• Non ci sono risultati.

La Responsabilita Sociale d'Impresa: il caso Banca di Credito Cooperativo di Capaccio Paestum

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La Responsabilita Sociale d'Impresa: il caso Banca di Credito Cooperativo di Capaccio Paestum"

Copied!
116
0
0

Testo completo

(1)

Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in

Comunicazione d’Impresa e Politica delle Risorse Umane

LA RESPONSABILITÁ SOCIALE D’IMPRESA:

IL CASO BANCA DI CREDITO COOPERATIVO

DI CAPACCIO PAESTUM

CANDIDATO

RELATORE

Andrea Lanza

Chiar.ma Prof.ssa Lucia Bonechi

(2)
(3)

3

Ringrazio sentitamente la prof.ssa Bonechi, relatore di questa tesi,

per la disponibilità e cortesia dimostratemi durante la stesura della

tesi.

Ringrazio la mia famiglia per avermi sempre sostenuto moralmente ed

economicamente, permettendomi di ultimare la mia carriera

universitaria.

Ringrazio Roberta per essermi stata di conforto nei momenti più duri del

mio percorso universitario e per aver sempre creduto in me.

(4)

4

INDICE

INTRODUZIONE ... 6

CAPITOLO PRIMO: L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DELLA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY 1.1 CENNI DI STORIA DELLA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY .... 9

1.2 ANNI ‘60 ... 11

1.3 ANNI ‘70 ... 15

1.4 ANNI ‘80 ... 25

1.4.1 LA TEORIA DEGLI STAKEHOLDER...25

1.4.2 BUSINESS ETHICS ...30

1.4.3 CORPORATE SOCIAL PERFORMANCE ...31

1.5 LA CSR NELLE POLITICHE EUROPEE ... 36

CAPITOLO SECONDO: GLI STRUMENTI DELLA RESPONSABILITÁ SOCIALE D’IMPRESA 2.1 INTRODUZIONE ... 41

2.2 GLI STRUMENTI NAZIONALI ED INTERNAZIONALI DELLA RESPONSABILITÁ SOCIALE D’IMPRESA ... 44

2.2.1 SOCIAL ACCOUNTABILITY 8000 ...45

2.2.2 ACCOUNTABILITY 1000 ...51

2.2.3 LA NORMA ISO 14001 E IL REGOLAMENTO EMAS 761/2001. ...55

2.2.4 IL BILANCIO SOCIALE. ...57

2.3 LA RSI PER IL SETTORE CREDITIZIO ... 68

2.3.1 STRUMENTI DI RENDICONTAZIONE SOCIALE UTILIZZATI NEL SETTORE CREDITIZIO...71

(5)

5

CAPITOLO TERZO: IL CASO: BANCA DI CREDITO COOPERATIVO DI CAPACCIO PAESTUM

3.1 INTRODUZIONE ... 81

3.2 CARTA D’IDENTITÁ DELLA BCC DI CAPACCIO PAESTUM ... 86

3.2.1 COMPAGINE SOCIALE E STRUTTURA ORGANIZZATIVA DELLA BCC DI CAPACCIO PAESTUM ...95

3.3 LA RESPONSABILITÁ SOCIALE D’IMPRESA PER LA BCC DI CAPACCIO PAESTUM ... 95

3.3.1 IMPRONTA ECONOMICA-SOCIALE ...95

3.3.2 IMPRONTA AMBIENTALE ...100

3.4 L’ANALOGIA TRA IL BILANCIO SOCIALE DELLA BCC DI CAPACCIO PAESTUM E IL MODELLO ABI/IBS ... 102

3.5 LA REPUTAZIONE COME ASSET FONDAMENTALE PER LA BCC DI CAPACCIO PAESTUM ... 105

CONCLUSIONI ... 110

BIBLIOGRAFIA ... 112

(6)

6

INTRODUZIONE

Alla luce degli avvenimenti che caratterizzano l’attuale contesto economico, sociale e politico, l’obiettivo principale del mio elaborato di tesi è quello di analizzare il concetto della Responsabilità Sociale d’Impresa o Corporate Social Responsibility.

Per Corporate Social Responsibility (CSR) si intende:

“l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate. Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là, investendo “di più” nel capitale umano, nell'ambiente e nei rapporti con le parti interessate.” 1

L’attenzione nei confronti di questa tematica sta crescendo nel corso degli ultimi anni sia a livello di ricerca accademica che di pratica di management.

Un mercato sempre più attento alle tematiche etiche, ambientali e sociali ha portato le imprese a sviluppare sistemi manageriali, finalizzati ad integrare la Responsabilità Sociale d'Impresa (RSI) in tutti gli aspetti della gestione: dalla pianificazione a lungo termine alle decisioni a breve termine, dalle modifiche dei processi di produzione, ecc,.

Sulla base del mio stage formativo di 300 ore svolto presso la Banca di Credito Cooperativo di Capaccio Paestum, il presente lavoro vuole contribuire a definire come questo istituto sia coerente con i principi fondamentali della RSI.

Il mio elaborato di tesi è articolato in tre parti: • L’evoluzione del concetto della CSR; • Gli strumenti della CSR;

• Il caso studio della Banca di Credito Cooperativo di Capaccio Paestum;

(7)

7

Per quanto riguarda la prima parte, è stato affrontata l’evoluzione del concetto della CSR. Negli anni 60 si inizia a parlare di CSR, ed in questo periodo prendono piede due correnti di pensiero, ossia quella Neoclassica secondo la quale l’interesse sociale delle imprese è caratterizzato solo dal profitto, e quella che reputa le imprese non abbiano solo obblighi economici e legali, ma anche delle responsabilità verso la società. Negli anni 70 si inizia a consolidare il pensiero sulla CSR attraverso lo sviluppo di 4 filoni di studio, ossia: le caratteristiche che deve possedere un’impresa per essere qualificata come socialmente responsabile, il contesto socio-culturale di riferimento, le motivazioni che portano l’azienda ad agire in maniera responsabile ed infine l’attenzione verso il sociale da inserire nelle politiche aziendali. Grazie agli stimoli ricevuti dagli anni 60 e 70 in tema di CSR, gli anni 80 vedono svilupparsi tre correnti di pensiero, ossia, la Teoria degli Stakeholder, la Business Ethics e la Corporate Social Performance.

Infine, in Europa la CSR diventa oggetto di particolare attenzione negli anni 90 e i primi anni del terzo millennio. Importante fu la pubblicazione del Libro Verde, ossia un quadro europeo per promuovere la responsabilità sociale. Tale pubblicazione ha dato avvio a molte iniziative su scala europea, prima nel 2002 , poi nel 2006, ed infine nel 2011 a seguito della crisi economica.

Nel secondo capitolo è stata descritta una pluralità di modelli di rendicontazione sociale orientati non solo al raggiungimento degli obiettivi economici ma anche ad obiettivi sociali ed ambientali:

• Le “norme” SA 8000, quale certificazione standard in tema di diritti dei lavoratori, che attesta l’operato delle imprese e permette di migliorarle condizioni e l’ambiente di lavoro, di ridurre il rischio di incidenti e di migliorare la reputazione dell’impresa sul mercato.

• L’AccountAbility 1000 (AA1000), standard di processo per la rendicontazione di tipo sociale che rivolge particolare attenzione al dialogo/confronto con gli stakeholder.

(8)

8

• La norma ISO 14001 e il regolamento EMAS 761/2001, entrambi finalizzati a promuovere l’implementazione di un sistema di gestione ambientale.

• Il Bilancio Sociale, documento pubblico di rendicontazione sociale; con il quale l’impresa comunica ai propri stakeholder l’esito del proprio operato. Il Bilancio Sociale per essere redatto si rifà a due modelli, ossia il modello GBS ed il modello GRI.

Alla fine del secondo capitolo, in merito al mio stage formativo presso la Bcc di Capaccio Paestum, ho presentato altri due modelli di rendicontazione sociale specifici per il settore creditizio, ossia del modello ABI/IBS del 2001 e delle linee guida sull’applicazione in banca degli Indicatori del GRI del 2013.

