• Non ci sono risultati.

ANALISI (SOCIO)LINGUISTICA DI ALCUNE LETTERE E CARTOLINE DI EMIGRATI TOSCANI IN AUSTRALIA

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "ANALISI (SOCIO)LINGUISTICA DI ALCUNE LETTERE E CARTOLINE DI EMIGRATI TOSCANI IN AUSTRALIA"

Copied!
93
0
0

Testo completo

(1)

DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN LINGUE E LETTERATURE STRANIERE

ELABORATO FINALE

ANALISI (SOCIO)LINGUISTICA DI ALCUNE LETTERE E CARTOLINE DI EMIGRATI TOSCANI IN AUSTRALIA

CANDIDATA RELATORE

Martina Pinori Chiar.mo Prof. Francesco Rovai

(2)

INDICE

CAPITOLO 1. INTRODUZIONE ... 1

CAPITOLO 2. LE DINAMICHE LINGUISTICHE DELL’EMIGRAZIONE ITALIANA 2.1 La situazione linguistica dall’Unità alla Seconda guerra mondiale ... 3

2.1.1 Analfabetismo e dialettofonia ... 3

2.2 Effetti linguistici della prima ondata migratoria ... 6

2.2.1 Il contributo all’italianizzazione ... 6

2.3 Le prospettive linguistiche dal dopoguerra agli anni Settanta ... 9

2.3.1 Verso una democratizzazione linguistica ... 9

2.4 Caratteristiche linguistiche della seconda ondata migratoria ... 11

2.4.1 Una nuova familiarità con l’italiano ... 11

CAPITOLO 3. L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN AUSTRALIA 3.1 Cenni storici ... 13

3.1.1 Dai primi arrivi alla Seconda guerra mondiale ... 13

3.1.2 Dal dopoguerra agli anni Settanta ... 15

3.2 La comunità italiana ... 17

3.2.1 Origini e composizione ... 17

3.2.2 Insediamento e occupazione ... 18

3.2.3 Lingua e istruzione ... 20

3.3 L’emigrazione toscana ... 22

(3)

CAPITOLO 4. I TESTI DEGLI EMIGRATI

4.1 La necessità di scrivere ... 27

4.2 La varietà di italiano popolare ... 29

4.3 Le lettere di Carlo e Enrico ... 31

4.3.1 Premessa ... 31 4.3.2 Gli scriventi ... 31 4.3.3 Il contenuto ... 32 4.4 Le cartoline di Iolanda ... 34 4.4.1 Premessa ... 34 4.4.2 La scrivente ... 34 4.4.3 Il contenuto ... 35

CAPITOLO 5. ANALISI LINGUISTICA 5.1 Errori non sistematici ... 37

5.2 Errori ortografici ... 38

5.3 Interferenze dialettali ... 44

5.3.1 Fonetica e fonologia ... 44

5.3.2 Morfologia ... 46

5.4 Tratti dell’italiano popolare ... 48

5.4.1 Morfologia ... 48 5.4.2 Sintassi ... 49 5.4.3 Lessico ... 50 5.5 Interferenza dell’inglese ... 51 5.6 Osservazioni finali ... 52 CAPITOLO 6. CONCLUSIONE ... 54

(4)

BIBLIOGRAFIA ... 56

SITOGRAFIA ... 60

(5)

1

CAPITOLO 1

INTRODUZIONE

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti»

(Cesare Pavese, La luna e i falò)

Questo elaborato si propone di analizzare da un punto di vista sociolinguistico alcune lettere e cartoline inviate da tre emigrati toscani in Australia ai parenti rimasti in Italia, nel corso del Novecento. Le corrispondenze scritte tra gli emigrati italiani e i loro familiari permettono di comprendere l’emigrazione, in questo caso verso l’Australia, da un punto di vista unico e illuminante: quello degli emigranti stessi, che hanno lasciato su carta le testimonianze della loro esperienza migratoria. Nessuno studio o materiale bibliografico potrebbe infatti sostituire l’autenticità e l’eccezionalità di questi testi, che mostrano tutte le fatiche, i sacrifici, le preoccupazioni, ma anche le soddisfazioni e le conquiste degli emigrati, alle prese con nuove e inaspettate sfide, prima tra tutte la scrittura.

Nello specifico, ai testi degli emigrati e all’analisi linguistica saranno dedicati i capitoli finali (4 e 5), mentre i capitoli precedenti (2 e 3) saranno incentrati sulle dinamiche linguistiche dell’emigrazione italiana e sulle caratteristiche dell’emigrazione italiana in Australia, in particolare dalla Toscana. Per quanto riguarda la periodizzazione dell’emigrazione italiana, il fenomeno è stato suddiviso in due grandi periodi: una prima ondata migratoria, corrispondente agli anni compresi tra l’Unità d’Italia e la Seconda guerra mondiale (vedi § 2.2), ed una seconda ondata, compresa tra il secondo dopoguerra e gli anni Settanta (vedi § 2.4)1. In queste due ondate sono partiti anche i tre scriventi di cui si analizzeranno i testi al capitolo 5: nella prima rientrano gli scriventi delle lettere (vedi § 4.3), appartenenti alla prima generazione di emigrati, mentre nella seconda è coinvolta la scrivente delle cartoline (vedi § 4.4), che fa parte della generazione di mezzo2.

1

La periodizzazione è la stessa adoperata da VEDOVELLI (2011). 2

La distinzione tra prima generazione e generazione di mezzo è ripresa da VEDOVELLI (2011), che indica con il primo termine gli emigrati della prima ondata migratoria, e con il secondo gli adulti partiti negli anni Cinquanta-Sessanta.

(6)

2

Nel capitolo 2 si presenterà una descrizione della situazione linguistica italiana al momento dell’unificazione, caratterizzata principalmente da un alto tasso di analfabetismo e dialettofonia; sarà poi approfondito il contributo dato dalla prima ondata migratoria all’alfabetizzazione e italianizzazione degli italiani. Successivamente saranno illustrate la situazione linguistica italiana nel secondo dopoguerra e le caratteristiche linguistiche della seconda ondata migratoria, che presenta una maggiore italofonia e scolarizzazione rispetto alla precedente ondata.

Il capitolo 3 presenterà un quadro storico generale dell’emigrazione italiana in Australia, suddivisa in due grandi fasi migratorie, secondo lo stesso criterio di periodizzazione adottato per l’emigrazione italiana in generale; di seguito sarà presentata la comunità italiana in Australia nei suoi principali aspetti, come la struttura, gli ambiti occupazionali e la distribuzione degli insediamenti, ma anche la lingua e il grado di istruzione. Successivamente verranno illustrati alcuni dati e caratteristiche generali dell’emigrazione toscana, come l’intrinseca natura migratoria e la predominanza di emigrati dalla provincia di Lucca, in particolare dalla Garfagnana.

Nel capitolo 4 verrà approfondita la tematica della scrittura, attività sconosciuta per la maggior parte degli emigranti, ma che si rivelò tuttavia fondamentale una volta all’estero. Verrà altresì descritta la tipologia di italiano riscontrabile in tutti gli scritti degli emigrati, corrispondente ad una varietà di italiano popolare, tipica dei parlanti semicolti, con riferimento ad alcune definizioni presenti in letteratura. Verranno infine presentati gli scriventi dei testi analizzati al capitolo 5, accennando alle loro storie e al contenuto dei loro scritti.

Il capitolo 5 sarà completamente dedicato all’analisi linguistica dei testi, cioè delle lettere e delle cartoline: dagli errori non sistematici e i problemi ortografici, ai principali tratti dell’italiano popolare, fino alle interferenze dialettali e dell’inglese; per ogni aspetto linguistico saranno forniti i relativi esempi tratti dai testi stessi.

In appendice saranno presentate in ordine cronologico le versioni originali delle lettere e delle cartoline.

L’obiettivo dell’elaborato sarà principalmente di comprendere come le similarità e le differenze linguistiche riscontrate nell’analisi linguistica dei testi, al capitolo 5, siano riconducibili alle diverse vicende migratorie dei tre scriventi, che possedevano un repertorio linguistico in parte uguale e in parte differente, proprio perché appartenenti a generazioni differenti.

(7)

3

CAPITOLO 2

LE DINAMICHE LINGUISTICHE DELL’EMIGRAZIONE ITALIANA

2.1 La situazione linguistica dall’Unità alla Seconda guerra mondiale

2.1.1 Analfabetismo e dialetti

La Tabella 1 fornisce i dati riguardanti la percentuale di analfabetismo in Italia, dall’Unità al 1931.

Tabella 1. Analfabeti in Italia dal 1861 al 1931 (Genovesi, 1998: 226)

Nel 1861, al momento dell’unificazione, il primo censimento della popolazione italiana mostrò che il 78 % della popolazione era analfabeta, con un considerevole squilibrio tra il nord e il sud e tra donne e uomini (la più alta percentuale di analfabetismo riguardava la popolazione femminile del sud); solo il 22 % della popolazione italiana era quindi alfabetizzata (cfr. De Mauro, 1963: 36-37). Inoltre, la lingua predominante non era un italiano comune ed unitario, bensì i dialetti, che venivano utilizzati quotidianamente sia dai ceti più popolari sia da quelli più colti, dagli aristocratici e dai letterati, e non unicamente nella vita privata, ma anche nella sfera pubblica; a questo proposito, lo stesso Re d’Italia Vittorio Emanuele utilizzava abitualmente il dialetto piemontese per comunicare nell’ambito familiare e in quello istituzionale (cfr. De Mauro, 1963: 32). L’italiano era quindi la lingua di una minima parte della popolazione, mentre i dialetti appartenevano alla quotidianità di quasi tutti gli abitanti della penisola, a prescindere dall’appartenenza sociale.

