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Caratterizzazione di materiali polimerici da riciclo

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Academic year: 2021

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POLITECNICO DI MILANO

Facoltà di Ingegneria

Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica "Giulio Natta"

CARATTERIZZAZIO E DI MATERIALI POLIMERICI

DA RICICLO

Relatore: Prof. Stefano TURRI

Tesi di laurea di:

Maurizio Guarino

matricola 750252

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- 2 -

I DICE

Capitolo 1: Introduzione pag. 3 1.1 nascita e diffusione della plastica pag. 3 1.2 strategie per la gestione del fine vita pag. 6 1.3 introduzione al PLASMIX pag. 10 1.4 stato dell’arte pag. 12 1.5 finalità del lavoro di tesi pag. 16

Capitolo 2: Tecniche di caratterizzazione pag.20 2.1: misure reologiche pag. 20 2.2: Calorimetria differenziale a scansione pag. 22 2.3 spettroscopia infrarossa a trasformata di fourier pag. 25 2.4 analisi al microscopio ottico pag. 26 2.5 prove meccaniche pag. 27

Capitolo 3 Presentazione dei materiali pag. 31 3.1 materiali pag. 31 3.2 stabilizzanti pag. 32 3.3 compatibilizzanti: tensioattivi all’interfaccia polimero/polimero pag. 34 3.4 cariche pag. 36

Capitolo 4: Risultati e discussioni pag. 39 4.1: analisi introduttiva pag. 39 4.2: analisi dei materiali pag. 44

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- 3 -

CAPITOLO 1

I TRODUZIO E

1.1

ascita e diffusione della plastica

La plastica ha indubbi benefici in termini di basso peso, durabilità e basso costo. La produzione mondiale di materiali polimerici a partire dalla metà del secolo scorso ha subito un incremento pressoché esponenziale fino al 2007 raggiungendo la quota di 250 milioni di tonnellate l’anno, con un calo del 10% nel biennio successivo ma con previsione di crescita nel 2015 fino al raggiungimento di 330 milioni di tonnellate l’anno.

0 50 100 150 200 250 300 350 Mton 1950 1976 1989 2002 2006 2007 2008 2009 2010 2015 anno

Produzione mondiale di polimeri

Figura 1: produzione mondiale di polimeri espressa in termini di milioni di tonnellate per anno.

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- 4 -

Le resine termoplastiche in particolar modo costituiscono circa i due terzi della produzione totale e il loro consumo sta aumentando del 5 % all’anno.

Ad oggi, le plastiche sono quasi completamente derivate da risorse petrolchimiche, prodotti da oli fossili e gas. Circa il 4 % della produzione del petrolio è convertita direttamente in plastica come materia prima di “feedstock”. Il processo produttivo dei manufatti polimerici richiede un contributo energetico che deriva anch’esso da prodotti petrolchimici: il consumo di combustibili fossili per il loro trattamento è stimato essere circa del 4 % della produzione totale del petrolio.

Ad ogni modo l’utilizzo di plastiche leggere ad alte prestazioni può ridurre il consumo di carburante nelle operazioni di trasporto, quando la plastica sostituisce materiali più pesanti, per esempio l’acciaio.

Approssimativamente il 50 % della plastica è destinata ad un utilizzo “usa e getta”; possibili esempi sono i materiali per imballaggio e per il packaging alimentare: il materiale svolge una funzione protettiva finché la confezione viene aperta, poi l’imballaggio diventa rifiuto.

Il 20-25 % della plastica prodotta è destinata ad impieghi a lungo termine, tra i quali troviamo tubi, coperture di cavi e materiali strutturali.

La restante parte di materiali è impiegata per un uso a medio termine, come per l’elettronica, per i veicoli e per attrezzature d’arredamento.

Un’indagine condotta dal “Waste Watch 2003” ha rilevato che, nel Regno Unito, la principale sorgente di rifiuto plastico derivi dal materiale per packaging, ma è evidente come stiano gradualmente prendendo rilievo altre fonti di rifiuto associate al settore dell’elettronica e dei veicoli.

Dal momento che la plastica è diventata un prodotto di massa solo da una sessantina di anni, e nonostante siano stati fatti numerosi studi in laboratorio in merito al suo degrado, non è ancora ben nota la sua longevità nell’ambiente. Solo una piccola parte della plastica è biodegradabile e anch’essa può sopravvivere per un tempo considerevole, in relazione alle condizioni ambientali a cui è esposta. Un ruolo importante è svolto dalle temperature, dalla intensità di radiazioni UV, dalla quantità di ossigeno e dall’umidità a cui è soggetta; le condizioni di degrado variano pure in relazione al fatto che il rifiuto sia sotterrato, che si trovi nell’entroterra o in zone marine. Anche quando un materiale si degrada in particolari condizioni ambientali favorevoli al degrado stesso, esso di solito si frammenta in piccole parti, ma il completo degrado del polimero può non avvenire necessariamente in un tempo utile. Così, una grande quantità di rifiuto plastico si accumula nel sottosuolo, inquinando l’ambiente.

Il continuo aumento di produzione e consumo dei materiali polimerici, unito al progressivo consumo delle risorse prime, mostra quanto sia importante sviluppare tecnologie di riciclo in

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- 5 -

un’ottica di ecologia industriale, prendendo spunto dagli ecosistemi naturali che non creano rifiuti ma solamente prodotti.

Le strategie da seguire per ridurre il consumo delle risorse prime e l’impatto ambientale sono diverse: riciclare, riutilizzare e riparare i manufatti sono senz’altro tecniche interessanti nella prospettiva di ridurre la quantità di materiali utilizzati e pure l’energia per produrli.

Seppure il riciclo sia considerato una pratica sostenibile, ad esso sono associati investimenti di tipo energetico, e anche dei relativi impatti ambientali; risulta così importante delineare uno schema di gestione integrato del rifiuto in modo tale da incentivare un uso più attento dell’energia e delle risorse. Gli schemi dell’LCA, “Life Cycle Assessment”, aiutano nella selezione e nell’applicazione delle tecniche, delle tecnologie e dei programmi di gestione più consoni all’applicazione richiesta per raggiungere gli scopi e gli obiettivi che ci si propone di assolvere. Il “Life Cycle Assessment” LCA è un approccio che considera l’intero ciclo di vita del materiale basandosi sul motto “ dalla culla alla tomba” (“from cradle to grave”)1. Questa analisi, per sua natura iterativa, permette di avere una visione d’insieme del processo produttivo, scomponendolo in una serie di unità produttive (partendo dall’estrazione delle materie prime, considerando le fasi di trasporto, di trasformazione, di gestione del fine vita) e considerando le emissioni e quindi gli effetti di ogni unità sull’ambiente.

Questo metodo, esposto anche nelle normative EN ISO 14040 ed EN ISO 14044, permette di ottimizzare il processo produttivo scegliendo le opzioni più adeguate e conferisce al manufatto un valore aggiunto in termini di eco-sostenibilità e di green marketing.

Il sistema di gestione integrato dei rifiuti si pone come obiettivo di trovare un giusto accordo tra la qualità del prodotto riciclato e la qualità richiesta per un suo possibile uso nel mercato, con il minimo impatto ambientale e con un’alta efficienza di riuso delle risorse attivando il potenziale della prevenzione del rifiuto, del ri- utilizzo e del riciclo.

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- 6 - Figura 2: fasi caratterizzanti uno studio LCA.

1.2

Strategie per la gestione del fine vita

Nonostante siano definite una serie di normative indicanti le linee guida per il riciclo, già tra i vari stati europei si osservano una serie di diversità nella gestione del fine vita dei rifiuti solidi urbani ( MSW, municipal solid waste): alcuni stati sono più orientati verso il landfilling (sotterramento), altri verso il recupero energetico. Anche la frazione riciclata può presentare performance molto differenti da Stato a Stato.

Si stima che la quantità di MSW media generata in Europa sia 520 Kg per persona all’anno e le proiezioni rilevano un aumento a 680 Kg per persona per l’anno 2020. In Gran Bretagna2, il consumo totale di plastica per uso domestico e commerciale è stimata dell’ordine dei 40 Kg per persona all’anno, il che rappresenta circa il 7-8% in peso ma una percentuale molto più alta in volume del MSW.

La questione ambientale, in un’ ottica molto generale, viene affrontata ispirandosi alla strategia delle 4R: riduzione, riuso, riciclo e recupero (energetico) considerando il landfill come la peggior strategia da seguire.

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Figura 3: opzioni caratterizzanti la strategia delle 4R. Come evidenziato dalla piramide capovolta, il valore della strategia aumenta passando dal “landfill” alla “reduction”

Per quel che riguarda il landfill, si può dire che era una pratica particolarmente utilizzata nel passato finché lo spazio disponibile per sotterrare si è ridotto sempre più e le risorse primarie hanno iniziato a scarseggiare. A questa strategia, sono associate una grande quantità di svantaggi, soprattutto dal punto di vista ambientale, con rischio di contaminazione a lungo termine del suolo e inquinamento delle falde acquifere.

Per ridurre il quantitativo di rifiuto plastico, si può pensare di agire riducendo la quantità di materiale utilizzato come è stato fatto, per esempio, da alcuni produttori di bottiglie d’acqua italiane, riducendo lo spessore delle pareti del contenitore, diminuendo così la quantità di materiale e di energia impiegata per la produzione e per il trasporto del contenitore.

Per ridurre il flusso di rifiuti, è importante progettare almeno una parte dei prodotti non con la funzione “ usa e getta “, ma pensati per essere riutilizzati o riparati.

Una volta che il materiale diventa rifiuto, il “riciclo” rappresenta la tecnica che permette di trasformare lo scarto in un bene con un valore economico.

Con il termine riciclo si indica un gruppo di operazioni che riguardano sia il riciclo vero e proprio, sia il recupero energetico.

Esso include quattro categorie:

1) riciclo primario, di tipo meccanico con cui si ottiene un prodotto con qualità equivalente al materiale di partenza;

2) il riciclo secondario, meccanico in cui il ri-processo porta ad un prodotto con qualità inferiori al materiale in ingresso;

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4) il riciclo quaternario con cui si sfrutta il potere calorifico del materiale per produrre energia tramite combustione, recuperando così almeno parzialmente l’energia di feedstock.

Figura 4: le quattro categorie di riciclo in base alle definizioni dell’ASTM, dell’ISO ed in termini equivalenti.

La combustione e il recupero dell’energia di feedstock riducono la quantità del rifiuto ma, oltre a non alleviare la questione del consumo delle risorse prime, possono dare luogo ad inquinamento ambientale. Fino a pochi anni fa, l’incenerimento rappresentava l’unica strategia percorribile quando si aveva a che fare con rifiuti derivanti da plastiche con composizioni molto varie e perciò difficilmente separabili.

Con il passare degli anni sono state elaborate e consolidate una serie di tecniche per riciclare i materiali polimerici tenendo in considerazione le diverse caratteristiche e composizioni dei materiali in ingresso. È molto più facile ed economico, per esempio, il riciclo di un prodotto rigido costituito da un solo polimero, rispetto a quando si ha un prodotto composto da più strati di materiali diversi.

Tra i vari metodi utilizzati, il riciclo meccanico è solitamente indicato per i materiali termoplastici, PET, PE e PP. Per i termoindurenti, tra cui le resine poliestere insature o epossidiche, questo tipo di riciclo non è indicato e questi materiali possono essere riutilizzati come filler o come polveri una volta ridotte le loro dimensioni.

In genere, la possibilità di utilizzare materiale riciclato in sostituzione del materiale vergine, dipende dalla purezza del materiale riciclato e dal grado di purezza richiesta per la produzione del nuovo materiale.

Le tecniche di riciclo elaborate negli anni mostrano ottimi risultati, in particolare quando si ha a che fare con materiali di riciclo selezionato, di cui si conosce l’origine e la composizione. È da ricordare tuttavia che non tutto il rifiuto è costituito da materiale di origine e composizione note e che perciò, una certa frazione di materiale presenterà caratteristiche sconosciute e la sua gestione sarà più complessa e problematica.

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- 9 -

A questo proposito è necessario introdurre il concetto di additivazione: un polimero diventa materiale industriale solo se formulato con particolari additivi; il processo di incorporazione degli additivi è definito Compounding ed è un processo fondamentale che sta alla base di tutti i processi di produzione della plastica.

Con il termine additivo si va ad indicare un componente ausiliario di un prodotto polimerico che viene aggiunto al materiale con lo scopo di modificare le sue proprietà, migliorare la sua processabilità e ridurne i costi 3.

Gli additivi sono quindi sostanze che permettono, per esempio, di migliorare le prestazioni meccaniche, di ritardare e ridurre il degrado del materiale

Tutte queste sostanze aggiunte, modificano ulteriormente la composizione del materiale, riducendone la purezza, aumentando le problematiche associate al riciclo e limitando la possibilità del materiale riciclato di rientrare nel processo produttivo.

Figura 5: diagramma mostrante i tipi di riciclo e prodotti ottenuti da essi.

A livello europeo, il primo stimolo significativo per favorire la gestione dei rifiuti, si è avuto con la promulgazione della direttiva della CEE 75/442 del 1975, che impose agli stati europei di promuovere la riduzione dei rifiuti, il recupero e il riuso e, con l’articolo 7 della stessa direttiva, la

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“razionalizzazione della raccolta, della cernita e del trattamento”. In attuazione a tale direttiva fu emanato il DPR 915 del 1982 che stabiliva obblighi relativi al riciclo, al riuso e al recupero.

I primi esempi di raccolta differenziata sul suolo italiano si hanno in Friuli, nel periodo successivo all’88, anno in cui la legge 475 istituì una serie di consorzi obbligatori per il riciclo e imponendo esplicitamente la raccolta dei rifiuti solidi urbani. L’esempio del Friuli fu seguito con un certo ritardo dalle altre regioni italiane. Nel 2009 è stato imposto a tutti i comuni italiani di raccogliere in maniera differenziata almeno il 35% dei rifiuti, con l’obbligo di raggiungere il 65% entro il 2012.

1.3

Introduzione al PLASMIX

Il processo di raccolta differenziata, permette di separare una grande quantità di plastica dai comuni scarti organici e di suddividerla nelle varie tipologie omogenee, come ad esempio il PET, il PE e così via. Tali famiglie omogenee di plastiche termoplastiche sono reinserite nel ciclo produttivo, trovando impiego in diversi settori industriali.

Esistono tuttavia alcune frazioni non omogenee di plastiche miste denominate PLASMIX che consistono in una massa variegata di polimeri diversi utilizzati nell’imballaggio e nel confezionamento. La separazione dei materiali, costituenti il PLASMIX, è generalmente difficile ed economicamente non vantaggiosa.

Negli ultimi anni, con l’ausilio dei processi di riselezione, è stato possibile valorizzare in parte il PLASMIX, che può essere catalogato in due gruppi:

1) Famiglia A: frazioni valorizzabili attraverso il riciclo meccanico, costituite dal cosiddetto MPO (Misto Poliolefine) e MPET (Misto PET).

2) Famiglia B: ciò che rimane dopo tale riselezione e che risulta antieconomico sottoporre ad ulteriore riselezione. Si tratta di fatto di un sottoprodotto di plastiche eterogenee costituito da vari tipi di materiali plastici in cui una parte preminente è costituita da PP, HDPE, PS ed LDPE per finire poi con parti minime di PET, PVC ed infine con piccolissime percentuali di materiali non termoplastici come carta, stagnola, alluminio ecc. Circa 200 ktons/anno di queste plastiche eterogenee vengono avviate al recupero energetico

La tecnologia di estrusione più comunemente disponibile e basata su estrusori “contro-rotanti”, consente di intervenire sulla Famiglia A, dove esistono proposte produttive che stanno già trovando impiego in alcuni settori applicativi. Invece, per quanto riguarda la famiglia B, le scarse

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qualità funzionali e i limiti estetici dei manufatti, limitano fortemente una loro incisiva penetrazione nei vari settori di applicazione non favorendo il loro sviluppo e diffusione nel mercato.

L’ obiettivo di questo studio riguarda la possibilità di sviluppare una piattaforma tecnologica di nuova generazione, economica e flessibile, in grado di riciclare la Famiglia B, incrementandone il livello estetico, prestazionale, allungando in questo modo il ciclo di vita di materiali destinati a discarica o inceneritore.

Quel che di nuovo presenta la ricerca, rispetto al mercato di riferimento, consiste nel trasferimento al settore delle plastiche di scarto “più difficili” (quelle eterogenee appunto), della tecnologia di estrusione “corotante”, già utilizzata per l’ottenimento di plastiche super -performanti, altamente efficiente dal punto di vista energetico e finalizzata all’eco progettazione di manufatti. Tramite l’utilizzo di questa tecnologia si potranno aprire importanti opportunità di mercato

I prodotti ottenibili partendo dal PLASMIX con queste tecniche di estrusione possono trovare spazio in diversi settori, in cui non siano richieste prestazioni meccaniche straordinarie. Nel campo dell’edilizia, per esempio, possono essere impiegati come piani di contenimento di piccole e medie colate di cemento armato, come telai per stipiti di porte o finestre e arredo interno permanente ( per esempio come pavimentazioni). Possono trovare spazio per la produzione di panchine, fioriere, attrezzature per parco giochi per quel che riguarda l’arredo urbano, oppure possono essere utilizzate in agricoltura e allevamento come pali di sostegno per filari o altre colture e come staccionate di recinzione. Nel settore della viabilità stradale un loro utilizzo potrebbe essere quello di cordoli, guard rail e separatori di corsia, per quel che riguarda il settore dell’imballaggio come piani di appoggio per pallets, separatori interfalde, cassette di contenimento e così via.

Gli aspetti positivi e innovativi sono molteplici e si possono così riassumere:

1) Allargamento della popolazione delle plastiche riciclabili anche a quelle frazioni di PLASMIX oggi non valorizzabili attraverso riciclo meccanico.

2) Miglioramento significativo delle qualità estetiche e funzionali di quei manufatti già prodotti con plastiche di scarto;

3) Riduzione significative del consumo energetico per unità di prodotto ottenibile, grazie all’uso della tecnologia “co-rotante” che permette di unificare in un unico processo di estrusione le fasi di granulazione ed estrusione dei manufatti;

4) Diminuzione delle emissioni di CO2 per unità di prodotto grazie al risparmio energetico introdotto dalla nuova tecnologia di trasformazione;

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Nel 2008, solo 46 tons di plastiche eterogenee della famiglia A (su un totale di circa 400) sono state avviate al riciclo meccanico e quindi ri-estruse.

Lo stato dell’arte, mostra però una serie di difficoltà che caratterizzano la tecnologia attuale basata su estrusori “contro-rotanti” che riguardano diverse aree.

Innanzitutto vi è una incapacità di estrudere la Famiglia B di materiali a causa dei limiti di miscelazione, indispensabile invece quando si ha a che fare con materiali “difficili” da amalgamare che richiedono cioè, sia il così detto mixing distributivo che dispersivo.

Si rileva una scarsa qualità estetica dei manufatti ottenibili, dovuta principalmente alle basse capacità di omogeneizzazione della tecnologia di estrusione utilizzata. Tale limite crea un vincolo fortissimo all’eco progettazione e alla crescita del tasso di adozione di possibili manufatti realizzati con plastiche da riciclo.

Si osserva inoltre, l’impossibilità di ottenere materiali compositi a morfolgia complessa e quindi di gestire formulazioni a più componenti che prevedano l’inserimento di ulteriori elementi come cariche minerali, fibre naturali. Queste cariche sarebbero in grado di migliorare, oltre alle caratteristiche meccaniche, anche quelle estetiche e funzionali dei manufatti. Per ottenere tali compositi si dovrebbe infatti prevedere un ulteriore passaggio di trasformazione, denominato granulazione, con un indubbio aggravio in termini di investimento e consumi energetici.

1.4

Stato dell’arte

Entrando nel merito dello studio, si rileva che le principali sfide da superare, associate al plasmix, sono di natura chimica e di natura tecnologica. Da un punto di vista chimico si osserva come tale materiale sia altamente eterogeneo, questo condiziona significativamente le sue proprietà meccaniche. Per questo motivo sarà necessario un primo studio per determinare quali siano gli additivi che potranno essere utilizzati per migliorare la compatibilità tra i vari costituenti.

Gli additivi per assolvere questa funzione sono detti compatibilizzanti e sono in grado di massimizzare le proprietà d’interfaccia tra le fasi.

La ricerca delle migliori formulazioni sarà quindi incentrata anche su altri componenti aggiuntivi primo tra tutti gli stabilizzanti così da migliorare la resistenza del materiale all’azione combinata dell’ossigeno e delle alte temperature, solitamente usati per consentire una corretta riestrusione delle plastiche ed una accettabile durabilità alle condizioni ambientali del manufatto finito.

Verranno pure considerati degli additivi rinforzanti allo scopo di aumentare la resistenza meccanica del materiale, conferendogli una maggiore durezza, stabilità dimensionale e proprietà antifiamma.

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Queste stesse problematiche associate al degrado e alla stabilità delle poliolefine derivanti dal flusso di rifiuto sono state affrontate dal gruppo di ricerca brasiliano sotto la supervisione del professor Santos4; il gruppo si è occupato di determinare la gestione del fine vita di componenti associati alle bottiglie e ai contenitori di liquidi. La loro ricerca si è concentrata in particolare sul riciclo di LDPE e PP presenti nelle etichette e di HDPE e PP presenti nei tappi. Esclusa la presenza di PET, essi ritengono che il componente principale del blend sia l’HDPE. Nonostante l’ LDPE ed il PP siano costituenti minoritari del blend, è importante considerare come la loro presenza sia in grado di influenzare significativamente le caratteristiche della miscela, dal momento che mostrano minore stabilità all’ossidazione rispetto all’HDPE. La bassa concentrazione nel blend di LDPE e di PP non altera in modo significativo il comportamento reologico del sistema HDPE:PP.

Le poliolefine possono presentare degrado termo – meccanico e termo – ossidativo durante tempi di riprocesso anche brevi. In entrambi i casi, il degrado comporta l’innesco di reazioni formanti radicali liberi che possono reagire con l’ossigeno o sottostare a reazioni che danno luogo a crosslinking e ramificazione o a scissione di catena. In relazione alle composizioni o alle condizioni di temperatura ed ossidative, il crosslinking o la scissione di catena prevale. È noto per esempio che la presenza di cromo come catalizzatore dell’HDPE dia comunemente reticolazione mentre il PP e l’LDPE di solito sottostanno a reazioni che danno scissione di catena. La presenza di gruppi vinilici è molto importante per l’HDPE in quanto dà luogo a radicali che ricombinano senza scissione di catena.

Noti i meccanismi di degrado, il gruppo di ricerca coordinato dal professor Santos ha deciso di impiegare antiossidanti primari e secondari al fine di deattivare i radicali perossidi e decomporre l’idroperossido formato. Gli antiossidanti primari e secondari sono comunemente usati accoppiati in modo tale da produrre un effetto sinergico. Loutcheva in un suo articolo5 ha mostrato come le bottiglie di HDPE processate nuovamente per brevi tempi di residenza e per pochi cicli, non mostrano degrado significativo anche senza additivi aggiunti e, come confrontando HDPE vergine e HDPE di recupero, il primo dei due presenta un tasso di degrado molto maggiore rispetto al secondo. Ciò è dovuto al fatto che il materiale di recupero, durante il suo primo processo è stato additivato e che gli antiossidanti sono in grado di svolgere nuovamente una azione stabilizzante. Nel caso studiato dal gruppo brasiliano del professor Santos tuttavia è stata mostrata la necessità dell’antiossidante quando l’intenzione è quella di produrre col riciclo un materiale in grado di svolgere funzioni simili a quelle originarie.

Lo stesso gruppo di ricerca osserva come le proprietà reologiche non cambiano anche in seguito ai diversi step di processo. La stabilità ossidativa aumenta all’aumentare del numero di step di estrusione: ciò è analizzato come probabilmente dovuto ad una probabile riduzione di HDPE

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insaturo a seguito di reticolazione e nel caso di campioni riprocessati a temperature superiori ai 250°C, ad una riduzione di idroperossidi dovuto alla loro bassa stabilità a temperature maggiori di 210°C. Epacher6 osserva inoltre come la stabilità termica raggiunga un minimo dopo il primo step di estrusione quando l’antiossidante è aumentato in concentrazione, rafforzando ulteriormente la teoria di proposta dal gruppo di ricerca.

Il degrado risulta significativo solo durante il ciclo di estrusione a temperature elevate, ed è associato alla scissione di catena dell’HDPE in presenza di ossigeno. Lo stabilizzante proposto da questo studio, per assolvere la funzione antiossidativa, è stato l’ IRGANOX B 215 che, aggiunto in piccole quantità attorno allo 0,1%, risulta un buon inibitore.

Il gruppo di ricerca del professore Dinticheva7 dopo aver considerato il degrado presente nei materiali derivanti dal fine vita e quello associato alle diverse fasi di riprocesso, ha proposto uno studio su diversi additivi, al fine di valutare la loro efficacia come antiossidanti, fillers inerti e agenti modificatori di fase, sia per quel che riguarda la modifica delle proprietà meccaniche, sia per quanto concerne la processabilità del materiale. Il materiale derivante dal flusso del rifiuto è stato identificato tramite DSC come una miscela di LDPE e di LLDPE e di altri costituenti più alto fondenti presenti in concentrazioni trascurabili.

Le proprietà di una miscela polimerica dipendono fortemente dalla morfologia che può essere studiata tramite prove reologiche. È da sottolineare l’importanza che rivestono le temperature e i differenti impianti di produzione in quanto le caratteristiche meccaniche e morfologiche di un manufatto dipendono fortemente da questi fattori. Il gruppo di ricerca del professor Dinticheva ha effettuato diverse prove con differenti impianti di estrusori: miscelatore chiuso, estrusore a singola vite e estrusore a doppia vite, rilevando come le proprietà meccaniche siano simili per i diversi impianti. Tuttavia essi osservano un miglioramento per i valori di allungamento a rottura per i campioni processati in estrusore. Le variazioni osservate con diverse temperature, sono associate al degrado termo-meccanico dovuto alle alte temperature. L’alto tempo di residenza nel mixer (che risulta maggiore rispetto a quello dell’estrusore), osservabile dalle curve di flusso, rivela un degrado maggiore associabile allo stress meccanico.

Il gruppo di ricerca del professor Dinticheva ha proposto l’impiego dell’IRGAFOS 168 come antiossidante, mostrando come questo additivo sia responsabile non solo dell’aumento di resistenza all’ossidazione ma, in combinazione con riempitivi inerti (CaCO3), anche di un miglioramento delle

prestazioni meccaniche, in particolare dell’allungamento a rottura.

Un gruppo di ricerca della Repubblica Ceca 8 sotto la supervisione del professor Luzuriaga ha cercato di risolvere i problemi associati alla riestrusione di materiali giunti al fine vita presentanti proprietà meccaniche e stabilità non buone. Secondo le loro osservazioni, il miglioramento delle

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proprietà meccaniche è strettamente connesso ai problemi di incompatibilità dei polimeri costituenti il blend. Essi infatti presentano alta tensione interfacciale e strutture di fase grossolane. La compatibilizzazione di questi polimeri, è complicata, dal momento che deve essere effettuata una compatibilizzazione simultanea di polimeri diversamente danneggiati. Nel lavoro svolto dal gruppo Ceco è stata esclusa la presenza di PET. I risultati ottenuti utilizzando EPR/SB o Dusantox, mostrano come la resistenza ad impatto del materiale sia aumentata per la miscela invecchiata rispetto alla miscela di uguale composizione ma fatta con materiali vergini, nonostante sia stato aggiunto in entrambi i casi lo stesso compatibilizzante. La spiegazione di ciò è da ricercarsi in termini di reazioni verificatesi durante l’invecchiamento che ha dato luogo a reticolazione.

Le conclusioni tratte dal gruppo di ricerca indicano come l’aggiunta al rifiuto solido urbano di un sistema di compatibilizzanti con azione cooperativa dia luogo a pezzi riciclati con resistenze ad impatto sufficientemente alte da svolgere una grande quantità di impieghi. La tenacità dei manufatti risulta invece modesta.

Una grande quantità di studi si sono concentrati sulla possibilità di utilizzare il materiale derivante dal flusso di rifiuto per impieghi come materiale rinforzante in compositi 9. Il possibile impiego di materiale polimerico come sostitutivo di fibre di vetro mostra elevate potenzialità associate soprattutto alla migliore compatibilità potenziale tra interfacce polimero-polimero rispetto a quelle polimero-fibra di vetro.

Il possibile impiego di fibre per il rinforzo di materiali derivanti dal flusso di rifiuto, è stato analizzato principalmente da un gruppo di studio ungherese sotto la supervisione della professoressa Katalin Bocza,10 che ha concentrato la sua attenzione su un mix di poliolefine derivanti da componenti di auto, dispositivi elettronici ed elettrici e materiale da imballaggio. Fibre prodotte con materiale derivante dal riciclo, presenteranno caratteristiche meccaniche inferiori rispetto a quelle di vetro ma contemporaneamente una compatibilità aumentata dall’omogeneità delle interfacce fibra-polimero. Quando si utilizzano fibre di rinforzo prodotte con lo stesso materiale della matrice, si parla di “self reinforcement”. Entrambe le tipologie di rinforzo mostrano significativi incrementi nella resistenza a rottura. Nonostante le fibre di vetro permettano un più incisivo miglioramento delle caratteristiche meccaniche, le fibre “self reinforcement” si presentano come un valida soluzione al rinforzo di materiali per impieghi in cui sono richieste basse prestazioni meccaniche in quanto si presentano in linea con lo spirito della questione ambientale.

La questione associata alla compatibilizzazione del blend polimerico, è stata al centro degli studi di diversi gruppi di ricerca, dal momento che essa è la principale responsabile delle modeste prestazioni di un materiale eterogeneo. Il processo di compatibilizzazione viene solitamente migliorato mediante l’uso di monomeri reattivi multifunzionali in grado di reagire con i frammenti

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macroradicali prodotti dal degrado meccanico del polimero. Si fa spesso ricorso a copolimeri a blocco del tipo stirene/butadiene che, agendo da tensioattivi, favoriscono la compatibilità promuovendo l’interazione interfacciale tra le diverse fasi.

L’impiego del tensioattivo SB/EPR ha mostrato buone capacità compatibilizzanti e la sua aggiunta in materiali derivanti da azioni di riciclo, ha mostrato prestazioni meccaniche idonee ad impieghi a bassa- media resistenza meccanica.11

Un gruppo di ricerca dell’università di Praga sotto la guida della professoressa Viera Khunova’12 ha condotto studi in merito al riciclo meccanico di sacchetti di plastica e di materiale per imballaggio destinato comunemente dopo riciclo ad impieghi molto modesti. L’obiettivo dello studio riguarda la possibilità di aggiungere additivi al materiale di partenza, in modo tale da renderlo adatto a svolgere impieghi più importanti. Le principali problematiche dal punto di vista meccanico che sono state osservate in questi materiali sono associate alla bassa elongazione a rottura dei materiali ed al loro comportamento prettamente fragile. Ciò è dovuto alla elevata incompatibilità tra LDPE e PP, presenti nei materiali che si mostrano come due fasi separate. La compatibilizzazione del blend dà luogo ad una serie di miglioramenti dal punto di vista meccanico specialmente con l’aggiunta del BMI (1,3-phenylenedimaleimide). Esso risulta un modificatore interfacciale a due anelli: il primo anello si ancora alla superficie acida-basica del filler; il secondo anello si apre e forma una interazione funzionale (amide carboxylate) con la maggior parte dei fillers. Il rifiuto misto compatibilizzato con BMI presenta resistenza tensile paragonabile a quella del PP puro.

1.5

Finalità del lavoro di tesi

Per quanto è stato detto finora, si comprende come la composizione del materiale derivante dal riciclo sia strettamente dipendente dal modo in cui viene gestita la raccolta differenziata e abbia così un carattere fortemente locale.

Per questo motivo, il primo passo di questo studio sarà concentrato sull’analisi del materiale al fine di determinare quali siano i suoi componenti. Una volta noti i costituenti del PLASMIX, l’attenzione sarà rivolta alla scelta degli additivi più adatti agli scopi preposti. Saranno considerati additivi in grado di migliorare la compatibilità interfacciale, limitare il degrado che si può avere in fase di produzione e incrementare le proprietà meccaniche del materiale. Sarà richiesto l’impiego di additivi commerciali, poco costosi e far si che il processo di lavorazione sia il più semplice

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possibile. La scelta di additivi efficienti ed economici è in linea con lo spirito del progetto, sempre attento alla realizzazione di un prodotto competitivo nel mercato.

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1

“Analisi del ciclo di vita LCA”

Gian Luca Baldo, Massimo Marino, Stefano Rossi, Edizioni Ambiente, 2008

2

“Plastics recycling: challenges and opportunities”

Jefferson Hopewell 1 , Robert Dvorak 2 and Edward Kosior 2,

1) Eco Products Agency, 166 Park Street, Fitzroy :orth 3068, Australia

2) :extek Ltd, Level 3, 1 Quality Court, Chancery Lane, London WC2A 1HR, UK Phil. Trans. R. Soc. B (2009) 364, 2115–2126

3

i) “Additivi per Polimeri”,

AAVV, Pacini Editore, Pisa 2000 ii) “Plastics Additives Handbook”, H. Zweifel, Hanser, Munich 2001

4

“Degradation and stabilization of polyolefins from municipal plastic waste during multiple extrusions under

difffffffferent reprocessing conditions”

A.S.F. Santos, J.A.M. Agnelli, D.W. Trevisan, S. Manrich*

Department of Materials Engineering/DEMa, Federal University of Sa˜o Carlos/UFSCar Rod. Washington Luiz, km 235, CEP 13565-905, Sa˜o Carlos, SP, Brazil

Polymer Degradation and Stability 77 (2002) 441–447

5

“Recycling of high density polyethylene containers”.

Loultcheva MK, Proietto M, Jilov :, La Mantia FP. Polymer Degradationand Stability 1997;57:77.

6

“Two-step degradation of high-density polyethylene during multiple extrusion”

Epacher E, Tolve´th J, Stoll K, Puka´nszky B. Journal of Applied Polymer Science 1999;74:1596.

7

“Recycling of plastics from packaging”

:. Tzankova Dintcheva,” :. Jilov’ & F. P. La Mantia”

Dipartimento di Ingegneria Chimica dei Processi e dei Materiali, Universitd di Palermo, Viale delle Scienze, 90128 Palermo, Italy

Faculty of Physics, University of Plovdiv, Tzar Assen Str. 24, 4000 Plovdiv, Bulgaria Polymer Degrudatron and Stuhilriy 57 (1997) 191-203

8

“Stability of model recycled mixed plastic waste compatibilised with a cooperative compatibilisation system”

S.E. Luzuriagaa, J. Ková rová b, *, I. Fortelnýb

a)Department of Macromolecular Chemistry, Faculty of :atural Sciences, Masaryk University, Kotlá rská 2, CZ 611  37 Brno, Czech Republic

b) Institute of Macromolecular Chemistry, Academy of Sciences of the Czech Republic, Heyrovsky Sq. 2, 162 06 Prague 6, Czech Republic

Polymer Degradation and Stability 96 (2011) 751 e 755

9

i) “Prototypes for building applications based on thermoplastic composites containing mixed waste plastics”

M.Xanthos, S.K.Dey, S. Mitra, U. yilmazer, and C.Feng

Department of Chemical Engineering, Chemistry and Environmental Science. Multi-Ziiecgcle Engineering Research Center and Polymer Processing Institute

:ew Jersey Institute of Technology :ewark, :J 071 02

POLYMER COMPOSITES, APRIL 2002, Vol. 23, :o. 2

ii) “A review of flame retardant polypropylene fibres”

Sheng Zhang*, A. Richard Horrocks

Centre for Materials Research and Innovation (CMRI), Bolton Institute, Bolton BL3 5AB, UK Prog. Polym. Sci. 28 (2003) 1517–1538

(19)

- 19 -

10

“Development of flame retarded self-reinforced composites from automotive shredder plastic waste”

Katalin Bocza, *, Andrea Toldya,b, Ákos Kmettyb, Tamás Bárányb, Tamás Igricza, György Marosia

a) Budapest University of Technology and Economics, Faculty of Chemical and Bioengineering, Department of Organic Chemistry and Technology, H-1111 Budapest, Muegyetem rkp. 3, Hungary

b) Budapest University of Technology and Economics, Faculty of Mechanical Engineering, Department of Polymer Engineering, H-1111 Budapest, Muegyetem rkp. 3, Hungary

Polymer Degradation and Stability 97 (2012) 221e227

11

“Stability of model recycled mixed plastic waste compatibilised

with a cooperative compatibilisation system” S.E. Luzuriagaa, J. Ková rová b, *, I. Fortelnýb



Department of Macromolecular Chemistry, Faculty of :atural Sciences, Masaryk University, Kotlá rská 2, CZ 611 37 Brno, Czech Republic

Polymer Degradation and Stability 97 (2012) 221e227

12

“Elimination of Separation Processes for Post-Consumer Polyolefin Waste: Reactive Blending Using 1,3-Phenylene Dimaleimide in Presence of Filler”

Consumer Polyolefin Waste: Reactive Blending Using 1,3-Phenylene Dimaleimide in Presenceof Filler Viera Khunova´,* Christopher M. Liauw, Ivan Kelnar, Marian Snauko

(20)

20

CAPITOLO 2

TEC ICHE DI CARATTERIZZAZIO E

Diverse tecniche di analisi sono state utilizzate per lo studio del PLASMIX. Sono state effettuate misure reologiche, analisi DSC, spettroscopia infrarossa a trasformata di Fourier, microscopia ottica e prove di trazione

2.1

Misure reologiche

L’andamento della viscosità di un materiale polimerico, in funzione della velocità di deformazione, differisce notevolmente da quello di un fluido newtoniano. Per tale fluido, tipicamente, la viscosità è indipendente dalla velocità di deformazione. In un fluido polimerico, invece, la viscosità presenta, dopo una zona a basse velocità di deformazione in cui la viscosità resta costante, una diminuzione con l’aumentare della velocità di deformazione. Questo effetto è definito

shear thinning. L’effetto della temperatura ricalca in parte quanto osservabile per il fluido

newtoniano. Si ha infatti una diminuzione della viscosità all’aumentare della temperatura1.

Le misure reologiche possono essere effettuate anche in modo dinamico, cioè sottoponendo il materiale a sollecitazione sinusoidale, permettendo di ricavare la viscosità complessa oltre ai moduli G’ e G’’, che definiscono la risposta elastica e viscosa del polimero. Le basi dello studio delle proprietà viscoelastiche di un materiale polimerico allo stato fuso vengono effettuate misurando la risposta ad una sollecitazione imposta.

L’andamento dei valori dei moduli G’ e G” in funzione della temperatura o della frequenza, osservabili per i fusi polimerici, può essere spiegato andando ad analizzare la struttura del fuso stesso. Le catene sono ostacolate nei movimenti dalla presenza degli entanglements, quindi possono muoversi solo con un lento processo diffusivo lungo il proprio asse di catena. A basse temperature, rimanendo comunque in un range che permette lo scorrimento fluido del polimero, le macromolecole non hanno il tempo di districarsi e quindi prevale la componente elastica del modulo. In modo opposto, ad alte temperature, la componente del modulo che domina risulta essere quella viscosa. Un ulteriore parametro ottenibile dalle curve è la temperatura di crossover , che risulta essere quella per cui il modulo G’ diventa uguale a G”, e quindi per temperature inferiori a

(21)

21

tale valore si osserva un comportamento elastico, mentre per temperature superiori una risposta di tipo viscoso.

Le prove reologiche sono state effettuate con lo strumento “RHEOMETRICS: DYNAMIC STRESS RHEOMETER DSR 200”. Le prove sono state condotte in controllo di sforzo alla temperatura di 240°C. La geometria utilizzata è del tipo piatto – piatto; il diametro del provino è pari a 25 mm.

I campioni sono stati preparati rispettando le seguenti procedure. Il materiale di partenza è stato finemente sminuzzato e inserito tra due piatti di teflon in modo tale da ricoprire completamente la zona centrale dei piatti, un’area di circa 10 cm2. I piatti sono poi stati inseriti in una stufa a vuoto preriscaldata a circa 200°C così da eliminare l’effetto degradativo dell’ossigeno. Sul piatto superiore è stata esercitata una sollecitazione meccanica di circa 20 N in modo da ridurre la distanza tra i piatti e compattare il materiale in un film di dimensioni superiori al mm. Applicato il vuoto il campione è rimasto in stufa per circa 40 minuti. Una volta raffreddato, il campione è stato sagomato in modo tale da ottenere provini di forma circolare con diametro pari a 25mm.

Figura 6: strumento “RHEOMETRICS: DY:AMIC STRESS RHEOMETER DSC 200” utilizzato per le prove reologiche dei campioni.

(22)

22

2.2

Calorimetria differenziale a scansione

Tra le analisi termiche disponibili, la più utilizzata nello studio dei materiali polimerici è la calorimetria differenziale a scansione (DSC).

La calorimetria differenziale a scansione (DSC) studia, tramite un calorimetro, la variazione del flusso termico al variare della temperatura del sistema e quindi, il valore proporzionale del calore specifico (cp). Il calore specifico a pressione costante (cp) è una grandezza derivata dalla grandezza

primaria entalpia, H. p p T H c       =

δ

δ

La prova viene effettuata inserendo una piccola quantità del materiale (circa 20 mg) da analizzare in una capsula di alluminio. Il test studia il comportamento del materiale al variare della temperatura del sistema. Per avere un risultato significativo ed utilizzabile, questo comportamento viene confrontato con quello di un campione di riferimento, rappresentato da una capsula in alluminio vuota. La strumentazione permette di misurare la variazione di flusso termico necessario per mantenere in ogni istante la stessa temperatura nella capsula contenente il materiale da analizzare e in quella di riferimento. Si andrà in sostanza a misurare la variazione del calore specifico del campione al variare della temperatura.

(23)

23 Figura 7: grafico calorimetrico completo, del campione LAS 16.

Le transizioni del cp che si vanno a studiare danno utili informazioni sulle temperature

caratteristiche di un materiale, associate alla fusione, alla cristallizzazione ed alla transizione vetrosa. La transizione vetrosa presenta una discontinuità nelle proprietà derivate, tra le quali vi è il

cp. Dato che tale variazione dipende necessariamente, data la sua natura cinetica, dalla velocità di

variazione della temperatura, si assume come valore della Tg il punto di flesso del tracciato in uscita

dal calorimetro differenziale. L’analisi calorimetrica consente inoltre di valutare gli effetti termici relativi ai processi di fusione e cristallizzazione. Osservando un tipico grafico della DSC, si nota che l’area del picco endotermico di fusione di un polimero semicristallino, corrisponde al valore di variazione dell’entalpia di fusione ∆Hf. La DSC non è in grado di individuare sensibilmente

transizioni al di sotto della temperatura di transizione vetrosa.

Nell’ottica della compatibilizzazione del plasmix, la tecnica DSC risulta particolarmente utile per capire quali siano i materiali effettivamente presenti nei diversi campioni; la conoscenza delle temperature di fusione e di transizione vetrosa dei più comuni polimeri ha permesso di assegnare uno specifico polimero ad ogni transizione osservata nei nostri campioni.2

(24)

24

Le analisi calorimetriche di scansione differenziale, sono state eseguite con lo strumento : “METTLER TOLEDO DSC 823”.

Figura 8. In alto: strumento “METTLER TOLEDO DSC 823” utilizzato per l’analisi calorimetrica. Sotto: capsula di alluminio costituita da: crogiolo ( a sinistra) e coperchio ( a destra); utilizzate per l’analisi; al suo’interno viene inserito il materiale da analizzare per lo studio calorimetrico.

Le prove sono state fatte con velocità di variazione di temperatura di 20°C al minuto. Tre sono le fasi che compongono ogni singola prova: dapprima un innalzamento della temperatura da 25°C a 240°C; in seconda scansione una riduzione da 240°C a 25°C. Per ultimo, il campione è stato nuovamente sottoposto ad un aumento di temperatura da 25°C a 280°C fino a iniziare il degrado del materiale.

(25)

25

2.3

Spettroscopia Infrarossa a trasformata di fourier

Figura 9: strumento “:icolet :exus”, utilizzato per condurre l’analisi di spettroscopio infrarossa.

L’ATR è una tecnica spettroscopica di campionamento utilizzata in combinazione con la spettroscopia a infrarossi che consente di esaminare campioni direttamente allo stato solido, liquido o gassoso senza ulteriore preparazione. L’ATR utilizza la proprietà di riflessione interna totale e in particolare del fenomeno di onda evanescente. Questo effetto evanescente funziona al meglio se il cristallo è fatto di un materiale ottico con un indice di rifrazione più alto rispetto al campione oggetto di studio. Nel caso di un campione solido, è importante che il materiale sia a contatto diretto con il cristallo. Molti materiali in particolare macromolecolari (gomme, fibre, tessuti, rivestimenti, laminati, ecc), che spesso non riescono a produrre spettri di trasmissione utile, sono diventati accessibili all’analisi infrarossa tramite ATR. 3

Le prove sono state condotte con lo strumento “Nicolet Nexus”, con un numero di scansioni pari a 64 e risoluzione pari a 2 cm-1. L’intervallo di analisi spettrale racchiude i numeri d’onda compresi tra i 4000 e i 600 cm-1. Per l’analisi degli spettri è stato utilizzato il programma Omnic E.S.P. 5.2 a.

(26)

26

2.4

Analisi al microscopio ottico

Il microscopio ottico in riflessione è un valido strumento per caratterizzare la superficie di un materiale polimerico opaco. L’analisi al microscopio ottico è stata condotta per determinare le dimensioni delle difettosità presenti sulla superficie del materiale. I difetti superficiali osservabili sono principalmente cavità o frazioni di materiali estranei e non fuse. In alcuni casi le difettosità sono ben visibili ad occhio nudo; altre volte i difetti sono osservabili solo tramite alti ingrandimenti. In ogni caso il campione, dopo una prima ispezione visiva ad occhio nudo è stato osservato al microscopio, per valutare le dimensioni tipiche dei difetti e le loro distribuzioni.4

È stato utilizzato lo strumento “OLIMPUS BX 60” con fotocamera “Infinity 2”.

I software utilizzati sono: “INFINITY ANALIZE” e “IMAGE PRO PLUS 5.0”. Il primo software viene impiegato per riportare l’immagine visibile tramite il microscopio ottico sul computer. Il secondo software consente di determinare le dimensioni delle difettosità: indicando al programma l’ingrandimento con cui è stata scattata la fotografia, questo è in grado di convertire i pixel in µm.

(27)

27

2.5

Prove meccaniche:

Nella prospettiva di ottenere dei materiali con proprietà interessanti per applicazioni strutturali, risulta di fondamentale importanza conoscere le caratteristiche meccaniche del materiale, valutando in particolar modo la loro evoluzione in relazione all’affinamento della tecnica di additivazione, in maniera dinamica (tipo feedback, si valuta la resistenza meccanica, si aggiungono additivi, si valuta la nuova resistenza, si modifica la composizione degli additivi e così via).

Le caratteristiche meccaniche più importanti da valutare in questo lavoro, risultano essere quelle associate alle prove tensili.

2.3.1 Prove tensili

Le prove di resistenza a trazione misurano la resistenza del materiale a forze applicate in modo statico o quasi statico. Uno schema di macchina per la prova tensile è riportata Figura 11.

Figura 11: immagine schematizzata dello strumento utilizzato per la prova di trazione.

Il campione è posizionato nella macchina e una forza F, chiamata carico, viene applicata. Un rilevatore di deformazione o estensimetro è usato per misurare l’allungamento che si ha nel campione.

Lo sforzo ingegneristico e la deformazione ingegneristica sono definite dalle seguenti equazioni:

(28)

28 0 A F = σ , 0 0) ( l l l − = ε

dove A0 è l’area della sezione trasversale del campione prima dell’inizio della prova, l0 è la distanza

iniziale tra i due riferimenti, e l è la distanza tra i due riferimenti in seguito all’applicazione del carico. La curva sforzo - deformazione è usata per registrare i risultati del test tensile.

Figura 12: grafico di una prova di trazione..

Il modulo elastico, o modulo di young, E, è definito come l’inclinazione della curva σ - ε nella regione elastica. La relazione segue la legge di Hooke:

ε σ

=

E

Il modulo è una misura della rigidezza del materiale.

La resistenza tensile: viene così definita come lo sforzo associato al più alto valore della forza applicata; corrisponde allo sforzo massimo della curva σ - ε. I parametri meccanici di maggiore interesse sono il modulo elastico e l’allungamento a rottura; una loro variazione può indicare la corretta scelta degli additivi.5

Le prove di trazione eseguite seguono alle normative ASTM internazionali “D638 – 10” per quanto concerne la preparazione dei campioni e, alla “D618 – 08”, per quanto riguarda il loro

(29)

29

condizionamento. Sono stati preparati 6 provini per ogni materiale, realizzati tramite asportazione di truciolo (fresatura) per ottenere dei provini di tipo 1B. Le prove sono state condotte e valutate mediando i risultati di 5 provini. Il condizionamento come da normativa è stato di 24 ore in ambiente di prova ad una temperatura di 23 ± 2°C. La prova è stata fatta con una velocità di 1 mm/min. La lunghezza di riferimento è di 25,0 mm e la distanza tra i morsetti di 120 mm. Il valore di modulo elastico è stato determinato nel campo di deformazione compreso tra 0,05% e 0,25%.

Per effettuare le prove tensili si è utilizzato il dinamometro “ZWICK/ROELL, Z010 TH” con cella di carico di 10 kN e morsettatura metallica.

Il software utilizzato per condurre e analizzare le prove è stato “testXper, V 3.4”.

(30)

30

1

i) AIM,“Viscosimetria”, in AIM, “Fondamenti di scienza dei polimeri, Pacini Editore Pisa (1998).

ii) “Viscoelastic properties of polymers”, Ferry John D., John Wiley & Sons, :ew York (1970)

iii) “Rheology: Principles, Measurements and Applications”, Macosko C. W., Wiley-VHC, USA (1994)

2

Shave J., UserCom, Information for users of METTLER TOLEDO, thermal analysis system “ Interpreting DMA

curves, Part 2”.

3

“Spettroscopia infrarossa o Raman”, Zerbi G., Tosi C., in AIM, “Macromolecole, Scienza e tecnologia”, Pacini

Editore, Pisa (1983)

4

“Polymer Microscopy” Linda C. Sawyer, David T. Grubb, Gregory Frederick Meyers, Springer,third edition (2008)

5

(31)

31

CAPITOLO 3

PRESE TAZIO E DEI MATERIALI

3.1

Materiali

Il materiale studiato in questo lavoro di tesi è denominato PLASMIX.

Il PLASMIX è costituito da una massa variegata di polimeri derivanti dal flusso del rifiuto. La sua composizione non è ben definita ed esso risulta costituito da una frazione maggioritaria costituita da PP, HDPE e LDPE, ed una frazione minoritaria in cui si ritiene possibile la presenza di PET, PVC e di PMMA. Derivando dal flusso del riciclo non è da escludere la possibile presenza di carta, stagnola e alluminio. Lo scopo di questo lavoro è quello di ottenere un materiale commercializzabile a partire dal PLASMIX. Per consentire questo obiettivo, appare chiara la necessità di studiare attentamente quali siano gli additivi più adatti per l’impiego nella fase di compounding.

Le problematiche associate al PLASMIX sono molteplici. Come già accennato nell’introduzione, il primo problema che si incontra nel caso di un materiale eterogeneo, sta nella capacità di compatibilizzare le interfacce di materiali diversi, in modo tale da migliorare l’adesione e ridurre la presenza di fasi grossolane. Per quanto riguarda la processabilità del materiale, sarà necessario determinare quali siano le variabili tecnologiche di lavoro più idonee, in modo tale da ridurre al minimo il degrado dei costituenti ed ottenere manufatti più omogenei e più performanti. Le scarse qualità funzionali dei manufatti ottenibili da queste plastiche riciclate, limita fortemente una loro più incisiva penetrazione nei settori di applicazione in cui sono già presenti, e parallelamente non ne favoriscono lo sviluppo e la diffusione in altri. Per ottenere quindi un manufatto con migliori prestazioni meccaniche si devono risolvere le questioni legate alla compatibilizzazione ed alle variabili di processo; si può inoltre considerare la possibilità di introdurre cariche solide, con la funzione di agenti rinforzanti. In prospettiva di un futuro inserimento nel mercato del prodotto, sarà importante considerare anche l’aspetto estetico dei manufatti prodotti con questo materiale.

(32)

32

L’idea di valorizzare questa parte di rifiuto destinata in precedenza all’incenerimento, è nuova ed innovativa. È da sottolineare inoltre il fatto che gli studi dei gruppi europei possano solo essere presi come spunto di riflessione, dal momento che la composizione del PLASMIX è strettamente associata al tipo di gestione della raccolta differenziata del paese di origine, e varia così non solo da Stato a Stato ma addirittura da comune a comune. L’impiego innovativo della tecnologia estrusoria corotante rappresenta un’ulteriore sfida.

Tenendo in considerazione le diverse problematiche e gli obiettivi a cui si mira, la ricerca si è occupata innanzitutto di determinare quali siano i componenti del PLASMIX. La conoscenza dei costituenti di partenza permette infatti di scegliere tra gli additivi commercialmente disponibili quelli più idonei a svolgere la funzione di compatibilizzazione. La preparazione di campioni con diversi additivi consentirà di determinare quale tra i compatibilizzanti sia il più efficace. Grande importanza deve essere dedicata alla scelta dei parametri di processo, per quanto riguarda in particolare la temperatura e il tempo di residenza del materiale nell’estrusore. La scelta dei parametri deve permettere un’adeguata omogeneizzazione prestando attenzione al degrado indotto. La scelta degli additivi deve inoltre rispettare le premesse di partenza, secondo le quali si mira ad ottenere un prodotto con un valore commerciale utilizzando materiale derivante dal flusso del rifiuto. La scelta sarà per questo circoscritta agli additivi presenti sul mercato, facilmente reperibili e che presentino un basso costo.

3.2

Stabilizzanti

Qualsiasi processo di sollecitazione (meccanica, termica, chimica, luminosa) che porta alla modificazione di struttura e/o di peso molecolare è associato alla reattività chimica del polimero e può essere considerata come una forma di degrado. Il degrado può interessare un materiale sia durante la fase di produzione, sia durante la fase di utilizzo; è evidente che le condizioni più critiche si abbiano durante la fase di processazione, a seguito delle alte temperature a cui è soggetto il materiale. Il degrado solitamente porta ad un crollo generalizzato delle proprietà del materiale (meccaniche, ottiche, barriera, dielettriche etc.). Nell’ottica della produzione industriale con materiale vergine, la conoscenza dei fenomeni che portano a degrado è di fondamentale importanza per comprendere gli aspetti di durabilità del materiale, ossia di ritenzione delle principali proprietà fisiche durante il ciclo di vita del manufatto e decidere così quale sia la via più adatta per stabilizzare il prodotto1.

(33)

33

Avendo a che fare con il PLASMIX, la sensibilità nella scelta degli stabilizzanti non deve trascurare il fatto che la materia prima sia già in parte degradata in seguito alle fasi di processazione, uso e riciclo a cui il materiale è stata sottoposto. Tra i diversi tipi di degrado associabili al manufatto, quello derivante dal processo di estrusione è senza dubbio il più problematico; il materiale infatti è inserito in un sistema ossidativo ad alte temperature.

3.2.1 IRGANOX B 225

L’IRGANOX B 225 fornito dalla CIBA (IRGANOX® B225) è uno stabilizzante termico adatto sia alla fase di produzione sia alla fase di utilizzo dei materiali ed è un blend di due molecole: IRGAFOS 168, IRGANOX 1010, fornite dalla CIBA.

Figura 14:formule chimiche del blend delle molecole IRGAFOS 168 e IRGA:OX 1010.

L’IRGANOX B 225 è utilizzato per stabilizzare poliolefine e copolimeri olefinici tra cui Polietilene, Polipropilene, Polibutano e copolimeri etilen vinilacetati. Il blend può essere usato anche con altri polimeri ad esempio omo- e copolimeri stirenici, poliuretani, elastomeri adesivi e altre sostanze organiche. Questo stabilizzante è un blend adattabile ad una serie di processi di stabilizzazione; il relativamente alto contenuto di antiossidanti fenolici è adatto ad applicazioni che necessitano stabilità termica a lungo termine.

Tra i diversi benefici ad esso associato si può citare la capacità di mantenere il “melt flow” originale del materiale a cui è aggiunto, lasciando inalterato il comportamento reologico del materiale di base. Da un punto di vista estetico l’additivo non va a modificare il colore del materiale. L’additivo presenta inoltre stabilità termica a lungo tempo.

(34)

34

3.3

Compatibilizzanti: tensioattivi all’interfaccia polimero/polimero

La produzione di blend polimerici, ovvero miscele di differenti polimeri non compatibili, è in costante aumento nel mercato. Queste miscele permettono di migliorare le prestazioni dei prodotti sfruttando in modo sinergico le proprietà dei diversi materiali da cui sono composti, consentendo di ridurre i costi di produzione e permettendo l’impiego del rifiuto della plastica per produrre nuovi manufatti. La maggior parte dei blend, mostrano una tendenza all’immiscibilità; ciò è dovuto alla bassa entropia di miscelazione che si ha quando i pesi molecolari in gioco sono grandi. Quel che si ha, è una miscela eterogenea che presenta separazione di fase tra i componenti in domini discreti; questo aspetto è responsabile delle basse resistenze meccaniche. I compatibilizzanti sono usati per aumentare la compatibilità tra polimeri altrimenti immiscibili, ma non sono in grado di produrre una miscibilità a livello molecolare. La loro azione può essere spiegata in termini di riduzione delle tensioni interfacciali tra componenti tramite l’adsorbimento di tali molecole alle interfacce delle fasi separate, promuovendo la loro adesione. I copolimeri a blocchi sono spesso usati come compatibilizzanti in quanto i loro blocchi possono avere lo stesso carattere molecolare delle superfici a cui devono essere adsorbite.

3.3.1 SBS

Come compatibilizzanti si è usato l’SBS SNPRENE 68 fornito dalla ditta “Torchiani”. Lo stiren-butadien-stirene o SBS è una gomma dura usata per la produzione di vari oggetti, tra cui le suole delle scarpe, i battistrada e per altri prodotti in cui la durabilità è la proprietà più importante. L’SBS è un copolimero a blocchi la cui catena principale è composta di tre segmenti. Il primo segmento è una lunga catena di polistirene, nel mezzo vi è una lunga catena di polibutadiene e il segmento finale è di nuovo una lunga sezione di polistirene.

Il polistirene è una plastica tenace e resistente, e conferisce all’ SBS la sua durabilità. Il polibutadiene è un materiale gommoso ed è responsabile delle proprietà gommose dell’SBS. Le catene di polistirene tendono a formare domini. Quando un blocco stirenico di una molecola SBS si unisce ad un dominio ed il secondo blocco stirenico della stessa molecola di SBS si unisce ad un altro dominio, i differenti domini risultano legati tra loro dalle catene gommose del polibutadiene.

(35)

35

Figura 15: formula chimica dell’SBS.

Figura 16:schema riportante la posizione dei blocchi polimerici, caratterizzanti l’SBS.

3.3.2 NBR

La gomma nitrilica, o NBR, è una gomma sintetica ottenuta dalla copolimerizzazione dell’acrilonitrile con il butadiene. Anche se le proprietà fisiche e chimiche variano a seconda della composizione del copolimero, questa forma di gomma sintetica è generalmente resistente ad oli, carburanti, e altre sostanze chimiche. La capacità di mantenere inalterate le sue caratteristiche in un ampio intervallo di temperature, da -40°C a +108 °C, lo rende adatto all’impiego nel settore aeronautico.

(36)

36 3.3.3 PEMA 4351

Il Licocene® PEMA 4351 è un’ anidride maleica modificata, un metallocene derivato da una cera di PE. Il processo del metallocene favorisce una distribuzione di peso molecolare più ristretta con vantaggiose proprietà fisiche che lo rendono ideale per il rivestimento.

Figura 18: tabella riportante alcune proprietà chimico- fisiche del Licocene® PEMA.

3.4

Cariche

I polimeri sintetici termoplastici e termoindurenti, sono spesso utilizzati caricati con quantità anche rilevanti di additivi insolubili spesso di origine inorganica o minerale. Si tratta degli additivi più largamente usati nei compounds di termoplastici e gomme, assieme ai ritardanti di fiamma. La percentuale di tali additivi nella miscela può essere anche del 60-70% in peso della mescola. Il termine “filler” si riferisce quindi a tali riempitivi o cariche, che vengono aggiunti al polimero per ottenere diversi benefici. Essi vengono utilizzati per migliorare le proprietà meccaniche dei materiali grazie alla loro rigidità e stabilità, permettendo così l’impiego dei manufatti in diverse applicazioni come ad esempio materiali strutturali. Le cariche vengono spesso aggiunte ad elastomeri per aumentarne la dissipazione energetica e la resistenza all’abrasione e alla lacerazione. Essendo materiali poco costosi, vengono anche utilizzati come veri e propri riempitivi, in modo tale da ridurre la quantità di materiale polimerico utilizzato, riducendo così i costi.

Per quanto riguarda il rinforzo impiegato nel compounding oggetto di questo studio, è stato scelto dopo diverse considerazioni. Il PLASMIX per sua natura presenta caratteristiche meccaniche a basso profilo, tuttavia l’impiego di rinforzi costosi, come per esempio le fibre di carbonio, può risultare controproducente, dal momento che a fronte di prestazioni migliorate, il prezzo del prodotto si alzerebbe a tal punto da non renderlo più competitivo con i manufatti prodotti da materie

(37)

37

vergini. Per questo motivo si è deciso di impiegare cariche solide di forma particellare al fine di migliorare le prestazioni meccaniche mantenendo contenute le spese.

Gli additivi rinforzanti utilizzati sono il carbonato di calcio e il talco.

3.4.1 Carbonato di calcio

Figura 19: micrografie SEM. A sinistra del carbonato di calcio naturale (marmo) macinato, a destra CaCO3 artificiale

particellare (calcite prismatica).

Il carbonato di calcio è la carica più utilizzata nella formulazione di compositi particellare per il suo basso costo, atossicità, colore bianco, bassa durezza (scarsa usura sulle macchine), facilità di trattamento superficiale (acido stearico), carattere basico (stabilizzante del PVC).

Il grado più usato è quello macinato (dalle rocce), mentre se è richiesta alta purezza o finezza si usano i gradi precipitati. Si usa ampiamente nella tecnologia del PVC rigido e flessibile, PP, resine poliestere insature sino a tenori del 60% in peso.3

(38)

38 3.4.2 Talco

Figura 20: micrografia SEM del talco.

Il talco è chimicamente un silicato idrato di magnesio: 3MgO.4SiO 2 .H 2 O. La composizione può però variare a seconda del bacino di estrazione. La morfologia può essere lamellare o aciculare; solo il primo è usato (ampiamente) come carica nella tecnologia dei polimeri. Se ne ottengono diversi gradi attraverso una macinazione che ne delamina il materiale e ne frattura le lamelle, producendo polveri con distribuzione granulometrica e aspect ratio, (ovvero il rapporto tra le dimensioni medie maggiore e minore delle particelle) diversificati. A causa del suo rapporto di forma è un efficace ed economico rinforzante. Viene ampiamente usato nella tecnologia del PP, PVC, PA, PS 3.

1

i) “Additivi per Polimeri”,

AAVV, Pacini Editore, Pisa 2000 ii) “Plastics Additives Handbook”, H. Zweifel, Hanser, Munich 2001

2

Polymer science learning centre. Sito web: http://www.pslc.ws/macrog/sbs.htm” 3

Figura

Figura 5: diagramma mostrante i tipi di riciclo e prodotti ottenuti da essi.
Figura 6: strumento  “RHEOMETRICS: DY:AMIC STRESS RHEOMETER DSC 200” utilizzato per le prove  reologiche dei campioni
Figura 9: strumento “:icolet :exus”, utilizzato per condurre l’analisi di spettroscopio infrarossa
Figura 11: immagine schematizzata dello strumento utilizzato per la prova di trazione
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Riferimenti

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