Il terzo ed ultimo capitolo riguarda il caso studio della Bcc di Capaccio Paestum, dove, come accennavo prima, ho svolto uno stage formativo universitario di trecento ore. In questo capitolo esporrò la carta d’identità di tale istituto, ossia la storia, la mission, i valori, la struttura organizzativa e la compagine sociale, per poi focalizzarmi sull’operato della banca attraverso un’ottica della responsabilità sociale d’impresa.

Successivamente mi concentrerò sull’analogia che ci potrebbe essere tra il Bilancio Sociale della Bcc di Capaccio Paestum ed uno degli strumenti di rendicontazione sociale precedentemente descritti, anche perché come specifico all’inizio del capitolo, il Bilancio Sociale della Bcc di Capaccio Paestum non segue nessuna delle linee guida degli strumenti descritti finora.

Infine concludo il capitolo soffermandomi sull’importanza della reputazione per un istituto bancario, soprattutto per la Bcc di Capaccio Paestum, esponendo dei grafici che confermano come questo asset permetta alla Bcc di essere competitiva e di essere vista come un’impresa attenta al sociale, per poi ottenere anche ottimi risultati da un punto di vista economico di medio-lungo periodo.

(9)

9

CAPITOLO PRIMO

L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DELLA CORPORATE

SOCIAL RESPONSIBILITY

1.1 CENNI DI STORIA DELLA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY

Da oltre un ventennio anche nel nostro paese si è aperto il dibattito sulla responsabilità sociale con riferimento all’operato delle aziende: grazie ad esso si è introdotta l’idea che il profitto non sia la sola preoccupazione del fare impresa, ma che ad esso debbano affiancarsi anche altre tensioni, magari poco tangibili, ma non meno centrali.

Fortunatamente tale dibattito non è rimasto solo sulla carta o nelle aule accademiche ma nel tempo è diventato la base teorica di applicazioni concrete da parte di un numero sempre maggiore di imprese e organizzazioni.

Ripercorrere l’evoluzione di questo concetto significa spostarsi al di là dell’oceano per rintracciarne tracce embrionali addirittura intorno agli anni ’20 del ventesimo secolo.

Negli Stati Uniti le grandi corporation, coinvolte dal 1921 al 1928 nei cosiddetti anni ruggenti che avevano permesso loro di estendere in modo smisurato il proprio impero economico, si trovano ad essere travolte, dalla grande crisi scoppiata con il crollo di Wall Street nel 1929.

Tra alcuni manager di tali corporation, primi fra tutti quelli della General Electrics, nasce in questi anni la volontà di affrontare le conseguenze negative di questa crisi.2

A partire da ciò inizia ad instaurarsi la concezione che l’impresa non sia un soggetto unicamente orientato al profitto, bensì immerso in maniera

2 L’evoluzione del concetto di responsabilità sociale d’impresa.Progetto TRAINING IN PROGRESS

Finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ai sensi della L. 383/2000 - Direttiva annualità 2010

(10)

10

inscindibile in un contesto socioeconomico specifico con il quale ha un rapporto di influenza reciproca.3

Tra gli anni ’30 e gli anni ’50 infatti negli Stati Uniti iniziano a fiorire scuole di pensiero che attribuiscono ai manager obblighi sociali che vanno al di là della mera realizzazione di un profitto legata alla produzione di beni o alla fornitura di servizi.

Il primo contributo rilevante sull’argomento risale a Bowen4, il quale introduce il concetto di “responsabilità dei manager”riferendosi ”all’obbligo

degli uomini d’affari di perseguire quelle politiche, di prendere quelle decisioni o di seguire quei corsi di azione che sono auspicabili in termini di obiettivi e valore della società” Bowen afferma, inoltre, che “un’assunzione volontariati tali responsabilità da parte degli uomini d’affari è una possibile alternativa alla crescita del controllo dello Stato sull’economia”5

In tal caso però la riflessione non è ancora matura, perché il riferimento è solo ad una responsabilità personale del dirigente e non a quella dell’impresa stessa.

Già in questo primo approccio tuttavia sono presenti i germi di ciò che diventerà questo concetto, proprio perché si comincia ad intravedere un nuovo modo di concepire l’impresa, non più solo come un’organizzazione richiusa su se stessa e votata esclusivamente al profitto, ma come un’entità capace di incidere, più o meno direttamente, su numerosi altri aspetti della realtà circostante e, in questa veste, responsabile del suo impatto su di essa.

3 http://www.votazienda.it/levoluzione-storica-della-responsabilita-sociale-dimpresa 4 H. R. Bowen, Social Responsibilities of the Businessman, Harper, New York 1953.

5 CSR 2.0 proattiva e sostenibile: Tra mercati globali e gestione della crisi di Gloria Fiorani, Marco

(11)

11

1.2 ANNI ‘60

Se inizialmente è il solo manager ad essere considerato titolare di tali obblighi “morali”, nel giro di un ventennio tale titolarità viene estesa all’impresa stessa ed infatti è fra gli anni ’60 e ’70 che si comincia a parlare di Corporate Social Responsibility.

Sulla medesima lunghezza d’onda, proprio in quegli anni Keith Davis6 parla addirittura di una “ferrea legge della responsabilità”, che regolerebbe necessariamente ogni ambito della storia umana e, dunque, anche i rapporti tra business e società.

Poiché “responsabilità” e “potere” sono destinati ad equilibrarsi costantemente, la diminuzione dell’una reca con sé quella dell’altro. Così il rifiuto di responsabilità sociale conduce a una graduale erosione di potere sociale.

Davis teorizzò un legame biunivoco tra business e ambiente sociale come costante della struttura sociale: il business riceve domande (input) dall’ambiente sociale e fornisce risposte (output), che possono però essere passive o attive, a seconda che le domande siano meramente subite o che siano assunte positivamente nel loro significato e peso.

In quest’ultimo caso, il business avrà creativamente elaborato risposte che influenzeranno a loro volta l’ambiente sociale, contribuendo a determinare il profilo delle sue ulteriori domande. 7

Ecco allora che, come anticipato attraverso la figura della “ferrea legge della responsabilità”, due strade si parano innanzi agli imprenditori: quella di una consapevole e deliberata guida delle trasformazioni sociali, oppure quella della subordinazione alle regole di un ambiente che evolve sotto l’influsso di altre forze.

6 K. Davis, Social responsibility of businessmen need to be commensurate with their social power,

California Management Review, vol.2, Spring 1960

7 Gli strumenti dell’etica, l’etica degli strumenti e la responsabilità sociale,n.106-107, a cura di B.

(12)

12

E su questa linea, caratterizzata da un forte, per così dire, “ottimismo della volontà”, Davis si spinge ancora più avanti: addita quale aspetto decisivo della partecipazione imprenditoriale ai destini della comunità, ancor più che la responsabilità nella creazione di quel benessere che è misurabile in termini di stabilità e crescita economica (“socio-economic obligations”), la responsabilità nella promozione dei basilari valori umani (“socio-human obligations”): motivazione e autorealizzazione nel lavoro, cooperazione, onestà.

Da un lato, infatti, l’uomo economico è morto, se mai davvero è esistito, e dunque gli imprenditori nel trattare con azionisti, lavoratori, clienti, fornitori devono rendersi conto di avere a che fare con uomini le cui aspettative sono di più ampia portata rispetto alle pura e semplice efficienza e redditività d’impresa.

Dall’altro lato, gli imprenditori detengono, accanto ad un potere socio-economico, anche un enorme potere socio-umano: le loro politiche e pratiche aziendali, vuoi in senso positivo, vuoi in senso negativo, presentano modelli, orientano a valori, influiscono sui comportamenti dei collaboratori, in primo luogo, ma anche, indirettamente, su quelli della più vasta platea dei consumatori e dell’opinione pubblica.

Il business può e deve essere guardato come uno strumento di realizzazione di specifiche finalità umane.8

Tra gli anni Sessanta e Settanta prendono piede, infatti, due differenti correnti di pensiero che danno il via ad un acceso dibattito accademico internazionale sulla RSI.

Da un lato, con la nascita del pensiero Neoclassico, secondo il quale l’interesse sociale dell’impresa è caratterizzato dal profitto, tutto quello che può compromettere l’efficienza dell’impresa rappresenta solo un mero costo che deve essere eliminato.

