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Ariosto, Elsheimer, Galilei e la Luna

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Academic year: 2021

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ARIOSTO, ELSHEIMER, GALILEI E LA LUNA

ESTRATTO

da

LETTERE ITALIANE

2015/1 ~ a. 67

(2)

Anno LXVII • numero 1 • 2015

direttori

Carlo Ossola e Carlo Delcorno

Leo S. Olschki Editore

Firenze

LETTERE ITALIANE

già diretta da Vittore Branca e Giovanni Getto

Anno LXVII n. 1

2015

LETTERE IT

(3)

LETTERE ITALIANE

Anno LXVII • numero 1 • 2015

Direzione :

Gian Luigi Beccaria, Carlo Delcorno, Cesare De Michelis, Maria Luisa Doglio, Giorgio Ficara, Fabio Finotti, Marc Fumaroli, Claudio Griggio, Giulio Lepschy,

Carlo Ossola, Gilberto Pizzamiglio, Jean Starobinski

La Redazione della rivista è affidata al Condirettore Gilberto Pizzamiglio

Redazione :

Giovanni Baffetti, Attilio Bettinzoli, Bianca Maria Da Rif, Cristiana Garzena, Giacomo Jori, Annick Paternoster

Articoli

Nota della Direzione e dell’Editore . . . Pag. 3 F. Crasta, Gli angeli neutrali da Dante a Matteo Palmieri . . . . . » 5

a. Guidi, «Di poi si rinnovò quel poco che ci è al presente»: Leone

Ebreo e la cultura umanistica. . . » 26 C. BoloGna, Ariosto, Elsheimer, Galilei e la Luna. . . » 57

M. rossi, «Lontano dietro le nuvole»: musica americana e Resistenza in

Una questione privata di Fenoglio . . . » 96 r. BelGiojoso, Il silenzio è d’oro . . . » 118

Note e Rassegne

d. sBaCChi, Le indicazioni orarie nella Vita Nuova . . . » 127

d. FaraFonova, Il «gran magazzino de’ nienti»: storia economica di una

metafora barocca . . . » 140 M. sarni, Affinità simboliche fra Manzoni e Scott . . . » 160

r. norBedo, Tommaseo, Carducci e Papini. Ancora sull’antiletterarietà

e sulla genesi del Mio Carso di Scipio Slataper . . . » 167 Recensioni

The Arthur of the Italians. The Arthurian Legend in Medieval Italian Literature and Cul-ture, a cura di G. Allaire e F. R. Psaki (M. Infurna), p. 192 - a. dejure, La

“Legen-da” volgare di santa Chiara da Montefalco nel codice Casanatense 1819, prefazione

di U. Vignuzzi (S. Serventi), p. 195 - Autografi dei letterati italiani. Il

Quattrocen-to, t. I, a cura di F. Bausi, M. Campanelli, S. Gentile, J. Hankins, consulenza

pale-ografica di T. De Robertis (C. Bevegni), p. 197 - Gasparo Gozzi (1713-2013).

Epi-stole e altre lettere, a cura di A. Bellio, «Studi sul Settecento e l’Ottocento. Rivista

internazionale di italianistica», VIII, 2013 (S. Uroda), p. 200 - C. BorGia, Inventa-rio dell’archivio di Gianfranco Contini (M. Mancini), p. 204

I Libri

Ragioni per rileggere (si segnala Dante vivo di Giovanni Papini) . . Pag. 210

«Lettere Italiane» tra le novità suggerisce... (si parla di F. Mazzoni,

Fu-maroli, Raimondi, L. Barile) . . . » 213

Libri ricevuti . . . » 220

Pubblicato nel mese di ottobre 2015

Redazioni

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LETTERE ITALIANE

già diretta da Vittore Branca e Giovanni Getto

direttori

Carlo Ossola e Carlo Delcorno

Leo S. Olschki Editore

Firenze

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Laura Barile (Università di Siena) Corrado Bologna (Università di Roma Tre) Lina Bolzoni (Scuola Normale Superiore, Pisa)

Daniela Branca (Università di Bologna) Michael Caesar (University of Birmingham)

Jacques Dalarun (Institut de Recherche et d’Histoire des Textes, Paris) Pier Massimo Forni (Johns Hopkins University)

Yves Hersant (École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris) Michel Jeanneret (Université de Genève)

Anna Laura Lepschy (University of London) Lino Pertile (Harvard University) Stefano Prandi (Università di Berna)

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Where, if not from the impressionists, do we get those wonderful brown fogs that come creeping down our streets, blurring the gas-lamps and changing the houses into monstrous shadows? [...] The extraordinary change that has taken place in the climate of London during the last ten years is entirely due to a particular school of Art. [...] There may have been fogs for centuries in London. I dare say there were. But no one saw them, and so we do not know anything about them. They did not exist till Art had invented them. Oscar Wilde, The Decay of Lying

1. Nel plenilunio estivo del 1609, a Roma, Adam Elsheimer, un pit-tore tedesco dall’occhio linceo, per la prima volta nella storia dipinse una luna esattamente corrispondente alla forma con cui l’occhio uma-no la couma-nosce e la ricouma-nosce quando la sua lampada rifulge nella uma- not-te: screziata di ombre, butterata da caverne e avvallamenti, diversis-sima da quella liscia, intatta superficie di specchio attraverso cui per secoli era stata pensata e rappresentata. L’entrata trionfale della Luna nella storia dello sguardo umano è una delle tappe di quella tematiz-zazione dello sguardo che, nel secolo XVII, «si convertirà in un tema ossessivo per la pittura».1

Certo gli uomini, da sempre, hanno visto la luna coperta dalle sue macchie; Plutarco, stupendo demitizzatore, dedicò un trattatello alla

Faccia che compare nell’orbe lunare. Ma prima di Elsheimer nessuno

aveva mai dato figura pittorica a quel volto scabro, scavato, davvero 1 V. i. stOichit¸a˘, Ver y no ver. La tematización de la mirada en la pintura impresionista,

Madrid, Siruela, 2005, pp. 21-22: «Es en el siglo XVII cuando la tematización de la mirada se convierte en un tema obsesivo para la pintura». Il breve, intensissimo libro di Stoichit¸a è una fra le più lucide e appassionanti ricerche che io conosca intorno alla “storia dello sguar-do” nella cultura occidentale moderna.

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«un viso tondo / da luna piena» (così, scherzando sul proprio ideale estetico, canterà Benoît, il padrone di casa, nel I atto della Bohème di Puccini). Due secoli dopo Elsheimer, in una stupenda operetta

mora-le, Giacomo Leopardi farà dialogare la Terra con la Luna come

fos-se «una persona», e ricorderà che i poeti, «oltre che i nostri fanciul-li», sanno bene che anche la Luna ha «veramente [...] bocca, naso e occhi, come ognuno di loro». Anzi, aggiunge quell’altissimo poe- ta ironico, sottilmente attento alle innovazioni scientifiche (spesso per metterle in discussione sorridendo), ormai si sa bene che anche le «province» della Luna, come quelle terrestri, sono fornite di stra-de larghe e nette», e sono «coltivat[e]»: «cose che dalla parte stra-della Germania, pigliando un cannocchiale, si veggono chiaramente» (in una nota ironicissima Leopardi stesso precisa la sua fonte: «Vedi nel-le gazzette tedesche del mese di marzo del 1824 nel-le scoperte attribui-te al sig. Gruithuisen»).2

Strade e coltivazioni, oggi ne siamo certi, sulla Luna non ci sono; o se ci sono, magari sulla faccia che la Luna continua a nasconderci da miliardi di anni, neppure un cannocchiale tedesco riuscirebbe a sco-varle. Per accertarcene, tuttavia, abbiamo dovuto inventare viaggi dal-la Terra aldal-la Luna, prima affidandoci al genio futuribile di Jules Ver-ne (De la Terre à la LuVer-ne, 1865); poi, grazie all’invenzioVer-ne del ciVer-nema, che sembra nascere proprio per dar corpo a quel sogno assediante, al colpo di cannone sparato proprio dentro l’occhio della Luna dai mem-bri dell’Institut d’Astronomie Incohérente inventato dall’ironia sotti-le e lievemente patafisica di Georges Méliès (Le voyage dans la Lune, 1902); infine la notte del 20 giugno 1969, 360 anni esatti dopo le pen-nellate di Elsheimer, al salto senza gravità di John Armstrong sulla pol-vere lunare piena di fredde ombre, che fu davvero, secondo la metafo-ra che lui stesso scandì gmetafo-racchiando da 300.000 chilometri di distanza, «un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l’umanità».

Tedeschi e Italiani, Francesi e Americani, artisti e scienziati, scrit-tori e astronauti, hanno dunque gareggiato per secoli allo scopo di co-gliere, descrivere, rappresentare la natura umana, terrestre, della Luna. In ogni caso, però, i primi ad arrivare alla meta sono sempre stati gli 2 G. leOpardi, Dialogo della Terra e della Luna, in id., Operette morali (1827), ed. crit.

a cura di O. Besomi, Milano, Mondadori, 1979, pp. 105-116 (le citazioni dal testo si leggo-no alle pp. 105 e 109; la leggo-nota a p. 427).

