiame.

Numerosi erano i montoni, che fornivano carne e lana, alimentando un notevole fenomeno di transumanza che dalla Provenza raggiungeva le montagne intorno a Briançon. I cavalli erano pochi

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e di proprietà dei più ricchi, mentre i meno abbienti possedevano soprattutto bovini, utili in quanto fornitori di forza lavoro, carne e cuoio, che alimentava l’industria dei pellami. Ovunque venivano allevati ovini, per la lana, il latte e i formaggi che ne derivavano e altrettanto diffusi erano maiali e capre. Un ruolo notevole era infine ricoperto dall’allevamento del baco da seta.

Grenoble, capoluogo del Delfinato, non era molto diversa da Chambéry. Era infatti soprattutto una città amministrativa, dove risiedevano gli organi locali di governo e di rappresentanza, ossia il Parlamento, a cui era annessa una Camera dei Conti e gli Stati provinciali. Non era una capitale economica, dipendendo in sostanza dai traffici con Lione, tuttavia rappresentava un importante snodo delle vie commerciali. Attraverso la valle del Grésivaudan collegava infatti il Lionese a Torino e Genova via Chambéry e il colle del Moncenisio.

Nel 1565 Grenoble contava circa 6.000 abitanti ed aveva conosciuto un’espansione demografica nella prima metà del Cinquecento, che sembra essere stata analoga a quella registratasi in tutta la regione. La popolazione cittadina contava un numero notevole di uomini di leggi e di mercanti, con una buona percentuale di artigiani. Forte era la concentrazione nobiliare, destinata a rafforzarsi nel tempo. Pur con qualche fluttuazione, la crescita continuò anche in seguito nonostante le epidemie che si verificarono ad esempio tra 1586-87 e 1597-98, tanto che alla fine del secolo i residenti erano 10.000 (contro i 7500 di Romans e gli 8000 di Vienne). Anzi, si può dire che a somiglianza di Torino, Grenoble tra cinque e seicento compì il definitivo salto di qualità, che le permise di affermarsi sugli altri centri urbani anche dal punto di vista demografico.

Dato il suolo in gran parte aspro e freddo, il Delfinato non aveva un’agricoltura molto sviluppata. Circa la metà delle terre disponibili erano costituite da campi, su cui veniva applicata una tecnica piuttosto arretrata come la rotazione biennale, che permetteva rese mediocri, da 2 a 6 per 1. Pur contando sulla presenza di molti fiumi, rifornimento d’acqua era carente, mentre le alluvioni erano frequenti e rovinose. Venivano coltivati soprattutto i cereali, anche se diffusi erano la vigna e gli

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alberi da frutta. Si ricavava olio in gran quantità dalle noci e largamente praticate erano la coltivazione del gelso e della canapa.

Nelle campagne l’habitat era sparso e i contadini lavoravano proprietà piuttosto piccole, dove la famiglia costituiva la cellula fondamentale di produzione. Nel Cinquecento Il sistema signorile era ancora diffuso, ma doveva confrontarsi con le comunità rurali, che erano oltre 900. Tali organizzazioni collettive difendevano i contadini contro gli abusi signorili, ma contrariamente alle comunità di montagna non si interessavano molto della gestione dei beni comuni, che venivano lasciati allo sfruttamento individuale. Anche nel Delfinato, tuttavia, come abbiamo visto per i domini sabaudi, le comunità col tempo divennero le cellule di base del sistema fiscale. Nel complesso la provincia si divideva in due secondo una linea che seguiva la valle dell’Isère: a nord-ovest si trovavano le terre ricche, a sud invece i terreni fertili erano scarsi. Qui veniva praticata un’economia di sussistenza, dove la circolazione monetaria era limitata e largamente praticato lo scambio in natura. Una tale situazione somigliava molto a quella della confinante Savoia.

La vicinanza aveva favorito le relazioni tra le due regioni, nonché lo scambio di culture e tradizioni. Il Delfinato era inoltre uno spazio di transito linguistico: il francese era la lingua ufficiale, ma la gente comune si esprimeva ancora in provenzale e franco-provenzale. Si trattava in effetti di una lingua che aveva seguito una propria evoluzione, subendo una latinizzazione più lenta della lingua d’Oc e un’influenza germanica più debole rispetto alla lingua d’Oïl; una lingua che veniva parlata con qualche variante anche nelle vallate francofone della Svizzera e del Piemonte.

Con lo scoppio delle guerre cinquecentesche, la naturale prossimità con le terre italiane aveva fatto nascere nei gruppi dirigenti della regione il sogno di un «grande» Delfinato, tanto che molti soldati e uomini di legge originari della provincia erano stati inviati a governare i territori occupati al di là delle Alpi: all’inizio del XVI secolo avevano preso le redini del ducato di Milano, qualche decennio più tardi quelle del marchesato di Saluzzo, che venne sottoposto alla giurisdizione del

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Parlamento di Grenoble. Quando i francesi invasero nel 1536 il ducato sabaudo, a guidarli c’era non a caso il conte di Saint Pol, governatore della città. Il mito della conquista dell’Italia, incarnato dall’eroica figura del cavaliere Bayard, nativo di Pontcharra, nella valle dell’Isère, continuò a resistere anche nel secolo successivo.

