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Percorsi differenziati di contrasto alla pericolosità sociale nella "società del rischio"

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Percorsi differenziati di contrasto alla pericolosità sociale

nella "società del rischio"

Il Candidato

Il Relatore

Carlotta Pistolesi

Prof. Luca Bresciani

(2)

I

INDICE

INTRODUZIONE………..1

CAPITOLO I IL GIUDIZIO DI PERICOLOSITA’ NELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA 1. Il diritto penale nella società del rischio……….4

1.1 Il diffuso senso di insicurezza collettiva………...4

1.2 Il ruolo dei mass media……….……….7

2. La crisi della funzione rieducativa della pena………7

2.1 Le risposte adattative……….7

2.2 Le risposte non adattative: il neo retribuzionismo……….9

3. L’autore pericoloso nella società del rischio………10

3.1 La criminologia dell’Altro………..10

3.2 L’evoluzione delle strategie di controllo penale rispetto ai rei aaimputabili “pericolosi”………...13

CAPITOLO II LA NEUTRALIZZAZIONE DEGLI IMPUTABILI PRESUNTI SOCIALMENTE PERICOLOSI NELLA VICENDA PENALE 1. Forme di pericolosità penitenziaria…..………23

1.1 I circuiti penitenziari………..…………...23

1.2 .L’individualizzazione del giudizio di pericolosità: l’art. 14 bis o.p...26

1.3 L’oggettivizzazione del giudizio di pericolosità: l’art. 4 bis aaaao.p………..……….……….38

1.3.1 L’art. 41 bis, co. 2 o.p………...………...53

1.4 Gli Stati Generali circa gli strumenti di contrasto nei confronti aaaadei detenuti pericolosi………...……..61

1.5 L’art. 1, co. 85, lett. b) ed e) della riforma Orlando…………64

2. La pericolosità in funzione di aggravamento della pena…………..68

2.1 Il delinquente recidivo………...…..68

2.1.1 L’istituto della recidiva tra colpevolezza e pericolosità...69

2.1.2 L’illegittimità costituzionale della presunzione legale di ……….pericolosità ex art. 99, co. 5 c.p………..….72

(3)

II

2.1.4 L’esclusione dei reati colposi e delle contravvenzioni dal

………recidivismo: verso un diritto penale delle classi

………pericolose?...85 2.1.5 Riforma Orlando: il superamento di automatismi e

…………....preclusioni per i recidivi………..……….88 2.2 Il sex offender………..………...90

2.2.1 La disciplina differenziata per gli autori di reato a sfondo ……….sessuale………..93 2.2.2 L’opportunità di un trattamento specifico per evitare la

………..recidiva………….……….……….94 3. La logica d’autore nella genesi della fattispecie penale…….102

.3.1 La detenzione di materiale pornografico…………..….102 3.2 La pedopornografia virtuale………..……….104 3.3 L’immigrato clandestino……..…………..………109 aa 3.3.1 La disciplina dei reati collegati all’espulsione…....110 3.3.2 La declaratoria di illegittimità dell’aggravante di

………a….clandestinità…….…..………....120 3.3.3 L’infelice “resistenza” della contravvenzione di

………clandestinità………..123 4. La logica della neutralizzazione nelle misure cautelari…….128 4.1 L’art. 274 lett. c) c.p.p…....………...128 4.2 L’art. 275, co. 3 c.p.p…………....……….135

CAPITOLO III

UN ITER IN CONTROTENDENZA: DALLA

NEUTRALIZZAZIONE ALLA CURA DELL’INFERMO DI MENTE “SOCIALMENTE PERICOLOSO”

1. La follia: un germe da combattere o una patologia da

curare?...146 1.1 Il binomio malattia mentale – pericolosità sociale del

aaaaacodice Rocco………….………146 1.2 Un diverso approccio alla malattia mentale: la legge 180aa

del 1978…….………148 1.3 Il riordino della medicina penitenziaria: il D.Lgs. n.

aaaaa230/1999 e il D.P.R. n. 230/2000……….….150 1.4 La crisi del concetto d’autore non imputabile “pericoloso”: i principi sanciti dalla Consulta………...152 1.5 Gli interventi finalizzati alla deistituzionalizzazione….156 2. Le modifiche alla misure di sicurezza custodiali della legge n.

81/2014………...169 2.1 Le misure di sicurezza detentive come ultima ratio…..169 2.2 Fine degli “ergastoli bianchi”: l’introduzione di una

(4)

III

2.3 Liberi e socialmente pericolosi: i problemi di tutela della

aaaacollettività e il rischio di vittimizzazione secondaria...181

3. La pericolosità sociale dell’autore di reato non imputabile dopo la legge n. 81/2014……….190

3.1 La valutazione della pericolosità sociale.……….190

3.2 L’esclusione delle condizioni di cui all’art. 133, co. 2, aa aaaaan. 4 ae l’irrilevanza della mancanza di programmi aaaaaterapeuticiaindividuali………..……….200

3.3 La pericolosità sociale decontestualizzata: un varco per le aaaneuroscienze?...207

3.4 Al di là del tenore letterale: le interpretazioni suggerite dalla dottrina………209

3.5 La novella legislativa al vaglio di costituzionalità……..212

3.6 La lettura della Corte costituzionale………....218

4 La delega in materia di misure di sicurezza personali……...220

4.1 Dalla pericolosità al bisogno di trattamento?...220

CAPITOLO IV LE COMPONENTI BIO-PSICO-SOCIALI CORRELATE ALLA PERICOLOSITA’: SIAMO DAVVERO LIBERI? 1. Quanto siamo determinati nel nostro agire?...229

1.1 Imputabilità e infermità di mente……….229

1.2 Cervelli “guasti” e tecniche di neuroimaging….……….238

1.3 Gene guerriero e ambiente………...247

2. Fino a che punto affidarsi alle neuroscienze per la predizione di comportamenti criminali?...253

2.1 Le potenzialità degli studi neuroscientifici………..253

2.2 I limiti………...255

3. Cosa resta del libero arbitrio?...260

3.1 I riflessi del dato scientifico sul diritto penale………….260

CONCLUSIONI……….267

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1

INTRODUZIONE

La società contemporanea con la crisi del Welfare State, la globalizzazione e le forti ondate migratorie, si caratterizza per una convivenza spesso fonte di conflitti inter-individuali, dove l’Altro appare prima di tutto come un pericolo. Ciò condiziona la percezione stessa della criminalità e alimenta la figura dell’autore di reato

socialmente pericoloso. Il presente lavoro si propone di analizzare le risposte offerte dal diritto

penale e penitenziario di fronte a coloro che sono percepiti come un pericolo per la società. La politica criminale attuale oscilla tra il placare le ansie securitarie collettive mediante risposte “carcero-centriche”, di pura incapacitazione dell’autore di reato (ritenuto di per sé socialmente pericoloso) ovvero, al contrario, soluzioni orientate essenzialmente verso una risposta

finalizzata al recupero del reo. Nella prima direzione si collocano tutti quegli interventi del legislatore

che, recependo certe istanze collettive, utilizzano la pericolosità in funzione di creazione di fattispecie incriminatrici o di circostanze aggravanti. In alcuni casi a ciò si accompagna una presunzione di pericolosità che si ancora ad una qualità del soggetto (come avviene per il reato di clandestinità) o al titolo del reato (come i reati di natura sessuale a danno di minori e i delitti della criminalità organizzata) o, infine, alla precedente commissione di altri fatti di reato (si pensi, in particolare, al regime della recidiva). Nelle suddette ipotesi le presunzioni di pericolosità, desunte dall’appartenenza dell’autore ad una categoria reputata capace di destare allarme sociale, sorreggono un sistema di automatismi e preclusioni, basato sull’assunto secondo cui

alcuni soggetti non sono rieducabili. Del resto, la pericolosità dell’autore di reato, ai giorni nostri, si è spinta ben oltre i

confini delineati dal codice Rocco, che vedeva nelle misure di sicurezza, libere dai vincoli della proporzione e della colpevolezza, lo strumento