Le istituzioni del nuovo Stato unitario scelsero allora di coniugare le forze in direzione di una lingua e di un’istruzione comune, a partire da un sistema scolastico che coinvolgesse e indirizzasse tutti verso l’alfabetizzazione e la scolarizzazione (cfr. De Mauro, 1963: 51). In particolare, lo Stato si occupò direttamente delle scuole medie superiori, cioè licei e istituti tecnici, mentre lasciò ai comuni la gestione delle scuole elementari (cfr. De Mauro, 2014: 20-21). Nella maggior parte dei casi, però, gli insegnanti assunti dai comuni risultavano

Anno 1861 1871 1881 1901 1911 1921 1931

(8)

4

scarsamente preparati, nonché spesso dialettofoni. Perciò, l’italiano era ancora «una realtà lontana, staccata dalla vita quotidiana che trovava espressione nel dialetto, una lingua che si insegnava ma non si praticava veramente» (De Mauro, 1963: 93).

L’adozione di una lingua comune si manifestò dunque fin da subito come la nuova ed urgente necessità per l’Italia unita, ma allo stesso tempo come l’ostacolo più difficile da superare, in quanto un reale contatto con la lingua unitaria e la sua effettiva acquisizione riguardavano solo quei pochi che continuavano a studiare dopo la scuola elementare - corrispondenti, tra il 1862 e il 1863, all’8,9 per mille3 della popolazione fra gli 11 e i 18 anni (cfr. De Mauro, 1963: 42-43).

Lo Stato unitario si dimostrò quindi non curante nei confronti dell’istruzione e dell’analfabetismo dilagante, trascurando l’alfabetizzazione e la scolarizzazione non solo dei più giovani, ma anche quella degli adulti, con l’unica eccezione dei corsi di scrittura e lettura

istituiti per i militari di leva (cfr. De Mauro, 2014: 21). In definitiva, negli anni dell’unificazione coloro che erano riusciti ad apprendere l’italiano corrispondevano a circa 160.000 persone, in una totalità di 20 milioni di individui. La Toscana e Roma rappresentano un caso a sé stante, in quanto i dialetti locali erano strutturalmente vicini alla lingua comune, perciò l’uso dell’italiano era senz’altro facilitato e quindi più diffuso rispetto al resto d’Italia, anche se la maggioranza risultava comunque analfabeta (vedi cap. 3, Tabella 6). In conclusione, se ai 160.000 italofoni si aggiungono i 400.000 italofoni toscani e i 70.000 romani, ne risulta un totale di 600 mila italofoni su una popolazione di oltre 25 milioni di individui: appena il 2,5 % della popolazione (cfr. De Mauro, 1963: 43, 99).

Nel complesso, la maggioranza degli italiani parlava esclusivamente il dialetto, e non sapeva né parlare né comprendere l’italiano, il cui uso non era quindi «normale, ma eccezionale, non spontaneo, ma voluto, e, rispetto alla naturalezza dell’uso dei dialetti, artificioso» (De Mauro, 1963: 44). Come mostra la Tabella 1, tra il 1861 e la fine dell’Ottocento il tasso di analfabetismo rimase tendenzialmente lo stesso: se nel 1861 la percentuale era del 78 %, dieci anni più tardi era leggermente scesa al 72,96 %, mentre nel 1881 risultava pari al 67,26 % della popolazione; ne consegue che negli anni dell’unificazione più della metà della popolazione italiana era effettivamente analfabeta.

Un cambio di tendenza si verificò nel primo quindicennio del Novecento, durante l’età giolittiana (1901-1914), quando vari fattori contribuirono all’aumento di attenzione nei confronti dell’istruzione pubblica: gli emigrati, che esortavano i parenti rimasti in Italia a mandare i figli a scuola, ma anche le nuove imprese industriali, che manifestarono l’esigenza

3

(9)

5

di manodopera istruita e alfabetizzata, e i gruppi dirigenti politici, più attenti all’istruzione popolare rispetto ai precedenti. Questi fattori contribuirono alla diffusione dell’istruzione e alla conseguente spesa pubblica in questo settore (cfr. De Mauro, 2014: 21). Per quanto riguarda l’analfabetismo, nel 1901 la percentuale regredì al 56 %, mentre nel 1911 era ulteriormente scesa al 46,7 %.

Tuttavia, questo periodo di rinascita e rilancio della scolarizzazione non durò molto: il primo conflitto mondiale (1915-1918) costrinse il Paese a frenare le spese pubbliche per l’istruzione, che rimasero bloccate fino alla fine della dittatura fascista (1922-1943). Durante la dittatura, infatti, il problema dell’analfabetismo fu del tutto trascurato. Nello specifico, il potere fascista eliminò dai questionari per i censimenti le domande sulla capacità di leggere e scrivere, e nelle aree rurali limitò l’obbligo scolastico ai primi tre anni di scuola, senza considerare che la maggior parte della popolazione viveva proprio nelle campagne (cfr. De Mauro, 2014: 23). Nel 1921 la percentuale di analfabetismo era pari al 35,8 %. A partire dal 1924 la radio cominciò ad avere un ruolo dominante nella circolazione dell’informazione, specialmente nei luoghi pubblici, dove gli altoparlanti esaltavano spesso l’operato del fascismo. In questi momenti di ascolto collettivo, l’influenza linguistica della radio fu senz’altro rilevante, ma l’incidenza non fu comunque la stessa che avrebbe contraddistinto la televisione trent’anni più tardi (vedi § 2.3.1). La radio rimase infatti a lungo un oggetto che solo pochi potevano permettersi di comprare, e che divenne meno costoso solo a partire dagli anni Cinquanta, quando la televisione era ormai al culmine della sua popolarità (cfr. De Mauro, 2014: 92). In conclusione, nel 1931 gli analfabeti costituivano ancora il 21 % della popolazione.

(10)

6

2.2 Gli effetti linguistici della prima ondata migratoria

2.2.1 Il contributo all’italianizzazione

L’emigrazione è indubbiamente un aspetto importante dello Stato italiano unitario, dato che tra il 1871 e il 1951 circa 7 milioni di italiani si trasferirono definitivamente in altri Paesi per sfuggire alla povertà e in cerca di una vita più dignitosa, mentre quasi 14 milioni furono gli espatriati che tornarono in Italia dopo un periodo più o meno breve all’estero (cfr. De Mauro, 1963: 54).

La Tabella 2 riporta i dati riguardanti il totale di espatri avvenuti tra il 1876 e il 1942.

Tabella 2. Totale espatriati dall’Italia tra il 1876 e il 1942 (Favero e Tassello, 1978)

Tra il 1876 e il 1915 si ebbe il massimo incremento del flusso migratorio, con 14 milioni di emigrati totali, di cui circa 5 milioni tra il 1876 e il 1900 e oltre 8 milioni tra il 1901 e il 1915. Ne consegue che dei 25 milioni e 800 mila espatriati totali tra il 1876 e il 1976, più della metà erano emigrati già negli anni precedenti il primo conflitto mondiale. Il movimento migratorio subì poi un rallentamento durante la Prima guerra mondiale, e le partenze diminuirono sensibilmente soprattutto nel 1924, a causa delle politiche restrittive introdotte dagli Stati Uniti per limitare i nuovi arrivi4, ma anche del governo fascista, che cercò di frenare l’emigrazione, vista come una vergogna nazionale. Pertanto, tra il 1916 e il 1942 si verificarono circa 4 milioni di espatri, e una effettiva ripresa del flusso migratorio si registrerà solo nel secondo dopoguerra (vedi § 2.4.1) (cfr. Favero e Tassello, 1978: 11; Sanfilippo, 2011: 364).

Nel complesso, questa prima ondata migratoria ebbe conseguenze imponenti non solo sullo sviluppo demografico, ma anche sulle vicende linguistiche del Paese, contribuendo alla perdita progressiva dei dialetti e all’adozione di una lingua comune, quindi alla crescita dell’istruzione e dell’alfabetizzazione (cfr. Lorenzetti, 1994: 630). Come riporta Vedovelli

4

Negli anni Venti furono emanati il Literacy Act e il Quota Act. Il primo limitava l’ingresso ai soli stranieri, sopra ai sedici anni, che fossero in grado di leggere e scrivere in inglese; il secondo stabiliva una quota di ingresso di immigrati pari al 3 % degli appartenenti alla stessa nazionalità e già residenti negli Stati Uniti (cfr. TURCHETTA, 2005: 4).