Il Delfinato era entrato a far parte piuttosto tardi del Regno di Francia. Come appannaggio del Delfino erede al trono, aveva conservato la condizione di Pays d’Etat, col privilegio di mantenere le proprie leggi e usanze. Il passaggio alla corona era avvenuto per gradi, con una prima donazione libera da parte del Delfino nel 1349 ed una definitiva nel 1457. I diritti del paese erano stati garantiti, ma vennero progressivamente erosi dai sovrani francesi, a cominciare da Francesco I, il quale nel 1539 estese alla regione la legislazione valida per tutto il regno. Nel corso del XVI secolo la monarchia cercò di consolidare il proprio potere in materia fiscale e giudiziaria, incontrando però la resistenza delle istituzioni locali. A Grenoble nel 1551 venne insediato un tesoriere generale e di conseguenza diminuirono le prerogative degli Stati provinciali in campo finanziario.

La politica militare portata avanti dalla monarchia francese comportò un notevole aumento delle imposte, che causò particolari tensioni in Delfinato, dove esisteva già una forte disuguaglianza fiscale e gravi contrasti tra nobiltà, comunità rurali e città in materia di perequazione. La regione era del resto divisa in due zone: mentre nel sud-est (Gap, Embrun, Briançon) esisteva la taglia reale (una tassa basata sul registro delle proprietà), nel resto della provincia la taglia era personale. Dal momento che i nobili e spesso anche i borghesi erano esenti, il peso della tassazione gravava soprattutto su contadini e popolo minuto.

Il problema consisteva nell’estendere dappertutto la taglia reale, ma tale possibilità suscitò l’opposizione dei ceti privilegiati. La lotta assunse a volte connotati cruenti, come nell’episodio del famoso «carnevale di Romans» del 1579-80. I ceti artigiani e popolari della città, approfittando dell’evento carnevalesco, che aboliva per un momento le distinzioni sociali e realizzava una sorta di

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capovolgimento dei ruoli, inscenò una clamorosa protesta contro l’aristocrazia, che sfociò nella violenza e che suscitò la sanguinosa reazione della nobiltà.

Il sistema della taglia reale, non a caso sostenuto dallo stato, che poteva contare con questo sistema su una base imponibile più certa, si affermò soltanto nel corso del Seicento, dopo un lungo periodo di controversie che durò dal 1595 al 1634 e che è passato alla storia come les procès des tailles . Le divisioni all’interno della società favorirono l’intervento della corona, che alla fine impose la propria volontà, operando un’ulteriore limitazione dell’autonomia locale. Il processo di centralizzazione politica e fiscale fu portato avanti in tutto il regno soprattutto dal cardinale Richelieu, che sferrò un grande attacco ai Pays d’Etat e ai loro privilegi.

Il primo a subirne le conseguenze fu proprio il Delfinato, dove la taglia reale venne imposta d’autorità dal governo di Parigi, che istituì il catasto. Gli Stati provinciali furono sospesi nel 1628 per non essere più convocati, mentre al loro posto vennero create delle apposite circoscrizioni amministrative, le elections, con sede nelle principali città. Il Parlamento perse la giurisdizione sulle gabelle, che fu affidata ad una Camera dei Conti separata e ad appositi tribunali decentrati. Di fronte alle resistenze dei ceti e della magistrature locali, nel 1639 venne insediato a Grenoble un’intendente, funzionario regio dotato di ampi poteri, ma ciò non pose fine alle proteste, che nel 1641 e 1644 sfociarono in vere rivolte.

Queste del resto furono il riflesso periferico della crisi politica, sociale e finanziaria, che interessò in questi anni lo stato francese, segnato da una vera e propria guerra civile come la Fronda e profondamente scosso dalle sommosse popolari e contadine, causate dall’aumento della pressione fiscale, conseguenza delle enormi spese militari sostenute per la Guerra dei Trent’Anni.

La Francia intera e il Delfinato in particolare, parteciparono in questo modo al periodo di instabilità politica e recessione economica che caratterizzò l’intera Europa e che gli storici hanno definito la «crisi del Seicento». La difficile congiuntura fu preceduta da una flessione demografica,

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che interessò i decenni centrali del secolo e durò fino al 1665, quando prese il via una nuova fase di crescita, destinata a durare almeno fino al 1690. A questa data la popolazione del Delfinato era calcolata in oltre 583 000 unità, contro le 527 000 di un secolo prima. Grenoble passò da 10 a 20000 abitanti, mentre le altre città più popolose come Romans e Vienne regredirono o rimasero stazionarie.