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2

per incapacitare i soggetti pericolosi, fino ad insinuarsi nella pena. La probabilità di commissione di nuovi reati ha finito per entrare nel territorio della pena, spesso collidendo con i principi costituzionali, in particolare quelli di offensività e proporzionalità. Questa tendenza, tuttavia, sembra contraddetta da alcune scelte che sono state effettuate rispetto agli autori di reato infermi di mente. Per questi ultimi, a seguito di alcuni interventi della Corte costituzionale e poi con l’art. 31 della legge Gozzini, si è passati da presunzioni di pericolosità sociale ad accertamenti concreti della stessa, ponendo fine alla “bagatellarizzazione” della loro libertà personale. Più recentemente, poi, si è giunti, dopo un iter travagliato, al superamento dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. La riforma del 2014 sembra riuscire, in un’epoca di recessione delle politiche sociali e di avanzamento di quelle penali, ad attuare forme di assistenza e partecipazione diffusa alle sorti dell’infermo di mente che ha un “conto aperto” con la giustizia penale. Superati gli OPG, costituenti in passato dei veri e propri lagher manicomiali, i folli-rei dovrebbero trovare oggi, nelle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, strutture e personale in grado di fronteggiare il loro bisogno di cura, privilegiandone il recupero e il

reinserimento in società. Ciò detto sul piano giuridico, in epoca recente la scienza sembra aprire

nuove strade all’accertamento empirico della pericolosità, intesa specialmente come rischio di recidiva. Naturalmente –nonostante i contributi delle neuroscienze- si tratta di tecniche di valutazione che presentano ancora ampi margini di incertezza. Allo stato attuale, infatti, né psichiatri (esperti in neuro-scienze o meno che siano) né criminologi hanno strumenti per prevedere con un sufficiente grado di affidabilità

comportamenti futuri, soprattutto nel medio e lungo termine. La prospettiva da coltivare potrebbe essere quella di abbandonare la

pericolosità sociale, nella sua indeterminata definizione, come fondamento della sanzione penale. Più ragionevolmente questa

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3

categoria potrebbe essere valorizzata nella fase dell’esecuzione, dove la figura dell’autore potrebbe essere opportunamente considerata nell’ottica di ridurre il rischio di recidiva. Gli studi empirici sulla valutazione del rischio di recidiva, calibrati sulle specifiche problematiche dell’autore di reato, in effetti, potrebbero contribuire all’individuazione di un percorso rieducativo e trattamentale individualizzato conforme a Costituzione.

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4

CAPITOLO I

IL GIUDIZIO DI PERICOLOSITA’ NELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA

Sommario: 1. Il diritto penale nella società del rischio. 1.1 Il diffuso senso di insicurezza collettiva. 1.2 Il ruolo dei mass media. 2. La crisi della funzione rieducativa della pena. 2.1 Le risposte adattative. 2.2 Le risposte non adattative: il neoretribuzionismo. 3. L’autore pericoloso nella società del rischio. 3.1 La criminologia dell’Altro. 3.2 L’evoluzione delle strategie di controllo penale rispetto ai rei imputabili “pericolosi”.

1. Il diritto penale nella società del rischio.

1.1 Il diffuso senso di insicurezza collettiva. Da alcuni anni proviene dalla società una richiesta sempre più forte di

sicurezza a fronte dell’aumento dei tassi di criminalità indotto dalla globalizzazione, dallo sviluppo degli agglomerati urbani, dalla recessione delle politiche sociali, dalle forti ondate migratorie e dall’abbattimento dei confini tra Stati. Questi cambiamenti generano nuove forme di criminalità, alle quali il diritto penale è chiamato a dare

risposta1. Si parla a riguardo della c.d. società del rischio. La società

postindustriale ha creato una modernità in cui alla produzione di ricchezza si accompagna la produzione di rischi e, dunque, dalla logica della distribuzione della ricchezza si è passati a quella della spartizione dei rischi2. Il rischio produce più in generale una perdita di sicurezza e, in questo contesto, il diritto penale è chiamato a fronteggiare le nuove esigenze di tutela. Si è assistito così ad un utilizzo simbolico del diritto penale e alla proliferazione incontrollata di fattispecie. Questa tendenza,

1 M.PELISSERO, Pericolosità sociale e doppio binario. Vecchi e nuovi modelli di incapacitazione, Torino, 2008, premessa.

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5

oltre a compromettere la funzione general-preventiva della pena, ne

mina l’effettività. La società del rischio ha inoltre determinato un intervento penale

anticipato: si è passati cioè dalle fattispecie di evento, non idonee a garantire la sicurezza, poiché il diritto penale interviene a danno avvenuto, a fattispecie di pericolo presunto che individuano la soglia di rischio che la società è disposta ad accollarsi e, conseguentemente, collocano la soglia di punibilità. Questo trend è stato favorito anche dalla giurisprudenza che ha trasformato reati di evento in reati di pericolo attraverso una rilettura del rapporto di causalità che prescinde dall’accertamento del nesso condizionalistico e si accontenta dell’aumento del rischio3. L’anticipazione della punibilità ha portato all’incriminazione non solo delle condotte di puro pericolo, ma anche di quelle di mera disobbedienza. Questa tendenza politico-criminale “cerca una legittimazione nel principio di precauzione, con l’obiettivo di accreditare la rilevanza del pericolo, tutte le volte in cui quest’ultimo, pur non potendo escludersi con certezza scientifica, non possa comunque vantare una base né nomologico-deduttiva, né statistico-induttiva”4. Il forte senso di insicurezza collettiva si lega, non solo ai rischi di uno sviluppo incontrollato delle tecnologie, ma anche alle relazioni tra i consociati. “La società postindustriale europea è una società che rappresenta la crisi del modello dello Stato del benessere, una società di disoccupazione – in particolare giovanile -, di migrazione, di scontro tra culture. Una società, insomma, con notevoli problemi di articolazione interna. Tra i vari effetti (…) vi è di certo che tutti questi elementi generano episodi frequenti di violenza (…). In questo modello, infatti, la convivenza stessa appare come una fonte di conflitti interindividuali.

3 M.PELISSERO, Pericolosità sociale, cit., p.8.

4 F.GIUNTA, Verso una nuova pericolosità sociale (perennemente in cerca d’autore), in Cultura e diritti. Per una formazione giuridica, 2012, n.1-3, p.93.

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6

“L’altro” appare, molte volte, prima di tutto, proprio come un rischio”5. A mettere paura e insicurezza è “l’uomo associato, il gruppo, la società, la moltitudine, l’antagonismo dei bisogni”6. “La criminalità non è più solo un’esperienza confinata negli strati marginali della popolazione, ma diviene oggetto di esperienza diretta di qualsiasi consociato (…). Il rischio qui rileva non tanto nella sua intensità, quanto piuttosto nella sua diffusività e pervasività, come esperienza direttamente vissuta o facilmente immaginabile. Anche qui il rischio introduce un fattore destabilizzante nei rapporti tra consociati e viene a minare il senso di

fiducia tra le persone”7. La percezione dell’Altro come fonte di rischio condiziona la percezione

stessa della criminalità e alimenta la figura dell’autore di reato

socialmente pericoloso8. Può così accadere che il legislatore rafforzi l’intervento penale in

determinati ambiti senza che vi sia, in quello specifico contesto, un

effettivo aumento della criminalità. Dato il senso di insicurezza generalizzato e la crescente possibilità di

divenire vittime all’interno della società del rischio, l’attenzione si è focalizzata sulla persona offesa. Trascurare la posizione della persona offesa dal reato rischia di sviluppare il malcontento e favorire politiche reazionarie irrazionali. Sempre più spesso, oggi, la politica risponde alle istanze di maggior sicurezza in modo semplificatorio e del tutto simbolico, ovvero, attraverso una maggiore penalità e un aumento, soltanto apparente, del rigore repressivo.

5 S.SANCHEZ, L’espansione del diritto penale, aspetti della politica criminale nelle società postindustriali, Milano, 2004, pp.11-12.