(13)

13

Il principale esponente che supportava tale corrente di pensiero era Milton Friedman9 il quale, affermava che l’unico obiettivo delle imprese consisteva nel generare e massimizzare il profitto nei confronti degli azionisti (shareholder), i quali vengono considerati i veri proprietari dell’impresa mentre i manager sono semplici agenti che operano per conto degli shareholder nella gestione dell’impresa.

Secondo Friedman un’impresa ha rapporto non solo con gli azionisti ma anche con altri soggetti quali: manager, lavoratori, comunità, fornitori (stakeholder), legami di tipo contrattuale che impongono all’impresa di rispettare e attribuire ciò che di diritto spetta a loro; ma ciò che rimane dopo aver adempiuto al pagamento degli stakeholder spetta solo ed esclusivamente agli shareholder, come rimborso del rischio che hanno assunto a seguito dell’investimento dei propri capitali.

Lo stesso Friedman nel considera la teoria sul CSR sovversiva nei confronti del sistema capitalistico in particolare scrive che:

“poche tendenze possono minare in modo veramente profondo le fondamenta stesse della società libera come l’accettazione da parte dei dirigenti d’impresa del criterio della responsabilità sociale a differenza di quello di fare più soldi possibili per i loro azionisti”. 10

Inoltre essendo il principale esponente della teoria Neoclassica, afferma che la responsabilità sociale dell’impresa consiste nell’usare le sue risorse per dedicarsi ad attività volte ad incrementare i propri profitti, rispettando sempre le cosiddette “regole del gioco” ovvero senza ricorrere all’inganno o alla frode.

L’altra corrente di pensiero è riconducibile a Frederick e McGuire i quali hanno un approccio diametralmente opposto.

9 Friedman, Capitalism and freedom, University of Chicago Press, Chicago, 1962 10 Ibidem pp. 133.

(14)

14

William C. Frederick11 fornisce un contributo influente in campo della CSR, infatti, sostiene che il significato economico della produzione deve essere inteso come la possibilità di potenziare il benessere socio-economico totale e, inoltre, aggiunge che le responsabilità sociali sottendono un comportamento rispettoso verso le risorse economiche e umane e una disponibilità a sostenere che le risorse sono utilizzate anche per ampi fini sociali e non semplicemente per interessi di soggetti e imprese private.12

Joseph W. McGuire nel suo libro “Business and Society”(1963) asserisce che alla base dell’idea di responsabilità sociale vi è la certezza che le imprese non hanno solo obblighi economici e legali, ma anche responsabilità verso la società, che si estendono ben oltre tali imposizioni.

Tale concetto è più preciso dei precedenti, ma ancora poco esaustivo, in quanto è vero che il campo d’applicazione va ben oltre imposizioni economiche e legali, ma comunque resta poco chiaro nella sua prima versione su quali siano concretamente tali obblighi.

Successivamente chiarisce tale affermazione, aggiungendo che le imprese devono avere interessi nella politica, nel welfare della comunità, nell’istruzione e nella soddisfazione dei propri lavoratori.

In breve, le imprese dovrebbero agire in modo giusto, come dovrebbe fare un corretto cittadino.13

Questi concetti erano certamente innovativi, ma non facevano emergere una definizione chiara del concetto di RSI.

11 W. C. Frederick, The Growing concern over Business Responsibility, California Management

Review, vol.2, Summer 1960

12 FREDERICK, The Growing Concern over Business Responsibility, California

Management Review, vol.2, n.4, Summer 1960.

(15)

15

1.3 ANNI ‘70

Negli anni settanta si ha una fase di grande fermento, durante la quale il pensiero sulla Corporate Social Responsibility inizia a consolidarsi e diversificarsi notevolmente. In questi anni vengono approfonditi quattro filoni di studio.14

Il primo filone cerca di individuare quali caratteristiche debbano possedere i comportamenti dell’impresa, per poter essere qualificati come socialmente responsabili.

Secondo Manne e Wallich15, sono necessari almeno 3 presupposti:

1) I ricavi marginali devono essere minori da quelli ottenibili da altre spese alternative;

2) L’azione deve essere puramente volontaria;

3) Si deve trattare di investimenti volti ad aumentare il benessere della società e non di semplice filantropia, anche se gli stessi autori riconoscono che la distinzione nella pratica non è sempre facile. Il già citato Davis, ad esempio, analizza le ragioni pro e contro l’assunzione di responsabilità sociale sostenendo che la RSI comincia dove finisce la legge.

Viene quindi, evidenziato con forza l’elemento volontaristico di una scelta aziendale che non può essere considerata socialmente responsabile se si attiene solo a quanto previsto dalla normativa. 16

In questo contesto si inserisce il fertile ed innovativo pensiero di Carroll17 che elabora la sua famosa definizione “quadripartitica” di responsabilità sociale, definendola come l’insieme di quattro diverse

14 Chirileison C., Le strategie sociali nel governo dell’azienda, Giuffrè editore, 2002.

15 Manne H. G., Wallich H. C. (1972) , The modern corporation and social responsibility, American

Interprice Institute for Public Policy Research, Washington D. C.

16 Davis (1973), The case for and against business assumption of social responsabilities, in Academy

of Management Jornal, n. 16.

17 Carroll A. B., A three-dimensional model of corporate social performance, 1979, Academy of

(16)

16

tipologie di responsabilità ovvero, quella economica, legale, etica, e discrezionale(filantropica).

Fig. 1: “ La piramide di Carroll”18

Come si evince dalla figura numero 1, Carroll suddivide la Piramide in quattro grandi classi, al fine di considerare una più ampia gamma di responsabilità che l’impresa ha nei confronti della società.

Nella parte più bassa della Piramide si trovano le Responsabilità Economiche, ovvero l’insieme di beni e servizi con i quali l’impresa, grazie alla sua efficacia-efficienza e capacità produttive, soddisfa il bisogno della società.

Non è un caso che la Responsabilità Economica sia alla base della Piramide poiché viene sottolineata l’importanza e la caratteristica base

(17)

17

dell’importanza del fine economico che un’impresa deve sempre e comunque perseguire ovvero generare profitto.

Al secondo livello si trova la Responsabilità Legale, che identifica l’importanza nel rispettare le leggi e le norme giuridiche che un’impresa deve avere, nel perseguire i propri obiettivi identificando grazie a tali norme, il terreno entro il quale l’impresa può operare.

È importante inoltre che la società identifichi e punisca le imprese che attuano comportamenti non conformi alle norme nazionali e locali, così da incentivarle a generare profitto in maniera legale.

Il terzo livello denominato Responsabilità Etica, identifica tutte quelle attività o buone pratiche che, anche se le società non hanno regolamentato tramite leggi o ordinamenti, la società si aspetta che le aziende rispettino.

Questo penultimo livello serve per indicare alle imprese di operare secondo criteri di equità, giustizia e imparzialità.

Al vertice della Piramide è situata la Responsabilità filantropica o discrezionale, Carroll identifica in questo livello le attività puramente volontarie svolte dall’impresa nei confronti della società.

Tali scelte, al contrario della categoria precedente, essendo di natura volontaristica non hanno attese da parte della comunità nella quale l’impresa opera e sono quindi un riflesso del desidero dell’azienda ad impegnarsi in ruoli sociali che,seppur non previsti dalla legge, hanno una forte valenza strategica.19

Con questo grafico Carroll identifica le categorie che servono per migliorare lo sviluppo sociale ed economico della società nella quale l’impresa è inserita, senza dimenticare il fine economico che è alla base della sopravvivenza dell’impresa.

Il secondo filone approfondisce il peso del contesto socio-culturale di riferimento, evidentemente anche in risposta ai movimenti che, tra la fine degli

(18)

18

anni ’60 e gli inizi dei ’70, si battevano per il rispetto dell’ambiente, la sicurezza sul lavoro, la tutela dei consumatori e dei lavoratori, ambiti in cui stava entrando pesantemente, per la prima volta, anche la regolamentazione governativa.20

Johnson, ad esempio, nel dare una multiforme definizione di responsabilità sociale, individua quattro possibili punti di vista21, il principale dei quali vede la CSR come risposta a norme sociali che definiscono il ruolo dell’impresa. Per Johnson, i quattro modi differenti per declinare la CSR sono:

• “Saggezza convenzionale”;

• “Massimizzazione dei profitti di lungo periodo”; • “Massimizzazione dell’utilità”;

• “Visione lessicografica della responsabilità sociale”.22

Per Johnson la locuzione “saggezza convenzionale” corrisponderebbe ad una sorta di bilanciamento, da parte dei manager, di una molteplicità di interessi diversi.