La Provenza, regione che confinava a nord con il Delfinato e a sud-est con le Alpi piemontesi e il Nizzardo, era entrata a far parte del Regno di Francia ancora più tardi, grazie al lascito dell’ultimo conte nel 1481. La sua importanza strategica, come punto di collegamento tra Alpi, Riviera ligure ed Italia era stata subito messa in luce dalla spedizione di Carlo VIII, che partendo dalle basi provenzali era calato nella Pianura padana passando per Gap, Briançon e il Monginevro. Al pari delle altre aree alpine a prealpine (Delfinato, Savoia, Piemonte), la Provenza era stata coinvolta nelle guerre d’Italia del primo Cinquecento e sottoposta più volte all’invasione e al transito delle truppe.

La provincia aveva mantenuto un forte spirito autonomistico, che derivava dal suo essere un pays d’Etat , dotato di leggi proprie. La corona francese portò avanti anche qui una politica centralizzatrice, che ne trasformò l’organizzazione amministrativa. Accanto alle vecchie istituzioni, come il gran siniscalco e gli Stati provinciali, i cui poteri furono limitati, vennero creati un Parlamento per l’alta giustizia (1501) con sede ad Aix e una serie di tribunali locali. La gestione delle finanze dal 1552 passò nelle mani di un tesoriere generale coadiuvato da una Camera dei Conti.

La Provenza comprendeva territori di diversa configurazione ed era racchiusa tra quattro fiumi: Rodano (ad est) Varo (ad ovest), Ubaye e Durance (a nord). Per comodità può essere divisa in due ampie zone: l’Alta Provenza dai tratti montuosi e la Bassa Provenza più pianeggiante. Si trattava di

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una regione più fertile del Delfinato, dove prevalevano i prodotti dell’agricoltura mediterranea: grano, vino, olio.

In quest’area tra fine XV e metà XVI secolo si era realizzata una notevole espansione demografica. Marsiglia nel 1554 contava 30.000 abitanti e si calcola che a metà ‘500 la popolazione provenzale nel complesso oscillava tra i 350 e i 400.000 abitanti, equamente divisi tra le campagne e le città, che erano numerose. La crescita aveva provocato anche una forte emigrazione dalle montagne alla pianura, tanto che i detentori di signorie fondiarie avevano dovuto rimpiazzare i contadini, attirando lavoratori anche dal vicino Piemonte. Porti come Marsiglia e Tolone erano centro cosmopoliti e soprattutto il primo contava molti emigranti provenienti dal Delfinato e dalla Savoia.

La struttura sociale era più aperta che nel vicino Delfinato: l’aristocrazia non era così numerosa, né era ancora sviluppata la nobiltà degli uffici, per cui vi era ampio spazio per mercanti ed artigiani. La terra era la principale ricchezza, ma i nobili ne detenevano soltanto il 10% e per di più si trattava di piccola nobiltà di campagna, i cui modi di vita poco si discostavano da quelli dei contadini ricchi. Inoltre, le comunità rurali della Bassa Provenza fin dal XVI secolo riuscirono a riscattare i diritti feudali, pagando canoni in contanti o in natura.

L’agricoltura era l’attività economica più importante, veniva praticata in modo estensivo ed era ancora caratterizzata da tecniche arretrate, che non permettevano di ottenere alti rendimenti. Diffusi rimanevano l’uso del pascolo collettivo e dell’aratro trainato dai buoi, mentre mancava l’abitudine alla rotazione delle colture. I prodotti principali erano cereali, vino e bestiame. La Provenza occidentale era il regno delle grandi mandrie, soprattutto la Camargue, dove i testimoni dell’epoca calcolavano la presenza di almeno 16.000 bovini e 4.000 cavalli. L’allevamento però era diffuso anche al nord, dove esistevano ampi pascoli collettivi e alpeggi, il cui uso era fonte di aspre

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dispute tra le comunità. A Sisteron, per esempio, erano mantenuti 17.000 ovini, 450 buoi, 250 cavalli e muli, mentre la città di Digne era un grande mercato del bestiame.

La vigna era una pianta estesa in tutta la Provenza, da nord a sud. Sempre a Sisteron la viticoltura era così largamente praticata da poter essere definita quasi una monocoltura, che arrivava oltre gli 800 metri di altitudine. Tale coltivazione consentiva un’abbondante produzione, parte della quale veniva esportata. Altrettanto diffusa era la coltura dell’ulivo e in alcune zone della costa (l’odierna Costa Azzurra) quella degli alberi da frutto: fichi, mandorle, pesche, albicocche. Nella zona di Hyeres, grazie al clima particolarmente mite, potevano essere coltivati piante esotici come il riso, le arance, la canna da zucchero.