6 P.MARCONI, Spazio e sicurezza. Descrizione di paure urbane, Torino, 2004, p.57. 7 M.PELISSERO, Pericolosità sociale, cit., p. 12.

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7

1.2 Il ruolo dei mass media.

La percezione sociale del crimine finisce poi per trovare una grande cassa di risonanza nei mass media. L’impatto delle notizie sui reati commessi fornisce una rappresentazione emotiva del fatto, che porta lo

spettatore a identificarsi con la vittima e a demonizzare l’autore di reato. Nel corso degli ultimi decenni si è assistito al declino del linguaggio

tecnocratico e all’emergere di discorsi “viscerali” che enfatizzano la

paura del crimine e che incanalano la rabbia verso chi delinque9. “Questo approccio emozionale alla politica è senza dubbio l’anticamera

del populismo”10 che conduce ad una pericolosa espansione del diritto penale. L’esperienza del crimine, attraverso la televisione, con la spettacolarizzazione che ne deriva, modula la risposta del pubblico non in base alla gravità del reato, o alle statistiche ufficiali, ma alle rappresentazioni collettive11. La percezione sociale della criminalità gioca un ruolo estremamente rilevante sui giudizi di pericolosità sociale che, in quanto giudizi di valore, si intrecciano con il grado di colpevolezza morale e di allarme sociale che, nei diversi momenti storici, è attribuito a certe tipologie di delitti12.

2. La crisi della funzione rieducativa della pena. 2.1 Le risposte adattative.

Con la crisi del welfare in campo sociale, si è assistito al declino dell’ideale rieducativo. La funzione riabilitativa della sanzione penale si si scontra con la realtà del sistema carcerario “del tutto incapace di

9 D.GARLAND, Pena, controllo sociale e modernità, in A.CERETTI (a cura di), Pena, controllo sociale e modernità nel pensiero di David Garland, Milano, 2005, p.19.

10 A.GARAPON, I custodi dei diritti. Giustizia e democrazia, Milano, 1997, p.81. 11 A.CERETTI, La cultura del controllo. Un saggio sul pensiero di David Garland, in A.CERETTI (a cura di), Pena, cit., p.37.

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8

raggiungere, attraverso percorsi di tipo correzionale, gli scopi di reinserimento sociale”13. La crisi della funzione rieducativa, alla fine degli anni sessanta, venne a sovrapporsi all’aumento dei rischi e alla diffusa percezione di insicurezza collettiva. La presa d’atto dell’inidoneità del sistema penale al controllo della criminalità e alla riduzione dei tassi di recidiva, ha delegittimato il tradizionale sistema fondato su correzionalismo e assistenzialismo14, favorendo l’evoluzione di nuove strategie di controllo sociale. Quest’ultime possono essere

distinte in risposte adattative e non adattative. Rientrano tra le risposte adattative gli interventi, scarsamente visibili da

un punto di vista di consenso dell’opinione pubblica, di professionalizzazione e razionalizzazione della giustizia, di privatizzazione degli istituti penitenziari e di ridimensionamento della devianza (attraverso il ricorso alle cauzioni, a una giustizia sommaria, alla non considerazione dei reati bagatellari). Si rafforzano i controlli e le strategie preventive all’interno della comunità (sistemi privati di controllo e potenziamento del controllo del territorio da parte di chi lo abita) attraverso i programmi della c.d. prevenzione situazionale. Questa strategia è caratterizzata dalla “responsabilizzazione” degli individui, dalla consapevolezza di uno Stato che non detiene più il monopolio del controllo della criminalità e dal tentativo di costruire alleanze contro il crimine15. Le risposte adattative si fondano sull’orientamento della c.d. criminologia della vita quotidiana, secondo cui il reato è un rischio abituale da calcolare e il sistema penale è inefficace rispetto alla dimensione diffusa e di massa dei conflitti. Secondo questo

13 M.PELISSERO, Pericolosità sociale, cit., p.22.

14 L’assistenzialismo penale poneva al centro della sua logica la differenziazione tra normale e patologico, e assegnava alla criminologia il compito di determinare l’estensione, la profondità e, soprattutto, la correggibilità della patologia e della pericolosità dalla quale era affetto “il delinquente”. Sul punto A.CERETTI, La cultura del controllo, cit., p.37.

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9

orientamento, l’autore di reato è mosso “dalla sola finalità di massimizzare il proprio utile a spese del prossimo, e l’idea di avere di fronte una società nella quale a un miglioramento, in senso generale, della situazione economica, corrisponde un aumento delle opportunità a delinquere”16. Più in particolare, secondo il suddetto indirizzo, il controllo non può essere assicurato dalle istituzioni pubbliche, ma va tratto dalla rete delle interazioni della vita quotidiana. Si tratta di limitare le opportunità di delinquere, creando barriere tra “predatori” e “prede”; da parte loro cittadini, famiglie e comunità si adattano rivedendo le loro routine quotidiane17. Queste strategie, al di là dei vantaggi, rischiano di trasformarsi in tentativi di supplenza delle funzioni repressive.

2.2 Le risposte non adattative: il neoretribuzionismo.

Poiché il politico di oggi indirizza le sue scelte in base alla loro presa sul pubblico, sotto lo sguardo dei media, e si affida principalmente agli umori dell’opinione pubblica, ai suddetti interventi si affiancano le risposte non adattative18. Quest’ultime sono fondate sul principio di responsabilizzazione individuale che non giustifica né attenua la responsabilità per il reato in nome dei condizionamenti sociali e psicologici caratterizzanti il vissuto dell’autore. Questa strategia, dato il fallimento dell’ideale rieducativo e il riconoscimento di una piena responsabilità dell’autore per il fatto commesso, considera la pena come giusto merito. Tale prospettiva neoretributiva torna a vedere nel carcere uno strumento efficace per il controllo della criminalità. Tornano, in altri termini, ad essere centrali le pene privative della libertà personale, il rigore repressivo e l’inasprimento della disciplina della recidiva. Lo scopo rieducativo viene così ad essere sostituito da una spiccata prevenzione speciale negativa, incentrata sulla neutralizzazione ed

16 A.CERETTI, La cultura del controllo, cit., p.55. 17 A.CERETTI, La cultura del controllo, cit., p.55.

18 D.PULITANO’, La cultura del controllo. Uno sguardo sulla storia recente del sistema penale italiano, in A.CERETTI (a cura di), Pena, cit., p.109.

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10

esclusione dell’autore del reato, al fine di impedirgli la commissione di

ulteriori delitti19. In questo contesto le misure di sicurezza sembrano presentare una

notevole capacità di adattamento alla crisi del sistema penale, in effetti, pur collocandosi agli antipodi delle correnti neoretribuzionistiche, giungono allo stesso risultato: la neutralizzazione dell’autore del reato20.

3. L’autore pericoloso nella società del rischio. 3.1 La criminologia dell’Altro.

Occorre domandarsi quanto le strategie di controllo penale nelle società tardo moderne abbiano influito su quegli autori di reato considerati “pericolosi”. Si deve tener presente che la modernità ha inciso sullo statuto della pericolosità, presupposto per l’applicazione delle misure di sicurezza nei sistemi a doppio binario. “Nell’epoca attuale del diritto penale il trattamento del delinquente diventa questione di “gestione del rischio”21. L’Altro, in un contesto di insicurezza collettiva, diviene oggetto di attenzione come possibile fonte di pericolo. Questa visione dell’Altro favorisce lo sviluppo di un diritto penale del nemico, ovvero di un diritto penale pensato per difendere la società da tutti quegli individui che, in un dato momento storico, sono considerati un pericolo22. Ritorna così in auge la figura del “delinquente pericoloso”, ovvero di un individuo che, secondo logiche stigmatizzanti, è

considerato pericoloso per le caratteristiche personali di cui è portatore. Vengono in considerazione alcune tipologie di reati23.

In primis, la criminalità organizzata. Essa, soprattutto in alcune aree del Paese, aumenta il senso di insicurezza sociale, oggi ulteriormente

amplificato dal fenomeno del terrorismo internazionale.