“Un’impresa socialmente responsabile è una in cui il gruppo manageriale bilancia una molteplicità di interessi. Invece di essere protesa solo verso la generazione di maggiori profitti per gli azionisti, un’impresa responsabile dovrebbe tenere in considerazione anche i dipendenti, i fornitori, le comunità locali e la nazione”23.

La seconda prospettiva, quella della “Massimizzazione dei profitti di lungo periodo” è presentata come segue:

“La responsabilità sociale prevede che le imprese sviluppino programmi sociali per aggiungere profitti alle loro organizzazioni”24.

20 Ibidem.

21 Johnson H., Business in contemporary society: frame work and issues, Belmont, Wadsworth. 22 Ibidem.

23 Ibidem p. 50. 24 Ibidem p. 54.

(19)

19

Secondo tale visione, chiaramente “strumentale”, le imprese intraprenderebbero programmi sociali al fine di incrementare i profitti per l’impresa.

Il terzo approccio alla responsabilità sociale d’impresa si basava sull’assunzione che:

“Un imprenditore o un manager socialmente responsabile è uno che ha una funzione di utilità del secondo tipo, così che sia interessato non solo al proprio benessere ma anche a quello degli altri membri dell’impresa e della società”25.

Tale approccio alla CSR rilanciò la figura del manager/imprenditore “socialmente responsabile”, intendendo con essa colui che è interessato non solo al proprio benessere (ricomprendendo, probabilmente, sia quello individuale che quello dell’impresa per la quale opera) ma anche a quello della comunità in generale.

Secondo la quarta, ed ultima definizione, gli obiettivi dell’impresa, come quelli degli individui, sono classificati in ordine di importanza.

“Gli obiettivi dell’impresa, come quelli dei clienti, sono classificati in ordine d’importanza e i traguardi sono valutati per ciascun obiettivo. Questi livelli target sono modellati da una varietà di fattori, ma i più importanti sono le esperienze che l’impresa ha avuto con questi obiettivi nel passato e le performance passate di imprese similari; gli individui e le organizzazioni generalmente vogliono agire almeno come fanno gli altri in circostanze simili”26.

Quest’ultima definizione, suggerita da Johnson, conteneva numerosi punti interessanti, restituendo un’idea non banale della CSR. Infatti, sembrava suggerire un nesso di causa-effetto importante tra la variabile profitto e la variabile comportamentale “socialmente” rilevante, laddove, il profitto

25 Ibidem p. 68. 26 Ibidem p. 73.

(20)

20

avrebbe assunto i caratteri di “antecedente”, ossia, “causa”, mentre l’approccio alla CSR sarebbe la variabile “spiegata” o “dipendente”.

Detto in altre parole, per Johnson, solo le imprese fortemente orientate al profitto sarebbero state in grado di intraprendere comportamenti socialmente responsabili, in quanto, una volta ottenuto il loro target di profitto, avrebbero potuto essere in grado di dedicarsi alla responsabilità sociale.

Anche in questo caso, la CSR era assunta quale “leva strategica” e i comportamenti che ne dovevano derivare avrebbero dovuto condurre verso il perseguimento dell’obiettivo principale, ossia il profitto.

Un altro contributo importante alla letteratura sul tema arriva dal Committee for Economic Development(CED) quando, nello stesso anno di Johnson, pubblicò un report titolato Social Responsibilities of Business Corporations.

In questo documento la responsabilità sociale d’impresa veniva vista come “Le funzioni d’impresa di consenso pubblico e i suoi scopi di base sono

quelli di servire in maniera costruttiva i bisogni della società – per il soddisfacimento della società”. 27

Il principale presupposto dal quale muovevano gli assunti del CED era che, contestualmente, erano stati osservati sostanziali cambiamenti nel contratto sociale tra le imprese e la società, all’interno del quale veniva chiesto alle imprese di assumere maggiori responsabilità verso la società, contribuendo ad incrementare, in generale, la qualità della vita degli operai e della collettività e non soltanto la fornitura di beni e servizi. “È stato chiesto alle imprese di assumere, verso la società, responsabilità più ampie di sempre e di servire maggiori valori umani. È stato chiesto, in effetti, alle imprese di contribuire maggiormente alla qualità della vita Americana non semplicemente attraverso la fornitura di beni e servizi. Nella misura in cui le

27 CED (1971), Social Responsibilities of Business Corporations, Committee for Economic

(21)

21

imprese esistono per servire la società, il loro futuro dipende dalla qualità della risposta del manager ai cambiamenti attesi dal pubblico”28.

Il CED, all’interno di tale documento, identifica l’approccio dei “tre cerchi concentrici”, della responsabilità delle imprese.

Fig. 2: “Modello dei tre cerchi concentrici”

Nel cerchio più interno rappresentato col numero 1, il CED identifica un insieme di responsabilità che un’azienda ritiene necessarie, per lo svolgimento efficiente delle sue tradizionali funzioni economiche, quali ad esempio:

• Produzione;

• Sviluppo della forza lavoro; • Crescita economica;

Nel cerchio numero 2, quello intermedio, vengono identificate le responsabilità per l’esercizio delle funzioni economiche sopra citate, con considerazioni che attengono però ai valori e alle necessità sociali, quali ad

28 Ibidem, p. 16. 1- RESPONSABILITA' DELL'AZIENDA LEGATE ALLE FUNZIONI ECONOMICHE 2 RESPONSABILITÁ DELL'AZIENDA NEI CONFRONTI DEI VALORI E DELE PRIORITA' DELLA SOCIETÁ.

3-RESPONSABILITA' DELL'AZENDA NEI CONFRINTI DEI GRANDI PROBLEMI SOCIALI

(22)

22

esempio:

• Rispetto delle risorse naturali; • Le relazioni con i propri dipendenti.

Nel cerchio più esterno, il numero 3, si evidenziano tutte quelle attività che in maniera attiva e volontaria le imprese possono intraprendere per essere ancora più coinvolte in attività destinate al potenziamento dell’ambiente sociale. Tali attività possono riguardare:

• Miglioramento delle condizioni di sottosviluppo economico e culturale;

• Povertà e degrado urbano; • Miglioramento della viabilità.29

Il terzo filone analizza le motivazioni che portano l’impresa ad agire in maniera socialmente responsabile.

Secondo Wood30 la letteratura di questi anni individua tre possibili principi, a seconda dei tipi di aspettative che vi sono alla base:

• un “institutional principle”, fondato sulle aspettative poste su tutte le imprese per il loro ruolo di istituzioni economiche, il cui concetto chiave è la legittimazione. Si riconosce cioè che, oltre al tradizionale ruolo economico, alle imprese viene richiesto di ricoprire anche un ruolo sociale, al quale non ci si può sottrarre senza perdere la propria legittimazione, con gravi conseguenze sull’economicità31.

• Un “organizational principle”, fondato sulle aspettative poste su una specifica impresa a causa di quello che è e di quello che fa. I principi organizzativi prendono spunto da Preston e Post32 i quali,

29 Ibidem, p. 15.

30 D. J. Wood, Corporate social performance revisited, Academy of Management Review, n°16 31 Chirileison C., Le strategie sociali nel governo dell’azienda, Giuffrè editore, 2002, p. 41. 32 PRESTON L.E., POST J.E., Private management and public policy: the principle of public

(23)

23

basandosi sul concetto di esternalità asseriscono che le imprese sono responsabili non per tutti i problemi sociali, ma solo per quelli che hanno direttamente causato e per quelli che sono indirettamente interrelati alle loro operazioni ed interessi. Risolvere questi problemi è una loro responsabilità pubblica. Ecco perché tali autori non parlano di corporate social responsibility, ma di public responsibility.