L’economia provenzale era abbastanza sviluppata da consentire in condizioni normali il sostentamento della popolazione e i soddisfacimento anche di bisogni secondari come quelli culturali. L’istruzione primaria era assicurata dalle comunità e la vita intellettuale era piuttosto vivace. Avignone ed Aix erano inoltre sedi di università, anche se di seconda fascia, che comunque attiravano studenti dalle regioni vicine. Sempre ad Aix si formò un piccolo cenacolo letterario, ma nel Cinquecento la figura più rilevante del panorama culturale fu Michel Nostradamus, medico e astrologo. Raffinato umanista, autore delle famose «Centurie», venne consultato dai più importanti personaggi dell’epoca, dalla regina Caterina de’Medici, al duca Emanuele Filiberto di Savoia, al quale predisse la nascita dell’erede Carlo Emanuele.

L’industria era attiva in particolare nel settore tessile. Ad Aix, Salon, ma soprattutto Avignone venivano prodotti damaschi e velluti, esportati alle fiere di Lione. Marsiglia era invece specializzata in cotonine, mentre in tutta la Provenza erano presenti concerie per la lavorazione del cuoio e delle pelli. Nel corso del XVI secolo mercanti tedeschi introdussero manifatture di sapone, che col tempo diventeranno tipiche dell’economia provenzale. Possiamo infine ricordare l’industria della carta e quella metallurgica, praticata però in forma artigianale e senza la presenza di grandi fonderie.

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Data la sua posizione geografica, la Provenza ospitava un intenso traffico mercantile, i cui nodi principali era nell’interno Avignone e sul mare Marsiglia, dove operavano numerosi banchieri e imprenditori, anche stranieri. La città costiera divenne il più importante porto sul Mediterraneo, grazie all’industria cantieristica e agli accordi tra i re di Francia e il governo ottomano, che consentivano alle navi francesi la libertà di commercio e in sostanza il monopolio dei traffici con il Levante. A metà del XVI secolo da Marsiglia passavano merci per un valore di sei milioni di scudi e da qui partivano i mercanti che risalivano il Rodano verso le fiere lionesi.

Terminati i conflitti di religione, il processo di integrazione della regione nel regno di Francia si accelerò. Analogamente al Delfinato, si realizzò un processo di razionalizzazione e centralizzazione amministrativa, che tuttavia non portò all’assimilazione completa, dato che il Parlamento d’Aix pretendeva di godere ampia autonomia rispetto a quello di Parigi. L’obiettivo del governo fu quello di ristabilire la concordia sociale, ma nei primi decenni del XVII secolo la Provenza continuò a rimanere in uno stato di latente anarchia, provocata dal permanere delle divisioni confessionali, che alimentarono i conflitti politici.

Comunque sia, all’inizio del Seicento la provincia fu al centro degli interessi della corte, dove avevano raggiunto posizioni di potere uomini di origine provenzale come per esempio il duca di Luynes, favorito del giovane re Luigi XIII. Grande attenzione venne rivolta a Marsiglia, in cui la popolazione aveva conosciuto un costante sviluppo, passando dai 15000 abitanti del 1515 ai 40000 del 1599. Il traffico mercantile si era infatti mantenuto costante e il governo centrale cercò di trasformare la città in un non solo provinciale, ma nazionale, tanto che sul finire del Cinquecento venne fondata una Camera di Commercio.

La svolta fondamentale fu determinata come per il Delfinato dall’intervento promosso dal cardinale Richelieu alla fine degli anni venti. Per sostenere le spese militari derivanti dalla guerra contro gli ugonotti e contro la monarchia asburgica, il potente ministro impose tasse straordinarie,

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che furono anche l’occasione per procedere ad una riorganizzazione in senso centralizzato dell’amministrazione fiscale. Nonostante le proteste del Parlamento e dei ceti, che nel 1630 sfociarono in aperta rivolta, venne esteso anche alla Provenza l’editto che la trasformava da pays d’Etat in pays d’élection, con la conseguente decadenza degli Stati provinciali, mai più riuniti dopo il 1639 e sostituiti da assemblee di notabili.

La partecipazione diretta della Francia alla guerra dei Trent’anni a partire dal 1635 accrebbe l’importanza strategica della Provenza e della sua capitale. Uno dei principali obiettivi della politica di Richelieu fu infatti quello di potenziare la presenza commerciale e militare francese nel Mediterraneo per contrastare la Spagna e soprattutto le marinerie del nord, Inghilterra e Olanda nei traffici col Levante. Tale sforzo però non ebbe successo, tanto che nella prima metà del XVII secolo il volume dei commerci marsigliesi diminuì notevolmente e fu solo per opera del ministro Colbert che si ebbe una ripresa a partire dagli anni sessanta.

Lo sviluppo della regione non risentì dell’epidemia di peste del 1629-30, che pur provocando migliaia di vittime, non rallentò la crescita demografica: Marsiglia raggiunse i 65000 abitanti nel 1666, mentre centri come Tolone passarono dai 10000 del 1598 ai 18000 del 1635. Più nocive furono le periodiche crisi agrarie (1616, 1621, 1661-62), ma i centri urbani cominciarono a diventare un’attrazione per i contadini e benché non ci fosse un vero e proprio esodo rurale, i rapporti tra città e campagna si intensificarono.

Rispetto al secolo precedente, l’economia agraria non presentò particolari innovazioni. La coltura principale continuò a rimanere quella dei cereali, che negli anni risparmiati dalla carestia garantiva l’esportazione verso Genova e Lione. Quello che si affermò definitivamente nel Seicento fu un sistema agricolo differenziato, ma in qualche modo integrato, che rifletteva le condizioni naturali del territorio: la «grande coltura» del grano nell’Alta Provenza, quella dell’olivo, della vigna e delle piante da frutto nella Bassa Provenza. In tale contesto un ruolo importante avevano i boschi e i

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pascoli, duramente difesi dai proprietari (signori o comunità) e spesso oggetto di liti e contestazioni.

In presenza di un allevamento diffuso, ma poco consistente per quanto riguarda gli animali di grosse dimensioni, si accentuò la tendenza a limitare le servitù collettive a favore dei diritti individuali, così se da una parte ci furono l’espansione della messa in valore degli incolti e la loro progressiva riduzione, dall’altra si assistette alla moltiplicazione dei «divieti» e di conseguenza una diminuzione delle mandrie. Le bestie da latte e da lana (in genere ovini), rimasero tuttavia numerose e alimentarono un fenomeno come la transumanza, che aveva il suo centro a Digne e veniva praticata tra Provenza e Delfinato.

Per gran parte del XVII secolo l’industria ebbe un ruolo meno importante rispetto al Cinquecento. Il commercio interno rimase difficoltoso a causa delle cattive condizioni delle strade, così che in definitiva le principali vie di traffico erano soltanto due: l’asse Provenza -Linguadoca e quella più percorsa, cioè la strada terrestre che attraverso le Alpi raggiungeva il Delfinato e poi Lione, dove venivano esportati i prodotti locali.

Su tale struttura economica, a base prevalentemente agricola, si esercitò un crescente prelievo fiscale da parte dello Stato. La taille governativa si aggiunse ai diritti signorili e alle decime ecclesiastiche, determinando una grande pressione sulle comunità, che si indebitarono. Benché in Provenza la taglia fosse reale, esistevano disuguaglianze nella sua ripartizione, che premiavano i ceti più forti. Così, come nel Delfinato, la perequazione fu un notevole problema che provocò forti tensioni sociali.

Altrettante difficoltà suscitarono i conflitti che scoppiarono verso la metà del secolo in occasione dei movimenti antimonarchici della Fronda. Il parlamento d’Aix partecipò alla Fronda parlamentare, alleandosi con quello di Parigi, mentre parte della nobiltà provenzale aderì alla Fronda dei principi. Superata la crisi, il giovane Luigi XIV decise di affermare l’autorità sovrana nel

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regno e compì un viaggio anche in Provenza per realizzare tale obiettivo. Il re visitò prima Aix, poi Avignone e fece occupare militarmente Marsiglia, il cui municipio venne riorganizzato. L’esemplare «punizione» della capoluogo annunciò che era giunto il tempo dell’ordine e dell’obbedienza. La Provenza del Grand Siècle fu caratterizzata da un sistema amministrativo basato sulla presenza degli intendenti, i quali controllavano il governo locale. La nobiltà provinciale vide limitate le proprie prerogative politiche, mentre lo stesso status nobiliare scadeva di qualità in seguito alla moltiplicazione della vendite dei titoli e all’estinzione delle antiche famiglie, fenomeni che portarono alla nascita, specie nella città, di una nuova aristocrazia, legata strettamente alla monarchia.

La tassazione continuò ad essere gravosa e ripartita in modo diseguale tra i ceti: oltre alla taglia, esistevano il focaggio e la capitazione, introdotta alla fine del Seicento. Il paese inoltre corrispondeva ogni anno al sovrano un «dono gratuito», il cui ammontare crebbe in modo costante: 500 000 livres nel 1672, 700 000 nel 1693.

3. La realtà economica, sociale e culturale.

Il Piemonte del primo Seicento ereditò il sistema economico del secolo precedente, che come si è visto era fondato essenzialmente su un’agricoltura piuttosto fiorente (cereali, vino, bestiame), ma che era che era ancora soggetta a crisi cicliche e carestie, come quelle particolarmente gravi del 1669-70 e 1677-78. Essa era però in grado di produrre negli anni migliori un surplus destinato anche all’esportazione, che avveniva sotto il controllo di un apposito ufficio, il Magistrato dell’abbondanza, il cui intervento non riusciva tuttavia ad impedire il contrabbando, che interessava soprattutto le zone di confine a ridosso della Liguria e del Nizzardo.

I duchi proseguirono la politica di potenziamento delle attività manifatturiere perseguita da Emanuele Filiberto, senza però ottenere risultati significativi. Certo, continuarono ad esistere

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alcune zone tradizionalmente votate alla lavorazione di determinati prodotti, destinati al mercato locale o al massimo regionale. E’ il caso di Pinerolo, specializzata nei panni di lana e di Chieri, dove venivano lavorati i fustagni, anche se non è possibile formulare ipotesi attendibili sul numero degli occupati e sulla quantità dei manufatti.

Una grande novità fu rappresentata però dalla seta, che risulta presente in modo capillare in tutta la regione. Attività strettamente legate al mondo agrario, la coltivazione del gelso e l’allevamento del baco si diffusero nelle campagne, dove le famiglie contadine procedevano ad operazioni come la trattura e la torcitura, che costituivano le fasi iniziali dell’intero ciclo di produzione. In questo modo si otteneva un semilavorato che veniva concentrato in centri di smistamento quali Carmagnola e soprattutto Racconigi, per essere esportato verso Lione, ma anche in Lombardia e Genova. Quanto a Torino, dove la presenza di un nutrito ceto mercantile garantiva la disponibilità di capitali, assunse progressivamente il ruolo di polo commerciale e finanziario del ducato.

Nella seconda metà del secolo si intensificarono i provvedimenti a sostegno dell’economia, grazie all’opera del generale delle finanze Giambattista Truchi, deciso a introdurre anche in Piemonte i principi del mercantilismo. Interessato soprattutto al risanamento delle finanze ducali e dei bilanci delle comunità, il ministro si impegnò in importanti progetti per rilanciare il commercio sia interno, con la costituzione di una Camera di Commercio, sia estero con il potenziamento dello scalo marittimo di Nizza e Villafranca, per favorire il quale fu stipulato anche un trattato con l’Inghilterra (1669).

Benché questi piani non fossero sempre coronati da successo, testimoniano la vivacità dell’ambiente socio-economico subalpino e costituirono la base per gli interventi successivi, a partire da quelli operati dalla reggente Maria Giovanna Battista, che fondò un Consolato di commercio, con il compito di coordinare l’attività manifatturiera e in particolare l’industria serica.

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In effetti il risultato più duraturo dell’epoca di Carlo Emanuele II e di Truchi fu proprio la diffusione della trattura serica col sistema del mulino alla bolognese, che dal 1663 affiancò gli impianti manuali già ampiamente diffusi nella campagne.

Lo sviluppo del settore venne favorito dalla collaborazione tra imprenditori, banchieri (ormai in gran parte di origine piemontese), tecnici e funzionari governativi, i quali prepararono la normativa relativa all’organizzazione della produzione. Altro fattore determinante consistette nella definitiva affermazione di Torino come capitale e centro politico-economico del ducato. La popolazione crebbe e nonostante le pesanti conseguenze della peste, gli abitanti passarono dai 15000 di fine Cinquecento ai circa 40000 rilevati intorno al 1670.

La crescente attenzione del governo sabaudo per l’economia, comportò pure un maggiore controllo sulle fonti energetiche disponibili. Vennero quindi emanati i primi provvedimenti destinati a mutare i rapporti tra lo stato e l’ambiente alpino, specie per quanto riguarda l’uso di una delle sue principali risorse, cioè il bosco.

Il suo utilizzo era un aspetto complementare dell’economia locale e veniva regolato da norme localmente e collettivamente stabilite. Il bosco costituiva una parte importante nella civiltà del consumo «integrale», in cui nulla veniva scartato. Tale società non era priva di conflittualità (ad esempio tra famiglie vecchie e nuove che volevano accedere alla risorsa oppure tra villaggi limitrofi). Inoltre, a partire dal XVII secolo la concorrenza per il predominio degli alpeggi mise in crisi la delimitazione stessa del bosco.

Studi recenti hanno dimostrato che nell’ambiente alpino si intrecciarono quindi tre ambiti di uso diverso dello spazio: i diritti di pascolo, le regole di accesso delle greggi e degli uomini, gli usi di raccolta e taglio della legna. Il deficit dei bilanci comunali, che come si è visto aveva colpito le comunità piemontesi nella prima metà del Seicento, favorì la redistribuzione delle giurisdizioni sui

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boschi ai creditori delle comunità, generando nuovi gruppi di potere, che intendevano ribadire sul terreno i loro diritti.

Fu in questo contesto che si inserì progressivamente lo stato. Dalla fine del secolo in poi le vicende del bosco si configurarono come la storia di una serie di conflitti, di contrapposizioni di logiche e di modelli economici diversi e divergenti. A cavaliere delle Alpi occidentali lo stesso processo storico seguì percorsi parzialmente differenti, dettati dai quadri istituzionali dei rispettivi stati che si affermarono sui due versanti. Mentre nel regno francese la legislazione promossa dal ministro Colbert a partire dal 1661 riscrisse le regole dell’utilizzo del bosco, avviando un sistema di gestione centralizzata che proseguì nei secoli successivi, in Piemonte la normativa ducale assunse subito un carattere vincolistico, con lo scopo di fornire allo stato il legname necessario alle attività militari. Mentre in Francia le leggi forestali avevano un carattere normativo, nel ducato sabaudo ne assunsero uno proibitivo, producendo comunque lo stesso effetto: l’insorgere di un forte antagonismo tra l’autonomia locale nell’uso di una risorsa e la gestione centralizzata di un bene, che veniva ormai considerato patrimonio pubblico e quindi sottratto al controllo delle comunità. Il criterio mercantilistico ispirò anche la politica viaria sabauda. A suscitare l’interesse del governo erano le strade su cui transitavano le merci: l’asse Torino-Moncenisio e il suo prolungamento naturale verso Nizza. Attenzione minore veniva data alle direttrici verso Genova e Milano, a causa dell’esistenza dei territori monferrini, che interrompevano la continuità di quelli sabaudi.

Nel 1680 la Carta generale degli Stati di S.A.R. di Giovanni Tommaso Borgonio riproduceva il fitto reticolo viario del ducato. Si trattava di un’opera ufficiale, da cui emergeva l’ossatura del sistema stradale, come si era andato realizzando nel corso del XVI e XVII secolo. Nell’area piemontese si evidenziava uno schema fortemente accentrato, in cui le strade principali convergevano su Torino, collegandola ai confini dello stato, secondo queste direzioni: Moncenisio-Savoia;

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Pinerolo-Briançon; Savigliano-Cuneo-Nizza; Carmagnola-Bra-Ceva-Oneglia; Torino-Chivasso-Aosta. In Savoia invece esisteva una struttura policentrica, data dalla mancanza di una capitale. Chambéry infatti non aveva in questo senso una funzione centralizzatrice, perché nelle vicinanze vi erano città più importanti, come Lione e Ginevra. La regione presentava dunque una struttura a maglie ampie, che univa i principali centri urbani.

Nel complesso si può dire che alla fine del Seicento gli Stati sabaudi disponevano di una rete stradale molto fitta a livello locale, su cui emergevano grandi assi viari. Essi si erano andati definendo e consolidando a partire dalla metà del ‘500, secondo le direttive di una politica ducale tendente a fare del Piemonte un ponte per i grandi traffici internazionali. Risultava invece scarsamente sviluppato il livello intermedio, dei collegamenti interprovinciali, marginale rispetto ad un disegno basato sulla valorizzazione delle grandi arterie di comunicazione. Si distaccavano da questo schema i territori al di là dei monti, all’interno dei quali, pur con una netta predominanza degli assi di collegamento con il Piemonte, la struttura era più equilibrata ed uniforme.

Nelle provincie savoiarde, l’intervento ducale mirò in primo luogo a incrementare il commercio di transito, che costituiva la principale risorsa economica della regione. Si trattava di ripristinare il dazio di Susa e la strada del Moncenisio, che era stata interrotta a causa delle guerre ed abbandonata dal traffico mercantile, dirottato sul Sempione. A tale proposito il governo ducale perseguì un’azione di potenziamento stradale, con l’intento di migliorare la viabilità e di costruire nuovi ponti in pietra, che sostituissero quelli in legno.

Questi provvedimenti furono accompagnati da altri, che in linea con la politica mercantilistica adottata in Piemonte, puntavano a rafforzare la manifattura locale con la concessione di incentivi e privilegi a quanti volevano iniziare un’attività produttiva in loco. Per non dipendere più da forniture estere, per esempio il sale importato dalla Linguadoca e dalla Provenza, si cercò di incentivare lo sfruttamento dei giacimenti locali, ma con scarso successo. Il problema maggiore risultò sempre

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quello della mancanza di capitali, con la conseguente preponderanza della ricchezza terriera rispetto a quella mobiliare.

La situazione economica relativamente stagnante, non impedì che continuasse il processo di mobilità sociale che aveva già caratterizzato la seconda metà del Cinquecento. Il ceto dirigente locale infatti si allargò con l’ingresso nell’aristocrazia di molti esponenti della borghesia degli uffici. L’esercizio di professioni come quelle di notaio o di mercante permetteva prima di arricchirsi, poi consentiva di accedere alla carriera giuridica, culminante con l’acquisizione di una carica nelle magistrature pubbliche (Senato e Camera dei Conti), che potevano essere comprate grazie anche alla pratica della venalità. L’ufficio garantiva la nobiltà personale, che diventava poi ereditaria con la concessione di lettere patenti ducali e che poteva essere ulteriormente consolidata con l’acquisto di una signoria e del conseguente titolo nobiliare. Nel periodo 1561-1600 vennero concessi 111 documenti di nobilitazione, 126 tra 1601-1640, a testimonianza di una crescita, sia pur contenuta, del fenomeno.

L’evoluzione in atto nella società savoiarda comportò anche un aumento della domanda di istruzione, che però le istituzioni scolastiche locali non erano in grado di soddisfare. Benché i grandi collegi religiosi fondati all’inizio del Seicento si fossero dotati di classi di filosofia e teologia in grado di preparare agli studi universitari, i giovani della Savoia continuarono a frequentare le università estere, italiane e francesi. Tipico è il caso di Francesco di Sales, che completò la sua formazione a Padova.

In questi studenti la cultura italiana e quella francese si mescolavano, con prevalenza però di quest’ultima, anche per il fatto che il francese era l’unica lingua impiegata nei rapporti ufficiali con la corte di Torino. Dopo la pace di Cherasco del 1631 l’impronta culturale francese crebbe, così come la tendenza a laurearsi a Parigi, Valence, Montpellier. Nonostante lo scarso sviluppo

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dell’industria della stampa, i libri circolavano ed erano presenti specie nelle biblioteche dei ceti medio-alti.

Nel complesso si può dire che in ciascuna piccola città della Savoia era presente un’èlite colta, che si interessava preferibilmente al diritto e alla storia, senza però trascurare la letteratura e i racconti di viaggio. Nel 1606 venne fondata ad Annecy l’Accademia Florimontana, per opera di Francesco di Sales e del famoso giurista Antoine Favre, presidente del Senato nel 1610, il quale tra XVI e XVII secolo svolse un ruolo importante nelle vicende politiche del ducato.

Anche se aveva perduto il ruolo di capitale e di residenza della corte, Chambéry conservò una discreta vita di società, che durante il Seicento si ravvivò in alcuni momenti, come il soggiorno della reggente Madama Cristina nel 1639-40 o le nozze del duca Carlo Emanuele II nel 1663. Queste ultime furono l’occasione per allestire grandi festeggiamenti in tipico stile barocco (fuochi d’artificio, caroselli, apparati trionfali), che vennero organizzati sotto la regia dell’esperto gesuita lionese Claude-François Menestrier. All’iniziativa sabauda spettava infine la nascita a Chambéry di un teatro, fondato sulla scia di un jeu de paume introdotto dal principe Tommaso di Savoia negli anni venti.

La cultura rimase comunque appannaggio delle classi elevate. Solo nella seconda metà del secolo nella diocesi di Ginevra il vescovo Jean d’Arenthon d’Alex, con il sostegno della società dei «Buoni Amici», riuscì ad aprire diverse scuole elementari, specie nelle parrocchie di montagna, dando il via ad un fenomeno destinato a diffondersi soprattutto nel secolo successivo e dall’analisi del quale è possibile rivedere lo stereotipo che descrive il montanaro come rozzo e incolto.

Dagli studi più recenti emerge infatti che nell’area alpina occidentale (Valle d’Aosta, Savoia, Valli valdesi), la scolarizzazione e l’alfabetizzazione erano maggiori che in pianura. I bambini potevano accedere ad almeno due o tre anni di istruzione primaria e quindi erano in grado di imparare i

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rudimenti del leggere e scrivere. Il fenomeno non era tuttavia frutto dell’iniziativa dello stato, bensì dei parroci, dei privati, delle confraternite e dalla seconda metà del Settecento dei comuni.

Tale situazione era del resto espressione di un particolare organizzazione sociale. Nelle zone alpine esistevano comportamenti relazionali e forme istituzionali, che rimandavano ad un preciso modello di sociabilità. Notevole era il ruolo delle comunità nella gestione degli alpeggi e nello stabilire servitù agricole collettive; esistevano reti di mutuo soccorso più forti che in pianura; molto vincolanti erano i legami di parentela e il peso dell’istituzione famigliare; permanevano un grande attaccamento all’identità e alla socialità centrata sul villaggio d’origine.

Infine, è utile fare un cenno particolare alla minoranza valdese, dotata di un grado di istruzione e di formazione religiosa, che era uno dei più elevati dell’epoca (inferiore soltanto a quello degli ebrei). Per questo motivo la retorica barocca impiegata con grande successo dai predicatori e dai missionari nei confronti di altre comunità protestanti, si rivelò uno strumento poco adatto nelle vallate alpine.

Sul versante francese il lungo governo di Luigi XIV non portò molte trasformazioni, nonostante gli sforzi di sviluppare l’economia fatti dal ministro Colbert. Nel Delfinato l’industria continuò ad essere organizzata in modo tradizionale, anche se emersero alcuni settori destinati ad un notevole sviluppo nel secolo successivo. Tra questi primeggiava la manifattura tessile, capace di produrre verso la fine del Seicento 38000 pezze di tessuto e 12500 di tela all’anno. Poi venivano l’industria metallurgica, quella conciaria, la produzione di guanti (per la quale Grenoble divenne famosa in tutta la Francia), di carta e di cappelli.

Il commercio rimase particolarmente sfavorito dalle precarie condizioni delle comunicazioni. Nel 1698 l’intendente registrava l’esistenza di almeno sei grandi routes che tagliavano la provincia da nord a sud e da ovest ad est, ma queste strade spesso erano interrotte a causa degli eventi naturali. Nell’intero territorio esistevano soltanto 8 ponti in pietra e i restanti erano in legno. Le

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