19 M.PELISSERO, Pericolosità sociale, cit., p.24. 20 M.PELISSERO, Pericolosità sociale, cit., p.25. 21 M.PELISSERO, Pericolosità sociale, cit., p.26 22 D.PULITANO’, La cultura del controllo, cit., p.109.

23 G.LEO, Gli statuti differenziali per il delinquente pericoloso: un quadro della giurisprudenza, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 15 settembre 2011, p.1.

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Vi sono poi i reati rientranti nella criminalità di tipo predatorio, incidente negativamente sulla tenuta dell’ordine pubblico e dell’ordinata convivenza sociale. In particolare, il riferimento è ai reati in materia di stupefacenti, quelli relativi alle aggressioni alla persona, al patrimonio e alla libertà di autodeterminazione. Non sempre, dunque, la criminalità di tipo predatorio coincide con la microcriminalità, potendo offendere beni di rilevante valore personale, come in alcune aggressioni alla persona o alla libertà sessuale. Per quanto riguarda i reati di violenza sessuale e di pedopornografia, l’Altro, con cui si identifica l’autore di reato, non corrisponde necessariamente ad un soggetto percepito come lontano, ma spesso si trova all’interno della cerchia stretta dei conoscenti, all’interno della famiglia24. “I colpevoli non si ricercano più unicamente nella figura dell’altro lontano, straniero, come è accaduto per l’ebreo dell’Europa di ieri. La figura minacciosa dell’altro si incarna

in maniera del tutto inedita in un volto familiare”25. “E’ soprattutto la criminalità predatoria ad incidere sul senso di

insicurezza collettiva e ad innescare le politiche di “legge e ordine”: è l’autore di questi reati ad essere percepito come più pericoloso (…); se rispetto ad alcuni reati (ad esempio reati a condotta violenta e pedopornografia) la percezione della gravità corrisponde ad una gravità oggettiva del fatto, in altri casi, come in quelli riconducibili alla c.d. microcriminalità, la percezione della pericolosità dell’autore non corrisponde affatto alla gravità oggettiva del fatto (delitti contro il patrimonio senza violenza)”26.

Emblematico del passaggio da una logica del diritto penale del fatto al diritto penale d’autore è il settore del diritto penale dell’immigrazione27. Le pene elevate in modo abnorme per gli immigrati irregolari

24 Individua le suddette tipologie di reati M.PELISSERO, Pericolosità sociale cit., pp. 26-28.

25 A.GARAPON, I custodi dei diritti, cit., p.93. 26 M.PELISSERO, Pericolosità sociale, cit., p.28.

27 M.T.COLLICA, La crisi del concetto d’autore non imputabile “pericoloso”, in

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dimostrano la logica d’esclusione fatta propria dal legislatore, alimentata dallo stereotipo dell’immigrato irregolare come soggetto presuntivamente pericoloso. Questi reati si collocano nell’ambito della penalità carceraria, ossia, la risposta del sistema penale si sostanzia e si esaurisce nella privazione della libertà personale. La percezione soggettiva della pericolosità dell’autore è accentuata dalla c.d. criminologia dell’Altro. A differenza della criminologia della vita quotidiana, che riconosce nel reato un fatto abituale all’interno delle relazioni sociali e considera l’autore del reato come individuo del tutto omogeneo alle sue potenziali vittime, questo indirizzo criminologico si fonda sulla differenza. Tale orientamento si sviluppa rispetto a reati efferati e accentua i profili negativi dell’autore, proponendone un’immagine antisociale: un soggetto è tanto più pericoloso quanto più diverso e, dunque, perde qualsiasi senso un intervento rivolto al recupero dello stesso28. Considerare questi soggetti come non recuperabili trascura il riconoscimento di imprescindibili diritti umani e aumenta i livelli di insicurezza sociale, “moltiplicando nelle relazioni interpersonali l’allarme per l’alterità, e l’identificazione di ciò che è

estraneo con ciò che è minaccioso”29. La criminologia dell’Altro ripropone in chiave moderna la figura del

“delinquente nato”, la novità è che ad assumere rilevanza, non sono tanto le caratteristiche individuali dei singoli delinquenti, ma piuttosto la loro appartenenza a determinate categorie sociali. “In questa logica la stigmatizzazione della qualifica delinquenziale finisce per colpire non

singoli individui, ma classi di soggetti”30. Questo orientamento criminologico ben si confà alle istanze

neoretributive di neutralizzazione degli autori di reati, visti come

28 M.PELISSERO, Pericolosità sociale, cit., pp. 29-30.

29 O.DE LEONARDIS, Statuti della cittadinanza, insicurezza sociale e incertezza normativa, A.CERETTI (a cura di), Pena, cit., p.86.

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soggetti aventi una naturale propensione a delinquere. Al senso di insicurezza e percezione di una elevata e diffusa pericolosità

sociale, si potrebbe pensare si sia accompagnato un utilizzo più ampio delle misure di sicurezza, nate proprio per questo scopo. In realtà, nel percorso dell’ordinamento giuridico italiano, l’esigenza di un controllo penale più intenso è stata soddisfatta all’interno della pena e, più in particolare, attraverso l’individuazione di percorsi penitenziari differenziati. Di fronte ai reati rispetto ai quali è maggiormente sentita un’esigenza di prevenzione generale, il legislatore, infatti, non si è limitato ad aggravare la risposta sanzionatoria ma ha anche potenziato la funzione di prevenzione speciale negativa della pena attraverso i

limiti imposti alle misure alternative alla detenzione. L’attuale panorama penalistico dimostra la versatilità della pericolosità

sociale. Essa, concetto generico e disancorato da parametri oggettivi (quali la gravità e la tipologia del reato presupposto o di quelli di cui si teme la futura commissione), è diventata sempre più una qualifica di natura soggettiva, determinata dalla tipologia d’autore e dall’allarme sociale che questa suscita31. La pericolosità sociale si è così espansa ben oltre i tradizionali confini codicistici, divenendo “da filtro per l’applicazione delle misure di sicurezza a filtro di specializzazione della pena”32.

3.2 L’evoluzione delle strategie di controllo penale rispetto ai rei imputabili “pericolosi”.

Dalla prospettiva dell’“attitudine individuale alla commissione di reati (…) la pericolosità costituisce una categoria che, storicamente e ideologicamente estranea allo sguardo retrospettivo del retribuzionismo punitivo, sviluppa l’aspirazione securitaria del diritto penale

31 M.BERTOLINO, Declinazioni attuali della pericolosità sociale, pene e misure di sicurezza a confronto, in Archivio Penale, 2014, n.2, pp.459-460.

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rinunciando non solo al presidio della colpevolezza, ma anche a quello dell’offesa”33. Ciò conferma “l’attitudine della nozione di pericolosità forgiata dal senso comune a operare come placebo con cui sedare le

ondate di ansia securitaria che pervadono le società contemporanee”34. Il tema della pericolosità sociale deve essere distinto in due tronconi, a

seconda che riguardi l’autore non imputabile o quello imputabile; ciò perché la stessa assenza o presenza di imputabilità incide sulla configurazione del giudizio di pericolosità che a sua volta influisce sul

contenuto e sulle funzioni della misura di sicurezza35. In Italia, sul piano della prassi applicativa, si è assistito a un consistente

ridimensionamento del doppio binario. Sono rare le ipotesi in cui si formula un giudizio di pericolosità rispetto all’autore imputabile primario, mentre il trattamento del recidivo imputabile è ricompreso nella sostanza all’interno dell’esecuzione della pena. Di conseguenza nel nostro sistema “vivente” la pericolosità sociale dell’imputabile finisce per assumere rilevanza quasi esclusivamente all’interno

dell’esecuzione della pena36. Per le categorie di autori imputabili ritenuti pericolosi sono stati

elaborati statuti speciali di penalità che fanno perno su presunzioni di pericolosità, su presunzioni cioè di reiterazione dei reati, e mirano esclusivamente alla neutralizzazione. L’obiettivo di queste discipline securitarie è offrire tutela attraverso la pena detentiva e un inasprimento della stessa per combattere, in termini meramente simbolici, precise

forme di criminalità37. L’interesse di queste politiche della pubblica sicurezza al recupero e al

trattamento del reo, cede il passo all’esigenza di neutralizzazione del delinquente pericoloso.