• Un “individual principle”, fondato sulla discrezionalità manageriale. Si riconosce cioè che i manager esercitano comunque una propria discrezionalità nel decision making definendo se ed in quale misura andare incontro alle aspettative dei vari interlocutori e che, nel fare questo, sono profondamente condizionati dai propri principi etici. Anche Ackerman parla della CSR come “the management of discretion” riferendosi non ai programmi filantropici, ma alla discrezionalità esistente in tutto lo spettro delle azioni manageriali. Le premesse al principio della discrezionalità manageriale, quindi, sono:

a) i manager si muovono in un ambiente organizzativo e sociale che è pieno di scelte;

b) le azioni dei manager non sono tutte prescritte dalle procedure dell’impresa, dalla definizione formale dei compiti, dalla disponibilità di risorse o tecnologie;

c) i manager sono attori morali sul lavoro così come in altri campi della loro azione umana.33

I manager hanno la scelta di come e in che misura soddisfare molte di queste responsabilità.

Il quarto filone interiorizza nell’impresa l’attenzione per il sociale e conseguentemente sposta il focus sullo sviluppo di procedure interne capaci di

(24)

24

fare proprie le istanze sociali e di incorporarle nel governo e, quindi, nelle politiche aziendali. Tale approccio mette enfasi sulle competenza del gruppo manageriale che guida l’impresa e sulla sua struttura organizzativa.

Molti autori iniziano a parlare di corporate social responsiveness (CSR2), traducibile come rispondenza, sensibilità, attenzione al sociale dell’impresa, proprio nel senso di capacità di agire nel modo auspicato dalla società.

Frederick, il maggiore teorico di tale filone di studi, nel suo famoso saggio del 197834, parla del superamento del concetto di corporate social responsibility preponderante fino agli anni ’60 (a cui sinteticamente si riferisce come CSR1) e identifica l’affermarsi di un nuovo movimento di pensiero, collegato ma distinto: appunto la corporate social responsiveness, che egli chiama CSR2 e che presuppone l’accettazione da parte dell’impresa degli obblighi sociali che derivano dalla sua attività.

Mentre quindi la corporate social responsibility (CSR1) si basa sull’idea fondamentale che le aziende abbiano l’obbligo di operare per il benessere e il miglioramento sociale, la corporate social responsiveness (CSR2),riferendosi alla capacità di rispondere alle pressioni sociali, si fonda su una base più pratica e manageriale, piuttosto che su una discussione teoretica di concetti astratti.

(25)

25

1.4 ANNI ‘80

Tra l’inizio degli anni 60 e la fine degli anni 70, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, si sono sviluppati una serie di contributi e di interpretazioni sul tema della responsabilità sociale delle imprese. Gli stimoli offerti da questi contributi hanno favorito intorno agli anni 80 la creazione di alcuni filoni di studio, quali la teoria degli stakeholder, gli studi di business ethics e la corporate social performance.

Prima di proseguire con l’illustrazione di questi filoni di ricerca è necessario evidenziare che nella letteratura di riferimento l’associazione tra questi filoni di studio con il tema della CSR è considerata quasi scontata.

Si ritiene, tuttavia, necessario mantenere una minima distinzione tra essi anche per meglio comprendere il motivo per il quale si sia creata quasi una sovrapposizione tra questi filoni e la CSR.

1.4.1 LA TEORIA DEGLI STAKEHOLDER

Nel 1963 l’Istituto di Ricerca di Stanford (SRI) descrisse per la prima volta il concetto di stakeholder, e lo definì come un insieme di tutti quei soggetti che hanno un interesse nell’attività dell’azienda e senza il cui appoggio, un’impresa non è in grado di sopravvivere. Il termine stakeholder, in realtà, era stato già utilizzato circa 30 anni prima, quando la General Electric identificò quattro principali gruppi di stakeholder rappresentati dagli azionisti, dai dipendenti, dai clienti e dalla comunità in genere.35

Definire in maniera precisa il concetto di stakeholder è di fondamentale importanza all’interno del mondo del CSR perché permette di definire un gruppo di persone fino ad allora ancora troppo vago e di identificare quei

(26)

26

soggetti nei confronti dei quali l’impresa deve assumere comportamenti responsabili.

Lo studio condotto dalla CSR nasce come una teoria manageriale che serviva ai manager, per identificare le aspettative che gli stakeholder si prefiggevano e definire così degli obiettivi comuni che sia l’impresa che gli stakeholder avrebbero supportato per assicurarsi un successo nel lungo periodo.

Uno dei padri della teoria degli stakeholder fu Robert Edward Freeman che nel 1984, definisce gli stakeholder come: “gruppi o soggetti che sono

influenzati o possono influenzare il raggiungimento degli obiettivi dell’impresa”.36

Tale modello è rappresentato nella Figura 3, dalla quale si comprende chiaramente come:

“l’impresa è raffigurata non solo come una serie di transazioni di mercato ma come uno sforzo cooperativo (e competitivo) che coinvolge un ampio numero di individui e gruppi organizzati in vario modo.

L’impresa è quindi una organizzazione in cui e attraverso cui molti differenti individui e gruppi tentano di raggiungere i propri fini. Un’impresa interagisce continuamente con i propri stakeholder e molto del suo successo dipende da come tutte queste relazioni sono gestite.

Gestire relazioni con gli stakeholder, piuttosto che input e output, può offrire quindi un modello adeguato per comprendere come si comportano

e come dovrebbero comportarsi gli individui nell’impresa”.37

36 Freeman R. E., Strategic Management: A Stakeholder Approach, Pitman, Boston, 1984. 37 D’Orazio Emilio, Verso una teoria degli stakeholder descrittiva: modelli ad uso dei manager di

(27)

27 Fig. 3:” Stakeholder View of Firm”

Fonte:rielaborazione tratta dal saggio scritto da Freeman R. E., "Strategic Management:A Stakeholder Approach"

Max B. E. Clarkson, riprendendo il pensiero di Freeman, sostiene che gli stakeholder siano persone o gruppi che hanno, o si aspettano, proprietà, diritti o interessi nei confronti di una impresa e delle sue attività, presenti e future.

Tali diritti o interessi attesi sono il risultato di transazioni o azioni intraprese dall’impresa e possono essere legali o morali, individuali o collettivi.

Gli stakeholder con interessi, aspettative o diritti simili possono essere classificati come appartenenti allo stesso gruppo: dipendenti, azionisti, clienti e via dicendo. Egli divide gli stakeholder in due gruppi:

STAKEHOLDER PRIMARI: si intendono i gruppi senza la cui partecipazione continua l’impresa non potrebbe sopravvivere; solitamente fanno parte di questa categoria gli azionisti e gli investitori, i dipendenti, i clienti e i fornitori, insieme a quello che viene definito lo stakeholder pubblico: i governi e le

(28)

28

comunità che forniscono infrastrutture e mercati, le cui leggi e regolamenti devono essere rispettate, a cui si può dover pagare le tasse e verso cui si hanno una serie di obblighi. Qualora un gruppo di stakeholder primari dovesse non essere soddisfatto e decidesse di uscire dal sistema dell’impresa, in parte o in toto, l’impresa sarebbe notevolmente danneggiata o non sarebbe più in grado di continuare la sua attività. La sopravvivenza e il successo duraturo dell’impresa dipendono quindi dalla capacità dei suoi manager di creare sufficiente ricchezza, valore o soddisfazione per coloro che appartengono ad ogni gruppo di stakeholder primari.

STAKEHOLDER SECONDARI:si intendono coloro che influenzano o sono influenzati dall’impresa, ma non sono impegnati in transazioni con essa e non sono essenziali per la sua sopravvivenza. In base a questa definizione, i media ed una vasta gamma di particolari gruppi di interesse sono considerati stakeholder secondari. Essi hanno la capacità di mobilitare l’opinione pubblica a favore o contro le performance di un’impresa e possono tuttavia provocare gravi danni ad essa. Tali gruppi possono essere contrari alle politiche ed ai programmi adottati da un’impresa per adempiere le proprie responsabilità o soddisfare i bisogni e le aspettative dei suoi gruppi di stakeholder primari.38

Seguendo l’onda della teoria degli stakeholder, nel 1995 Donaldson e Preston fornirono una serie di raccomandazioni per gestire nel migliore dei modi l’insieme di stakeholder, indicando la scelta delle strutture organizzative e delle politiche aziendali generali.39

I due autori propongono un’analisi delle possibili modalità di utilizzo della teoria degli stakeholder proposta da Freeman, descrivendo tre scenari, quello descrittivo, strumentale e normativo. Gli autori, evidenziano le differenze e le

38 Clarkson M. B. E., A stakeholder framework for analyzing and evaluating corporate social

performance, Academy of Management Review, 1995.