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artisti, senza distinzione di nazionalità. Ed è lo sguardo artistico sul mondo, quindi anche sulla Luna, che ha aiutato gli scienziati a “ve-dere” quel che altrimenti avrebbe rischiato di rimanere “invisibile”. Ecco la tesi di fondo sottesa a queste pagine, che dedico al caro Vic-tor Stoichit¸a˘ in memoria di tanti Tischreden amicali in Italia, in Roma-nia, in Svizzera, un po’ scientifici e un po’ artistici, colmi sempre del-la sua cultura, leggerezza e profondità, in cui si viaggiava daldel-la Terra alla Luna tornando alla fine (grazie alla sua saggia concretezza) con i piedi ben saldi sulla Terra.

Riandando con la memoria all’ultimo di questi colloqui convivia-li, in una brillante e affettuosa cena a Roma, nell’inverno 2012-2013, in cui insieme con amici vecchi e nuovi si festeggiava il suo ingresso nell’Accademia dei Lincei come socio straniero, provo a fermare qual-che squal-cheda artistico-scientifico-letteraria al fine di tratteggiare una

Bre-ve storia poetico-pittorica dell’immaginario lunare, che Victor stesso

sa-prebbe mirabilmente, e certo più compiutamente, comporre.

2. Torniamo, allora, al plenilunio romano del 1609, e al pittore te-desco Adam Elsheimer che lo riproduce nella piccola Fuga in Egitto dipinta in olio su rame, conservata oggi all’Alte Pinakothek di Mo-naco. «Quando era necessario disegnare o dipingere figurine anima-te e che quasi respiravano, sia nell’oscurità della notanima-te sia al sorgere o al tramontare del sole, o piogge, o maree e tempeste, Adam supera-va tutti i pittori del suo tempo»,3 scrisse di lui un conterraneo illustre, Johann Faber. Era di Bamberga Faber, scienziato e studioso della na-tura, ma visse a lungo a Roma, dove fu celebre medico nell’ospedale di Santo Spirito in Sassia: anche lui, come Elsheimer, dotato di occhi di lince, tant’è vero che fu affiliato all’Accademia dei Lincei, appena fondata (1603) a Roma, sotto l’egida della regina Cristina di Svezia, da Federico Cesi e Francesco Stelluti, Anastasio De Filiis e Jan Heck.

Nel 1611, l’anno successivo alla pubblicazione del Sidereus nuncius, come ben si sa anche Galileo Galilei entrerà a far parte di quell’Ac-cademia, il cui mandato fondamentale era e rimane di sottoporre la realtà e la natura al nuovo sguardo insieme scientifico ed estetico

ca-3 J. Faber, Tesoro messicano (1628), citato in G. Gabrieli, Il ritratto di uno fra i primi lincei Giovanni Faber in un quadro di recente ritrovato (1932), poi in id., Contributi alla

sto-ria dell’Accademia dei Lincei, Roma, 1989, II, pp. 1233-1239, e id., Un libro linceo di

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pace di generare una nuova visione del mondo. È lo sguardo galileia-no ad aver cambiato la maniera di pensare dell’umanità intorgalileia-no ai rap-porti fra la Terra e l’Universo; ma, grazie a un’intuizione magnifica di Erwin Panofsky, oggi siamo in grado di comprendere meglio la com-plessità di quello sguardo rivoluzionario, apprezzando non solo quan-to «l’atteggiamenquan-to scientifico di Galileo abbia influenzaquan-to il suo at-teggiamento estetico», ma anche quanto «il suo atat-teggiamento estetico abbia influenzato le sue convinzioni scientifiche».4

Le “cose” non “sono” di per sé; e tanto meno sono immediatamen-te “conosciuimmediatamen-te” o “conoscibili”. È l’occhio umano che le “crea” permet-tendo di “vederle” là dove le “riconosce”; e può trascorrere molto tempo prima che uno sguardo finalmente le “conosca”, riconoscendole: pro-prio Galilei, e la teoria copernicana, lo dimostrano. Secondo il bon mot di Oscar Wilde che pongo in exergo, è l’arte degli Impressionisti che ha «inventato» la nebbia di Londra: perché l’ha riconosciuta e quindi resa

visibile, trasformandola in oggetto estetico, percepibile. Allo stesso modo

negli anni Settanta del secolo XIX la narrativa francese «tematizó la difi-culdad del mirar», e proprio in quel momento storico il tema della

diffi-coltà del guardare entrò con forza nello spazio della pittura

impressioni-sta, anzitutto con Manet: «la dificuldad de la mirada adquiere un matiz poético gracias al intercambio de papeles que implicitamente correspon-derían al espectador: su “derecho a ver claro” se difumina».5

Come per le percezioni anche per le emozioni che ad esse si col-legano, e che generano una disposizione a mutare la visione del mon-do, si potrà dire, con Jean Starobinski, che

ce que les hommes lisent en eux-mêmes passe par le lexique que leur culture leur a transmis. Une fois nommé, un sentiment n’est plus tout à fait ce qu’il était avant le façonnement qui lui donne accès à la langue. Un néologisme condense de l’incompris qui auparavant était demeuré diffus. [...] Son appa-rition modifie les valeurs sémantiques du vocabulaire antérieur. [...] Sitôt que l’attention s’y fixe, le nom nouvellement conféré à un état affectif ne manque jamais de produire des composés, des dérivés, – et de nouveaux sentiments.6

4 e. panOFsky, Galileo as a critic of the arts, The Hague, M. Nijhoff, 1954; trad. it. Ga-lileo critico delle arti, a cura di M. C. Mazzi, Venezia, Cluva ed., 1985, p. 63; cfr. anche la

ri-edizione nella collana «Carte d’artisti» dell’ed. Abscondita, Milano, 2008, p. 52.

5 Cfr. i. V. stOichit¸a˘, Ver y no ver cit., pp. 30-31.

6 J. starObinski, Poétiques de la nostalgie, in Poésie, mémoire et oubli. Colloque de la Fondation Hugot du Collège de France réuni par Yves Bonnefoy. Actes rassemblés par

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In una lunga lettera inviata al nobile fiorentino Piero Dini il 21 maggio 1611, un anno dopo l’uscita del Sidereus nuncius e proprio per rispon-dere alle violente obiezioni mosse intorno alla credibilità del cannoc-chiale, Galilei oppone il «senso» e l’«esperienza» dell’«intendente in quella arte dalla quale tale strumento depende» ai «discorsi ed imagina-zioni» degli oppositori.7 In particolare insiste sullo scarto fra l’“essere” e il “non essere” degli oggetti reali (specie di quelli celesti), ponen-do con polemica ironia, che apre al relativismo del significato di quel-l’“esserci” o “non esserci”, la radicale questione epistemologica della comprensione (Galilei usa il verbo «intendere») come fondamento del-l’“esistenza” delle cose: «...e veramente parmi che saria cosa ridicola il credere che allora comincino ad essere le cose della natura, quando noi cominciamo a scoprirle ed intenderle. Ma quando pure l’intender degl’uomini dovesse esser cagione della esistenza delle cose, bisogne-rebbe o che le medesime cose fussero ed insieme non fussero (fussero per quelli che le intendono; e non fussero, per quelli che non l’inten-dono), o vero che che l’intender di pochi, ed anco di un solo, bastasse

per farle essere: ed in questo secondo e meno esorbitante caso, baste-rà che un solo intenda la proprietà dei Pianeti Medicei per fargli

esse-re in cielo, e che gl’altri per ora si contentino del vedergli solamente». Sulla base di questa dialettica fra il «vedere» e l’«intendere», che fa “essere” o “non essere” la realtà nel suo venire o non venire perce-pita, ritorno dall’epistemologia dei fisici al punto in cui essa si incrocia con la metafisica dei pittori. Ho detto poco fa del bamberghese Johan Faber: egli era amico di Elsheimer, di Rubens, e di quel «Filippo Na-poletano» al quale Roberto Longhi nel 1957 dedicò un bel saggio, ove lumeggiava l’universo in espansione in cui «il nuovo mondo del Cara-vaggio, misteriosamente filtrato dal genio dell’Elsheimer e dal talento dei caravaggeschi in “corsivo” invece che in “maiuscolo” – dal Bor-gianni al Saraceni al Bassetti, dal Pynas al Lastman all’Uytenbroeck – riesc[ì] a sboccare di lì a poco nell’infinità crepolata antiformalistica, ma non certo “informale”, di [...] Rembrandt».8

7 La lettera si legge nell’Edizione Nazionale delle Opere di Galilei, vol. XI, pp.

105-116; ed ora anche in G. Galilei, Lettere, a cura di E. Ardissino, Introduzione di A. Battistini,

Roma, Carocci, 2008, pp. 101-110 (le frasi citate sono alle pp. 101-102; i corsivi sono miei).