33 F.GIUNTA, Verso una nuova pericolosità sociale, cit., p.93. 34 F.GIUNTA, Verso una nuova pericolosità sociale, cit., p.103.

35 R.BARTOLI, Pericolosità sociale, esecuzione differenziata della pena, carcere, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2013, n.2, p. 717.

36 R.BARTOLI, Pericolosità sociale, cit., p.718.

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La risocializzazione sembra dunque essere esclusa dall’attuale orizzonte della pena per i soggetti responsabili e pericolosi. La pena diventa così sanzione della pericolosità, questo a differenza di quanto avviene sul piano delle misure di sicurezza, dove la risposta penale sembra ancora

in grado di guardare alle istanze di prevenzione speciale positiva38. Per quanto riguarda il trattamento dell’autore imputabile pericoloso

anzitutto si distingue tra due tipologie di autori: un tipo d’autore rispetto al quale la pericolosità viene valutata in termini meramente sociali e, un altro tipo d’autore rispetto al quale la pericolosità è valutata in termini patologico-sociali, in quanto si attribuisce rilevanza ad eventuali disturbi della personalità, che senza eliminare la capacità d’intendere e di volere,

sono comunque capaci di incidere sulla commissione del reato39. Con riferimento al primo tipo d’autore è opportuno discernere poi tra

differenziazione patologica e differenziazione fisiologica

dell’esecuzione della pena detentiva. La prima opera in termini discriminatori che negano le istanze

specialpreventive e non ha alcun fondamento razionale. La differenziazione fisiologica opera invece in termini non discriminatori, sulla base di considerazioni specialpreventive empiricamente e razionalmente fondate. Tale differenziazione è giustificata dal fatto che

si persegue istanze di prevenzione sociale40. L’esempio più paradigmatico di trattamento differenziato patologico è

quello che riguarda gli stranieri. Per un certo periodo di tempo, la stessa esecuzione della pena carceraria

ha conosciuto tale differenziazione mediante la previsione di una disciplina che escludeva gli immigrati extracomunitari dalla fruizione delle misure alternative alla detenzione. La Corte costituzionale ha censurato ed eliminato questa disciplina affermando che: “tale preclusione risulta collegata in modo automatico ad una condizione

38 M.BERTOLINO, Declinazioni attuali della pericolosità sociale, cit., pp.460-461. 39 R.BARTOLI, Pericolosità sociale, cit., p. 718.

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soggettiva – il mancato possesso di un titolo abilitativo alla permanenza del territorio dello Stato- che, di per sé, non è univocamente sintomatica né di una particolare pericolosità sociale, incompatibile con il perseguimento di un percorso rieducativo attraverso qualsiasi misura alternativa, né della sicura assenza di collegamento col territorio che

impedisca la proficua applicazione della misura medesima”41. La Consulta rispetto all’immigrato clandestino è intervenuta con altra

importante pronuncia42 che ha affermato il principio per cui le qualità personali non devono essere trasformate in un “segno distintivo delle persone rientranti in una data categoria, da trattare in modo speciale e differenziato rispetto a tutti gli altri cittadini”. Nel caso di specie, la Corte sottolineava che altrimenti la qualità di immigrato irregolare sarebbe diventata uno stigma legittimante un trattamento penalistico differenziato: le qualità della singola persona da giudicare rifluirebbero nella qualità generale preventivamente stabilita dalla legge, in base ad una presunzione assoluta, che identifica un “tipo di autore”, assoggettato sempre e comunque ad un più severo trattamento. Ciò determina un contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 25 comma 2 Costituzione che pone il fatto alla base della responsabilità penale e prescrive che un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali. Queste politiche, sottoposte al vaglio della Corte costituzionale, tornano a porre al centro della reazione penale il carcere. La risposta detentiva è dettata dalle caratteristiche personologiche dell’autore, dalla “sua inclinazione a delinquere e a recidivare, e dunque,

alla fine in funzione di difesa della società”43. Inoltre, riguardo all’espulsione, se può essere coerente con scopi

preventivi di regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno nel

41 Corte costituzionale n.78 del 2007.

42 Corte Costituzionale n.249 del 2010, che dichiara l’illegittimità costituzionale della circostanza aggravante dell’aver il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale, art. 61 numero 11 bis del c.p.

43 F.PALAZZO, Riforma del sistema sanzionatorio e discrezionalità giudiziale, in Diritto penale e processo, 2013, n.2, p.99.

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territorio nazionale, al contrario risulta del tutto inidonea a perseguire obiettivi di prevenzione speciale e ciò perché lo scopo perseguito è di escludere il soggetto in termini sostanzialmente definitivi dal contesto

sociale nazionale44. Si parla invece di differenziazione fisiologica quando vi è un trattamento

differenziato che introduce una peculiarità rispetto alla dinamica regolare della pena. In questa accezione rientrerebbero nel trattamento differenziato tutti quegli istituti che, in chiave specialpreventiva, modificano la risposta punitiva, quale che sia la sede in cui incidono: sospensione condizionale, sanzioni sostitutive etc. (applicate durante la cognizione); misure alternative (applicate in fase esecutiva)45.

Accogliendo un’accezione più ristretta e peculiarmente differenziante, basata su tipi d’autore, si distingue tra differenziazione in funzione umanitaria e di cura, costruita attorno a caratteristiche del soggetto (si pensi al trattamento delle madri, di minori, di alcoldipendenti/tossicodipendenti) e una differenziazione in funzione di sicurezza che ruota attorno al presupposto della pericolosità sociale (si pensi al trattamento dei recidivi oppure di chi mantiene collegamenti con la criminalità organizzata)46. Tralasciando la differenziazione umanitaria e concentrandosi su quella di sicurezza, è necessario prendere atto che essa si concretizza nella mera apposizione di limiti o preclusioni all’applicazione dei benefici penitenziari, in termini

meramente neutralizzanti. All’interno della differenziazione in funzione di sicurezza, si distingue

tra una pericolosità oggettivizzata, dove la pericolosità soggettiva è strettamente connessa a determinati tipi di reato, o meglio, a un certo contesto criminogeno, e una pericolosità soggettivizzata che invece si radica prevalentemente in un giudizio relativo alla personalità del

soggetto.

44 R.BARTOLI, Pericolosità sociale, cit., p.721. 45 R.BARTOLI, Pericolosità sociale, cit., p.722. 46 R.BARTOLI, Pericolosità sociale, cit., p.724.

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Nella prima prospettiva si muovono tutti quegli istituti che, nel prevedere limiti all’applicazione dei benefici penitenziari, hanno come presupposto fondamentale l’esistenza di un collegamento tra il soggetto e la criminalità organizzata (si pensi in particolare alla previsione dell’art. 4 bis o.p.)47. A partire dagli anni ottanta del secolo scorso, mirando a neutralizzare la pericolosità degli appartenenti alle associazioni di stampo mafioso, sono aumentate la severità della risposta sanzionatoria e le preclusioni per l’accesso alle misure

alternative alla detenzione48. Nella seconda prospettiva si muove l’istituto della recidiva, soprattutto

reiterata. Basti pensare che, per i recidivi, dopo la legge n.251 del 2005, si incrementano, le pene di cui all’art. 99 c.p. semplicemente in quanto si tratta di autore recidivo. Tra l’altro, sempre con la c.d. legge ex Cirielli, si è fatto incidere la recidiva sui tempi di prescrizione del reato

e sulla concessione dei benefici penitenziari49. Rispetto alla pericolosità oggettivizzata, il giudizio si presenta più

definito e controllabile, tuttavia risulta difficile configurare un trattamento in positivo. In particolare, poiché la pericolosità oggettivizzata ruota intorno al collegamento materiale e oggettivo del condannato con un certo ambiente criminogeno, la base della valutazione diviene lo stesso legame con tale ambiente che contribuisce a delimitare sia il reato presupposto sia i reati rispetto ai quali si pone il rischio di recidiva. Inoltre si precisano in termini più univoci gli indici di valutazione. Da qui la presunzione relativa per cui la pericolosità è insita nel collegamento attuale con l’ambiente criminoso e il suo superamento grazie ad elementi oggettivamente accertabili, assunti a indice di non pericolosità, primo fra tutti la collaborazione del reo50. Mentre in presenza di un comportamento collaborativo, poiché si