39 Donaldson, Preston, The stakeholder theory of the corporation: concepts, evidence and

(29)

29

fondamentali implicazioni, al fine di chiarire come le tre declinazioni della teoria, di fatto, si sostengono a vicenda.

Nella versione descrittiva l’impresa è vista come una costellazione di interessi cooperativi e conflittuali tra i diversi stakeholder e la sua stessa natura può essere identificata come una modalità organizzativa per risolvere i problemi di coordinamento e cooperazione tra i diversi stakeholder. La teoria, in tal caso, è utilizzata per descrivere e a volte per spiegare, caratteristiche e comportamenti specifici che l’impresa utilizza. In particolare all’interno di tale versione si pone attenzione a ciò che le organizzazioni fanno per sviluppare comportamenti responsabili, sia in termini etici che sociali..

Nella funzione strumentale invece la teoria degli stakeholder descrive l’importanza nel gestire le differenti relazioni con i diversi stakeholder, al fine di poter raggiungere gli obiettivi che l’impresa si è prefissata. Solo in questo modo, attraverso una gestione delle relazioni strategica, l’impresa potrà raggiungere il successo nel lungo periodo.

La versione normativa, a cui Donaldson e Preston dedicano maggiore attenzione, si basa invece sull’accettazione di due presupposti. Il primo è rappresentato dal fatto che gli stakeholder, essendo coinvolti personalmente nelle attività e nei risultati dell’impresa, hanno interessi legittimi nell’organizzazione. È proprio in base a tali interessi, e non in virtù dell’interesse che l’azienda nutre verso loro, che essi possono essere considerati stakeholder (acquisendo, appunto, questa specifica identità).

Il secondo presupposto considera, invece, che tali interessi hanno un valore intrinseco, cioè meritano considerazione e rispetto in se stessi e non solo in senso strumentale rispetto allo scopo. In virtù di ciò gli stakeholder devono essere considerati non solo come mezzi per l’impresa, ma come

(30)

30

soggetti o categorie che detengono dei diritti e degli interessi, aventi valore a sé.40

1.4.2 BUSINESS ETHICS

Tra la fine degli anni 70 e la metà degli anni 80 nasce e si sviluppa in America il filone di studi chiamato business ethics o “etica degli affari” (nella sua versione italiana), che è orientato ad analizzare i fini che un’impresa si pone, le norme che orientano la sua condotta e, infine, i principi e i valori che sono alla base delle sue scelte.

Il filone di studi della business ethics, a differenza di quelli definiti CSR1 e CSR2 (vedi par. 3) in cui le aziende agivano più per il timore di controllo sociale che per un effettivo interesse verso la società, pone attenzione ai valori etici che devono essere alla base dei comportamenti delle imprese, caratterizzandone le scelte e le norme di condotta.

Nel 1986 Frederick identificava il Business ethics con la sigla CSR3 ovvero “Corporate Social Rectitude”41, per sottolineare l’importanza dei comportamenti etici nelle scelte che intraprende un’azienda, incorporando la dimensione morale che né il CSR1 né il CSR2 analizzati precedentemente menzionavano nelle loro spiegazioni.

L’utilizzo della “Corporate Social Rectitude”, serve per individuare quelle imprese che adottano scelte aziendali e decisioni manageriali con un occhio di riguardo all’eticità.

Inoltre se si include la CSR3 all’interno di un’impresa, si posseggono strumenti di analisi per individuare ed anticipare le problematiche etiche che riguardano l’impresa e i suoi dipendenti; infine la “Corporate Social

40 Carnevale C., Stakeholder, CSR ed economie di mercato, la complementarità delle sfere

economico-istituzionali, Franco Angeli, Milano, 2014, p. 22.

41 Frederick, Why ethical analysis in indispensable unavoidable in corporate affairs, California

(31)

31

Rectitude” riesce ad individuare una politica continua tra le scelte aziendali presenti e future con i valori tipici di una cultura basata sull’etica.

Epstein in riferimento a ciò, propone una definizione multidimensionale di responsabilità sociale che include sia la corporate social responsibility, focalizzata sugli effetti dell’agire dell’azienda sul contesto sociale (CSR1), sia la corporate social responsiveness volta all’identificazione di processi gestionali interni all’impresa per la definizione delle diverse istanze degli stakeholder (CSR2), sia la business etichs basata sull’importanza dei valori morali su cui fondare le politiche aziendali(CSR3).

L’autore, pertanto, sintetizza queste tre fasi nel concetto di “corporate social policy process”, il cui obiettivo è la costituzione di un unico orientamento gestionale etico-globale” che va ad incidere su tutta l’attività dell’impresa.42

1.4.3 CORPORATE SOCIAL PERFORMANCE

Il concetto di corporate social performance (nel suo acronimo CSP) si è sviluppato a partire dalla fine degli anni 70 negli Stati Uniti, soprattutto grazie ai contributi di Carroll (1979) e di Sethi (1979).

Carroll43, sostiene che la Corporate Social Performance deve essere considerata come l’integrazione di tre dimensioni, rappresentate dalla “corporate social responsibility” (termine con il quale fa riferimento, come già detto in questa trattazione, alle differenti responsabilità economiche, giuridiche, etiche e discrezionale che un’azienda deve tenere in considerazione nelle attività di management), dalla “corporate social responsiveness” (intesa, invece, come sensibilità e rispondenza verso l’ambito sociale), ed infine dei “social issues” (intesi come l’identificazione di chiari obiettivi o aree di

42 Chirileison C., Le strategie sociali nel governo dell’azienda, Giuffrè editore, 2002, p. 51. 43 A. B. Carroll, A Three-Dimensional Conceptual Model Of Corporate Social Perform,Academy of

(32)

32

interesse a cui l’azienda vuole rivolgersi). È proprio l’integrazione di queste tre dimensioni che rende il modello di Carroll assolutamente interessante.

Anche Sethi (1979), sulla scia di Carroll, identifica delle dimensioni che confluiscono nella Corporate Social Performance. Sethi distingue tre livelli di comportamento aziendale in risposta alle istanze sociali, rappresentati da: “social obligation”, “social responsibility” ed, infine, “social responsiveness”.

Il social obligation, è il comportamento dell’azienda come risposta alle forze di mercato e agli obblighi legali, dove i criteri di comportamento per ottenere la legittimazione sono legati a fattori economici ed al sistema dei vincoli di legge.

Con il secondo termine, invece, sottolinea che la social responsibility è da intendersi come un qualcosa che va oltre gli obblighi imposti dalla società e che prevede il rispetto da parte delle organizzazioni dei principali valori, norme e aspettative sociali.

Infine, con “social responsiveness” sottolinea il ruolo attivo che le aziende devono avere nella società, nell’anticipare e prevenire i bisogni sociali.

Nella versione di Sethi la corporate social performance è, pertanto, intesa come quell’insieme di strategie che l’impresa può adottare per rispondere ai bisogni della società ed incrementare così l’armonia del rapporto tra impresa ed ambiente.44

I contribuiti di Carroll e Sethi, analizzati fin’ora, hanno contributo a sviluppare due distinti approcci al concetto di corporate social performance.

44 Sethi S. P., A conceptual framework for environmental analysis of social issues and evaluation of

(33)

33

Un primo approccio focalizza l’attenzione sull’implementazione di ciò che Jones, definisce il “fair process”, attraverso cui si cerca di conciliare gli interessi e i desideri dei differenti stakeholder con le esigenze dell’impresa.

L’autore, infatti, sostiene che la CSP deve focalizzare l’attenzione sull’analisi del processo e sui metodi con cui sono identificati gli obiettivi e sono risolti i dilemmi etici nelle situazioni concrete. 45

La responsabilità sociale, in virtù di ciò, dovrà essere considerata più come un processo inglobato nella politica aziendale, che come un risultato da ottenere una volta per tutte.