Anni 1876-1900 1901-1915 1916-1942

(11)

7

(2011: 50), infatti: «l’emigrare, dal punto di vista linguistico, non è solo un andare via, è anche il porre un’assenza che è capace di agire ristrutturando in un certo modo le condizioni sociolinguistiche dell’evoluzione idiomatica del Paese». Gli emigranti furono quindi fondamentali per lo sviluppo delle dinamiche linguistiche e culturali dell’Italia, e il loro emigrare agì sulla situazione linguistica italiana in modo più profondo di quanto potrebbero dimostrare gli esotismi lessicali portati al rientro dagli italiani, o gli italianismi diffusi all’estero dai medesimi - senz’altro importanti, ma limitati al piano lessicale della lingua. Si potrebbe parlare allora di «efficacia linguistica dell’emigrazione italiana» (De Mauro, 1963: 54)

Innanzitutto, la maggioranza degli emigranti proveniva dalle regioni meridionali, dove si concentrava il più alto numero di analfabeti e dialettofoni5: dei 6.897.000 espatriati definitivi tra il 1876 e il 1951, 2.352.000 provenivano dalle regioni centro-settentrionali (il 36 %), mentre 4.545.000 da quelle meridionali e dalle isole (il 64%); in altre parole, su 100 centro-settentrionali solo 17 emigrarono in via definitiva, mentre su 100 meridionali ben 38. Inoltre, gli emigranti costituivano per l’80 % manodopera non qualificata appartenente ai ceti rurali, mentre solo lo 0,4 % proveniva dai ceti più alti. Pertanto, la grande emigrazione italiana postunitaria ridusse sensibilmente la popolazione delle regioni e delle classi sociali con la più alta percentuale di analfabeti e dialettofoni, quando il problema dell’analfabetismo era ancora del tutto trascurato6 (cfr. De Mauro, 1963: 56-58). Di conseguenza, gli italofoni si trovarono in una situazione vantaggiosa per la diffusione della propria lingua, e anche la scuola si trovò agevolata nell’insegnamento della lingua nazionale, dato il ridotto numero degli alunni provenienti da famiglie analfabete e dialettofone (cfr. De Mauro, 1963: 60).

In secondo luogo, gli emigrati contribuirono all’alfabetizzazione e italianizzazione dal punto di vista economico, tramite l’invio di massicce rimesse di denaro ai parenti rimasti in Italia, che grazie ad esse videro aumentare il proprio livello di reddito e poterono così dedicare più tempo all’istruzione e alfabetizzazione dei figli. Inoltre, lo sfoltimento della popolazione dovuto all’emigrazione comportò un aumento dei salari e un complessivo sommovimento nelle comunità rurali, in cui la vita divenne economicamente e socialmente meno povera, così che molti poterono investire maggiormente nell’istruzione e alfabetizzazione (cfr. De Mauro, 1963: 60).

5

In Campania, Abruzzo, Puglia, Basilicata e Calabria si registrava, nel 1861, l’86,3 % di analfabeti; in Sicilia la percentuale raggiungeva l’88,6 %, mentre in Sardegna era pari all’89,7 % (cfr. DE MAURO, 1963: 53).

6

Nelle zone rurali, specialmente del Sud Italia, la scuola cominciò ad affrontare seriamente l’analfabetismo solo negli anni precedenti la prima guerra mondiale, durante il decennio giolittiano.

(12)

8

Ma gli emigrati influirono sull’evoluzione linguistica delle comunità d’origine soprattutto al rientro, quando tornavano portando con sé il dialetto originario, rimasto identico a quello di partenza, ma con la nuova consapevolezza dell’importanza di saper leggere e scrivere, soprattutto per le nuove generazioni (cfr. De Mauro, 1963: 61). All’estero l’analfabetismo era diventato improvvisamente «un fattore di autocoscienza, una spinta a cambiare il proprio stato sociale» (Vedovelli, 2011: 56); per questo al rientro gli emigrati sollecitavano i parenti a frequentare la scuola, che avrebbe garantito loro un’istruzione e, quindi, un futuro migliore (cfr. Turchetta, 2005: 5-6). Nei Paesi ospitanti il non saper leggere e scrivere aveva rappresentato per gli emigrati un aspetto negativo della propria identità, ma anche l’incentivo a migliorare la propria situazione e quella dei familiari; era contemporaneamente «il limite alla possibilità di fuggire la miseria anche nel Paese di arrivo» (Vedovelli, 2011: 66) e la risorsa per combattere lo stereotipo negativo nei loro confronti. L’alfabetizzazione rappresentava insomma una vera e propria occasione di emancipazione (cfr. Vedovelli, 2011: 67).

Il contributo linguistico dell’ondata migratoria postunitaria nel ridurre l’analfabetismo e nel promuovere l’alfabetizzazione diventa ancora più evidente osservando nuovamente la Tabella 1: la percentuale degli analfabeti passò dal 72,96 % del 1871 al 67,26 % del 1881, e ancora al 56 % nel ventennio successivo (fino al 1901) e al 46,7 % nel decennio successivo, quello della grande emigrazione (1901-1911), per poi diminuire ulteriormente nel 1921 (35,8 %) e nel 1931 (21 %). Come spiega De Mauro (1963: 63):

Questo balzo in avanti dell’analfabetismo […] non poté dipendere da un’iniziativa accresciuta dello stato (che preferiva allora ignorare il problema) o di associazioni private per la lotta contro l’analfabetismo, che cominciarono a operare soltanto intorno al 1910 […]. Esso, dunque, poté essere prodotto solo dalla grande emigrazione, la quale, perciò, portò […] alla diffusione dell’istruzione scolastica e, quindi, della lingua comune.

(13)

9

2.3 Le prospettive linguistiche dal dopoguerra agli anni Settanta

2.3.1 Verso una democratizzazione linguistica

La Tabella 3 riporta i dati riferiti alla percentuale di analfabetismo in Italia tra il 1951 e il 1971.

Anno 1951 1959 1961 1971

Percentuale di analfabeti 12,9 10 8,3 5,2

Tabella 3. Analfabeti in Italia tra il 1951 e il 1971 (De Mauro, 1963; Dei, 2000: 10)

Nel 1946, all’inizio della storia dell’Italia repubblicana, il Paese si trovava in un momento di svolta: si avvicinavano il boom economico, l’industrializzazione, la grande emigrazione dalle campagne alle città e dal Sud al Nord (cfr. Vedovelli, 2011: 84); l’atmosfera generale manifestava una «diffusa volontà e nuova possibilità di partecipazione alla vita sociale, pubblica, sindacale e politica» (De Mauro, 2014: 15). In questa fase di rinnovamento, tuttavia, l’analfabetismo costituiva ancora un grave problema per gran parte della popolazione, che faticava a leggere i giornali e a scrivere; non a caso la Costituzione italiana - entrata in vigore nel 1948 - venne redatta in un italiano semplice e chiaro (cfr. De Mauro, 2014: 16-17).

La situazione linguistica dell’Italia nel dopoguerra non differiva insomma da quella degli anni passati, e il nostro era ancora «un Paese scolasticamente sottosviluppato, cui non era stata data la possibilità di sovvertire le condizioni di assai bassa scolarità del passato» (De Mauro, 2014: 20). Il primo censimento dell’Italia repubblicana, nel 1951, mostrava che solo il 30,6 % della popolazione possedeva la licenza elementare e solo il 10,2 % aveva proseguito gli studi: il 5,9 % aveva completato la scuola media inferiore, il 3,3 % la scuola superiore, mentre solo l’1 % aveva iniziato, e non necessariamente finito, l’università; nel complesso, la mancata scolarizzazione elementare riguardava il 60 % della popolazione. Inoltre, l’indice medio complessivo di scolarizzazione - ossia gli anni di scuola mediamente completati dagli ultra quindicenni - era di circa 4 anni: la media era dunque quella di un Paese sottosviluppato ed inferiore rispetto al resto d’Europa (cfr. De Mauro, 2014: 24). Di conseguenza, l’analfabetismo persisteva: gli analfabeti rappresentavano ancora il 12,9 % della popolazione. Infine, il 64 % della popolazione utilizzava esclusivamente il dialetto, mentre il restante 36 %

(14)

10

utilizzava l’italiano: una metà di questi in alternanza con il dialetto, l’altra metà come lingua esclusiva (cfr. De Mauro, 2014: 34).

Un’inversione di tendenza si verificò intorno alla metà degli anni Cinquanta, quando il tasso di analfabetismo si ridusse per effetto di un nuovo fenomeno sociale: l’istruzione postelementare cominciò a diventare un «fenomeno di massa» (De Mauro, 1963: 102); emerse in quegli anni una «spinta sociale, popolare, verso livelli più alti di istruzione» (De Mauro, 2014: 49). La volontà di istruirsi e scolarizzarsi cresceva e molti iniziarono a proseguire gli studi oltre la licenza elementare, acquisendo così una migliore competenza nell’italiano. L’italiano e l’istruzione cominciarono a rappresentare il requisito indispensabile per far parte della società: non si trattava più solamente di imparare la lingua per saper leggere e scrivere, ma di impossessarsi di uno strumento culturale che permettesse la crescita e l’arricchimento intellettuale.

Nel processo di graduale riduzione dell’analfabetismo e di crescita culturale del Paese, un ruolo importante rivestì la televisione, che a partire dal 1954 divenne lo strumento ideale, a disposizione delle istituzioni, per combattere definitivamente l’analfabetismo e diffondere la lingua italiana, soprattutto tra i cittadini socialmente e culturalmente svantaggiati. Emblematici di questo ruolo divulgativo della televisione sono i programmi ‘Non è mai troppo tardi’, realizzato per gli adulti analfabeti dal maestro Alberto Manzi, che insegnava loro a leggere e scrivere, e ‘Telescuola’, indirizzato ai ragazzi che non avevano potuto continuare gli studi dopo la scuola elementare. La televisione rappresentò dunque per milioni di italiani dialettofoni «la principale maestra di lingua italiana» (Vedovelli, 2011: 84), e l’italiano, che era presentato «nella totalità dei suoi usi, formali e informali, regionali e standard» (De Mauro, 1963: 439), cominciò ad essere quotidianamente visto e sentito parlare, e allo stesso tempo appreso da fasce sempre più ampie di popolazione in età scolastica (cfr. Vedovelli, 2011: 84).

Per quanto concerne l’analfabetismo, la Tabella 3 mostra che la percentuale scese al 10 % nel 1959, mentre nel 1961 calò ulteriormente all’8,3 %; a cento anni di distanza dall’Unità d’Italia, l’analfabetismo risultava quindi drasticamente ridotto. Nondimeno, l’istruzione rimaneva ancora un privilegio per pochi: nel 1961 solo il 15,04 % della popolazione risultava avere un livello di istruzione più che elementare e l’85 % della popolazione non possedeva la licenza elementare, mentre oltre il 60 % della popolazione non proseguiva gli studi dopo le elementari (cfr. De Mauro, 1963: 432). La situazione migliorò sensibilmente solo nel 1971, quando la percentuale di analfabetismo scese al 5,2 %.

(15)

11

2.4 Le caratteristiche linguistiche della seconda ondata migratoria

2.4.1 Una nuova familiarità con l’italiano

Fin da subito dopo la Seconda guerra mondiale riprese il flusso migratorio dall’Italia verso l’estero. Il rientro di molti soldati dai vari fronti di guerra aveva generato un eccesso di popolazione che l’economia interna, fortemente impoverita, non poteva sostenere, per cui l’emigrazione rappresentava di nuovo l’unica prospettiva di sopravvivenza. Il governo italiano ebbe un ruolo attivo nella gestione e promozione del processo migratorio: lo stesso De Gasperi incoraggiò gli italiani a studiare le lingue e ad andare all’estero, definendo l’emigrazione una «valvola di sicurezza» necessaria all’Italia; l’emigrazione avrebbe infatti giovato al Paese sia eliminando il problema dell’instabilità sociale sia arricchendo l’economia grazie alle rimesse (cfr. Castles e Vasta, 1992: 99-100; Boncompagni, 2001: 115; Lindsay Thompson, 1984: 47).

La Tabella 4 riporta i dati riguardanti il totale di espatriati italiani tra il 1946 e il 1976.

Tabella 4. Totale espatriati dall’Italia tra il 1946 e il 1976 (Favero e Tassello, 1978)

Tra il 1946 e il 1976 furono complessivamente più di 7 milioni gli italiani che lasciarono definitivamente il Paese per emigrare all’estero; di questi, oltre 4 milioni emigrarono tra il 1946 e il 1961, mentre circa 3 milioni espatriarono nel periodo compreso tra il 1962 e il 1976. Il fenomeno migratorio di questo periodo si rivelò però diverso da quello precedente, soprattutto per ciò che concerne le condizioni linguistiche dei nuovi migranti; per questo si può parlare di frattura e discontinuità rispetto al passato. I protagonisti di questa nuova ondata migratoria si caratterizzavano infatti per una nuova familiarità con l’italiano, cioè con modelli di uso vivo della lingua comune, che non era più solo scritta e letteraria, ma veniva quotidianamente parlata, vista parlare in televisione e usata per parlare. Questa condizione era inoltre facilitata dai rientri e dai ricongiungimenti familiari più frequenti, che favorivano un confronto ravvicinato con la lingua italiana così com’era usata in Italia (cfr. Vedovelli, 2011: 84-86).

Tuttavia, questa seconda ondata non era caratterizzata solo dalla discontinuità rispetto al passato, ma anche dal parallelismo e dalla persistenza di alcuni aspetti linguistici della prima

Anni 1946-1961 1962-1976

(16)

12

ondata migratoria: come in passato, emigrava chi viveva in situazioni sociali ed economiche svantaggiate, per cui l’analfabetismo, la bassa scolarizzazione e la prevalente dialettofonia erano ancora i principali tratti degli emigranti.Sebbene fossero ancora moltissimi gli emigrati analfabeti, poco scolarizzati e dialettofoni, e altrettanti coloro che non avevano finito le scuole elementari, i livelli di italofonia e scolarizzazione risultavano comunque maggiori rispetto a quelli della prima ondata migratoria (cfr. Vedovelli, 2011: 82-83). Infatti, mentre per gli emigrati fino al secondo conflitto mondiale l’italiano corrispondeva solo ad un’idea di lingua, quasi «una lingua mai conosciuta» (Turchetta, 2005: 8), per gli emigrati degli anni Cinquanta-Sessanta l’italiano corrispondeva ad un’immagine chiara e definita di lingua, anche se non sempre realmente posseduta. Nel complesso, il bagaglio linguistico di questi nuovi emigrati era quindi più ampio rispetto al passato: non possedevano solo il dialetto, ma anche l’italiano e, talvolta, la lingua del nuovo Paese (cfr. Bettoni, 1993: 415).

La consapevolezza del nuovo processo evolutivo che l’italiano stava vivendo in patria, comportava però per gli emigrati una percezione della propria lingua come distante e diversa, bassa, imperfetta e non autentica rispetto alla norma e alla capacità espressiva dell’italiano standard parlato in Italia (cfr. Vedovelli, 2011: 91-92). Di conseguenza, l’italiano era ancora percepito come una lingua ideale e da conquistare; in effetti, questa autovalutazione negativa della propria competenza linguistica poteva spiegarsi in parte col fatto che la lingua degli emigrati di questa seconda ondata, così come quella degli emigrati precedenti, corrispondeva ad una varietà di italiano non standard, ma popolare (vedi § 4.2), cioè la varietà che in Italia era tipica degli strati sociali più bassi, incolti o semicolti (cfr. Bettoni, 1993: 415). All’estero, questa varietà veniva infatti solitamente impiegata presso fasce sociali più alte rispetto all’Italia; la varietà di italiano standard era invece patrimonio di una piccola parte di intellettuali, che rimaneva però separata dal resto della comunità emigrata (cfr. Berruto, 1987: 180). Pertanto, molti italiani scelsero di coniugare le forze in direzione della lingua ospitante, che rappresentava un mezzo di comunicazione essenziale non solo per la partecipazione alla vita civile nella nuova comunità, ma anche per garantirsi un lavoro e vivere in modo dignitoso (cfr. Bettoni, 1993: 415-416).

(17)

13 CAPITOLO 3

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN AUSTRALIA

3.1 Cenni storici

3.1.1 Dai primi arrivi alla Seconda guerra mondiale

Gli italiani furono tra i primi popoli europei ad insediarsi in Australia, anche se con numeri molto modesti in partenza (cfr. Lindsay Thompson, 1984: 40), come si può osservare nella Tabella 1.

Anno 1871 1881 1891 1901 1911 1921 1933

Italiani in Australia 960 1.880 3.890 5.678 6.719 8.135 26.756

Tabella 1. Italiani di nascita residenti in Australia dal 1871 al 1933 (Bacchetta e De Azevedo, 1990: 244)

I primi flussi migratori risalgono alla seconda metà dell’Ottocento, quando arrivarono in Australia vari imprenditori e liberi professionisti dell’Italia centro-settentrionale, in fuga dalle persecuzioni delle autorità austriache (cfr. Boncompagni, 2001: 111). Nel 1871 i censimenti segnalavano la presenza di 960 italiani residenti nel Paese, mentre nel 1881 il numero raggiunse le 1.880 unità.

Le ondate migratorie più consistenti ebbero inizio solo nell’ultimo decennio dell’Ottocento: nel 1891 arrivarono infatti oltre trecento contadini italiani, che si insediarono in particolare nel Queensland e West Australia, dove furono assunti nell’industria della canna da zucchero7, nel settore della pesca e nelle zone minerarie. In questi settori era richiesta una manodopera forte, a basso costo, disposta al rischio e al lavoro in condizioni difficili, ossia aspetti che rappresentavano i punti di forza dei contadini italiani, disposti a qualsiasi sacrificio pur di accumulare velocemente i guadagni e tornare al paese d’origine (cfr. Gallina, 2011:

7 In questo settore gli italiani rimpiazzarono i lavoratori provenienti dalle isole del Pacifico (la cosiddetta manodopera kanaka), allontanati dall’Australia secondo la politica migratoria definita

White Australia. Per approfondimenti si veda il Glossario alla voce «White Australia Policy» in

(18)

14

432). Nel 1891 erano 3.890 gli italiani residenti in Australia, mentre nel 1901 raggiunsero le 5.678 unità. Dieci anni più tardi, nel 1911, risiedevano in Australia 6.719 italiani.

Fino alla Prima guerra mondiale il numero di italiani residenti in Australia rimase comunque statisticamente irrilevante: dei 14 milioni di italiani che lasciarono la madrepatria, infatti, solo 18.437 si diressero in Australia, cioè appena l’1,5 %, mentre la maggior parte sceglieva altre destinazioni, come gli Stati Uniti e il Sud America. Questo era dovuto a diversi fattori, che allontanavano gli italiani dall’idea di emigrare in Australia. Innanzitutto, l’enorme distanza, che richiedeva oltre il doppio del tempo necessario per raggiungere le Americhe, ma anche la mancanza di un collegamento diretto dai porti italiani, e come conseguenza l’alto costo del viaggio; infine, l’assenza di comunità italiane già insediate, che potessero in qualche modo favorire l’arrivo di altri emigranti, come accadeva negli Stati Uniti o in Argentina e Brasile (cfr. Boncompagni, 1998: 35; Boncompagni, 2001: 111-112; Bacchetta e De Azevedo, 1990: 243).

Un aumento notevole dell’emigrazione italiana verso lo Stato australiano si verificò nel 1921, quando gli Stati Uniti introdussero misure restrittive all’immigrazione, limitando l’accesso annuale nel Paese a solamente 41 mila persone e riducendo ulteriormente la quota nel 1924. Perciò, dal 1924 in poi molti italiani si trovarono a dover scegliere l’Australia come nuova meta migratoria oltreoceano (cfr. Boncompagni, 1998: 35; Boncompagni, 2001: 113-114). Come gli Stati Uniti, anche l’Australia aveva adottato alcune leggi restrittive8

per ridurre il fenomeno migratorio, ma questi provvedimenti non frenarono in modo significativo il flusso migratorio italiano, che continuò a crescere notevolmente, creando parallelamente un certo malcontento tra la popolazione locale (cfr. Lindsay Thompson, 1984: 42-43). Di conseguenza, se nel 1921 gli italiani residenti in Australia erano 8.135, dieci anni più tardi, nel 1933, risultavano già 26.756, con una maggioranza di emigrati di sesso maschile (oltre 20 mila), che sarebbero stati raggiunti successivamente da mogli, figli e altri parenti (cfr. Gallina, 2011: 432). A partire da questo periodo la comunità italiana cominciò quindi ad ampliarsi, anche grazie alla cosiddetta ‘emigrazione a catena’ (o migration chains), ossia il sistema secondo cui «alcuni emigranti-pionieri mandano a parenti ed amici in Italia notizie dell’Australia […] e parlando delle loro esperienze di vita e di lavoro in quel Paese, incoraggiano parenti ed amici ad emigrarvi» (Stiassi, 1979: 40). Questo tipo di emigrazione aveva sostituito la drop migration (Gentili, 1983: 10), secondo cui ad emigrare erano singoli individui o piccoli gruppi.

8 Si tratta dell’Immigration Restriction Act, del 1901, con il quale l’Australia impediva l’ingresso a chi non fosse in grado di scrivere sotto dettatura, e del Contract Immigration Act, del 1905, che controllava ancora più rigidamente gli emigranti (cfr. FARNOCCHIA PETRI, 1995: 49).

(19)

15

Durante la Seconda guerra mondiale 18 mila italiani furono mandati in Australia come prigionieri di guerra e costretti a lavorare nelle fattorie agricole. Anche gli italiani già residenti in Australia (i cosiddetti enemy aliens) furono costretti ai lavori forzati, in quanto cittadini di un Paese in guerra con l’Australia. Proprio in questo periodo cominciò a svilupparsi un’opinione favorevole da parte della popolazione locale nei confronti degli italiani, considerati lavoratori seri e disciplinati (cfr. Stiassi, 1979: 82; Boncompagni, 2001: 114; Gallina, 2011: 432).

3.1.2 Dal dopoguerra agli anni Settanta

Se prima della Seconda guerra mondiale l’emigrazione italiana verso l’Australia fu piuttosto modesta e ridotta (cfr. Castles e Vasta, 1992: 104), nel dopoguerra si verificò invece la sua massima espansione, come mostra la Tabella 2.

Anno 1947 1954 1961 1966 1971 1976

Italiani in Australia 33.632 119.897 228.296 267.325 289.476 280.154

Tabella 2. Italiani di nascita residenti in Australia dal 1947 al 1976 (Castles e Vasta, 1992: 107)

A partire dal dopoguerra in Australia l’offerta di lavoro era infatti forte in tutti i settori, mentre l’Italia postbellica si trovava in condizioni socioeconomiche gravissime, perciò l’attrattività del Paese, ricco e dalle infinite opportunità, crebbe considerevolmente. In questi anni lo Stato australiano aveva inoltre attuato un programma di immigrazione (il cosiddetto

Populate or Perish) che prevedeva l’ingresso di un immigrato per ogni neonato, con

l’evidente obiettivo di raddoppiare in breve tempo la popolazione e risolvere così il problema dell’estrema scarsità di manodopera. Fu proprio il governo australiano a fornire le navi per le traversate dall’Italia (e da ogni parte d’Europa), contribuendo direttamente all’espansione e allo sviluppo del Paese; il governo italiano, da parte sua, promosse l’emigrazione dei suoi cittadini per sopperire alla crisi economica (cfr. Stiassi, 1979: 83-84; Boncompagni, 2001: 115). Di conseguenza, nel 1947 gli italiani residenti in Australia erano 33.632.

Nel 1951 Italia e Australia stipularono un accordo bilaterale di emigrazione assistita, secondo il quale per cinque anni sarebbero stati ammessi in Australia 20.000 immigrati italiani l’anno, con l’ulteriore promessa di aiuti finanziari; in particolare, l’accordo prevedeva l’arrivo di uomini giovani, che sarebbero stati raggiunti successivamente dalle famiglie. Le prime immigrazioni non furono comunque facili, soprattutto a causa della crisi economica che investì l’Australia nel 1952 e che impedì a molti italiani di trovare un lavoro; tuttavia, nel

(20)

16

1954 l’economia riprese e l’emigrazione italiana verso il Paese crebbe (cfr. Castles e Vasta, 1992: 105; Cavallaro, 2003: 67). Pertanto, nel 1954 gli italiani in Australia risultavano essere 119.897.

Nel complesso, gli anni Cinquanta e Sessanta furono quelli dell’emigrazione di massa dall’Italia all’Australia, decisiva per la formazione della comunità italiana; il flusso di migranti verso questo Paese assunse infatti proporzioni considerevoli, tanto che dal 1950 al 1965 il numero di italiani in Australia divenne dieci volte maggiore rispetto agli anni precedenti la guerra (cfr. Boncompagni, 1998: 35). Dal 1951 al 1961 in Australia arrivarono più di 17 mila emigrati italiani all’anno e nel 1961 il numero complessivo di emigrati italiani in Australia aveva raggiunto le 228.296 unità (cfr. Castles e Vasta, 1992: 106-107).

Successivamente, però, il flusso migratorio cominciò a decrescere: tra il 1961 e il 1971 il numero di italiani arrivati in Australia scese a circa 7 mila l’anno, e gli italiani emigrati in Australia in questi anni furono 72.333; questo avvenne in particolare per effetto dei nuovi movimenti migratori (dal Sud al Nord Italia, o dall’Italia all’Europa del Nord). Ciò nonostante, il numero di italiani residenti in Australia rimase alto: nel 1966 gli italiani erano 267.325 e nel 1971 il numero era salito ulteriormente alle 289.476 unità.

Negli anni Settanta, a causa del crescente benessere in Italia e della crisi economica in Australia, il flusso migratorio cominciò a declinare notevolmente, tanto che il numero dei ritorni superò quello dei nuovi arrivi, segnando la fine dell’emigrazione di massa dall’Italia all’Australia. Dal 1971 al 1976 furono circa 800 gli italiani che rimpatriavano ogni anno dall’Australia, per un totale di emigrati rientrati in Italia pari alle 4.463 unità (cfr. Castles e Vasta, 1992: 107). Di conseguenza, nel 1976 gli italiani residenti in Australia erano 280.154, quindi quasi 10.000 in meno rispetto al 1971.

In conclusione, tra il 1947 e il 1976 giunsero in Australia più di 360.000 italiani, di cui però 90.000 (cioè il 25,8 %) tornarono in Italia, per cui il numero di arrivi si riduce alle 280.000 unità (cfr. Castles e Vasta, 1992: 106).

(21)

17 3.2 La comunità italiana

Secondo il censimento del 20069, in Australia vivono 199.122 emigrati italiani, appartenenti alla prima generazione e a quella di mezzo. Nello specifico, i dati mostrano che la comunità italo-australiana è composta in gran parte (il 51,86 %) da individui di oltre 65 anni e dai loro figli e nipoti, quindi le seconde e terze generazioni (cfr. Gallina, 2011: 434-434). Pertanto, la comunità di origine italiana è ancora oggi la più numerosa tra quelle di origine non britannica.

Si presenta di seguito una descrizione schematica di alcuni aspetti caratteristici della comunità italiana, dalle origini del flusso migratorio al periodo della grande emigrazione degli anni Cinquanta-Sessanta, fino agli anni Settanta.

3.2.1 Origini e composizione

Le Tabelle 3 e 4 evidenziano la provenienza degli italiani emigrati in Australia, sia per quanto riguarda la prima ondata migratoria, negli anni compresi tra il 1891 e il 1940, sia per la seconda ondata, in particolare negli anni tra il 1959 e il 1979.

Zona di provenienza Italia settentrionale Italia centrale Italia meridionale Italia insulare

Italiani in Australia 13.470 1.380 5.155 6.150

Tabella 3. Provenienza dei nati in Italia residenti in Australia dal 1891 al 1940 (Stiassi, 1979: 41)

Zona di provenienza Italia settentrionale Italia centrale Italia meridionale Italia insulare

Italiani in Australia 15.665 11.622 78.271 35.615

Tabella 4. Provenienza dei nati in Italia residenti in Australia dal 1959 al 1979 (Bacchetta e De Azevedo, 1990: 252)

Tra il 1891 e il 1940, e soprattutto nei primi decenni del Novecento, l’emigrazione verso l’Australia riguardò prevalentemente gli italiani originari delle regioni settentrionali (cfr. Bacchetta e De Azevedo, 1990: 252); soltanto nel periodo compreso tra il 1921 e il 1940

9 Per i dati sui censimenti del 2006 si rimanda al sito dell’Australian Bureau of Statistics (http://www.abs.gov.au/).

(22)

18

arrivarono in Australia circa 50.000 italiani provenienti da Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, ma anche Calabria e Sicilia (cfr. Gallina, 2011: 432).

Dalla fine degli anni Cinquanta, invece, si verificò un’inversione di tendenza, in quanto la maggioranza degli italiani in Australia arrivava dalle regioni meridionali e dalle isole; solamente dal 1958 al 1965 l’81 % degli emigranti oltreoceano provenivano da Calabria, Sicilia, Abruzzo e Campania, anche se tra le regioni con il maggior numero di partenze verso l’Australia risultavano ancora Friuli Venezia Giulia e Veneto (cfr. Castles e Vasta, 1992: 101, 106).

Le regioni dell’Italia centrale risultarono complessivamente meno coinvolte nel processo migratorio verso l’Australia, specialmente negli anni della prima ondata migratoria, benché la Toscana si caratterizzi per un andamento del fenomeno migratorio piuttosto vicino a quello nazionale (vedi § 3.3).

Per quanto riguarda la composizione dell’emigrazione, gli italiani arrivati in Australia furono inizialmente soltanto uomini: ancora nei primi anni del Novecento il 90 % degli immigrati italiani in Australia era di sesso maschile. Il numero di donne crebbe solo a partire dal 1954, per effetto del governo australiano, che incentivò l’immigrazione femminile e il ricongiungimento familiare. In conclusione, se nel 1954 gli uomini in Australia risultavano numericamente il doppio delle donne, il divario diminuì nel 1966, quando gli uomini italiani residenti in Australia erano 150.138 e le donne 117.187 (cfr. Bacchetta e De Azevedo, 1990: 247; Stiassi, 1979: 95-96).

3.2.2 Insediamento e occupazione

Nella storia dell’emigrazione in Australia gli italiani hanno avuto un ruolo occupazionale molto importante, impegnandosi sia come lavoratori dipendenti sia come imprenditori, in particolare nel settore agricolo, ma anche nell’industria manifatturiera e nel terziario (cfr. Boncompagni, 2001: 117).

Un aspetto importante dell’immigrazione italiana in Australia consiste nel raggruppamento di individui provenienti dalle stesse regioni, o addirittura dagli stessi paesi; questa situazione era la naturale conseguenza del tentativo tipico degli emigrati italiani di ricreare nel Paese ospite le condizioni di vita e socialità originarie (cfr. Bettoni, 2007: 40; Gallina, 2011: 435). La grande concentrazione di individui provenienti dalle stesse zone era dovuta anche al fenomeno dell’emigrazione a catena (vedi § 3.1.1), per cui gli emigranti ritrovavano all’estero quegli stessi compaesani o corregionali che li avevano convinti a partire (cfr. Stiassi, 1979: 40). Inoltre, la distribuzione insediativa degli italiani in Australia fu

(23)

19

sempre strettamente correlata ai cambiamenti della struttura economica australiana e alle dinamiche occupazionali: gli italiani si stabilivano in una certa zona a seconda del tipo di lavoro che vi era richiesto (cfr. Castles e Vasta, 1992: 108).

Per ciò che concerne gli Stati in cui si concentrò il maggior numero di italiani, la Tabella 5 mostra che dal 1901 al 1947, negli anni della prima ondata migratoria, gli italiani si stabilirono principalmente nel New South Wales e nel Queensland, mentre a partire dagli anni Cinquanta, quindi nel periodo della grande emigrazione verso l’Australia, fu lo Stato del Victoria ad accogliere il maggior numero di italiani, seguito dal New South Wales, dove il numero di italiani residenti restava alto, come in passato.

Tabella 5. Distribuzione degli italiani di nascita in alcuni Stati australiani dal 1901 al 1976 (Stiassi, 1979: 86; Bacchetta e De Azevedo, 1990: 254)

Nello specifico, gli italiani emigrati in Australia nella seconda metà dell’Ottocento, erano generalmente braccianti o manodopera non qualificata, perciò trovarono impiego nel settore agricolo, in particolare nelle piantagioni di canna da zucchero nel Queensland, ma anche nelle zone minerarie del West Australia e nel settore della pesca (cfr. Castles e Vasta, 1992: 108; Stiassi, 1979: 85).

Gli italiani emigrati tra l’inizio del Novecento e la Seconda guerra mondiale si impegnarono ugualmente nel settore agricolo e in quello della pesca, e alcuni riuscirono a diventare proprietari di fattorie o piccole industrie, mentre altri si dedicarono alle piccole attività commerciali, e solo una piccola parte si stabilì nei grandi centri urbani (cfr. Cavallaro, 2003: 67).

Durante il secondo conflitto mondiale molti italiani furono costretti a lavorare nelle fattorie agricole australiane, soprattutto nello Stato del Queensland (cfr. Gallina, 2011: 432).

Dal secondo dopoguerra, per effetto delle meccanizzazione della raccolta, la richiesta di lavoro nell’industria della canna da zucchero calò drasticamente e molti italiani si traferirono nelle aree industriali, soprattutto a Melbourne, Sydney e Adelaide, dove l’offerta di lavoro era maggiore (cfr. Bacchetta e De Azevedo, 1990: 253-254; Castles e Vasta, 1992: 108; Gallina,

1901 1921 1933 1947 1954 1961 1971 1976

New South Wales 1.577 2.080 6.319 8.721 29.940 62.363 80.416 78.396

Victoria 1.525 1.860 5.860 8.305 42.429 91.075 131.758 116.712

Queensland 845 1.838 8.355 8.541 16.795 19.772 19.280 18.893

South Australia 327 344 1.489 2.428 11.833 26.230 32.428 31.943

(24)

20

2011: 435). In questo periodo gli italiani si impegnarono prevalentemente nell’edilizia e nell’industria manifatturiera (cfr. Gallina, 2011: 433), per le quali la richiesta di manodopera era particolarmente forte, a causa del boom edilizio.10 Molti di loro, però, non avendo ottenuto il riconoscimento della propria qualifica professionale, si trovarono a svolgere lavori manuali non qualificati (cfr. Castles e Vasta, 1992: 106-107; Bettoni, 2007: 39).

Alla fine degli anni Sessanta gli italiani che emigravano in Australia erano soprattutto lavoratori qualificati, generalmente artigiani e operai, provenienti dai centri urbani ed emigrati non soltanto per migliorare la qualità della propria vita, ma anche - e soprattutto - per desiderio di affermazione personale (cfr. Gallina, 2011: 434; Tordini, 2013-2014: 19).

A partire dalla metà degli anni Settanta, infine, diversi italiani si impegnarono nel settore terziario, inaugurando ristoranti, alimentari, bar e negozi (cfr. Bettoni, 2007: 40; Boncompagni, 2001: 117).

3.2.3 Lingua e istruzione

Le caratteristiche linguistiche dei flussi migratori italiani verso l’Australia sono assimilabili a quelle dei flussi diretti altrove (vedi cap. 2): gli italiani che emigravano, soprattutto per quanto riguarda la prima ondata migratoria, presentavano uno scarso livello di istruzione e un alto tasso di analfabetismo e dialettofonia. Questa situazione comportò una grande difficoltà per i primi italiani all’estero, in quanto i dialetti potevano essere utilizzati solamente nella comunicazione con gli interregionali o tra coloro che parlavano un dialetto simile; in tutti gli altri casi di interazione con i connazionali, però, era necessario affidarsi all’italiano, presente come ideale di lingua, più che come competenza e uso (cfr. Stiassi, 1979: 44; Gallina, 2011: 440-442).

La situazione era più favorevole, da questo punto di vista, per gli emigrati italiani giunti in Australia nel secondo dopoguerra, che si distinguevano dai precedenti per essere stati esposti in Italia ad una maggior istruzione, all’industrializzazione e all’affermazione dei mezzi di comunicazione di massa; questi fattori, oltre ai ricongiungimenti familiari più frequenti, permisero un maggior contatto con gli usi vivi della lingua italiana, contribuendo così ad ampliare il repertorio linguistico degli emigranti. Questi italiani erano quindi più italofoni e scolarizzati rispetto ai precedenti, anche se la maggior parte aveva frequentato solo la scuola elementare (cfr. Castles e Vasta, 1992: 106) e possedeva ancora il dialetto come prima lingua. La conoscenza dell’italiano era inoltre spesso limitata alle abilità di

10 Per approfondimenti si veda il capitolo dedicato al contributo italiano nella costruzione dell’Australia in CASTLES et al. (1992: 153-172).

(25)

21

comprensione e di ascolto, e corrispondeva quasi sempre non ad un italiano standard, ma ad una varietà di italiano popolare (vedi § 4.2) e regionale11 (cfr. Gallina, 2011: 440; Vedovelli, 2011: 85). Infine, come accadeva anche altrove, gli italiani arrivati in Australia con la seconda ondata percepivano una distanza tra la lingua parlata nel contesto migratorio, quindi in famiglia o con gli altri italiani, e quella parlata in Italia, poiché nel loro immaginario l’italiano degli emigrati non possedeva la stessa purezza ed espressività della lingua italiana standard (cfr. Gallina, 2011: 468).

Quanto all’inglese, i livelli di competenza potevano variare molto a seconda dell’età al momento dell’emigrazione, ma anche del tipo di occupazione e di integrazione nel nuovo Paese. In generale, comunque, per tutti gli emigrati l’inglese rappresentava uno strumento essenziale per l’inserimento sociale e lavorativo nella società australiana (Bettoni, 2007: 40). Tuttavia, i processi di integrazione linguistica con il Paese ospite si attivarono in modo significativo solo nella seconda ondata migratoria, quando gli italiani cercarono di inserirsi nella comunità australiana soprattutto da un punto di vista linguistico, limitando quindi l’uso del dialetto all’ambito familiare o intercomunitario e cercando di adottare la lingua inglese in tutti gli altri contesti (cfr. Sobrero e Miglietta, 2006: 217). La frequenza d’uso dell’inglese fu dunque senz’altro maggiore per gli emigrati del secondo dopoguerra, che andarono a stabilirsi nelle aree urbane, dove l’inglese era essenziale per la comunicazione in ambito sia lavorativo sia sociale. Gli emigrati della prima ondata, al contrario, si insediarono principalmente nelle zone rurali, in cui i contatti con gli australiani erano sicuramente meno usuali, mentre erano maggiori gli scambi con i connazionali; per questo conservarono a lungo il dialetto originario e svilupparono tendenzialmente una scarsa competenza nella lingua straniera (cfr. Turchetta, 2005: 24; Gallina, 2011: 442).

11 Con ‘italiano regionale’ si intende la varietà di italiano parlata in una determinata area geografica e derivata dall’incontro tra il dialetto, in questo caso toscano, e la lingua nazionale (cfr. D’ACHILLE,

(26)

22 3.3 L’emigrazione toscana

3.3.1 Dati e caratteristiche generali

Prima di analizzare gli aspetti generali del fenomeno migratorio toscano, si riportano nella Tabella 6 alcuni dati riguardanti il livello di alfabetizzazione di questa regione, che nel complesso mostrò una tendenza simile a quella nazionale (vedi cap. 2, Tabella 1 e Tabella 3).

Tabella 6. Percentuali di analfabetismo in Toscana tra il 1861 e il 1961 (De Mauro, 1963: 95-98)

Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento l’analfabetismo riguardava oltre la metà della popolazione toscana; a partire dall’inizio del Novecento, invece, la percentuale calò sensibilmente e gli analfabeti costituivano meno della metà della popolazione, per poi diminuire a partire dagli anni Trenta, quando la percentuale di analfabetismo risultava inferiore al 25 %; infine, il tasso di analfabetismo scese al 13 % negli anni Cinquanta, e regredì ulteriormente a partire dagli anni Sessanta, quando nell’intera regione gli analfabeti corrispondevano a meno dell’8 % della popolazione.

I toscani, in particolare della provincia di Lucca, rappresentano un popolo tradizionalmente abituato ad allontanarsi dalla propria terra e a lasciare la famiglia, la comunità, il paese; non per fuggire, però, ma per tornare e restare. L’emigrazione stagionale e periodica interessava infatti questa regione fin dalla seconda metà del Settecento: specialmente nelle comunità di montagna della Garfagnana le risorse agricole non erano sufficienti per la sopravvivenza, tantomeno durante l’inverno; di conseguenza, gli abitanti - perlopiù agricoltori o piccoli proprietari coltivatori - erano costretti ad allontanarsi da casa per svolgere lavori temporanei in zone di pianura più o meno limitrofe, ma anche fuori dall’Italia, come in Corsica e Francia (cfr. Dadà, 1993: 495; Boncompagni, 1998: 37). Per tutti gli emigranti l’obiettivo primario era comunque tornare in patria, per comprare un terreno con i soldi guadagnati o consolidare la proprietà già posseduta12 (cfr. Telleschi, 1992: 131, 133;

12

Questo comportò, al rientro, un incremento delle piccole proprietà coltivatrici e uno sviluppo della categoria dei piccoli coltivatori, soprattutto nei comuni montani delle province di Lucca e Massa-Carrara (cfr. TELLESCHI, 1992: 133).

Anno 1861 1871 1881 1901 1911 1921 1931 1951 1961

(27)

23

Dadà, 1993: 496); l’esperienza dell’emigrazione non era quindi percepita come una separazione dalla comunità d’origine, quanto piuttosto come un’occasione per migliorare la situazione della stessa (cfr. Boncompagni, 1998: 37).

Nondimeno, le dimensioni del fenomeno migratorio e le motivazioni della partenza variavano a seconda delle zone e di vari fattori, come la redditività dei terreni, l’economia locale o la tradizione migratoria del luogo (cfr. Dadà, 1993: 494). Nel complesso, comunque, la precarietà dell’economia agricola di montagna rappresentava la causa primaria del fenomeno migratorio toscano, soprattutto per le province di Lucca (specie in Garfagnana) e Massa-Carrara, dove le proprietà terriere erano solitamente piccole e frazionate, e la mezzadria non investiva nella trasformazione agraria attraverso la meccanizzazione o l’introduzione di nuove colture. Questi erano i principali motivi alla base della scelta di emigrare, ma ugualmente rilevanti e comuni a tutta l’Italia centrale appenninica erano l’alto tasso demografico, la forte pressione fiscale e l’analfabetismo (cfr. Telleschi, 1992: 128, 131; Rovai, 1998: 7; Dadà, 1993: 495). L’emigrazione stagionale rappresentava la soluzione ottimale in quanto permetteva di accumulare velocemente guadagni e assicurare così alla propria famiglia una stabilità economica, oltre al mantenimento delle piccole proprietà agricole (cfr. Boncompagni, 1998: 38; Dadà, 1993: 499).

A partire dalla fine dell’Ottocento i toscani cominciarono ad emigrare anche oltreoceano (prima verso il Sud America, poi l’America del Nord e solo più tardi verso l’Australia), ma lo stato d’animo con cui lasciavano la comunità d’origine era lo stesso che aveva caratterizzato l’emigrazione stagionale: emigrare per poi tornare e restare.

In definitiva, per ciò che concerne l’emigrazione, la Toscana «si caratterizza […] per una intensità del fenomeno non trascurabile, vicina alla media nazionale, ma soprattutto abbastanza costante nel tempo» (Dadà, 1993: 492), come si può notare nella Tabella 7.

Tabella 7. Numero di toscani e italiani emigrati dal 1876 al 1976 (Favero e Tassello, 1978) La punta massima dell’emigrazione dalla regione si ebbe dunque negli anni compresi tra il 1901 e il 1915, in linea con la tendenza migratoria nazionale: dei complessivi 8.769.680 espatriati italiani, 473.045 furono quelli provenienti dalla Toscana. Tra il 1916 e il 1942, il flusso migratorio toscano diminuì notevolmente, così come avvenne a livello nazionale. Tra il 1946 e 1961, invece, l’emigrazione dall’Italia raggiunse una consistenza notevole, mentre i flussi dalla Toscana diminuirono ulteriormente rispetto al periodo precedente. Infine, tra il

Anni 1876-1900 1901-1915 1916-1942 1946-1961 1962-1976

Emigrati dalla Toscana 290.111 473.045 258.906 129.787 42.846

(28)

24

1962 e il 1976, gli espatri dalla Toscana risultarono equiparabili a quelli del Paese, quindi in netta diminuzione rispetto ai periodi precedenti.

Il flusso migratorio toscano coinvolse principalmente gli abitanti delle aree appenniniche della provincia di Lucca e Massa-Carrara, in particolare nel territorio della Garfagnana e della Lunigiana, dove il fenomeno rimase ampio e costante nel tempo. Queste due aree geografiche rappresentarono a lungo il nucleo dei movimenti migratori toscani (cfr. De Ruggiero, 2008-2010: 4-5). Solo nel periodo compreso tra il 1876 e il 1925, gli emigrati di quest’area rappresentavano più della metà (il 52,3%) di tutti gli emigrati dalle altre province della regione, con una media annua di 6.444 espatri dalla provincia di Lucca e 3.115 dalla provincia di Massa-Carrara, su una media annua di 18.220 partenze dall’intera Toscana. La punta più alta dell’emigrazione dalla provincia di Lucca si verificò tra il 1901 e il 1914, quando la media annua di espatri era pari alle 8.908 unità, e lo stesso vale per la provincia di Massa-Carrara, che nello stesso periodo registrava una media di 4.579 espatri annuali (cfr. Telleschi, 1992: 129).

Durante la Prima guerra mondiale l’emigrazione toscana subì un forte rallentamento e durante il fascismo si interruppe quasi del tutto; si verificò una ripresa tra il 1919 e il 1923, ma successivamente i flussi diminuirono nuovamente fino al 1925 (cfr. Telleschi, 1992: 129; Rovai, 1998: 8).

Intorno alla metà degli anni Venti le partenze verso gli Stati Uniti diminuirono, per effetto delle nuove misure restrittive introdotte dal Paese e, di conseguenza, aumentò notevolmente l’emigrazione verso altre destinazioni transoceaniche, tra cui l’Australia, che nel periodo compreso tra il 1921 e il 1940 accettava tuttavia solo agricoltori con precisi requisiti e una certa disponibilità economica. Nonostante ciò, in questi anni l’emigrazione dalla Garfagnana corrispondeva ad oltre la metà di quella transoceanica (cfr. Farnocchia Petri, 1995: 51).

A partire dal secondo dopoguerra si verificò un progressivo spopolamento delle aree montuose, che molti toscani abbandonarono per stabilirsi definitivamente non solo in altre zone d’Italia e d’Europa, ma anche oltreoceano, come nel caso dell’Australia (cfr. Dadà, 1993: 497; Boncompagni, 1998). Proprio in questi anni si registrò un forte incremento dell’emigrazione toscana verso l’Australia, specialmente dalla provincia di Lucca, con la conseguente crescita delle comunità lucchesi di Melbourne, Perth, Sydney e Adelaide (cfr. Rovai, 1993: 124). Pertanto, anche se l’emigrazione verso l’Australia divenne un fenomeno in crescita già a partire dalla metà degli anni Venti, solo nei primi anni Cinquanta si rileva il maggior numero di emigrati toscani verso il Paese, in linea con l’emigrazione di massa che in quegli anni stava interessando tutta l’Italia, e non solo la Toscana (cfr. Boncompagni, 1998:

(29)

25

38). L’Australia incoraggiò infatti l’emigrazione italiana tramite gli accordi bilaterali (vedi § 3.1.2); pertanto, da questo periodo fino agli anni Settanta il Paese divenne una delle destinazioni preferite anche per gli emigranti toscani, soprattutto dalla Garfagnana (cfr. Farnocchia, 1995: 49).

Per quanto riguarda l’emigrazione dalla Garfagnana verso l’Australia, la Tabella 8 riporta i dati riguardanti gli anni compresi tra il 1921 e il 1970, con particolare riferimento all’emigrazione da Piazza al Serchio, paese d’origine dei due scriventi di cui si analizzeranno le lettere al capitolo 5.

Anni 1921-1930 1931-1940 1941-1950 1951-1960 1961-1970

Emigrati da Piazza al Serchio 1 56 4 22 11

Emigrati dalla Garfagnana 9 79 8 165 231

Tabella 8. Cancellati per emigrazione in Australia da Piazza al Serchio e dalla Garfagnana (Farnocchia Petri, 1995)

Tra il 1921 e il 1970 furono complessivamente 2.140 gli emigrati oltreoceano dalla Garfagnana; di questi, 492 si diressero verso l’Australia. Quelli che da Piazza al Serchio emigrarono in Australia furono 94 (cfr. Farnocchia Petri, 1995: 44). Nello specifico, il flusso di partenze da Piazza al Serchio verso l’Australia fu piuttosto ridotto negli anni compresi tra il 1921 e il 1930 (periodo in cui partirono i due scriventi delle lettere), con solamente 9 partenze da tutta la Garfagnana13, mentre incrementò sensibilmente tra il 1931 e il 1940, quando l’emigrazione da questo comune raggiunse la punta massima, con 56 partenze su un totale di 79 da tutta la Garfagnana; nel periodo compreso tra il 1941 e il 1950, invece, partirono per l’Australia solo in 4, su un totale di 8 partenze dalla Garfagnana. Tra il 1951 e il 1960 il 70 % dei flussi diretti verso l’Australia proviene dalla Garfagnana: furono 165 gli emigrati da questa zona, e di questi, 22 provenivano da Piazza al Serchio; infine, tra il 1961 e il 1970 partirono 11 emigranti, su un totale di 231 partenze dalla Garfagnana (cfr. Farnocchia Petri, 1995: 57-97).

I toscani che partirono per l’Australia dalla provincia di Lucca, e in particolare dalle aree appenniniche, furono spinti dagli stessi desideri dei corregionali, cioè accumulare

13

I dati sono stati elaborati da FARNOCCHIA PETRI (1995) sulla base delle cancellazioni per emigrazione dagli uffici anagrafici comunali della Garfagnana, tra cui compare anche quello di Piazza al Serchio, paese d’origine degli scriventi delle lettere analizzate al cap. 5. È possibile, tuttavia, che per qualche ragione le loro partenze non siano state registrate, perché i numeri riguardo al periodo in questione (1921-1930) riportano solo un caso di emigrazione da Piazza al Serchio.

(30)

26

velocemente guadagni e tornare al paese d’origine in una situazione economica consolidata. L’emigrazione verso l’Australia, così come verso altre destinazioni, era dunque strumentale al miglioramento della propria situazione economica; per questo sia il viaggio che l’insediamento erano considerati temporanei. Nonostante ciò, a partire dagli anni Cinquanta l’emigrazione toscana verso l’Australia divenne sempre più di tipo permanente e definitivo, anche se la volontà di ritorno persisteva. Di conseguenza, la tradizionale emigrazione periodica delle aree appenniniche andò esaurendosi in questi anni (cfr. Boncompagni, 1998: 37-39).

Per quanto riguarda la composizione dell’emigrazione toscana verso l’Australia, in particolare dalla provincia di Lucca, gli emigranti erano per la maggior parte uomini. Specialmente nel periodo compreso tra il 1919 e il 1940 il flusso maschile da questa provincia era il più alto tra tutte le province italiane coinvolte nel fenomeno dell’emigrazione (cfr. Macdonald, 1970). Negli anni Trenta, tuttavia, la componente migratoria lucchese verso l’Australia era costituita principalmente da donne e bambini. In questo periodo, infatti, il governo australiano introdusse alcune misure restrittive, che limitarono drasticamente i rientri dei lucchesi, costringendoli a farsi raggiungere in Australia dalle famiglie e interrompendo così l’abitudine dei rientri (cfr. Price, 1963). Nel dopoguerra, in particolar modo dagli anni Cinquanta, durante la grande emigrazione toscana verso l’Australia, i migranti erano di nuovo per la maggior parte uomini; alla fine degli anni Cinquanta, però, la componente tornò ad essere più equilibrata, in quanto donne e bambini raggiunsero gli uomini già insediatisi nel nuovo Paese (cfr. Boncompagni, 1998: 39).

Relativamente agli ambiti occupazionali, i lucchesi in Australia si impegnarono in una gamma ristretta di attività professionali e soprattutto in ambito agricolo, data l’origine contadina dei più. Nelle zone rurali molti agricoltori riuscirono a comprare terreni propri adatti alla coltivazione; nelle aree urbane, invece, gli emigrati toscani si dedicarono in gran parte alla gestione di piccole attività commerciali, come negozi e ristoranti. La scelta occupazionale degli emigrati lucchesi era quindi strettamente correlata alle qualifiche professionali acquisite in precedenza e, ancor più, alla cultura rurale che li caratterizzava (cfr. Boncompagni, 1998: 42).

Riferimenti

Documenti correlati

Pietro Giovannoli, Apocalisse e mistica dell’amore in un “dittico” di Eugenio Montale The paper investigates the theological implications of Sulla colonna più alta and Ver-.

Fu, infatti, grazie al loro inter- vento che potei accrescere la mia preparazione pedagogica e didattica sul sindacato intrapresa alla Scuola Cisl di via Gustavo Modena a Firenze ‒

The main results we have obtained are that the optimal number of parameters varies with scale and resolution and that the importance of each given landslide conditioning vari- able

[2006] Propedeutica alla simbolica politica I, Franco Angeli Editore, Milano.. [2010] Propedeutica alla simbolica politica II, Franco Angeli

Contour extractions of three teeth by processing the first slices: (a) original images; (b) contouring initializations; (c) initial definitions of contours for the level set

Giunta, Al capezzale del diritto penale moderno (e nella culla, ancora vuota, del suo erede), in «Criminalia», 2015, pagg. Insolera, Qualche riflessione e una domanda sulla

La vecchia e la nuova struttura economica della Cecoslovacchia, Padova 1938; Della ricostruzione e della stabilità dell’equilibrio economico inter- nazionale, in

mi inserisco rapidamente nella vostra corrispondenza, non tanto per cercare delle risposte immediate agli interrogativi che voi ponete (che mi sembrano così complessi da richiedere