47 R.BARTOLI, Pericolosità sociale, cit., pp. 721, 722, 724. 48 M.PELISSERO, Pericolosità sociale, cit., p.38.

49 F.GIUNTA, Verso una nuova pericolosità sociale, cit., p.98. 50 R.BARTOLI, Pericolosità sociale, cit., p.725.

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scindono i legami con l’associazione criminosa, è possibile recuperare il soggetto e reinserirlo nella società, davanti ad un comportamento non collaborativo è particolarmente problematico un trattamento in positivo, in termini di prevenzione speciale: si tratta in sostanza di soggetti

impermeabili a qualsiasi dialogo con l’ordinamento. Sebbene lo stato non possa permettersi di considerare questi soggetti

irrecuperabili, dovendo continuare ad offrire percorsi orientati alla rottura del vincolo associativo, premessa necessaria per qualsiasi risocializzazione, occorre prendere atto che, in assenza di tale premessa, il trattamento in positivo di questi soggetti non può che consistere nella mancata adozione di quelle restrizioni che risultano incongrue rispetto

allo scopo51. Rispetto alla pericolosità soggettivizzata, invece, è meno agevole

formulare il giudizio di pericolosità, ma ci sono maggiori possibilità di configurare un trattamento in positivo. In questo caso, assumendo rilevanza la carriera criminale del soggetto, un fattore determinante diviene la recidiva reiterata. La riforma del 2005, tuttavia, introduce delle differenziazioni soltanto in negativo, dirette cioè, nella sostanza, al mero contenimento del soggetto. La presunzione di pericolosità, operante in sede di esecuzione, si basa su una valutazione compiuta in sede di cognizione e quindi a prescindere da eventuali cambiamenti

della personalità intercorsi tra i due momenti. Vi sono poi quelle figure rispetto alle quali la pericolosità “da oggetto

di accertamento concreto da effettuarsi in termini prognostici è divenuta (…) la sintesi di criteri indizianti di natura legislativa rimessi all’apprezzamento del giudice. Il riscontro dell’indizio –va da sé- è assai meno impegnativo della prognosi”52. Questa tendenza emerge soprattutto rispetto alla declinazione che la pericolosità ha assunto per il delinquente imputabile affetto da un disturbo psichico o con personalità

51 R.BARTOLI, Pericolosità sociale, cit., p.725.

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segnata dalla dipendenza dalla droga, dall’alcol o con una sessualità “deviante”. In questo caso, la probabilità di ricaduta nel reato si lega al disturbo mentale, alla dipendenza, alla sessualità deviata che diventano sicuri indizi di pericolosità sociale, anziché elementi attentamente valutati al fine di elaborare una risposta sanzionatoria rieducativa e in

grado di incidere sulla pericolosità sociale53. Nei confronti dell’autore di reati a sfondo sessuale, ad esempio, la

politica criminale italiana ha optato per la repressione, andando progressivamente ad ampliare l’operatività di istituti di rigore. Per questa tipologia di delinquenti, il legislatore ha creato uno statuto differenziale, inadeguato rispetto alle esigenze di recupero. Il fenomeno della delinquenza sessuale è infatti combattuto, anche sul fronte delle misure di sicurezza, con soluzioni semplicemente “limitative di alcuni diritti di libertà, come quello di movimento o di scelta del lavoro, ovvero sono inutilmente prescrittive o interdittive sotto il profilo delle esigenze personali di cura e di trattamento”54. Anche per questa categoria poi l’accesso ai benefici penitenziari diventa sempre più problematico. Nei confronti di imputabili il cui reato trae origine nei disturbi della personalità si pone la stessa problematica: il legislatore focalizza l’attenzione sull’esigenza di ridurre la recidiva attraverso la neutralizzazione. Esperienze trattamentali hanno invece dimostrato che i risultati migliori si ottengono se si considerano preminenti, nell’affrontare la recidiva, le esigenze terapeutiche che non necessariamente si pongono agli antipodi rispetto alle istanze di difesa sociale55. Studi empirici sulla recidiva dei soggetti affetti da disturbi

53 M.BERTOLINO, Declinazioni attuali della pericolosità sociale, cit., p. 465. 54 M.BERTOLINO, Declinazioni attuali della pericolosità sociale, cit., p. 465. 55 Tra l’altro, nel nostro ordinamento giuridico, il problema è interamente rimesso alla fase di esecuzione della pena detentiva, dove il trattamento del disturbo mentale soffre per la mancanza di un’adeguata assistenza psichiatrica e per l’assenza di un sostegno psicoterapeutico dopo l’espiazione della pena. Infatti, l’art. 20 del Regolamento penitenziario n.230 del 2000, che prevede l’affidamento dei condannati al servizio sanitario pubblico territorialmente competente, con possibilità per quest’ultimo di accesso all’istituto penitenziario, è rimasto inattuato. Il risultato è che nella stragrande maggioranza dei casi gli operatori dei DSM non accedono in carcere. A subire le

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psichici hanno infatti dimostrato che, laddove vi è una maggiore disponibilità di programmi trattamentali, la probabilità di ricaduta di questi soggetti nel reato risulterebbe inferiore a quella dei soggetti

“normali”. Per tutte le suddette tipologie d’autore, si dovrebbe quantomeno

individuare i limiti che la tutela delle vittime incontra di fronte ai diritti fondamentali delle persone socialmente pericolose. Già il perseguimento di questo obiettivo appare realistico e molto ridimensionato rispetto a quello più ambizioso di “rianimare la finalità rieducativa della pena là dove ormai è rimasta priva di ossigeno”56. Occorre tener presente però che rinunciare allo scopo più ambizioso porta con sé “l’idea della non rieducabilità della persona (…), idea foriera di un neopositivismo del diritto penale, che allenta le garanzie

individuali in nome di una sicurezza solo apparente”57. “Nel dominio della pena sono ormai penetrate esigenze di controllo

sociale che, svuotando di contenuti risocializzanti la stessa pena, hanno portato allo scoperto il volto peggiore della pericolosità sociale, quello della pura incapacitazione, della neutralizzazione, della

emarginazione”58.

conseguenze maggiori di queste gravi carenze sul piano assistenziale-terapeutico sono i semi-imputabili, nei confronti dei quali il sistema del doppio binario si mostra particolarmente repressivo data la mancanza di una risposta trattamentale al disturbo, sia con la pena sia con la CCC che interviene dopo l’espiazione della pena. Sul punto M.BERTOLINO, Declinazioni attuali della pericolosità sociale, cit., p.466.

56 M.BERTOLINO, Declinazioni attuali della pericolosità sociale, cit., p. 464. 57 M.PELISSERO, Pericolosità sociale cit., considerazioni conclusive.

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CAPITOLO II

LA NEUTRALIZZAZIONE DEGLI IMPUTABILI PRESUNTI SOCIALMENTE PERICOLOSI NELLA VICENDA PENALE Sommario: 1. Forme di pericolosità penitenziaria. 1.1 I circuiti penitenziari. 1.2 L’individualizzazione del giudizio di pericolosità: l’art. 14 bis o.p. 1.3 L’oggettivizzazione del giudizio di pericolosità: l’art. 4 bis o.p. 1.3.1 L’art. 41 bis, comma 2 o.p. 1.4 Gli Stati Generali circa gli strumenti di contrasto nei confronti dei detenuti pericolosi. 1.5 L’art. 1, co.85, lett. b) ed e) della riforma Orlando. 2. La pericolosità in funzione di aggravamento della pena. 2.1 Il delinquente recidivo. 2.1.1 L’istituto della recidiva tra colpevolezza e pericolosità. 2.1.2 L’illegittimità costituzionale della presunzione legale di pericolosità ex art. 99, comma 5, c.p. 2.1.3 Il regime sanzionatorio riservato al recidivo 2.1.4 L’esclusione dei reati colposi e delle contravvenzioni dal recidivismo: verso un diritto penale delle classi pericolose? 2.1.5 Riforma Orlando: il superamento di automatismi e preclusioni per i recidivi. 2.2 Il sex offender. 2.2.1 La disciplina differenziata per gli autori di reato a sfondo sessuale. 2.2.2. L’opportunità di un trattamento specifico per evitare la recidiva 3. La logica d’autore nella genesi della fattispecie penale. 3.1 La detenzione di materiale pornografico 3.2 La pedopornografia virtuale 3.3 L’immigrato clandestino. 3.3.1 La disciplina dei reati collegati all’espulsione. 3.3.2 La declaratoria di illegittimità dell’aggravante di clandestinità. 3.3.3 L’infelice “resistenza” della contravvenzione di clandestinità. 4. La logica della neutralizzazione nelle misure cautelari. 4.1 L’art. 274 lett. c) c.p.p. 4.2 L’art. 275, comma 3, c.p.p.

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1. Forme di pericolosità penitenziaria. 1.1 I circuiti penitenziari.

L’aumento della popolazione carceraria, con la presenza da un lato di soggetti dalla spiccata capacità a delinquere, e dall’altro di soggetti non meno pericolosi, programmaticamente orientati a scardinare il sistema penitenziario, aveva dimostrato come gli strumenti offerti dalla legge

penitenziaria non consentissero di gestire situazioni difficili59. Gli sforzi di ritrovare nel sistema penitenziario il riconoscimento delle

esigenze di ordine e sicurezza testimoniano quanto fosse stato sottovalutato il problema della presenza –all’interno degli istituti- di soggetti ad alta pericolosità penitenziaria e sociale, forse nell’illusione che il trattamento potesse attuarsi indifferentemente per tutti i detenuti, qualunque fosse il loro grado di pericolosità e di risposta alle offerte di

trattamento60. Per fronteggiare questa situazione si è consolidata la prassi dei circuiti

penitenziari differenziati61. I circuiti penitenziari rappresentano la chiara dimostrazione dello

spostamento del requisito della pericolosità sociale dal versante delle misure di sicurezza al versante delle pene. Ogni circuito è deputato a contenere una certa categoria di detenuti classificata sulla base di un

59 L.CESARIS, sub art. 14-bis, in F.DELLA CASA – G.GIOSTRA (a cura di), Ordinamento penitenziario, Padova, 2015, p.163.

60 L.CESARIS, sub art. 14-bis, cit., p. 163.

61 A proposito occorre fare alcune precisazioni. Con l’espressione circuiti penitenziari ci si riferisce a “entità di tipo logistico dotate di determinati requisiti di sicurezza e rappresentate da un insieme di ambienti”, mentre con il termine regime penitenziario si fa riferimento alle “regole di trattamento applicate alla vita penitenziaria”. Secondo questa distinzione è ben possibile che una tipologia di detenuti venga assegnata ad un determinato circuito senza che vi siano differenze di regime penitenziario con altre categorie di detenuti che sono assegnati a circuiti diversi. Nel corso del tempo il termine “circuito” è stato utilizzato per indicare categorie omogenee di detenuti, ad esempio: “circuito della sorveglianza particolare” di cui all’art. 14 bis, tuttavia, non si tratta di un circuito ma di un regime penitenziario. Ciò ha creato una certa confusione terminologica. Sul punto, S.ARDITA, Le disposizioni sulla sicurezza penitenziaria, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2007, n.3, pp. 41 e ss.

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preciso indice di pericolosità. Ci saranno, dunque, tante pericolosità

esecutive quante sono le categorie previste rientranti nei circuiti. L’istituzione dei circuiti penitenziari ha regolamentato l’inserimento e

la gestione della pericolosità sociale all’interno dell’esecuzione della pena che, proprio per questo motivo, sembra somigliare sempre più alle misure di sicurezza. Anche nell’ambito dell’esecuzione della pena carceraria esiste un doppio binario, all’interno del quale viene distinta la pericolosità ordinaria, presente in capo a tutti i detenuti, da una pericolosità ritenuta più accentuata, calcolata sulla base di elementi principalmente riferibili alla tipologia di reato per cui è intervenuta la

condanna62. La materia dei circuiti penitenziari è regolata da diverse circolari.

Nessuna norma di fonte primaria, infatti, stabilisce la differenziazione di circuiti e sezioni per titoli di reato o d’autore e l’attuale regolamentazione dei circuiti differenziati è di fonte amministrativa, costituita quindi o da circolari ministeriali o da circolari dipartimentali63. La sola creazione di appositi circuiti penitenziari, che garantiscano

elevati livelli di sicurezza, è prevista dall’art. 32 del d.P.R. 230/200064. La suddivisione degli istituti detentivi in circuiti penitenziari

corrisponde alla visione culturale di una teoria della prevenzione speciale positiva e negativa, che vede il soggetto delinquente come un soggetto con proprie difficoltà “interne” che deve, da un lato, essere trattato, curato e riabilitato per essere reinserito nella società, dall’altro

lato, contenuto e neutralizzato nella sua supposta pericolosità sociale65. Nella realtà italiana le esigenze di sicurezza penitenziaria, sia interna

che esterna, non sono perseguite solo con gli strumenti legislativi a ciò

62 A.R.VANDI, Pericolosità sociale e misure restrittive della libertà personale, in www.eprints.uniss.it, p. 306.

63 L.CESARIS, sub art. 14-bis, cit., p. 164.

64 L’art. 32 del dPR n.230/2000 prevede infatti: “i detenuti e gli internati, che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele, anche per la tutela dei compagni da possibili aggressioni o sopraffazioni, sono assegnati ad appositi istituti o sezioni dove sia più agevole adottare le suddette cautele”.

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dedicati (artt. 14 bis e 41 bis o.p.), ma anche attraverso istituti, i circuiti penitenziari, che sfuggono alla legge e soprattutto al controllo dell’autorità giudiziaria. Si tratta infatti di provvedimenti nei confronti dei quali non è riconosciuta, nel nostro ordinamento, una tutela giurisdizionale66. L’impressione è quella che si sia vanificato lo sforzo compiuto dal legislatore di tipizzare i comportamenti pericolosi per l’ordine e per la sicurezza interna ed esterna, di predeterminare il contenuto di regimi differenziati, di riconoscere al soggetto il suo diritto di ricorrere ad un giudice67. E’, dunque, tramite circolari che l’amministrazione penitenziaria, nell’esercizio del potere discrezionale inerente la gestione dei detenuti e degli internati, suddivide la popolazione carceraria per categorie

omogenee68. A partire dagli anni novanta si è così proceduto alla classificazione delle

strutture esistenti in circuiti penitenziari in base al grado di pericolosità dei detenuti e al conseguente livello di sicurezza richiesto per prevenire il pericolo che gli appartenenti al crimine organizzato potessero svolgere attività di proselitismo nei confronti dei delinquenti comuni, oppure si potessero avvalere dello stato di soggezione di questi ultimi nei loro confronti69. In particolare, con la circolare 3359/5809 del 21 aprile 199370 e successive modifiche e integrazioni, sono stati disciplinati in modo dettagliato tre circuiti penitenziari diretti alla distribuzione dei detenuti

66 A.R. VANDI, Pericolosità sociale, cit., p.312.

67 R.GRIPPO, Illegittimità dell’isolamento totale e della “cella liscia”. Rapporti tra sorveglianza particolare, sanzioni disciplinari, “41 bis” e circuiti: strumenti alternativi o in sovrapposizione?, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 30 aprile 2015, p. 25.

68 Questo al fine di evitare “influenze nocive reciproche” (ex art. 14 co.2 o.p.) e per facilitare l’espletamento dell’osservazione personologica verso i detenuti, indispensabile per la valutazione della specifica tipologia di pericolosità sociale degli stessi, nonché per la definizione di un trattamento individualizzato (ex art. 13 o.p.). 69 F.FALZONE, Il circuito detentivo dell’alta sicurezza e il procedimento di declassificazione, in Archivio Penale, 2015, n.3, p.2.

70 Avente ad oggetto: “Regime penitenziario. Impiego del personale di polizia penitenziaria. Gestione decentrata democratica e partecipata dell’Amministrazione penitenziaria”.

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per “grado di pericolosità sociale”. Inizialmente si distinguevano: un circuito penitenziario di primo livello,

ossia di “alta sicurezza”, destinato ai detenuti ritenuti più pericolosi; un circuito penitenziario di secondo livello, ossia di “media sicurezza”, destinato a quei detenuti connotati da una pericolosità accentuata che non rientrano né nel primo né nel terzo circuito; un circuito penitenziario di terzo livello, ossia di “custodia attenuata”, destinato ai detenuti

tossicodipendenti ritenuti non particolarmente pericolosi71. Il circuito penitenziario Alta Sicurezza è stato tradizionalmente dedicato

ai detenuti appartenenti alla criminalità organizzata. La ratio del circuito va rinvenuta nella necessità di impedire che la detenzione indifferenziata nel medesimo istituto di detenuti comuni e di soggetti appartenenti a consorterie organizzate di tipo mafioso o terroristico, possa provocare fenomeni di turbamento della sicurezza degli istituti72.

L’individuazione dei soggetti da assegnare a tale circuito è stata innanzitutto operata facendo riferimento al titolo detentivo, avvalendosi della selezione che il legislatore ha effettuato nel primo periodo del comma 1 dell’art 4 bis o.p. che esclude dai benefici penitenziari i detenuti ed internati per alcuni delitti73. La selezione dei detenuti e degli internati da destinare al circuito in esame, oltre che sulla base del titolo detentivo, avviene anche secondo altri elementi valutativi che consentono l’inserimento nel circuito dell’Alta Sicurezza di detenuti per fatti non formalmente compresi nell’art. 4 bis, ma rispetto ai quali emergono ulteriori elementi che consentono all’Amministrazione di

71 Si veda la circolare del DAP n. 3359/5809 del 21 aprile 1993.

72 Si veda la circolare del DAP n.3619/6069 del 21 aprile 2009, in www.ristretti.it, maggio 2009.

73 In particolare, nella circolare del DAP n.3359/5809 del 21 aprile 1993, si individua come destinatari del circuito di alta sicurezza i detenuti imputati o condannati per i delitti di cui all’art. 416 bis c.p. (associazione di stampo mafioso), all’art. 630 c.p. (sequestro di persona a scopo di estorsione), o all’art. 74 del T.U. n.309 del 1990 (associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti), sottolineando come si tratti certamente dei detenuti più pericolosi.

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ritenerli appartenenti ad associazioni di stampo mafioso o terroristiche74. La differenziazione, oltre che essere finalizzata al buon esito delle

attività trattamentali, comporta altresì l’adozione, per tale circuito, di strutture sicure dal punto di vista logistico e di apparati e dispositivi

elettronici finalizzati alla massima sorveglianza possibile75. La circolare specificava espressamente che “la differenziazione [in

circuiti] non implica una differenza nel regime penitenziario sotto il profilo dei diritti e dei doveri dei detenuti e sotto il profilo della possibilità, in linea di principio, di applicare le regole e gli istituti del

trattamento penitenziario”76. Con la circolare del 1993, istitutiva del circuito di primo livello, non si

considerava l’ipotesi di detenuti che, non avendo titolo per essere inseriti nel circuito di primo livello e non essendo in alcun modo collegati alla criminalità organizzata, presentino tuttavia una pericolosità talmente spiccata da far risultare inopportuno il loro inserimento nel circuito di

secondo livello ossia di media sicurezza77. Per colmare questa lacuna, la circolare n.3479 del 9 luglio 199878

istituiva il circuito ad elevato indice di vigilanza (E.I.V.). L’assegnazione a tale circuito è stata prevista per quanti rispondevano dei delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante compimento di atti di violenza, nonché per i soggetti provenienti dal circuito di cui all’art. 41 bis o.p. a seguito di revoca e quindi, già ritenuti organicamente inseriti

74 Si veda la circolare del DAP n. 3619/6069 del 21 aprile 2009, in www.ristretti.it, maggio 2009.

75 Si veda la circolare del DAP n.3359/5809 del 21 aprile 1993. 76 Si veda la circolare del DAP n.3359/5809 del 21 aprile 1993.

77 C.BRUNETTI – M.ZICCONE, Manuale di diritto penitenziario, Piacenza, 2005, pp.475-476.

78 Si veda la circolare del DAP n.3479/5929 del 9 luglio 1998 avente ad oggetto: “Raggruppamenti e separazioni dei detenuti e degli internati. Circuito degli istituti o sezioni di istituto di alta sicurezza. Circuito degli istituti o sezioni di istituto di alta sicurezza. Circuito degli istituti o sezioni di istituto con elevato indice di vigilanza. Detenuti per reati diversi da quelli di cui all’art. 41 bis, primo comma, parte prima dell’ord. pen., ma ritenuti, ai soli fini della gestione penitenziaria, come appartenenti, gravitanti o comunque legati alla criminalità organizzata”.

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al vertice delle associazioni mafiose. A tale circuito, secondo quanto previsto dall’art. 32 del d.P.R. n.230/2000, venivano inoltre assegnati detenuti che, indipendentemente dal titolo detentivo, avessero tenuto un “comportamento allarmante” in costanza di detenzione ossia “soggetti dall’elevata pericolosità individuale ed intramuraria”, autori di tentativi di evasione, di violenza grave commessa in danno di altri detenuti o di operatori penitenziari o di fatti di grave nocumento per l’ordine e la

sicurezza penitenziaria79. Il regime penitenziario dell’EIV non si differenziava per contenuti,

offerte trattamentali e modalità di gestione dalle regole penitenziarie vigenti per l’Alta Sicurezza, da cui si distingueva unicamente per la diversa collocazione logistica80. Il regime, invece, avrebbe dovuto comportare unicamente l’assegnazione dei detenuti ad aree speciali del

penitenziario senza limitare in alcun modo i diritti degli stessi. Il circuito EIV si presentava eterogeneo per le diverse caratteristiche dei

detenuti presenti81. Al fine di ovviare a tale eterogeneità ed evitare di mantenere un circuito ridotto a mera denominazione, priva di reale contenuto (poiché nel circuito EIV erano vigenti le stesse norme dell’AS), il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è intervenuto con la circolare n.3619/6069 del 21 aprile 200982. Mediante quest’ultima è stato abolito il circuito EIV e scomposto il circuito AS in tre differenti sezioni, tra loro non comunicanti, destinate a contenere altrettante tipologie di detenuti pericolosi: “A.S.1”, “A.S.2”, “A.S.3”, i

79 Si veda la circolare del DAP n.3619/6069 del 21 aprile 2009, in www.ristretti.it, maggio 2009.

80 Si veda la circolare del DAP n.3619/6069 del 21 aprile 2009, in www.ristretti.it, maggio 2009.

81 Tradizionalmente erano assegnati al circuito EIV detenuti che avevano commesso gravi fatti di violenza negli istituti penitenziari, o che avevano mostrato una spiccata tendenza all’evasione. Rispetto a quest’ultimi, si è evidenziata una certa disomogeneità con i detenuti provenienti dalla criminalità organizzata e terroristica. Sono infatti detenuti che non hanno aderito a logiche collettive, finalizzate ad obiettivi criminali comuni, ma, anzi, hanno posto in essere fatti di reato espressione di spiccata individualità. Pur permanendo l’opportunità di una gestione particolarmente accorta, è stata sconsigliata la detenzione in promiscuità con la restante popolazione detenuta dell’alta sicurezza. F.FALZONE, Il circuito detentivo dell’alta sicurezza, cit., p.4. 82 Avente ad oggetto: “Definizione dei nuovi Circuiti penitenziari di Alta Sicurezza”.

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