Il contributo di Jones comporta un’inversione nell’impostazione teorica in cui si evidenzia il passaggio da un’interpretazione orientata ai risultati, in cui la RSI è vista in funzione delle conseguenze delle azioni intraprese, ad un’interpretazione orientata al processo in cui si pone attenzione al processo di decision making che le attività del management e di governo sociale comportano.

Tra i contributi alla Corporate Social Performance secondo l’approccio del fair process, si inserisce lo studio di Wartick e Cochran46 i quali hanno aggiornato il modello di Carroll e spiegato alcuni ulteriori concetti rendendo il modello CSP più robusto e logico. Gli autori, pur ritenendo il modello della CSP sufficientemente ampio per poter includere le tre principali sfide poste dal concetto di CSR - la responsabilità economica, la responsabilità pubblica e la reattività sociale -, presentano, criticano e sintetizzano, il modello di Carroll, proponendo un modello che comprende al suo interno anche una dimensione composta dai principi, dai processi e dalle politiche aziendali, dove tali componenti rappresentano rispettivamente gli orientamenti filosofici, istituzionali ed organizzativi.

45JONES T. M., Corporate Social Responsibility revisited, redefined, California Management Review,

Spring 1980.

46 Wartick, Cochran ,The Evolution of the Corporate Social Performance Model, The Academy of

(34)

34

La definizione dei principi che motivano alla responsabilità, si rifà alla CSR così come intesa nella piramide di Carroll.

I processi di risposta, definiti anche da Carroll come reattivi, difensivi, accomodanti e propositivi, consistono nei processi consentiti dall’attività e messi in atto dai manager per rispondere al mutare delle condizioni e richieste sociali.

Le politiche aziendali (comprendente gli aspetti legati alla gestione), rappresentano uno sviluppo significativo del modello che prima si soffermava solo ad individuare i problemi. Difatti, concernono la proposta di gestione dei problemi sociali, tra cui le politiche di identificazione del problema, analisi del problema e lo sviluppo della risposta. Tali politiche hanno contribuito ad evitare sorprese alle aziende e a determinare quali politiche sociali sono state efficaci.

Un secondo approccio alla CSP, focalizza, invece, l’attenzione sui risultati che un’impresa è in grado di produrre e sulla misurabilità degli stessi risultati.

Tale approccio in letteratura è stato accolto con maggiore entusiasmo poiché, innanzitutto, non mescola input e output come invece fa il primo, dividendo i risultati della CSP dal processo che li ha generati,e secondariamente, pone le basi per poter comparare e misurare tali risultati.

Drucker, infine, contribuendo a sviluppare ulteriormente il tema della CSP, mette in relazione il concetto di corporate social performance con le performance finanziarie dell’impresa.

L’autore in particolare, espone chiaramente l’idea che la responsabilità sociale e la profittabilità del business sono compatibili e, soprattutto, l’idea che le imprese dovrebbero convertire la propria CSR in opportunità.

Drucker, a tal proposito, sostiene che la vera responsabilità delle imprese è rappresentata “dal trasformare un problema sociale in opportunità e vantaggi

(35)

35

economici, in capacità produttiva, in competenze umane, in posti di lavoro ben retribuiti ed, infine, in ricchezza”.47

In base a quanto analizzato all’interno di questo paragrafo, risulta chiaro che alle organizzazioni viene richiesto di ricoprire un ruolo diverso rispetto al passato, in cui l’unico obiettivo per l’impresa e il suo management era la massimizzazione del profitto per l’azionista.

Secondo questa prospettiva alternativa le imprese devono, invece, essere gestite al fine di essere al servizio degli interessi dei consumatori, dei dipendenti, degli investitori, dei fornitori e più in generale di tutta la comunità.

(36)

36

1.5 LA CSR NELLE POLITICHE EUROPEE

A livello europeo la CSR diventa oggetto di attenzioni a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, quando un gruppo di aziende europee e il Presidente della Commissione europea Jacques Delors lanciano un Manifesto delle imprese contro l'esclusione sociale.

Questa iniziativa ha portato alla realizzazione di una rete europea delle imprese, il cui compito è quello di promuovere il dialogo tra le imprese e lo scambio delle migliori pratiche relative alla RSI, anche se solo con il vertice di Lisbona del marzo 2000 la RSI è diventata il tema centrale dell'agenda politica della UE.

Per la prima volta, infatti, i capi di stato e di governo europei hanno fatto specificamente appello al senso di responsabilità delle aziende affinché contribuiscano a raggiungere il nuovo obiettivo strategico UE di diventare entro il 2010 l'economia più ampia e competitiva del mondo.48

Nel 2001 veniva pubblicato il Libro Verde: Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese con l’obiettivo di “lanciare un ampio dibattito sui modi nei quali l’UE potrebbe promuovere la responsabilità sociale delle imprese a livello sia europeo che internazionale, e in particolare su come sfruttare al meglio le esperienze esistenti, incoraggiando lo sviluppo di prassi innovative, migliorando la trasparenza e rafforzando l’affidabilità della valutazione e della convalida delle varie iniziative realizzate in Europa. Il documento propone un approccio basato su partnership più strette nell’ambito delle quali tutti gli interessati hanno un ruolo attivo da svolgere”.

La Commissione riteneva che le imprese europee dovessero raccogliere le sfide poste dai cambiamenti mondiali inserendo strategicamente la

(37)

37

responsabilità sociale tra le loro scelte gestionali, considerandola un investimento e non un costo.

La Commissione si impegnava a sostenere l’elaborazione di principi e strumenti atti a promuovere nuove prassi e idee innovative che garantissero valutazione e verifica delle procedure di responsabilità sociale delle imprese.

Il Libro Verde elencava sia i campi d’azione della CSR sia gli strumenti di certificazione e di rendicontazione esistenti; auspicava, inoltre, che si implementassero nuove ricerche congiunte da parte dei pubblici poteri, delle imprese e degli istituti universitari per ottenere una migliore conoscenza dell’impatto della responsabilità sociale delle aziende sulle loro prestazioni economiche.

La Commissione riteneva che la responsabilità sociale rivestisse importanza per tutti i tipi di imprese e per tutti i settori di attività, dalle PMI alle multinazionali e che il suo impatto economico potesse ottenere effetti sia diretti che indiretti.

Il Libro Verde faceva riferimento ad una dimensione interna e ad una esterna della CSR.

Nella prima rientravano la gestione delle risorse umane, la salute e la sicurezza nel lavoro, l’adattamento alle trasformazioni oltre che la gestione degli effetti sull’ambiente e delle risorse naturali.

Per quanto concerneva la dimensione esterna, la Commissione riteneva che la responsabilità sociale si estendesse al di là del perimetro dell’impresa e integrasse la comunità locale oltre ai dipendenti e agli azionisti e a varie parti interessate, tra cui partnership commerciali, fornitori e consumatori.49

La pubblicazione del Libro Verde ha dato avvio a molte iniziative su scala europea, a seguito anche della Comunicazione della Commissione del 2 luglio 2002 relativa alla “responsabilità sociale delle imprese: un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile”.

49 Commissione Delle Comunità Europee, Libro verde –Promuovere un quadro europeo per la

(38)

38

In particolare con tale comunicazione si è creato il Multistakeholder Forum con l'obiettivo di accrescere il livello di conoscenza della RSI, e facilitare il dialogo tra business-community, sindacati, organizzazioni della società civile.

Obiettivi del Multistakeholder Forum sono quelli di: migliorare la conoscenza delle relazioni tra responsabilità sociale, sviluppo sostenibile e conseguente impatto su competitività, coesione sociale e protezione dell'ambiente, con particolare riguardo alle piccole-medie imprese; valutare l'opportunità di un approccio comunitario al tema della responsabilità sociale delle imprese, tenendo presente le esperienze già realizzate in Europa e le iniziative internazionali (OCSE; ILO ecc.). 50

Nel 2006 la Commissione pubblicava la Comunicazione :”Il partenariato per la crescita e l’occupazione: fare dell’Europa un polo di eccellenza in materia di responsabilità sociale delle imprese.51

In tale Comunicazione si enfatizzava la necessità di promuovere l’ulteriore adozione di pratiche di CSR, dedicando particolare attenzione a diversi aspetti: sensibilizzazione, scambio di buone pratiche, sostegno delle iniziative multistakeholder, collaborazione con gli stati membri, informazione rivolta ai consumatori e trasparenza, ricerca, educazione, piccole e medie imprese, dimensione internazionale della responsabilità sociale.