8 r. lOnGhi, Una traccia per Filippo Napoletano, «Paragone», 95, 1957, pp. 33-62, poi

in id., Studi sul Sei e Settecento («Edizione delle opere complete di Roberto Longhi», XII),

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Il ruolo decisivo svolto da Elsheimer nel prender forma della nuo-va rappresentazione della realtà 9 era già stato fissato dallo stesso Lon-ghi in una pagina di grande respiro del 1941 dedicata alla «congiuntu-ra» fra Arte italiana e arte tedesca, che ripercorreva più distesamente la lunga arcata della mediazione di questo artista che già i contemporanei tenevano in gran conto, definendolo «der Maler deutscher Nation»:

Che l’Elsheimer sia riescito a liberarsi affatto dall’artificiata cultura donde pur veniva e a filtrar meditatamente, nel suo studiolo romano, il chiaroscuro lam-pante del Caravaggio, tutto natura, e le masse solenni del paesaggio dei Car-racci, tutto storia; e così cavarne un suono inimitabile in quei suoi dipinti il cui formato diminutivo è ancora l’eco di una delle tecniche eroiche care ai te-deschi, mentre l’entusiasmo per i boschi e i pleniluni è ancora quello dei da-nubiani di un secolo innanzi, è prova di quella potenza creativa che ricrean-do la lingua, rifoggia in quell’istante la nazione stessa, intesa come cultura. [...] Come una volta il Pacher, così ora l’Elsheimer rimpasta nord e sud in una lu-cidezza espressiva dove le favole irreali del Baldung e dell’Altdorfer si gradua-no in una scala classica, perché meditata, di contrasti infiniti: e il vecchio bigradua-no- bino-mio del “chiaro-non chiaro” si salda in quella finale chiarezza che è sinonimo di arte piena e spiegata: tanto vero che la cultura dell’Elsheimer potrà di lì a poco servire così al modo largo e pastorale di Claude Lorrain, come al miste-rioso contrappunto, anticlassico, del Rembrandt.10

In una delle «cristalline notti sacre di Elsheimer», come acutamen-te intuì Eugenio Battisti in quel capolavoro di storia delle idee che è

L’Antirinascimento, nacque la prima Luna “scientifica”, in

sconvol-gente sincronia con quella che pochi mesi più tardi avrebbe descrit-to Galilei: come nella «ricerca dei più nascosti ed inconsueti prodotti della natura», così anche nello studio dei fenomeni naturali «dovette nascere quasi una gara spontanea fra artisti e scienziati».11 Gli astri di 9 Ho in mente il senso profondo del titolo tedesco di e. auerbach, Dargestellte Wirkli-chkeit in der abendländischen Literatur, Bern, A. Francke, 1946, ideologicamente

connota-to nella versione italiana (Torino, Einaudi, 1956) come Il realismo nella letteratura

occiden-tale. Rinvio al mio Le cose e le creature. La divina e umana Mimesis di Pasolini, in Mimesis. L’eredità di Auerbach. Atti del XXXV Convegno Interuniversitario (Bressanone/Innsbruck, 5-8 luglio 2007), a cura di I. Paccagnella e E. Gregori, Padova, Esedra, 2009, pp. 445-466.

10 r. lOnGhi, Arte italiana e arte tedesca, in Romanità e Germanesimo, «Le Arti»,

Fi-renze, Sansoni, 1941, pp. 209-239, poi in id., ‘Arte italiana e arte tedesca’ con altre congiun-ture fra Italia ed Europa (1939-1969) («Edizione delle opere complete di Roberto Longhi»,

IX), Firenze, Sansoni, 1979, pp. 3-21 (a p. 17).

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Mila-Elsheimer, nella Fuga in Egitto come in altri suoi dipinti, «sono solo di poco ingranditi, visti forse con una sola lente da occhiali o addirittu-ra a occhio nudo. Ma resta il fatto essenziale della coincidenza faddirittu-ra un artista così fine ed uno scienziato così grande, che guardano, di notte, lo stesso cielo, con il medesimo interesse ed una analogamente scru-polosa necessità di documentazione».12

Il giovane pittore tedesco, che a Roma frequenta artisti, matema-tici, fisici, astronomi,13 condivide «lo stesso cielo» con il più grande scienziato dell’età moderna, il quale proprio in quel momento sta la-vorando a Padova. I suoi «piccoli e minuziosi dipinti, dove il cielo ha una parte così prevalente e, a differenza dei notturni di Savoldo, si presenta a noi con la fedeltà di un atlante stellare, acquistano una ben notevole priorità storica, quando si ricordi che il 1609 è proprio l’an-no dell’invenzione del canl’an-nocchiale di Galileo».14

Sulla destra dell’olio su rame di Elsheimer si rispecchia nell’ac-qua notturna una luna formidabile, perfettamente istoriata di chiaro e di scuro, con tutte le ombre che ormai il nostro occhio è abituato a riconoscerle, aspettandosi di ritrovarle in qualsiasi sua rappresenta-zione, ma che allora era un’invenzione impensata, rivoluzionaria. Ri-spetto a quel lume raddoppiato, che domina la scena bilanciandosi con altri due punti di illuminazione, si equilibrano al centro i profi-li toccati di biacca di Giuseppe e Maria sull’asinello con in braccio Gesù, e i pastori che, sulla sinistra, sotto gli alberi immensi e scu-rissimi, hanno acceso un gran fuoco, dal quale s’innalza uno spolve-rìo di facelle: e queste sembrano trasformarsi, volando in cielo, nel-lo sciame di puntini lucenti della via Lattea, quasi un arco slanciato

no, Garzanti, 1989, vol. I, pp. 309-310 (nel cap. 9, L’illustrazione scientifica in Italia); si veda la riedizione presso Aragno, voll. 2, Torino, 2005, vol. I, p. 356).

12 Ivi, p. 310 (ed. 2005, p. 356).

13 Si veda il bellissimo libro di h. bredekamp, Galilei der Künstler. Der Mond. Die Sonne. Die Hand, Zweite, korrigierte Auflage, Berlin, Akademie Verlag, 2009, specie pp.

90 sgg.

14 e. battisti, L’Antirinascimento cit., p. 310 (ed. 2005, p. 356). Da ultimo, in questa

prospettiva, si veda il bel saggio di a. tOsi, Lune e astri galileiani, nell’importante volume Il cannocchiale e il pennello. Nuova scienza e nuova arte nell’età di Galileo, Firenze,

Giun-ti, 2009, pp. 175-187, che si apre con la frase: «Nel 1609, tra Roma e Padova, un pittore e uno scienziato iniziano a guardare il cielo stellato con occhi nuovi» (poco dopo si cita Fa-ber; la Fuga in Egitto di Adam Elsheimer è riprodotta a p. 174). Il libro è il catalogo dell’o-monima esposizione realizzata da L. Tongioni Tomasi e A. Tosi nel Palazzo Blu di Pisa dal 9 maggio al 19 luglio 2009.

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verso la luna. La Fuga in Egitto «diventa subito leggenda, un’icona in grado di tradurre quanto i “cannoni” galileiani puntati nei cieli ro-mani vanno svelando agli occhi di curiosi e conoscitori: insomma, un “quadretto” che propone grandi cose “alla visione e alla contempla-zione degli studiosi della natura”, esattamente come la exigua

tracta-tione del Sidereus».15

3. Già all’inizio dell’estate del 1609 (come lui stesso ricorda all’ini-zio del Sidereus nuncius) Galilei sentì parlare del Perspicillum, lo stra-ordinario strumento capace di rendere distintamente visibili, come se fossero vicini, anche gli oggetti lontani: «Mensibus abhinc decem fere, rumor ad aures nostras increpuit, fuisse a quodam Belga Perspicillum elaboratum, cuius beneficio obiecta visibilia, licet ab oculo inspicientis longe dissita, veluti propinqua distincte cernebantur [...]. Idem paucos post dies mihi per literas a nobili Gallo Iacobo Badovere ex Lutetia confirmatum est; quod tandem in causa fuit, ut ad rationes inquiren-das, necnon media excogitanda, per quæ ad consimilis Organi inven-tionem devenirem, me totum converterem; quam paulo post, doctri-nae de refractionibus innixus, assequutus sum».16

15 a. tOsi, Lune e astri galileiani cit., p. 180 (la frase citata da Tosi è di a. battistini, Introduzione a G. Galilei, Sidereus nuncius, Venezia, Marsilio, 1993, p. 31).

16 G. Galilei, Sidereus nuncius, in id., Opere, a cura di F. Flora, Milano-Napoli,

Ric-ciardi, 1953, pp. 12-14 (questa la trad. it., di L. Lanzillotta, a fronte del testo, alle pp. 13-15: «Circa dieci mesi fa ci giunse notizia che era stato costruito da un certo Fiammingo un oc-chiale, per mezzo del quale gli oggetti visibili, pur distanti assai dall’occhio di chi guarda, si vedevan distintamente come fossero vicini [...]. Questa stessa cosa mi fu confermata pochi giorni dopo dal nobile francese Iacopo Badovere, da Parigi; e questo fu causa che io mi vol-gessi tutto a cercar le ragionie ad escogitare i mezzi per giungere all’invenzione di un simile strumento, che poco dopo conseguii, basandomi sulla dottrina delle rifrazioni»). Si veda an-che id., Opere, voll. 2, a cura di F. Brunetti, Torino, Utet, 1995 (20062), I, Sidereus nuncius, Il Saggiatore, Lettere copernicane a altri scritti, p. 278 (solo la versione italiana). Nella nota

8, ibid., Brunetti ricorda la lettera del 29 agosto 1609 in cui Galilei annuncia a suo cognato B. Landucci il diffondersi della «fama che in Fiandra era stato presentato al Conte Mauritio un occhiale, fabbricato con tale artifitio, che le cose molto lontane le faceva vedere come vi-cinissime», ed insiste sulla lunga riflessione e attività di ricerca che lo scienziato compì, fino a mettere al mondo uno strumento che «supera di assai la fama di quello di Fiandra». Il dif-fondersi della notizia potrà dunque essere datato intorno al mese di giugno di quell’anno. Sulla questione, nella vasta bibliografia, si vedano almeno a. FaVarO, Intorno ai cannocchiali costruiti ed usati da Galileo Galilei. Nota, «Atti del Reale Istituto Veneto di Lettere, Scienze

e Arti», adunanza del 27 gennaio 1901, pp. 317-342; V. rOnchi, Il cannocchiale di Galileo e la scienza del Seicento, Torino, Einaudi, 1958, specie pp. 80 sgg. (e in particolare 91-92). Per

i rapporti fra Galileo e Sarpi: G. cOzzi, Galileo Galilei e la società veneziana, in id., Saggi su Galileo Galilei, Firenze, 1965, pp. 39-42.

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Dopo secoli di fiducia nell’occhio e, nel contempo, di riconosci-mento disilluso della sua debolezza, dei suoi limiti irriducibili, l’oriz-zonte degli obiecta visibilia si lacera d’improvviso, si spalanca a dismi-sura: assorbe, quasi deglutisce la Lontananza: «La luna è la lontananza che prende corpo e luce. Visibilità e movimento. È la luminosità della lontananza. Senza che nel suo apparire, nel suo sorgere e tramontare, perda la sua relazione con la Sfinge, e dunque con l’enigma. E tutta-via questa luce della lontananza, questo corpoluce della lontananza è, tra i corpi celesti, il più vicino allo sguardo dell’uomo. Una prossimi-tà che convive con la lontananza, in una compresenza che è sorgente di fascinazione. E forse proprio questa doppia e contemporanea ap-partenenza alla lontananza e alla prossimità ha fatto della luna il ter-mine di un’immensa avventura immaginativa».17

Un atto epistemologicamente decisivo, una catastrofe (per usare il linguaggio delle scienze esatte ormai acquisito anche nella riflessione storico-culturale) che spezza la lunga durata di un sistema inerziale, as-sume un valore anche storicamente altissimo, a condizione che si rie-sca a cogliere il prender forma epocale degli avvenimenti, il coagularsi di uno scarto di paradigma mediante il quale viene offerta leggibilità all’orizzonte d’attesa addensato, intensificato, pronto a spalancarsi al nuovo. È sottesa a questa visione delle cose un’idea di storia «leggi-bile», nel senso di Walter Benjamin,18 attraverso una serie di fratture, di discontinuità, di salti, immediate cristallizzazioni e fulminei punti di contatto con qualcosa che non appariva in chiaro fino a un certo punto, che è rimasto in oblio, in latenza, dimenticato o incompreso, e che, in quanto «immagine dialettica», «giunge a leggibilità in una de-terminata epoca storica»: la nostra.

Il perspicillum era nato come un giocattolo, un passatempo, qual-cosa fra il caleidoscopio e la camera oscura: ma al pari di tante in-venzioni che cambiano la visione e la pratica del mondo, grazie a un solo gesto, quello della mano che in uno slancio utopistico di

ascen-sione spirituale lo puntava verso l’alto, in direzione della luna e

del-17 Cfr. a. prete, Trattato della lontananza, Torino, Bollati Boringhieri, 2008,

soprattut-to il capisoprattut-tolo Per una ssoprattut-toria del cielo, pp. 52-77 (a p. 75).

18 Cfr. W. benJamin, Das Passagen-Werk, a cura di R. Tiedemann, Frankfurt am Main,

Suhrkamp, 1982, framm. N 3, 1; trad. it. Parigi capitale del XIX secolo. I «Passages» di

Pa-rigi, a cura di G. Agamben, Torino, Einaudi, 1986, p. 599 (nella sezione N, Teoria della co-noscenza, teoria del progresso).

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le stelle,19 si era trasformato in uno strumento scientifico rivoluzio-nario. Il colpo di genio di un intellettuale-artista capace di cogliere il senso dell’innovazione e di intuirne le potenzialità nella pratica del-la ricerca compiva del-la metamorfosi, l’atto di transustanziazione di un materiale inerte in una leva di conoscenza capace di rovesciare l’u-niverso, la sua percezione, il suo significato.

Il problema più difficile, per ottenere uno strumento efficace nella visione notturna, era molare e levigare le lenti, aumentando la capacità dell’occhio di catturare la luce: solo Galileo, indirizzato per la prima volta il divertente perspicillum nelle tenebre del cielo, riuscì a farlo in maniera adeguata, fino a raggiungere i venti ingrandimenti: provando e riprovando, traducendo l’esperienza in correzione dell’evidenza,20 la sua idea raggiunse i primi risultati, assolutamente rivoluzionari.

Sembra che nell’ottobre del 1608, a Middelburg, in Olanda, l’oc-chialaio Hans (o Johannes) Lipperhey, in concorrenza con un suo col-lega, Zacharias Janssen, avesse chiesto di «brevettare un cannocchia-le che sosteneva di aver inventato»: 21 e sarà di questo strumento che si diffuse la fama in tutt’Europa, fino a Padova; ma probabilmente già quattro anni prima, nel 1604, nella stessa città era stato costrui-to «un primo cannocchiale, sul modello d’un altro, italiano, sul qua-le era segnato l’anno 1590».22 Un nuovo dettaglio accresce la stupefa-zione di noi posteri dinanzi all’addensarsi e al precipitare improvviso degli eventi collettivi in cui pare incastonarsi la scoperta: ad informa-re per primo Galilei, durante una sua gita a Venezia nel giugno 1609, circa l’invenzione del cannocchiale, era stato fra Paolo Sarpi, che in laguna, fra il novembre e il dicembre dell’anno precedente, aveva ri-cevuto dall’Aja un foglio a stampa nel quale si descrivevano gli even-ti diplomaeven-tico-militari legaeven-ti alle trattaeven-tive di pace fra Spagna e Olan-da. E una lettera che Sarpi invia da Venezia il 30 marzo dello stesso

19 Rinvio a c. bOlOGna, Ascensioni spirituali, in Les montagnes de l’esprit: imaginaire et histoire de la montagne à la Renaissance. Actes du Colloque international de Saint-Vincent, 22-23 novembre 2003, réunis par R. Gorris, Aosta, Musumeci, 2004, pp. 19-56.

20 Cfr. G. JOri, Per evidenza. Conoscenza e segni nell’età barocca, Venezia, Marsilio, 1998. 21 a. Van helden, I telescopi di Galileo e le sue scoperte celesti, in Galileo. Immagini dell’universo dall’antichità al telescopio, a cura di P. Galluzzi, Firenze, Giunti, 2009, pp.

247-253 (a p. 247). Il volume costituisce il catalogo della bella mostra aperta nel Palazzo Stroz-zi di Firenze dal 13 marzo al 30 agosto 2009.

22 Cito dalla nota di F. Flora, nella sua ed. cit. delle Opere galileiane, p. 12, al passo del Sidereus nuncius che ho riportato poco più su.

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1609 a quel Jacques Badouvère, discepolo parigino che Galilei ricor-da nel Sidereus nuncius, fa cenno con una qualche nonchalance al tema «dell’occhiali di Olanda» come a cosa risaputa e ormai scaduta d’in-teresse («Ho quasi abbandonato il pensiero delle cose naturali e ma-tematiche, e per dirne il vero, il cervello si è fatto, o per la vecchiez-za, o per la consuetudine, un poco ottuso a tal contemplazioni»).23 Diplomazia, spionaggio militare, ricerca scientifica, pensiero libertino, rovesciamento della visione della realtà, sono momenti di un viluppo epistèmico senza pari, in una faglia storica che segna un mutamento radicale nel modo di vedere, pensare, elaborare la realtà.

Gli specialisti sostengono che in realtà non sia stato neppure Ga-lilei a fissare per primo il cielo con un telescopio, il 30 novembre 1609, per scrutare la luna crescente di quattro giorni. Alcuni mesi prima, il 26 luglio («hora 9. P.M.»), proprio nei giorni in cui a Roma Adam Elsheimer dipingeva la

sua luna piena nella Fuga in

Egit-to, un matematico inglese,

Tho-mas Harriot (famoso soprattutto per aver introdotto nella sua di-sciplina l’uso dei segni > e < per indicare “maggiore di” e “mino-re di”), fermava in uno schizzo (Fig. 1) il primo disegno telesco-pico del nostro satellite: illeggi-bile, rozzo, lontanissimo anco-ra dal risultato stanco-raordinario dei disegni galileiani per il Sidereus

Nuncius.24 E da Roma

l’architet-23 p. sarpi, Opere, a cura di G. e L. Cozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, pp. 281-284.

Cfr. G. cOzzi, Galileo Galilei, Paolo Sarpi e la società veneziana, in id., Paolo Sarpi tra Vene-zia e l’Europa, Torino, Einaudi, 1979, pp. 135-234 (in particolare pp. 160 sgg., 179 sgg.);

sul-le due presentazioni pubbliche del tesul-lescopio, il 21 agosto 1609 al pubblico di Venezia, e il 25 agosto al doge, pp. 181 sgg.; su «un certo malumore» che Sarpi probabilmente provava negli anni 1609-10 nei confronti di Galileo, pp. 183 sgg.; sull’«ostilità» con cui vengono ac-colte le scoperte di Galilei «nel mondo della Compagnia di Gesù», pp. 188 sgg. Si veda an-che a. Van helden, I telescopi di Galileo e le sue scoperte celesti cit., p. 247.

24 e. a. Whitaker, Rappresentazioni e mappe della luna. I primi due secoli, in Galileo. Immagini dell’universo cit., pp. 255-261 (specie p. 255). Sulle ricerche di Harriot si veda il

libro, molto documentato, di m. bucciantini, m. camerOta, F. Giudice, Il telescopio di Ga-lileo. Una storia europea, Torino, Einaudi, 2012, cap. VII, Oltremanica: poeti, filosofi,

astro-Fig. 1. th. harriOt, disegno, 26 luglio

1609, Petworth House, Leconfield HMC 241/ix, F. 26.

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to e matematico senese Sergio Venturi scriveva, il 26 febbraio 1610 (due settimane prima dell’uscita del libro di Galilei) che nella città papale già si vedevano dei cannocchiali, come quello che Guido Ben-tivoglio aveva fatto avere a Paolo V nell’aprile del 1609; e a Roma la notizia dell’“invenzione” di Galilei doveva circolare negli ambien-ti degli scienziaambien-ti e degli arambien-tisambien-ti, spesso mescolaambien-ti da interessi comu-ni, già durante l’estate di quell’anno, mentre Adam Elsheimer dipin-geva la sua fuga in Egitto: lo dimostra la lettera che il medico Giulio Mancini spediva a Siena a suo fratello: «si vedono qui [a Roma] di quei spechi che moltiplicano la vista de quelli che dicono essere in-ventore il Galilei».25

Fra Venezia e Roma, Parigi e Amsterdam, il mondo mutò dalle radi-ci, in pochi giorni. Non mutò, ovviamente, la realtà naturale: fu lo

sguar-do di Galilei a cambiare e a riconoscere quel che nessuno in precedenza

aveva visto, cogliendo la luce nel cuore della tenebra, e rendendola vi-sibile oltre la soglia dell’invisibilità. E questo avvenne nello stesso mo-mento in cui non solo Elsheimer e gli altri tedeschi e fiamminghi, ma soprattutto Caravaggio, e il suo sguardo altrettanto radicale, introduce-vano per la prima volta la figura delle tenebre nella rappresentazione ar-tistica. Negli anni esatti in cui si rivelano all’uomo la natura terrestre del-la luna e del-la sconfinata ampiezza dell’universo, del-la grande pittura italiana porta alla luce la potenza dell’ombra, la sua necessità nell’evento cono-scitivo: con Caravaggio si produce «l’entrée en force de l’ombre dans le domaine de la peinture», e l’ombra «envahit la toile»; per lui «l’ombre n’est pas [...] une conséquence de la forme des corps [...] mais, avec la lumière qui en est indissociable, ce qui leur donne forme».26

La luna crescente di quell’inverno 1609 fu vista en artiste da Gali-leo, e quasi dipinta (vorrei spingermi a dire fotografata), nelle celebri

nomi, pp. 133-164; una riproduzione dello schizzo di Harriot è a p. 142: ma gli studiosi

sot-tolineano come «nel rappresentare la Luna Harriot si sarebbe ispirato a un metodo in cui l’attenzione non era tanto rivolta alle caratteristiche topografiche, quanto ai profili delle co-ste e ai confini tra le terre e i mari che venivano disegnati con le relative relazioni spaziali in due dimensioni» (p. 143). Per una lettura delle ricerche di Harriot ripensate sull’orizzonte dell’attività degli artisti di primo Seicento, e dello stesso Galilei come artista, si veda H. bre -dekamp, Galilei der Künstler cit., specie pp. 92 sgg. e pp. 212 sgg.

25 Citano il documento m. bucciantini, m. camerOta, F. Giudice, Il telescopio di Gali- leo cit., p. 59 (ma si veda tutta la prima parte del libro, specie i capitoli I, Dai Paesi Bassi, pp. 1-

23; II, Arcipelago Venezia, pp. 24-45; III, Breaking News. Vetri e buste da lettera, pp. 46-75).

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illustrazioni a penna destinate ad accompagnare il testo del Sidereus

Nuncius, con i chiaroscuri color ocra che sembrano scavare montagne

e oceani. Grazie a quella mutazione repentina dello sguardo umano, a quella catastrofe senza precedenti, ormai «non è solo la Luna ad essere simile alla Terra, ma anche la Terra alla Luna: Galileo aveva per così dire riportato la Luna sulla Terra ed elevato la Terra alle altezze cele-sti. Queste conclusioni divergevano profondamente dalla tradiziona-le concezione dell’universo, fondata sulla rigida separazione tra il cie-lo perfetto e immutabile e la regione terrestre corrotta e mutevole».27 Alzando gli occhi verso le tenebre notturne l’uomo è riuscito a perforare (lo dirò ricorrendo a una magnifica metafora pirandelliana) il cielo di carta in cui per secoli aveva letto i segni del proprio desti-no. Galilei “inventò” la luna grazie alla sua sensibilità estetica e alle sue doti di pittore, che prima di lui erano mancate agli altri astrono-mi educati solo alla scienza fisica, impedendo loro, così, di “vedere’’ e quindi di “riconoscere’’ e “interpretare’’ le ombre lunari come indi-zi della natura montagnosa del territorio. Galilei “vide” la luna “vera” perché fece fruttare l’abitudine che era andata diffondendosi nel Quat-tro-Cinquecento di introdurre l’ombra nella pittura per scolpire i corpi e soprattutto per “ingannare” l’occhio, cioè creare l’illusione del volu-me.28 Il suo sguardo riuscì a catturare il segreto della luna non tanto «portandola sulla terra», quanto scoprendone la natura non-metafi-sica ma radicalmente finon-metafi-sica, tangibile, limitata, già di per sé assoluta-mente “terrestre”. «Conosciamo dunque la profondità», scriveva Ga-lilei al Cigoli il 26 giugno 1612, «non come oggetto della vista, per sé et assolutamente, ma per accidente rispetto al chiaro e allo scuro».29

Proprio il passaggio epocale dall’immaginazione fantastica alla

con-cretezza della sperimentazione scientifica sancisce che il percorso di

av-vicinamento alla verità va compiuto passo dopo passo, con tenace e progressiva continuità. «La scienza ambisce a trovare i “veri princi-pi mediante i quali costruire un sistema senza “nodi”, in cui tutto sia

27 a. Van helden, I telescopi di Galileo e le sue scoperte celesti cit., p. 248.

28 Cfr. l’intelligente articolo del neuroscienziato l. maFFei, Il cervello artistico di Gali-leo Galilei, «Il Sole 24 Ore», 12 aprile 2011, p. 22 (il sottotitolo editoriale sintetizza la tesi:

«Lo scienziato pisano riconobbe le ombre della luna e ne scoprì le asperità grazie alla sua abilità pittorica»). V. i. stOichit¸a˘, ha scritto una finissima Storia dell’ombra. Dalle origini alla Pop Art, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 2003.

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spiegato, ma non fa che districare brevi tratti di un sapere infinitamen-te complesso. [...] Il prezzo della nuova scienza sta nell’accettazione della relatività».30 Il senso del limite e della perfettibilità, la necessa-ria accettazione del punto di vista legato alla prospettiva dello

sguar-do, accompagna il superamento dei confini sensoriali, l’evidente,

con-temporaneo manifestarsi della loro precisione e della loro difettività. Il lessico della scienza nuova batte sull’evidenza dei fatti constata-ti mediante l’esperienza, che passa per l’accertamento dei sensi, ma ne corregge i difetti (tipico il caso del sole che “sembra” girare intorno alla terra). Viene così a formarsi «un insieme di temi, motivi, locuzio-ni topiche per l’indagine sperimentale e il suo elogio, analogo a quello individuato per l’ambito delle scienze esatte»; 31 nell’opera del gesuita Daniello Bartoli, ad esempio, Giacomo Jori, in un bel libro dedicato al nesso fra «conoscenza e segni nell’età barocca», ha individuato una serie di termini introdotti «a segno e sigillo della riuscita di una veri-fica, dell’appagamento mentale che deriva, nel laboratorio, dal pale-sarsi di prove»: «per sensibile evidenza»; «manifesta verità»; «palpa-bili esperienze»; «all’evidenza de gli occhi»; «sensibilmente provato»; «con l’evidenza dei fatti».32

Così la descrizione galileiana del cannocchiale (già pronto a diven-tare con il Tesauro, paradossalmente connotato come «aristotelico», metafora della rivoluzione in atto) diviene il modello epistemologico e retorico di un’ampia tavolozza linguistico-mentale che coinvolgerà gli scienziati e i poeti, Galilei e Marino:

Lo strumento realizza completamente uno degli artifici della retorica: evoca-re e porevoca-re sub oculos oggetti assenti: «conduce gl’oggetti visibili così vicini all’occhio e così grandi e distinti gli rappresenta, che quello che è distante, verbigrazia, nove miglia ci apparisce come se fusse lontano un miglio solo». «Grandi e distinti gli rappresenta»: è istanza comune delle discipline speri-mentali – soddisfatta dai nuovi strumenti che potenziano lo sguardo – e del-la filosofia cartesiana che gli oggetti dell’osservazione sensibile e deldel-la specu-lazione appaiano chiari e distinti.33

30 G. JOri, Per evidenza cit., p. 265 (nel capitolo Incertezza, pp. 255-268). 31 Ivi, p. 81.

32 Ivi, p. 82. 33 Ivi, pp. 82-83.

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L’ammirazione stupefatta con cui lo sguardo umano coglie per la pri-ma volta la realtà lontana “come se” fosse vicina, quasi toccandola, sperimenta l’ordine del reale mediante la sua rappresentazione defor-mata, ma proprio per questo più veridica, perché iconicamente e

quin-di esteticamente connotata. A una simile quin-dinamica

percettiva-interpre-tativa condusse, qualche secolo prima di Galilei, l’“invenzione” della prospettiva in pittura, che deforma la realtà per adeguarla alla perce-zione dell’occhio, creando uno spazio “reale” proprio attraverso una rappresentazione errata, non corrispondente al vero.

Letteratura e pittura, poesia e scienza, retorica e argomentazione dialettica si congiungono così nell’atto rivoluzionario che fa vedere e

rappresenta la realtà attraverso la vita nuova dello sguardo e della

pa-rola, legati insieme in un’ostensione che “dimostra” perché “mostra”. Le due grandi invenzioni di Galilei, il cannocchiale e la nuova

pro-sa, in una «fusione perfetta fra evidenza conoscitiva ed evidenza del

linguaggio»,34 diventano modello di una radicale ri-lettura e ri-scrit-tura del mondo:

La “geometrizzazione” dell’universo nel linguaggio visivo delle forme fisiche non implica [...] un inaridimento, ma piuttosto un arricchimento del dialo-go fra l’uomo e la natura. Se si deve affacciare il concetto di alienazione nei confronti di un cosmo oggettivo ed estraneo, tutto fa credere che almeno per Galileo esso colpisca chi resta dentro il “laberinto” mondano senza scoprir-ne la chiave, il filo razionale liberatore. Le cose sono mute e l’universo risul-ta indecifrabile come un volume di cui non si possiede il codice e di cui sfug-ge la lingua, sino a quando non se ne ricostruisce il “sistema” di regole che può attribuire alla varietà dei segni un ordine e un significato. Lo sguardo scientifico insegna, attraverso l’astrazione che è immanente ai processi sinte-tici dell’occhio, a unificare la ricchezza dispersa degli spettacoli naturali e a spiegarla nella semplicità di un linguaggio coerente e rigoroso, tanto più efcace quanto più è in grado, combinando instancabilmente le sue “misere fi-gure”, di tradurre e ritenere le immagini diversissime della realtà.35

34 Ivi, p. 105.

35 e. raimOndi, La nuova scienza e la visione degli oggetti (1969), in id., I sentieri del let-tore, voll. 3, II, Dal Seicento all’Ottocento, a cura di A. Battistini, Bologna, il Mulino, 1994,

pp. 9-60 (a p. 25). L’allusione al «laberinto» richiama la pagina celebre del Saggiatore, citata da Raimondi nella pagina precedente (p. 24), sul «grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo)», che «non si può intendere se prima non s’impara la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto», senza la comprensione dei qua-li l’esplorazione del mondo «è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto».

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4. «Ci diede il colpo di grazia la scoperta del telescopio: altra mac-chinetta infernale, che può fare il paio con quella che volle regalarci la natura. Ma questa l’abbiamo inventata noi, per non esser da meno. Mentre l’occhio guarda di sotto, dalla lente più piccola, e vede gran-de ciò che la natura provvigran-denzialmente aveva voluto farci vegran-der pic-colo, l’anima nostra, che fa? Salta a guardar di sopra, dalla lente più grande, e il telescopio allora diventa un terribile strumento, che subis-sa la terra e l’uomo e tutte le nostre glorie e grandezze.

Fortuna che è proprio della riflessione umoristica il provocare il sentimento del contrario; il quale, in questo caso, dice: “Ma è poi ramente così piccolo l’uomo, come il telescopio rivoltato ce lo fa ve-dere? Se egli può intendere e concepire l’infinita sua piccolezza, vuol dire ch’egli intende e concepisce l’infinita grandezza dell’universo. E come si può dir piccolo dunque l’uomo?”».36

L’ironia filosofica di Pirandello, riprendendo sottotraccia la medi-tazione pascaliana sui «deux abîmes» fra i quali si installa «ce raccourci d’atome» che è l’essere umano,37 riconosce proprio nel telescopio ga-lileiano, però rovesciato, lo strumento di una peculiare «filosofia del lontano» che si impernia su due movimenti contraddittori: «un avvi-cinamento analitico, avvicinato fino alla deformazione, e [...] un istan-taneo doloroso distacco dall’oggetto, senza mezzi termini, come di un frutto che ci vien negato nel momento in cui stiamo per coglierlo».38

Anche la luna, che il cannocchiale di Galileo ha strappato alla sua algida, eterna distanza rispetto alla terra, si distacca da una relazione di lontananza, di differenza, proprio nel momento in cui l’occhio umano ne mostra e dimostra la consistenza, che è di natura terrestre, corrutti-bile, transeunte. La dialettica fra il «vedere» e l’«intendere» qui è lace-36 l. pirandellO, L’umorismo, Parte seconda, V, in id., Saggi e interventi, a cura e con

un saggio introduttivo di F. Taviani e una testimonianza di A. Pirandello («Opere di Luigi Pirandello», ed. diretta da G. Macchia), Milano, Mondadori, 2006, pp. 775-948 (a p. 944).

37 b. pascal, Pensées, II 72, in id., Pensées et opuscules, a cura di L. Brunschvicg, Paris

1905, p. 349. Sulla presenza di Pascal nella filosofia della storia pirandelliana e in particola-re nella «dichiarazione di poetica dell’“umorismo”, basata sulla scomposizione del particola-reale at-traverso il “sentimento del contrario”», si veda d. FaraFOnOVa, Pirandello lettore di Pascal. Premesse al Fu Mattia Pascal, «Lettere italiane», LXV, 2013, 1, pp. 29-69 (la frase citata a

p. 46); in particolare si veda il paragrafo su Il “cannocchiale rovesciato”, invenzione di

matri-ce pascaliana, pp. 55-60 (a p. 57 cita il passo di Giovanni Macchia che riporto di seguito). 38 G. macchia, Un cannocchiale rovesciato, in id., Pirandello o la stanza della tortura,

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rante. L’approssimazione di Galilei alla certezza conoscitiva, che passa per bagliori, rivelazioni parziali, sperimentazioni progressive dell’evi-denza capace di strappare il velo illusorio dell’apparenza, ricorda quei «lueurs cignotantes de l’epignose», fugaci barlumi della «reconnaissan-ce» che si forma attraverso l’esperienza del «dessillement des yeux»: secondo Vladimir Jankélévitch essi «ne font pas une lumière et n’ont pas le temps d’éclairer notre chemin ni même de nous indiquer la di-rection: tout au plus peut-on dire que, tel l’oracle de Delphes selon Héraclite, elles nous font signe».39 La caduta catastrofica del sistema fisico-metafisico greco-latino e medioevale si produce nell’accostamen-to di due processi di ri-conoscimennell’accostamen-to: ovvero nell’equilibrio fra «la reconnaissance définitivement acquise, [...] la reconnaissance qui re-connaît pour toujours et qu’Aristote appelle ἀναγνώρισις», e «la recon-naissance fulgurante, aussitôt obnubilée par la méconrecon-naissance» che Jankélévitch stesso definisce ἐπίγνωσις». «Et comme il y a deux formes de reconnaissance, les yeux aussi connaissent deux formes de dessille-ment: un dessillement-pour-toujours qui peut être soudain au moment où il s’accomplit, mais, a partir de ce moment, s’avère définitif, et un dessillement à la fois subit et instantané; ce deuxième dessillement des yeux, c’est la révélation que nous apporte l’épignose».

L’epignosi, svelamento folgorante, spalancamento degli occhi nel ri-conoscimento fulmineo della realtà fino a quell’istante celata, è l’e-vento in cui l’immagine dialettica, secondo il già ricordato

Passagen-Werk di Walter Benjamin, «giunge a leggibilità in una determinata

epoca storica». Con finissima intuizione, tanto più valida per l’incro-ciarsi di arti e scienze nell’episteme barocca, Jankélévitch suggerisce che l’epignosi, questa forma impalpabile di conoscenza istantanea, di ri-conoscimento che «porta a leggibilità il mondo», spartisca una na-tura lieve e pulviscolare con il tocco dell’artista, il «coup de pinceau» che è la maniera del pittore: «La touche, étant la fine pointe de l’im-palpable et de l’efférence, ne peut à son tour être qu’effleurée, et fu-gitivement reconnue dans l’éclair de l’épignose; elle se réduit alors à une impondérable tangeance».40

39 V. JankéléVitch, Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, voll. 3, II, La méconnaissance. Le malentendu, Paris, Seuil, 1980, pp. 167-169 (nel cap. V, La reconnaissance, pp. 117-179,

§ 17, Dessillement des yeux. II: L’épignose. Apparition disparaissante dans la nuit, pp. 166-170). Da qui anche le citazioni che seguono.

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Pittori e scienziati, poeti ed esploratori, condividono il sogno di un contatto diretto con la realtà che riesca a scavalcare i confini del-la nostra umana fralezza. Questa è l’ossessione di chi dimostra «per evidenza» e di chi cerca sfiorando i bordi impercettibili del «non so che» e del «quasi nulla». Come il Don Chisciotte, esploratore di un universo tutto mentale, che pochi anni prima (1605) Miguel de Cer-vantes ha ideato in Spagna, anche Galilei è assediato dalle pale di al-legorici mulini a vento, cioè da un pensiero ininterrotto ma carico del-la categoria ontologica deldel-la modernità, l’inquietudine, di incertezze e di dubbi, di passi avanti e di ritorni, che lampeggiando si fa lumino-so e procede aprendo gli occhi della mente: «Il mio cervello inquie-to non può restar d’andar mulinando, e con gran dispendio di tempo, perché quel pensiero che ultimo mi sovviene circa qualche novità mi fa buttare a monte tutti i trovati precedenti».41

Lo sguardo rivolto verso il cielo e il conseguente riconoscimento di

una visibilità celata nell’invisibile: la visione del mondo moderna passa

per questo gesto rivoluzionario, catastrofico, che gli artisti e gli scien-ziati compiono in perfetta sincronia, nel passaggio fra il XVI e il XVII secolo, proprio nel momento in cui, come ho detto, l’ombra invade la tela caravaggesca, in quanto necessario rovescio della luce. Solo la visio-ne delle nuvole, che appassiona, oltre che i meteorologi, i pittori (Man-tegna, Géricault, Turner, Dillis), i fotografi (Ghirri) e i registi (Pasolini,

Che cosa sono le nuvole?), contiene un’altrettanto forte carica

gnoseo-logica ed epistemognoseo-logica: «La nuvola è la parte “visibile” del cielo. È anche l’oggetto figurativo che meglio incarna la poetica (e la retorica) dell’approssimativo. Diverse cause spiegano questo fatto. La visione/nu-vola (oppure la visione dentro la nuvisione/nu-vola) è in parte un “bianco”. Inol-tre, la nuvola offre probabilmente l’essenza stessa di ciò che la moder-na “estetica della ricezione” indica col nome di “spazio vuoto” [...]. Il carattere dinamico della nuvola, le sue costanti metamorfosi, ne accre-scono la primigenia incertezza, trasformando la loro contemplazione in un esercizio che non finisce affatto nell’acquisizione di una certezza».42

41 G. Galilei, Lettera a Fulgenzio Micanzio a Venezia, da Arcetri, 19 novembre 1634,

nell’Edizione Nazionale delle Opere galileiane, vol. XVI, pp. 162-163; si legge anche in G. Galilei, Lettere cit., pp. 205-207.

42 V. i. stOichit¸a˘, Uno sguardo verso il lontano, in id., Cieli in cornice. Mistica e pittura nel Secolo d’Oro dell’arte spagnola [1995], trad. it., Roma, Meltemi, 2002, p. 102. In un mio

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Riprendendo la bella formulazione già rammentata di Van Hel-den dirò che Galilei, nel suo esercizio di progressivo ri-conoscimento, ha davvero «riportato la Luna sulla Terra», certo più di quanto abbia «elevato la Terra alle altezze celesti». Cogliendo il frutto di un mille-nario desiderio, in certo modo lo nega. Il suo gesto rivoluziomille-nario non consiste soltanto nel consentire all’occhio umano di penetrare negli spazi siderali fino a quel momento colmati di mitologia pagana e pen-sati dal pensiero cristiano in chiave metafisica, ma soprattutto nel

de-metafisicizzare il cielo, se così si può dire: dalle sue esplorazioni

scatu-risce la prova della terrestrità della luna, vista infine come un satellite unito da un inscindibile legame, nel suo movimento e nelle sue fasi di visibilità, al nostro eterno ruotare intorno al sole.

5. La luna, insomma, è della stessa pasta della terra. Della terra ha la bellezza e i difetti, in particolare la rugosità, quasi uno stigma di sconfinata decrepitezza. Galileo per primo nega l’immagine secolar-mente venerata della Dea notturna dal volto levigatissimo e lucente, vergine e cacciatrice, umorale, “lunatica”: la «Regina della Notte», la «casta Diva» di cui resterà traccia nell’immaginario popolare e creati-vo fino alla Zauberflöte di Mozart e alla Norma di Bellini; ma anche la figura mariana, riassunta per sineddoche nel levigato, virgineo disco di eterna purezza, etereo, che Ludovico Cardi da Cigoli fra il 1610 e il ’13 sintetizzerà nel celebre affresco di Maria Immacolata, nella cap-pella Palatina di Santa Maria maggiore, a Roma, cui fanno da corona le stelle e che poggia sullo spicchio di una luna galileiana, rugosa per monti e mari, ispirata immediatamente dal Sidereus Nuncius.43

Nella prima descrizione che Galileo offre di quel bel volto sogna-to per secoli, e infine scrutasogna-to da vicino e descritsogna-to come un oggetsogna-to a portata di mano in primo piano, a prevalere sono le rughe, i segni del tempo e della consunzione. La luna, come credono i poeti e i fanciul-li nella splendida pagina delle Operette morafanciul-li di Leopardi con cui ho aperto il mio discorso, ha «veramente [...] bocca, naso e occhi, come

Shakespeare et quelques proches realizzato il 6 e il 7 novembre 2014 presso l’Institut d’Études

littéraires du Collège de France a Parigi, ho approfondito il senso di questo «carattere dina-mico della nuvola». Luigi Ghirri, in Infinito, fotografa per 365 giorni il cielo, quindi anche le nuvole: si veda, in Internet, il sito http://www.cultframe.com/2001/12/%E2%88%9E- infinito-un-libro-di-luigi-ghirri/

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ognuno di loro». Anzi, quel viso è segnato da una superficie rugosa, che ricorda con esattezza sconcertante i monti e le valli, le increspatu-re e i solchi da cui è scincrespatu-reziata la nostra antichissima terra:

Istæ autem maculæ, subobscuræ et satis amplæ, unicuique sunt obviæ, illa-sque ævum omne conspexit; quapropter magnas, seu antiquas, eas appellabi-mus, ad differentiam aliarum macularum amplitudine minorum, at frequen-tia ita consitarum, ut totam Lunarem superficiem, præsertim vero lucidiorem partem, conspergant; hæ vero a nemine ante nos observatæ fuerunt: ex ipsa-rum autem sæpius iteratis inspectionibus in eam deducti sumus sententiam, ut certo intelligamus, Lunae superficiem, non perpolitam, æquabilem,

exactis-simæque sphæricitatis existere, ut magna philosophorum cohors de ipsa deque reliquis corporibus cælestibus opinata est, sed, contra, inæqualem, asperam, ca-vitatibus tumoribusque confertam, non secus ac ipsiusmet Telluris facies, quæ montium iugis valliumque profunditatibus hinc inde distinguitur.44

Poche pagine dopo, quando ormai la percezione ottica si è trasfor-mata in rappresentazione estetica, e anche Galilei è diventato pittore attraverso i celebri, bellissimi acquerelli che, trasformati in incisioni, accompagnano il Sidereus nuncius (Fig. 2), d’improvviso la prosa s’ac-cende di metafore e di similitudini.45 Le immagini che le macchie lu-nari fanno balenare dinanzi ai suoi occhi stupefatti sbocciano in rapi-dissime, cangianti metamorfosi da caleidoscopio barocco, che aprono a nuove potenzialità l’ispirazione poetica sulla luna, ben oltre i

confi-44 G. Galilei, Sidereus nuncius cit., p. 18 (i corsivi sono miei). Offro qui, per la sola

frase finale in corsivo, la versione storica di Vincenzo Viviani, che traggo da e. Falqui, An-tologia della prosa scientifica italiana del ’600, Roma-Milano, Augustea, 1930, pp. 462-466

(Meraviglie della faccia lunare): «La superficie lunare non è altrimenti pulita, eguale e di una sfericità perfettissima (come di essa Luna e delli altri corpi celesti moltissimi filosofi hanno fermamente tenuto), ma all’incontro, diseguale, aspra e ripiena di cavità e tumori, non altri-menti che la faccia dell’istessa Terra, la quale di qua e di là in altezze di monti e profondi-tà di valli è distinta» (p. 463).

45 Nel magnifico libro dedicato proprio alla natura radicalmente artistica

dell’episte-me di Galileo, e impiantato sul principio della «künstlerische Evidenz als Kukturkritik», Horst Bredekamp ha studiato le incisioni galileiane e la «Maltechnik» che le ha generate, individuando anche un esemplare dell’edizione originale del libro, oggi in collezione privata a New York, contenente alcuni disegni ad acquerello che «als Skizzen eingetragen wurden, die in ihrer Mischung aus Fahrigkeit und Genauigkeit beeindrucken»: h. bredekamp, Gali-lei der Künstler cit., specie capp. III, Künstlerische Evidenz als Kukturkritik, pp. 25-82; VI, Die Florentiner Zeichnungen, pp. 131-148; VII, Die Zeichnungen des Sidereus Nuncius ML,

pp. 149-176: da qui la citazione, a p. 155). Di quell’esemplare è stata recentemente messa in discussione l’autenticità: ma questo non intacca affatto la solidità epistemologica e il rigore argomentativo del libro di Bredekamp.

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ni della “maniera lunare” da secoli ripetitiva: ecco «gli occhi cerulei d’una coda di pavone» («instar pavonis caudæ cæruleis oculis»), ecco la figura marezzata e ondìvaga, che sembra anticipare di secoli i

cret-ti di Alberto Burri, di «quei vasetcret-ti di vetro che, poscret-ti ancora

incan-descenti in acqua fredda, acquistan superficie screpolata e ineguale, onde son detti dal volgo bicchieri di ghiaccio» («vitrei illis vasculis red-ditur consimilis, quæ adhuc calentia in frigidam immissa, perfractam undosamque superficiem acquirunt, ex quo a vulgo glaciales Gyathi nuncupantur»).46

Giochi di catottrica, illusioni ottiche, ombre e sfumature vaghe che prendono forma precisa; la curiositas si emancipa dall’ipoteca agosti-niana della cupiditas trasgressiva e pericolosa. Come ha rilevato Hans Blumenberg e ribadito Ezio Raimondi, «Galileo ha un ruolo di pri-mo piano nella riabilitazione dell’impulso epistemico nella sua natura-lezza originaria, nella sua apertura sensibile e vibrante al mondo delle cose».47 Riscattando «la conoscenza, il diritto naturale della curiosi-tà, dal modello magico della proiezione antropomorfa, dalla illusione o dalla superbia di porsi al centro del cosmo e di adattarlo ai propri “vani desideri”» (il richiamo è all’Orlando Furioso, XXXIV 75, 4-5), Galileo si pone «quasi sulla strada di un Bildungsroman», il «romanzo itinerante del curioso» che si compirà nel Saggiatore.48

Il «curioso», procedendo nell’aventure mirabile di un cavaliere er-rante del cosmo, descrive gli oggetti lontanissimi e ora vicinissimi che per la prima volta nella storia dell’uomo e della natura “diventano” im-magini ottiche, disegni, dipinti: «Sfruttando le sue abilità pittoriche, tivate fin dalla giovinezza, eseguì sette splendidi acquerelli [...] che col-piscono sia per il loro aspetto realistico, sia per il modo in cui riescono

46 G. Galilei, Sidereus nuncius cit., pp. 22-23. Così tradusse Vincenzo Viviani:

«Que-sta lunar superficie, dove, a guisa di coda occhiuta di pavone, è sparsa di macchie, si rende simile a que’ vasetti di vetro, che immersi nell’acqua ancor caldi, acquistano una superficie ondosa e screpolata, di dove han preso nome dal vulgo vasi o bicchieri di ghiaccio» (e. Fal -qui, Antologia cit., p. 463). Tale figurazione è già stata esaminata da c. OssOla, Galileo: me-tafisiche trasparenze, in Principio di secol novo. Saggi su Galileo, a cura di L. Radicati di

Bro-zolo, Pisa, Archimedia, 1999, pp. 291-314; poi nel volume dello stesso: A vif. La création et

les signes, Paris, Imprimerie Nationale, 2012, specie alle pp. 41-43.

47 e. raimOndi, L’esperienza, un “curioso” e il romanzo (1989), in id., I sentieri del letto-re cit., II, pp. 61-75 (a p. 65, dove si rinvia a h. blumenberG, Der Prozess der theoretischen

Neugierde, Frankfurt am Main, 1973, specie pp. 203-210, «con l’antecedente metodologico

dei suoi Paradigmi per una metaforologia, Bologna, 1969»).

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a rendere la plasticità della superficie lunare».49 In sette notti, fra il 30 novembre e il 18 dicembre 1609, e poi il 19 gennaio 1610, Galileo, con pazienza certosina, «aliqua cum admiratione»,50 spostando lo strumento da una zona all’altra della superficie del satellite, diventa “in presa di-retta” insieme esploratore lunare e pittore di una realtà mai prima vista, scrutatore e rappresentatore di ciò che da sempre era, inattingibile, sot-to gli occhi dell’uomo. Proprio «la messa in immagine, da cui dipende-va il successo delle dipende-varie fasi dell’osserdipende-vazione», è uno dei momenti più delicati dell’osservazione. «La scoperta del paesaggio lunare scabro, irre-golare, con avvallamenti e monti, segnava senza dubbio una svolta epo-cale: costringeva a ripensare la tradizionale gerarchia degli spazi, demo-lendo la radicata convinzione che tra la Terra e i corpi celesti sussistesse una differenza sostanziale».51 Ma la «messa in immagine» è un’operazio-ne anzitutto mentale, che implica un atteggiamento da artista, una tec-nica da pittore, una mano da disegnatore e da incisore.52

Tradurre in immagine quella stupefazione, dell’admiratio sconfina-ta, che dopo la visione del suolo lunare accompagnò la scoperta dei pianeti di Giove, significava in primo luogo rivelare all’umanità che la luna è una piccola terra, «non perpolitam, aequabilem, exactissimaeque sphaericitatis», come una schiera sterminata di filosofi e fisici ha sem-pre creduto. Gli occhi di Galileo Galilei, in quella fatale svolta d’anno, dovettero palpitare come solo quelli di John Armstrong avrebbero fat-to, trecento anni più tardi, per un’emozione nuova (anche se non ne-cessariamente più forte), quando il primo piede umano calcò la polvere lunare. Negli interstizi di questo «infinito stupore» dinanzi al fatto che «la Luna sia un corpo similissimo alla Terra» 53 c’è spazio perché pren-dano forma nella fantasia umana le mille invenzioni secolari intorno alla sostanza di cui è composto quel meraviglioso corpo notturno e lucente, e sul rischio apocalittico che la sua distanza da noi si riduca, fino allo schianto: «Il latte lunare [...] molto denso, come una specie di ricotta»,

49 m. bucciantini, m. camerOta, F. Giudice, Il telescopio di Galileo cit., p. 62. 50 G. Galilei, Sidereus nuncius cit., p. 26.

51 Questa citazione e la precedente sono estratte da m. bucciantini, m. camerOta,

F. Giudice, Il telescopio di Galileo cit., p. 63.

52 Cfr. h. bredekamp, Galilei der Künstler cit., specie pp. 189-208, Galilei als Stecher? 53 Così lo stesso Galilei scrivendo da Venezia a Belisario Vinta, a Firenze, il 30 gennaio

1610: si veda, nell’Edizione Nazionale delle Opere galileiane, il vol. X, pp. 280-281, e in G. Galilei, Lettere cit., pp. 74-75 (a p. 75).

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che, su quel «suolo crostoso», «si formava negli interstizi tra scaglia e scaglia per la fermentazione di diversi corpi e sostanze di provenienza terrestre, volati su dalle praterie e foreste e lagune che il satellite sorvola-va» di Italo Calvino (La distanza della Luna); 54 la «luna molle» di un’al-tra Cosmicomica («Luna è molle molle, la Terra è dura, solida, la Terra tiene. – E la Luna, se non tiene? – Oh, sarà la forza della Terra a farla stare a posto»); 55 la splendida, tragicomica caduta della luna del fram-mento leopardiano Odi Melisso (a cui si ispirerà Pirandello), che, una notte, «all’improvviso / distaccasi», e piomba miseramente sulla terra: «venne / a dar di colpo in mezzo al prato; ed era / grande quanto una secchia, e di scintille / vomitava una nebbia, / che stridea sì forte come quando un carbon vivo / nell’acqua immergi e spegni».56

All’origine di questo immaginario polimaterico stanno le rughe, le valli, i monti, i mari, che Galilei aveva intuito nel telescopio, “inven-tato” e tradotto in immagini dedotte dall’esperienza terrestre e ricrea-to infine nelle figure sulla carta, infine verbalizzate; l’astronauta del 1969 le sentì sotto di sé, come se passeggiasse su un litorale sabbioso o su un altopiano desertico. Affratellate dallo slancio dell’immagina-zione di due uomini lontanissimi nel tempo e nello spazio, la Luna e la Terra ricombaciavano finalmente, specchio l’una dell’altra, sassose, montuose, piene di valli, di mari, di continenti. Da «casta Diva» dei cieli la Luna si declassava a replica del pianeta terrestre, però deser-ta, desolata: una waste land riconosciuta nell’età in cui il mondo cam-biava faccia e una katastrophé epocale trascinava via le macerie di un modo di pensare la natura e la storia dell’uomo.

Questo appunto colpisce, negli acquerelli e nelle incisioni lunari di Galileo: l’esattezza microscopica con cui la sua mano trasferisce sulla car-ta gli avvallamenti, i crateri, le distese sconfinate di ombra e di lumino-sità fredda, senza colore. Ma al centro del nostro interesse non c’è solo la tecnica di uno sguardo che trasforma una scoperta scientifica in una 54 i. calVinO, La distanza della Luna, in id., Tutte le Cosmicomiche (1984), a cura di

C. Milanini, Milano, Mondadori, 2002, pp. 9-24 (a p. 12).

55 id., La molle Luna, ivi, pp. 155-163 (a p. 159).

56 G. leOpardi, Canti, Frammenti, XXXVII, in id., Poesie e prose, vol. I, Poesie, a cura

di M. A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti, Milano, Mondadori, 1987, pp. 136-137 (a p. 136). Il giovane Leopardi, nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, cap. IV, raccol-se molti luoghi classici intorno alla credenza che la forza della magia possa riuscire a far ca-dere la luna sulla terra.

Figura

Fig. 1. t h .  h arriOt , disegno, 26 luglio

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