La Commissione annuncia il suo sostegno al lancio di un’alleanza europea con le imprese, sottolineando come sia un processo politico e non uno strumento giuridico.

Infatti tale politica ha contribuito a migliorare il settore della RSI e il numero di imprese europee che pubblicano relazioni al riguardo è passato da 270 nel 2006 a oltre 850 nel 2011.52

50 http://www.fabricaethica.it/fsets/sviluppooperativo/fr_politiche_europee.php?sez=2&menu=3 51 Commissione Delle Comunità Europee, Comunicazione Della Commissione Al Parlamento Europeo,

Al Consiglio E Al Comitato Economico E Sociale Europeo Il Partenariato Per La Crescita E L’occupazione: Fare Dell’europa Un Polo Di Eccellenza In Materia Di Responsabilità Sociale Delle Imprese, Bruxelles, 22 marzo 2006.

(39)

39

Nel 2011 la Commissione con una Comunicazione affrontava nuovamente il tema della responsabilità sociale delle imprese presentando una strategia rinnovata dell’UE per il periodo 2011-14 in materia di responsabilità sociale delle imprese.

Questa nuova strategia rispondeva all’esigenza di affrontare le conseguenze della crisi economica che hanno scosso l’intero mondo imprenditoriale oltre che i consumatori. La Commissione intendeva sollecitare comportamenti responsabili delle imprese per una crescita sostenibile e per la creazione di occupazione nel medio e lungo periodo.

La Comunicazione presentava il programma d’azione 2011-2014 che intendeva:

• promuovere la visibilità della CSR e la diffusione delle buone pratiche;

• migliorare e monitorare i livelli di fiducia nelle imprese;

• migliorare i processi di autoregolamentazione e coregolamentazione;

• aumentare gli incentivi di mercato per la CSR;

• migliorare la divulgazione da parte delle imprese delle in formazioni sociali e ambientali;

• integrare ulteriormente la CSR nell’ambito dell’istruzione, della formazione e della ricerca;

• accentuare l’importanza delle politiche nazionali e subnazionali in materia di CSR;

• migliorare l’allineamento degli approcci europei e globali alla CSR.

52 L’evoluzione del concetto di responsabilità sociale d’impresa.Progetto TRAINING IN PROGRESS

Finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ai sensi della L. 383/2000 - Direttiva annualità 2010, p. 16.

(40)

40

La Commissione concludeva invitando gli imprenditori europei ad adottare prassi responsabili e obiettivi chiari mentre ancora una volta veniva ribadito il carattere volontario della CSR e si riconosceva alle autorità pubbliche soltanto un ruolo di sostegno.53

53 Comunicazione della Commissione “Strategia rinnovata dell’UE per il periodo 2011-14 in materia di

(41)

41

CAPITOLO SECONDO

GLI STRUMENTI DELLA RESPONSABILITÁ SOCIALE

D’IMPRESA

2.1 INTRODUZIONE

In questo capitolo prima di esaminare le tecniche e gli strumenti della responsabilità sociale d’impresa, occorre concentrarsi su un concetto di notevole importanza della RSI, la comunicazione.

Per comunicazione si intende, il processo e le modalità di trasmissione di un’informazione da un punto ad un altro, attraverso lo scambio di un messaggio composto secondo le regole di un determinato codice.54

A questo punto bisogna porsi una domanda: perché le imprese comunicano internamente ed esternamente le proprie “performance etiche”?

Semplicemente perché le imprese hanno necessità di confrontarsi con i propri interlocutori, di condividere con essi le esperienze maturate da ciascuno, così da crescere insieme ed arricchirsi reciprocamente.

In questo modo si finisce per accrescere un know how complessivo che diviene una risorsa a disposizione di ciascuno, e si crea un circolo virtuoso di creazione di valore mediante la diffusione di una nuova cultura d’impresa e delle best practice applicate.

E’ quindi a partire da questa necessità di confronto che possiamo distinguere fra le varie funzioni svolte dalla comunicazione, distinguendo in particolare quella che può essere considerata una “comunicazione partecipativa” da una “comunicazione programmatica”.

Per comunicazione partecipativa si intende, ad esempio, quando un’azienda decide di adottare un proprio codice etico, in questo caso l’azienda

(42)

42

dovrà informare e dialogare con i propri stakeholder in corso d’opera e non semplicemente comunicarne l’esistenza una volta terminata la redazione del documento. In questo modo tutte le componenti aziendali e i vari stakeholder hanno la possibilità di contribuire a definire l’identità dell’azienda e i principi della sua condotta, e in conclusione il codice etico diviene uno strumento condiviso da tutti e riconosciuto come proprio da ciascuno.

D’altro canto, si è detto che esiste anche una comunicazione programmatica.

Con questo termine possiamo individuare quella propensione dell’impresa a instaurare un rapporto con i propri interlocutori tale per cui si individuano degli obiettivi comuni e si ricerca insieme una via per conseguirli.

Ma la comunicazione nell’ambito della RSI svolge anche un ruolo di cautela nei confronti di un’opinione pubblica sempre più vigile e critica. Cresce, infatti, fra i consumatori la consapevolezza di poter incidere anche significativamente sulle performance economiche delle imprese per mezzo delle proprie scelte d’acquisto, arrecando notevoli danni a quelle imprese che dimostrano di adottare comportamenti scorretti. Le aziende devono dunque comunicare la propria condotta, dal momento che la percezione di comportamenti scorretti da parte delle stesse induce a non acquistarne più i prodotti.55

In conclusione possiamo, quindi, affermare che comunicare la RSI è importante per un’impresa perché la aiuta, con l’apporto di tutti i suoi stakeholder, a definire la propria identità ma anche perché contribuisce a costruire una salda reputazione e dunque ad instaurare e rafforzare legami di fiducia, senza i quali non sarebbe possibile svolgere alcuna attività economica. E’ infatti importante considerare la fragilità del meccanismo reputazionale, in quanto “gli investimenti sulla responsabilità sociale possono dare effetti di reputazione nel medio o nel lungo periodo, mentre sono

(43)

43

estremamente soggetti a shock informativi di breve periodo”. Dunque, “affinché la reputazione sia efficace, occorre che sia possibile assumere impegni anche in contesti caratterizzati da eventi imprevisti o in cui l’informazione è distribuita in modo molto diseguale, e che agli stakeholder sia possibile verificare l’osservanza degli impegni anche quando mancano contratti, regolarmente dettagliati e obiettivi espliciti”.

In pratica, “se il meccanismo reputazionale risultasse imperfetto l’intero impianto della RSI ne risulterebbe invalidato”.56

Riferimenti

Documenti correlati

 Per gli Enti e le Associazioni di promozione sociale ex art. n.117 del 03/07/2017: esibizione di copia dello Statuto e atto costitutivo da cui si evinca la compatibilità

La Società può emettere le azioni previste dall’articolo 150-ter del D. 385, nei casi e nei modi previsti dal presente articolo. Ai sensi dell'art. 2443 c.c., con

[r]

a) Si precisa che in caso di presentazione di certificazioni/attestazioni etc. rilasciate in lingua diversa dall’italiano, dovrà essere presentata anche la traduzione giurata, a

La Banca adotta un sistema di governo e gestione del rischio di liquidità che, in conformità alle disposizioni

Con il Bilancio Sociale e di Missione 2008 la nostra Banca si presenta per l’ottavo an- no consecutivo all’appuntamento con i suoi portatori di interesse – i soci, i dipen- denti,

Il tasso di attualizzazione è poi stato aumentato prudenzialmente di 3 punti percentuali (ovvero 12,45%) per interpretare il livello di rischio specifico dell'area genovese. Sulla

Art.. Sono enti del Terzo settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse