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La progressione del danno renale nel rene policistico e l'inizio della terapia sostitutiva

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Riassunto

La malattia policistica renale è una malattia ereditaria

multi-organo, ad esordio tardivo, caratterizzata in primo luogo dalla presenza di numerose cisti che interessano il parenchima di entrambi i reni. L'ADPKD è la malattia renale ereditaria più frequente e la sua prevalenza alla nascita è di un caso ogni 400-1000 nuovi nati, rappresentando l' 8% dei pazienti uremici in trattamento dialitico. La malattia è caratterizzata da un esordio in età adulta nella maggior parte dei casi: la formazione delle cisti avviene progressivamente con graduale aumento delle dimensioni e conseguente riduzione delle strutture del parenchima renale. Ciò comporta una progressiva riduzione della funzione renale sino a giungere all'insufficienza renale cronica.

L' ADPKD è una malattia a carattere autosomico dominante, quindi si ha una trasmissione verticale nella famiglia, da genitore a figlio, con individui affetti in ogni generazione. Il 5% dei soggetti non presenta familiarità ed in questi casi è ipotizzabile una mutazione de novo.

Sono noti due geni che quando mutati causano ADPKD: il gene PKD1, localizzato sul cromosoma 16, mutato nell'85% dei casi; il gene PKD2, sul cromosoma 4, responsabile del 15% dei casi. Un ulteriore locus è stato ipotizzato ma non è mai stato confermato. La maggioranza dei soggetti PKD1 sviluppa insufficienza renale terminale nel corso della vita, mentre molti individui ADPKD2 (specie femmine) conservano un'adeguata funzione renale anche in tarda età.

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percentuale di casi: sono infatti documentabili cisti in altri organi, in particolare il fegato; alterazioni a carico dell'apparato gastroenterico, quali ernie ombelicali ed inguinali; anomalie cardiovascolari, quali aneurismi intracranici; anomalie valvolari cardiache.

Diversi sono i fattori che possono influire sul decorso della malattia, in particolare: il gene mutato, in quanto i pazienti con mutazione di PKD1 presentano un decorso clinico peggiore; l'ematuria, spesso macroscopica, si manifesta nel 35-50% dei casi e può essere il sintomo d'esordio della malattia; la proteinuria, che sebbene sia relativamente poco frequente, se è >1g/24h si associa ad una progressione più rapida verso l'insufficienza renale; la gravidanza nelle pazienti affette determina un aumentato rischio di ipertensione gestazionale e di pre-eclampsia; l'ipertensione arteriosa accompagna il decorso dell'ADPKD nel 50-70% dei casi e compare tra 30 e 34 anni; il sesso del paziente in quanto la malattia decorre in modo lievemente più rapido nel sesso maschile rispetto al femminile.

Ad oggi sono stati effettuati numerosi studi per valutare i fattori che influenzano il decorso e la prognosi della malattia e per individuare eventuali terapie in grado di rallentarne l' evoluzione verso lo stadio terminale dell'insufficienza renale.

Lo scopo del nostro studio era quello di valutare l’età media in cui i pazienti seguiti presso la U.O. di Nefrologia, Trapianti e Dialisi dell'Ospedale Cisanello di Pisa hanno iniziato il trattamento dialitico. Abbiamo quindi esaminato i markers di declino della funzione renale con l’intento di evidenziare eventuali fattori in grado di rallentare o accelerare il decorso della malattia.

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I risultati ottenuti concordano con i dati della letteratura eccezion fatta per l' età di ingresso in dialisi per la quale non è stato possibile identificare due distinte popolazioni che riflettessero la mutazione genetica alla base della patologia.

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Capitolo 1

IL RENE POLICISTICO

1.1 Introduzione

La malattia policistica è la più frequente patologia ereditaria renale e rappresenta la quarta causa di insufficienza renale cronica terminale, responsabile dell’8% dei trattamenti dialitici sostitutivi nei Paesi Occidentali.

Si caratterizza per la presenza di numerose cisti, di dimensioni differenti, che interessano il parenchima di entrambi i reni. La formazione delle cisti avviene gradualmente, determinando un progressivo sovvertimento strutturale del parenchima renale a carattere evolutivo che porta in ultima analisi allo sviluppo di insufficienza renale terminale [1].

Sono note due diverse forme di malattia: la forma a trasmissione autosomica dominante (ADPKD) è di gran lunga la più frequente con un’incidenza di un caso ogni 400-1.000 soggetti; quella a trasmissione autosomica recessiva (ARPKD), molto rara, si presenta con una frequenza di 1:10.000 nati vivi [2].

1.2 La forma dominante

L’ADPKD è una malattia caratteristica ma non esclusiva dell’adulto; è infatti ormai noto che può manifestarsi anche nei bambini di tutte le età, dalla vita intrauterina fino all’adolescenza, nonostante la

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maggior parte dei casi venga diagnosticata in età adulta.

Si tratta in realtà di una patologia sistemica che può coinvolgere non soltanto i reni, ma anche altri organi addominali quali il fegato, il pancreas e il tratto intestinale, così come il cuore e i vasi sanguigni. L’espressività fenotipica è molto variabile, anche all’interno della stessa famiglia, sia per quanto riguarda la severità del coinvolgimento cistico renale che per le manifestazioni extrarenali. I maschi e le femmine sono ugualmente colpiti e la malattia è presente in tutte le razze e le etnie.

Sono noti due geni la cui mutazione è responsabile della malattia: il gene PKD1, localizzato sul braccio corto del cromosoma 16 e codificante la proteina Policistina-1 (PC1), risulta mutato nell’85% dei casi [3]; il 10-15% dei pazienti presenta invece una mutazione del gene PKD2, situato sul cromosoma 4, che codifica per la Policistina-2 (PC2). Un ulteriore locus è stato ipotizzato ma non ancora mappato.

La Policistina-1 è un recettore di membrana, il cui ligando non è ancora stato identificato, che contiene numerosi domini extracellulari e intracellulari indicativi di interazione cellula-cellula e cellula-matrice intracellulare; la Policistina-2 è una proteina transmembrana che agisce come canale del calcio. Le due proteine interagiscono fra loro formando un complesso funzionale sulla superficie del “ciglio primario”, presente in quasi tutte le cellule tubulari renali e nei tubuli collettori. Nel rene normale la PC1 e la PC2 agiscono come meccanocettori regolanti l’entrata di calcio a livello intracellulare. Il flusso di calcio attiva sistemi intracellulari come fattori di crescita e cAMP che vengono conseguentemente attivati al fine di controllare la proliferazione, migrazione, differenziazione e morfogenesi renale.

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L’azione combinata delle policistine consente il mantenimento della normale struttura dell’architettura tubulare. Una mutazione genetica in una delle due proteine determina quindi un’alterazione della regolazione di calcio intracellulare che si traduce nella comparsa di cellule tubulari iperplastiche e sdifferenziate, non più in grado di formare strutture tubulari. Questo conduce alla dilatazione progressiva del tubulo che colpisce gradualmente tutti i nefroni. Nella zona dilatata inoltre si osservano ispessimento, slaminamento e disorganizzazione della membrana basale tubulare, a causa dell’alterazione dei vari proteoglicani che la compongono. A ciò si aggiunge un’aumentata secrezione di liquido cistico da parte delle cellule epiteliali, responsabile del graduale aumento di volume delle cisti e dell’organo in toto e della conseguente progressiva distruzione del parenchima renale.

Benché tutte le cellule epiteliali renali alberghino la mutazione germinale, è stato stimato che solo l’1-5% dei nefroni va incontro a degenerazione cistica. Questa espressione focale della malattia è riconducibile al meccanismo patogenetico di formazione delle cisti che prevede la contemporanea presenza di una mutazione germinale e di una seconda mutazione acquisita, di tipo somatico, a carico di entrambi gli alleli (la cosiddetta “two hit hypothesis”). Solo le cellule che manifestano anche la mutazione somatica vanno incontro allo sviluppo delle cisti. L’ADPKD è pertanto una malattia autosomica dominante secondo la genetica classica, ma il meccanismo cellulare molecolare è di tipo recessivo.

Il difetto primario della produzione di policistina è responsabile anche della comparsa di cisti a livello di altri organi (in particolare

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fegato e, in minor misura, pancreas, vescicole seminali, aracnoide, meningi spinali) nonché di varie anomalie a carico di diversi organi e apparati imputabili ad un difetto generalizzato nella funzione della matrice extracellulare o ad alterata espressione del gene PKD in cellule della muscolatura liscia arteriosa e dei miofibroblasti. Tra le principali manifestazioni non cistiche extrarenali: prolasso della valvola mitrale, aneurismi intracranici ed ernie.

Diversi meccanismi genetici, non del tutto noti, contribuiscono probabilmente all’espressione fenotipica della malattia [2].

La ADPKD può anche essere parte di sindromi genetiche più complesse come la Sindrome di Von Hippel- Lindau o la Sclerosi Tuberosa [3], evenienza che dovrebbe sempre essere esclusa al momento della diagnosi attraverso un’accurata ricerca di segni e alterazioni indicanti la presenza di una di queste patologie.

1.3 La forma recessiva

La forma recessiva (ARPKD) è una condizione confinata ai soli reni o al più anche al fegato e ai polmoni.

I pazienti affetti sono per lo più bambini, ma la malattia può anche manifestarsi soltanto a partire dall’adolescenza o addirittura in età adulta. L’espressività fenotipica è assai meno variabile di quella della forma dominante.

L’incidenza è stimata intorno a 1:10.000, ma questi numeri potrebbero sottostimare la reale incidenza della malattia, dal momento che le forme più severe portano a morte il neonato affetto nei primi giorni dopo la nascita, a causa di ipoplasia polmonare (che rappresenta il risultato dell’oligoidramnios sviluppatosi durante la gestazione);

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questi pazienti possono non ricevere una diagnosi definitiva che inficia la stima dell’incidenza.

La ARPKD colpisce in ugual misura femmine e maschi ed è causata dalla mutazione del gene PKHD1 localizzato sul cromosoma 6; la proteina corrispondente è una proteina di membrana (fibrocistina) della quale si conosce ancora poco, ma che probabilmente funge da recettore.

Nonostante il meccanismo di formazione delle cisti sia lo stesso riscontrato nel ADPKD, le lesioni che si producono sono lievemente diverse: non si ritrovano infatti cisti macroscopicamente evidenti, ma ciò che si osserva è semplicemente la presenza di reni notevolmente ingranditi tanto da poter divenire palpabili, iperecogeni all’ecografia, associati o meno a epatomegalia e segni eventuali di ipertensione portale (splenomegalia e varici esofagee). L’aumento di volume di reni e fegato è da attribuire alla presenza di numerosissime piccole dilatazioni cistiche del diametro di 1-2 mm, che interessano l’epitelio dei tubuli renali e dei dotti biliari, associate a fibrosi degli spazi portali e interlobulari epatici (condizione che viene appunto detta “fibrosi epatica congenita o malattia di Caroli”).

I neonati affetti da forme meno severe di malattia superano il periodo perinatale sviluppando però nel tempo un’ insufficienza renale cronica, accompagnata spesso da macroematuria ed ipertensione arteriosa; a questo possono aggiungersi ritardo di crescita ed insufficienza epatica, qualora sia presente un elevato grado di coinvolgimento epatico[3].

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9 1.4 Sintomatologia e diagnosi di ADPKD

Nei primi 10 anni di vita i reni appaiono in genere normali, sia da un punto di vista anatomico che funzionale; dai 20 ai 30 anni l’ecografia permette di mettere in evidenza le prime cisti renali in pazienti ancora asintomatici, spesso affetti da ipertensione arteriosa. Dai 30 ai 40 anni la malattia diventa sintomatica e a partire dalla quarta-quinta decade di vita compaiono le alterazioni della funzionalità renale; il primo difetto in genere riscontrato è l’incapacità da parte del rene di concentrare efficacemente le urine, associato al rilievo di elevati valori di ADH. Entrambe queste alterazioni contribuirebbero alla cistogenesi, all’iperfiltrazione glomerulare che si osserva nei giovani adulti, allo sviluppo di ipertensione arteriosa e alla progressione dell’insufficienza renale.

Lo strumento più utilizzato per la diagnosi di ADPKD è l’ecografia o, in alternativa, la tomografia computerizzata. I criteri diagnostici ecografici recentemente stabiliti (Criteri di Ravine) si basano sul numero di cisti riscontrate in ciascun rene in relazione all’età del paziente:

 almeno 2 cisti monolaterali o bilaterali in soggetti di età inferiore ai 30 anni

 almeno 2 cisti in entrambi i reni in soggetti tra i 30 e i 59 anni  almeno 4 cisti in ciascun rene in soggetti oltre i 60 anni [2]

Se grazie all’ecografia è possibile oggi avere una diagnosi di certezza nella quasi totalità dei casi senza la necessità di ricorrere ad

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esami di secondo livello, più complesso può essere escludere la patologia in un paziente con familiarità positiva. Infatti la percentuale di falsi negativi è inversamente proporzionale all’età; in particolare l’assenza di lesioni ecografiche in un soggetto di età inferiore ai 30 anni non costituisce elemento sufficiente ad escludere la diagnosi. Nei casi dubbi si può far ricorso alle indagini genetiche.

Nella fase conclamata di malattia i reni appaiono notevolmente aumentati di dimensioni e di peso, con una superficie irregolare per la presenza di centinaia di cisti di diverse dimensioni. Microscopicamente le cisti appaiono rivestite da epitelio cubico; il parenchima circostante è costituito da pochi glomeruli, in parte con fenomeni di ialinizzazione, da fibrosi peritubulare e da possibili segni di pielonefrite [2].

Il sospetto diagnostico può essere posto sulla base del riscontro di sintomi che indirizzano verso l’apparato urinario, del rilievo di valori elevati di creatininemia o della presenza di anamnesi familiare positiva. In alternativa la diagnosi è incidentale.

Il sintomo iniziale più frequente è rappresentato dal dolore al

fianco, di tipo sordo, persistente, talvolta irradiato all’epigastrio o

all’ipogastrio, riconducibile allo stiramento della capsula renale o alla trazione sul peduncolo vascolare da parte di un rene di volume aumentato. Un dolore ad esordio acuto riflette invece una complicanza sovrapposta alla presenza di cisti renali, quale la rottura di una cisti, l’ostruzione ureterale da parte di una cisti voluminosa, l’emorragia cistica con passaggio o meno di coaguli nel tratto urinario, un processo infettivo coinvolgente le cisti o un episodio di urolitiasi.

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quanto l’epitelio che riveste la cisti è in grado di produrre VEGF, un fattore promuovente l’angiogenesi, con conseguente facilità di rottura dei vasi presenti a livello della parete cistica. Sebbene il dolore sia la modalità di presentazione più frequente del sanguinamento di una cisti, una comunicazione diretta della stessa con il tratto urinario può provocare la comparsa di macroematuria, che si manifesta nel 35-50% dei casi e può essere il sintomo di presentazione della malattia. Gli episodi sintomatici probabilmente sottostimano la frequenza dell’emorragia cistica, in quanto più del 90% dei pazienti presenta cisti iperdense (alla TC) o iperintense (alla RM) indicative della presenza di sangue o materiale proteico. La macroematuria può comparire inoltre in seguito alla presenza di calcoli, infezioni, traumi anche modesti o, meno comunemente, neoplasie concomitanti.

L’ipertensione arteriosa lieve o moderata si osserva nel 60%

dei casi. Ha spesso un esordio precoce che precede la riduzione del filtrato glomerulare. La patogenesi è multifattoriale: tra i principali fattori coinvolti vi sono l’attivazione del sistema renina-angiotensina, del sistema nervoso simpatico, dell’endotelina; un ruolo sembra essere svolto dalla ritenzione sodica (specie in presenza di insufficienza renale) e più recentemente dalla disfunzione endoteliale indotta dalla ridotta espressione delle policistine. Il ruolo relativo di ciascuno di questi sistemi è però difficile da valutare con certezza. Inoltre è stato suggerito che l’espansione delle cisti, determinando focali aree di ischemia renali e di incremento di produzione di renina, sia largamente responsabile almeno dell’aumento iniziale della pressione arteriosa.

Le infezioni delle vie urinarie compaiono in circa la metà dei

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recidivare. Le infezioni possono essere limitate al basso tratto urinario e manifestarsi con disuria e pollachiuria [4,5], oppure possono coinvolgere le alte vie escretrici determinando pielonefrite e/o infezioni delle cisti; in tal caso la sintomatologia sarà dominata dalla febbre elevata e dal dolore acuto al fianco [2]. Un’infezione che coinvolga preminentemente le cisti può decorrere con una urinocoltura negativa, se non vi è comunicazione fra tratto urinario e cisti; il corteo sintomatologico dovrà comunque far sospettare l’ infezione.

Circa il 20% dei pazienti presenta urolitiasi. Oltre la metà dei calcoli è composta da acido urico, i restanti da ossalato di calcio; i fattori, metabolici e non, alla base della loro formazione sono la ridotta escrezione di ammonio con conseguente basso pH urinario, l’ipocitraturia, la discreta prevalenza di iperossaluria e la stasi urinaria secondaria alla compressione diretta sull’apparato urinario da parte delle cisti.

Altri sintomi presenti possono essere i disturbi dispeptici (nausea, vomito, digestione difficile).

L’aumento di volume dei reni può comportare la comparsa di una

massa palpabile in sede ipocondriaca, bilaterale in un terzo dei casi.

Oltre alle cisti renali si osservano cisti a livello del fegato, delle

ovaie, del pancreas, dei testicoli, della tiroide e della milza. Le più

frequenti risultano essere di gran lunga quelle epatiche, presenti in circa il 50% dei pazienti; tipicamente non provocano sintomi e sono rare le forme gravi che causano insufficienza epatica con necessità di trapianto d’organo [2].

Gli aneurismi cerebrali sono una temuta complicanza

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pazienti, contro una prevalenza dell’1% nella popolazione generale. I pazienti con storia familiare positiva per aneurisma o emorragia intracranica/subaracnoidea mostrano un rischio più elevato (prevalenza 16%) rispetto ai pazienti senza familiarità (prevalenza 6%).

In considerazione del basso rischio di rottura di un aneurisma e delle severe complicanze neurologiche associate sia alla chirurgia tradizionale che alla radiologia interventistica, attualmente lo screening generalizzato attraverso angio-RM dei pazienti ADPKD non è giustificato. Una buona pratica clinica dovrebbe riservare lo screening, oltre che ai pazienti sintomatici, ai pazienti asintomatici ADPKD con storia familiare positiva per aneurismi cerebrali e/o emorragia subaracnoidea, in previsione di interventi di chirurgia maggiore con elevato rischio di instabilità emodinamica con ipertensione e in presenza di mansioni lavorative a rischio elevato per la comunità (es. pilota d’aereo). L’indagine dovrebbe essere offerta ai pazienti nei quali l’incertezza della propria condizione clinica determina uno stato d’ansia, nonostante una corretta informazione.

Infine si segnala un’aumentata incidenza di aneurismi

dell’aorta e malformazioni a carico delle valvole cardiache, in

particolare la mitralica, che si riscontrano nel 15% dei pazienti [3]. Il carcinoma renale non si manifesta più frequentemente nei soggetti con ADPKD rispetto alla popolazione generale. Tuttavia quando il carcinoma si manifesta nei pazienti con ADPKD, presenta un background biologico diverso che si traduce in alcune caratteristiche cliniche peculiari, che includono più precoce età all’esordio e presenza di segni sistemici, in particolare febbre. Inoltre in corso di ADPKD i tumori sono più spesso bilaterali, multicentrici e di tipo sarcomatoso.

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Circa il 50% dei soggetti con ADPKD sviluppa insufficienza

renale cronica terminale richiedente dialisi o trapianto entro i 60 anni.

E’ stato stimato che una volta instaurata, l’insufficienza renale proceda con un deterioramento annuo del GFR di circa 5 mL/ min. In base alla letteratura è stato possibile calcolare la probabilità di sviluppare ESRD nei vari gruppi di età: inferiore al 2% sotto i 40 anni, 20-25% a 50 anni, 35-45% a 60 anni, 50-75% a 70-75 anni. Questi dati sono riferiti all’era pre-genotyping, quando ancora non si conoscevano le differenze tra PKD1 e PKD2. Oltre all’età, numerosi altri fattori di rischio per lo sviluppo di end-stage renal disease sono stati identificati, tra cui una giovane età alla diagnosi (usualmente sotto i 30 anni); la razza (gli Afro-Americani sembrano presentare forme più severe di ADPKD); il sesso maschile (anche se non tutti i dati concordano); il numero degli episodi di macroematuria; lo sviluppo precoce di ipertensione; le dimensioni dei reni [6,7].

Il tipo di anomalia genetica (PKD1 vs PKD2) è indiscutibilmente il determinante più importante nel condizionare la severità di malattia . Il genotipo PKD1 si associa infatti a una maggiore incidenza di ipertensione ed ematuria, nonché ad una più rapida progressione verso lo stadio terminale dell’insufficienza renale (raggiunto in media a 54 anni per PKD1 vs 74 anni per PKD2)[8]. Tale osservazione sembrerebbe essere in relazione al maggior volume delle cisti e del rene, osservato nel genotipo PKD1: nello studio CRISP e in diversi altri lavori (Schrier) si è infatti osservata una correlazione inversa tra volume totale renale e funzionalità dell’organo.

Nei bambini la presentazione clinica e la diagnosi di malattia possono essere differenti. In genere le cisti non compaiono fino alla

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terza decade, ma in alcuni casi è addirittura possibile diagnosticare la patologia tramite uno screening ecografico prenatale. Nel feto e nel neonato la forma ADPKD può mimare una ARPKD, presentandosi con reni ingranditi e iperecogeni, in assenza di cisti macroscopicamente evidenti.

In altri casi la diagnosi viene posta più tardi durante l’infanzia in maniera incidentale, quando un esame strumentale effettuato per altre indicazioni (tipicamente un’appendicite) mette in evidenza la presenza di cisti renali. Infine una parte di bambini viene identificata sulla base del riscontro di segni e sintomi, i più comuni dei quali sono la macroematuria e soprattutto la precoce comparsa di ipertensione arteriosa. Il dolore al fianco per l’ingrandimento progressivo dei reni o per un’emorragia cistica non è comune come sintomo di presentazione. Possono manifestarsi anche episodi ricorrenti di urolitiasi e infezioni urinarie [3].

Nei pazienti pediatrici la progressione verso la malattia renale terminale (ESRD) è inevitabile, in particolare il deterioramento della funzione renale sembra essere più rapido in coloro nei quali la comparsa di sintomi o segni è precoce; nonostante ciò la maggior parte di questi pazienti riesce a mantenere una normale funzione renale per tutta l’infanzia, soprattutto quando il monitoraggio e il trattamento dell’ipertensione arteriosa vengono instaurati tempestivamente [3-9].

1.5 Fattori genetici e fenotipo

La grande variabilità del fenotipo clinico nei pazienti affetti da ADPKD ha indotto a studiare i vari fattori genetici ed ambientali coinvolti nel determinare la severità e la progressione della malattia

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renale nella malattia policistica. In aggiunta ai fattori ambientali noti (fumo, ipertensione arteriosa), tre fattori di natura genetica sono implicati nel condizionare l' evoluzione della malattia renale: la mutazione germinale (cioè avere un PKD1 o un PKD2), la frequenza della mutazione somatica, i cosiddetti geni modificatori.

Per quanto riguarda l'effetto del gene locus, è ampiamente documentato che i pazienti con PKD1 hanno un fenotipo più severo: in un'ampia casistica l'età media di insorgenza di ESRD era di 52 anni nei pazienti con PKD1 e di 72 anni nei pazienti con PKD2. Non solo è anticipata l'età alla quale si rende necessario l'inizio della dialisi, ma anche l'età alla quale viene usualmente formulata la diagnosi di ADPKD è anticipata di circa 15 anni nel PKD1: l'età alla diagnosi è rispettivamente di 40 anni nel PKD1 e di 55 nei pazienti con PKD2. Anche altri eventi quali l'ipertensione, l'insufficienza renale e la morte, si verificano in età più precoce nei pazienti con PKD1. Tutti questi dati suggeriscono che il gene PKD1 determina una malattia renale con estrinsecazione clinica più precoce e severa rispetto al PKD2. Dati recenti del gruppo della Mayo Clinic riferibili allo studio CRISP hanno mostrato come già in condizioni basali il PKD1 mostra un volume renale del 47% maggiore rispetto al PKD2 e l'incremento in valore assoluto è maggiore nel PKD1 rispetto al PKD2, ma la velocità di crescita in termini percentuali non differisce in modo significativo.

L'alterazione del gene PKD1 può essere determinata da un'ampia delezione che interessa sia il gene PKD1 che il gene TSC2 , determinando una malattia renale policistica usualmente più severa, caratterizzata da esordio in età neonatale associata a segni tipici della sclerosi tuberosa ( angiomiolipomi, linfangioleiomiomatosi, lesioni

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cutanee, tuberi corticali con epilessia).

Oltre alla eterogeneità genetica al locus, esiste una eterogeneità allelica, in base alla quale si può prevedere che ereditare una specifica mutazione è associato ad un determinato fenotipo clinico: questo significa che in un dato paziente la prognosi della malattia può essere dedotta ( anche se solo in parte) dal decorso clinico osservato negli altri membri familiari. Gli studi della Mayo Clinic non avevano evidenziato nessuna differenza nel tipo di mutazione (mutazioni troncanti, in-frame e missense) nel condizionare l'evoluzione della malattia renale in corso di ADPKD, ma avevano mostrato che in pazienti con PKD1 la localizzazione della mutazione nella regione 5' era associata ad una malattia renale più severa (ESRD a 53 vs 56 anni).

Risultati opposti a quelli della Mayo Clinic, in termini di influenza allelica, sono stati recentemente pubblicati da un gruppo francese che ha mostrato che nel PKD1 le mutazioni troncanti sono associate ad uno sviluppo di ESRD più precoce rispetto alle mutazioni non troncanti, con una differenza di 12 anni (55 vs 67 anni). Poichè la maggior parte delle mutazioni non troncanti erano missense, è possibile speculare che le mutazioni missense si comportino da mutazioni ipomorfiche, cioè scarsamente penetranti. Inoltre, nessun effetto era stato osservato in relazione con la posizione della mutazione lungo il gene nei confronti della sopravvivenza renale.

Il ruolo dei geni modificatori nel determinare la variabilità del fenotipo renale è stato suggerito dal riscontro di importante eterogeneità clinica intra-familiare, in base alla quale pazienti che ereditano la stessa mutazione possono mostrare una sopravvivenza renale marcatamente diversa. Tali geni sono responsabili di grande variabilità sia del GFR

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prima dell' ESRD, che dell'ampia variabilità dell'età alla quale viene raggiunto l'ESRD. Un supporto al ruolo dei geni modificatori nella ADPKD è derivato dal confronto della funzione renale tra gemelli monozigoti e fratelli, caratterizzata da una maggior variabilità nell'età di esordio di ESRD nei fratelli rispetto ai gemelli.

Infine, la frequenza con cui si verifica la mutazione somatica nelle cellule epiteliali renali che sono metabolicamente attive e mitoticamente competenti può contribuire in modo significativo alla variabilità clinica della malattia renale.

1.6 Prospettive terapeutiche future

Vista l’elevata incidenza della malattia attualmente numerosi studi sono rivolti alla ricerca della possibilità di modificare la progressione del danno renale.

La terapia odierna mira a minimizzare il danno renale ed extrarenale, al fine di rallentare la progressione verso l’uremia e prevenire le complicanze legate alla malattia [2]; è importante inoltre il trattamento delle condizioni patologiche associate che potrebbero accelerare il declino della funzione renale o aggravare il rischio cardiovascolare, già di per sé alto, dei pazienti.

La dieta ipoproteica non sembra rallentare la progressione della malattia [2].

Il controllo dell’ipertensione arteriosa è di fondamentale importanza; un cattivo controllo pressorio infatti comporta un deterioramento più rapido della funzione renale, oltre che esporre il paziente ad un più alto rischio di eventi cardiovascolari, che

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rappresentano la principale causa di morte in corso di ESRD. Gli ACE-inibitori e i Sartani rappresentano la terapia anti-ipertensiva di prima scelta, in quanto renoprotettori e capaci di ridurre l’ipertrofia ventricolare sinistra nonché la proteinuria, qualora presenti.

Le statine potrebbero svolgere un ruolo positivo non solo per il loro effetto ipolipemizzante, ma anche per l’effetto anti-infiammatorio e anti-proliferativo sulle cellule renali [2].

Sono infine in corso numerosi studi volti ad individuare nuovi farmaci che possano interferire con il meccanismo di formazione delle cisti agendo su due fronti: inibizione della proliferazione dell’epitelio cistico da un lato e riduzione della secrezione di fluidi nelle cisti dall’altro.

Recentemente sono stati effettuati studi di fase III su alcuni inibitori di mTOR, una serin-treonin-chinasi che gioca un ruolo nella regolazione della proliferazione, della crescita, della differenziazione, migrazione e sopravvivenza cellulare; è stata infatti osservata un’elevata attività di tale proteina all’interno delle cellule epiteliali cistiche, il che suggerisce un suo coinvolgimento nel meccanismo di accrescimento delle cisti. Tale sospetto è avvalorato dall’osservazione di un rallentamento della crescita delle cisti in pazienti trapiantati di rene e trattati con rapamicina, rispetto a pazienti trattati con altri farmaci immunosoppressivi [10]. Ciononostante studi clinici recenti effettuati su larga scala non sono incoraggianti: il Sirolimus (Rapamicina) somministrato per sei mesi (studio SIRENA) non ha infatti dimostrato differenze significative sul piano dell’aumento volumetrico dei reni (TKV) rispetto alle terapie convenzionali [11]. L’Everolimus, un altro agente antiproliferativo, ha mostrato la capacità

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di rallentare il tasso di crescita renale, ma non ha avuto influenza alcuna sul declino funzionale dell’organo. Inoltre il farmaco non ha mostrato un buon profilo di tollerabilità, il che ne renderebbe improbabile l’utilizzo per tempi lunghi [3,10].

Un’altra molecola in fase di studio è l’Octreotide, un analogo della Somatostatina che è in grado di inibire l’azione mitogena del cAMP, sia a livello delle cellule tubulari che dei colangiociti [3]. Il farmaco, somministrato per un anno, si è dimostrato capace di bloccare l’aumento volumetrico sia dei reni che del fegato rispetto al gruppo di controllo; inoltre i pazienti trattati hanno mostrato un miglioramento delle condizioni fisiche generali. Purtroppo anche in questo caso non sono state riscontrate differenze significative riguardo il declino della funzionalità renale [10].

Sono attualmente in corso studi di fase III sull’utilizzo di antagonisti dei recettori V2 della vasopressina (es. Tolvaptan); il blocco di tali recettori riduce i livelli di cAMP all’interno delle cellule epiteliali dei tubuli distali e dei dotti collettori. Nei modelli sperimentali animali esso si è dimostrato in grado di ridurre le dimensioni delle cisti e migliorare la funzione renale [10]. Altri farmaci capaci di ottenere gli stessi effetti sui ratti e quindi potenziali oggetti di studi clinici sono: Sorafenib, Metformina, Pioglitazone e Rosiglitazone; questi ultimi, già in uso nel trattamento del Diabete Mellito tipo 2, sono in studio come molecole in grado di bloccare MAP-kinasi coinvolte nella proliferazione cellulare [10].

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21 1.7 Prognosi

Il decorso clinico della malattia è altamente variabile; generalmente la funzione renale si mantiene entro il range della normalità per lungo tempo, ma una volta che i meccanismi di compenso si esauriscono (iperfiltrazione compensatoria che si osserva in genere nei giovani adulti) inizia il declino del tasso di filtrazione glomerulare che può essere più o meno rapido [1]. Si stima che il 50% dei pazienti raggiunga lo stadio terminale (ESRD) entro i 60 anni. In particolare, sebbene le manifestazioni cliniche nelle due forme siano sovrapponibili, i pazienti con mutazioni a carico di PKD2 presentano i sintomi più tardivamente e hanno mediamente una progressione verso l’insufficienza renale più lenta, con una sopravvivenza renale più lunga (69 anni) rispetto ai pazienti con mutazioni di PKD1 (53 anni)[12].

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Capitolo 2

2.1 Obiettivi

Vista la notevole incidenza della malattia e l’elevato impatto sulla spesa pubblica che ne consegue, sono stati intrapresi numerosi studi che mirano a rallentare la progressione del danno renale nei pazienti affetti da rene policistico. Lo scopo del nostro studio è quello di valutare l’età media in cui i pazienti seguiti presso la U.O. di Nefrologia, Trapianti e Dialisi dell'Ospedale Cisanello di Pisa hanno iniziato il trattamento dialitico. Abbiamo quindi esaminato i markers di declino della funzione renale con l’intento di evidenziare eventuali fattori in grado di rallentare o accelerare il decorso della malattia.

2.2 Materiali e metodi

Sono state esaminate 80 cartelle del reparto dialisi dell'Ospedale di Pisa: i pazienti, 43 femmine e 37 maschi (età media 63 anni), erano affetti da ADPKD e sottoposti a trattamento emodialitico. Il parametro preso in considerazione è l’età in cui questi pazienti hanno iniziato terapia sostitutiva; abbiamo quindi riportato i valori in un istogramma.

Successivamente sono stati valutati 23 pazienti adulti affetti da ADPKD, seguiti presso la U.O. Nefrologia Universitaria mediante ricoveri ricorrenti per un tempo medio di 8 anni; in particolare si tratta di 12 donne e 11 uomini di varie età (da 43 a 83, in media 63 anni) non ancora in terapia sostitutiva. Il parametro di riferimento è la creatininemia (Cr). Il suo inverso (1/Cr) è un buon indicatore della funzionalità renale di un paziente nel tempo. Sulla base dei valori ricavati dalle cartelle cliniche dei pazienti abbiamo costruito una curva

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che descrive il declino della funzione renale. Poiché ciascun paziente partiva da valori di creatininemia differenti ed era stato seguito per un diverso numero di anni, abbiamo ricondotto il valore di partenza di ogni soggetto ad un valore di riferimento, sulla base del quale è stato poi ricalcolato il valore finale. Per ogni individuo abbiamo così ottenuto due valori di 1/Cr, di cui il primo uguale per tutti, indicati sul grafico da due punti; tra di essi è stata tracciata una linea di tendenza che delinea per ciascun paziente la progressione della malattia e definisce quella che potrebbe essere la funzione dell’organo a 15 anni dall’inizio del deterioramento renale.

Abbiamo poi analizzato alcuni potenziali fattori di progressione per valutare la loro influenza sul declino del tasso di filtrazione glomerulare:

Emorragie ed ematuria Proteinuria

Numero di gravidanze Ipertensione

Sesso del paziente

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2.3 Risultati

Abbiamo riportato su di un grafico la curva indicante il declino

della funzione renale di ogni paziente ottenendo il risultato mostrato in figura.

Figura 1 : Declino della funzione renale nel tempo dei 23 pazienti

Come si può osservare dal grafico, il decorso clinico della malattia presenta una notevole variabilità interindividuale; difatti mentre alcuni pazienti mostrano una progressione piuttosto lenta nel tempo, altri sembrano manifestare un più rapido deterioramento della funzione renale.

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PKD1 versus PKD2.

Nella nostra casistica 68 pazienti (85%) avevano iniziato il trattamento dialitico prima dei 59 anni di età; i restanti 12 pazienti (15%) dopo i 60 anni.

In particolare:

 l'1,25% dei pazienti (n=1) ha necessitato di terapia sostitutiva prima dei 19 anni di età;

 il 2,5% (n=2) tra 20 e 29 anni;  l'11,25% (n=9) tra 30 e 39 anni;  il 31,25% (n=25) tra 40 e 49 anni;  il 38,75% (n=31) tra 50 e 59 anni;  il 12,5% (n=10) tra 60 e 69 anni;  il 2,5% (n=2) dopo i 70 anni.

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Stratificando i pazienti per sesso non si osservano differenze statisticamente significative tra maschi e femmine riguardo l'età di ingresso in dialisi, come si può osservare dal grafico che segue.

Figura 3: Età ingresso dialisi nei maschi e nelle femmine

Emorragie ed ematuria.

Nel nostro studio solo una paziente di 50 anni presenta una storia di ricorrenti episodi di macroematuria, particolarmente frequenti nell’ultimo anno di osservazione, tanto da provocare una grave anemizzazione con riduzione dei valori di emoglobina da 13,7 mg/dl a 6,2 mg/dl in soli 10 mesi. Questo ha condotto ad un progressivo peggioramento della funzione renale fino a rendere necessario il trattamento emodialitico.

Al contrario tutti gli altri pazienti seguiti hanno mostrato solo sporadici episodi di macroematuria o addirittura semplice evidenza di esiti emorragici (cisti iperdense alla TC) senza alcun segno clinico.

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L' andamento della funzione renale nella paziente con macroematuria ricorrente è riportato in figura: come si può osservare solo in questo caso il declino della funzione renale è stato molto rapido.

Figura 4 : In rosso la paziente con ricorrenti episodi di macroematuria.

Proteinuria.

Nella nostra analisi la proteinuria, seppur non particolarmente marcata, è risultata essere un fattore piuttosto ricorrente tra i pazienti con ADPKD in terapia conservativa. L’incidenza di proteinuria, valutata separatamente nei due sessi, è mostrata nei grafici che

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seguono.

Nello specifico:

 il 43,5% dei pazienti (n=10) non ha sviluppato proteinuria patologica;  il 52,2% (12 pazienti, di cui 5 donne e 7 uomini) presentava una proteinuria < 1 g/24 h;

 il 4,3% (1 sola donna) presentava una proteinuria oscillante tra 2,2-2,5 g/24h.

Figura 5 : -In rosso le pazienti con proteinuria <1g/24h

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29 Figura 6 : In rosso i pazienti con proteinuria <1 g/24h

Gravidanza.

La gravidanza rappresenta un evento caratterizzato da molteplici cambiamenti parafisiologici nell’organismo di una donna, molti dei quali interessano il sistema cardiocircolatorio; ci si è chiesti quindi se tali cambiamenti potessero influenzare la prognosi delle pazienti affette da ADPKD, accelerando la progressione del danno renale.

Nel nostro studio abbiamo riscontrato che:

 5 pazienti (41,7%) non hanno avuto gravidanze;

 2 pazienti (16,7%) hanno avuto 2 gravidanze a termine;  3 pazienti (25%) hanno avuto una gravidanza a termine;

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 1 paziente (8,3%) ha avuto 3 gravidanze a termine.

In figura è riportato il numero di gravidanze a termine di ciascuna paziente.

Figura 7 : -In nero le pazienti senza gravidanze -In giallo una gravidanza

-In blu 2 gravidanze -In rosso 3 gravidanze

Non abbiamo riscontrato differenze significative tra le pazienti, in quanto coloro che hanno avuto più figli non mostrano una più rapida progressione della malattia se paragonate alle donne che non ne hanno avuti.

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Ipertensione arteriosa.

Nella nostra analisi i pazienti risultano essere tutti ipertesi, fatta eccezione per un unico soggetto. Tutti gli altri presentano comunque un buon controllo pressorio sotto terapia con uno o più combinazioni di farmaci anti-ipertensivi. Per tale motivo i valori di pressione arteriosa non possono essere presi in considerazione come fattori influenzanti la prognosi.

Come mostrano i grafici che seguono, abbiamo comunque analizzato il numero di farmaci necessari per ottenere un controllo pressorio adeguato.

Figura 8 : - In giallo 1 farmaco - In blu 2 farmaci

- In rosso 3 farmaci

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Figura 9 : -In nero nessuna terapia - In giallo 1 farmaco - In blu 2 farmaci

- In rosso 3 farmaci

- In verde 4 farmaci

Come si può osservare i pazienti ottengono il controllo pressorio con un diverso numero di farmaci: in particolare la maggior parte dei soggetti utilizza 2 farmaci (10 pazienti su 22 ipertesi, di cui 6 donne e 4 uomini), 6 pazienti (3 uomini e 3 donne) effettuano una monoterapia, altri 6 (3 uomini e 3 donne) ricorrono ad una politerapia con 3 o più farmaci.

In ogni caso questo non sembra influire sull’andamento della funzione renale, poichè i pazienti in politerapia non mostrano curve di declino con pendenza maggiore. Quindi il controllo della pressione

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arteriosa, con qualunque tipo di terapia, sembra essere importante nella progressione del danno renale.

Sesso del paziente.

Nel nostro studio abbiamo analizzato separatamente maschi e femmine al fine di evidenziare eventuali differenze di prognosi legate al genere. Dalle singole curve ne abbiamo ricavate due, che rappresentassero la media dell’andamento della funzione renale negli uomini e nelle donne.

Il risultato ottenuto è riportato nel grafico sottostante.

Figura 10: Declino medio della funzione renale negli uomini e nelle donne

Il grafico mostra una prognosi decisamente peggiore per le donne, al contrario di quanto sostenuto dagli studi clinici. Ricordiamo

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però come due pazienti di sesso femminile abbiano mostrato un declino della funzionalità renale decisamente più rapido, sia rispetto alle altre pazienti donne che rispetto agli uomini. Ciò è probabilmente dipeso dal riscontro, come analizzato in precedenza, di particolari condizioni che potrebbero aver accelerato la progressione della malattia: la prima paziente infatti presentava una proteinuria costantemente >2g/24h, mentre la seconda una storia di macroematuria ricorrente associata a proteinuria patologica (valori medi di 0,8 g/24h).

Abbiamo quindi ripetuto il calcolo delle medie escludendo le due pazienti, in modo da ottenere un campione omogeneo privo di particolari fattori di progressione e poter meglio analizzare l’influenza del genere sulla prognosi.

Figura 11 : Declino medio della funzione renale in un campione omogeneo di uomini e donne

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Come si può osservare dal grafico, la correzione apportata modifica il risultato: il declino della funzione renale appare infatti più rapido negli uomini rispetto alle donne.

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Capitolo 3

Discussione

Lo scopo del nostro studio è quello di valutare l’età media in cui i pazienti seguiti presso la U.O. di Nefrologia, Trapianti e Dialisi dell'Ospedale Cisanello di Pisa hanno iniziato il trattamento dialitico. Abbiamo quindi esaminato i markers di declino della funzione renale con l’intento di evidenziare eventuali fattori in grado di rallentare o accelerare il decorso della malattia. Dal confronto con i dati della letteratura possiamo trarre alcune conclusioni.

PKD1 versus PKD2. L’85 % dei casi di ADPKD presenta

mutazioni per il gene PKD1 mentre il restante 15% presenta mutazioni per PKD2. Sebbene le manifestazioni cliniche nelle due forme siano sovrapponibili, i pazienti con mutazioni di PKD1 presentano i sintomi più precocemente e hanno mediamente una più rapida progressione verso l’insufficienza renale rispetto ai pazienti con mutazioni di PKD2. I pazienti con mutazioni di entrambi i geni PKD1 e PKD2 (trans-eterozigoti) hanno un decorso clinico più severo dei pazienti con mutazioni di un solo gene [13,14]. In un’ampia casistica [12,15], l’età media all’ESRD era di 53 anni nei pazienti con PKD1 e di 69 anni nei pazienti con PKD2; l’età media all’esordio dell’insufficienza renale era 54 e 74 anni nei pazienti con PKD1 e PKD2, rispettivamente. Altri eventi renali, quali l’ipertensione e le infezioni del tratto urinario, erano meno frequenti nei pazienti con PKD2 rispetto a quelli con PKD1. Dati recenti del gruppo della Mayo Clinic suggeriscono che il PKD1 è più severo perché associato a un numero maggiore di cisti che si sviluppano precocemente nella malattia ed hanno dimensioni più

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grandi: infatti i volumi renali riscontrati nei pazienti con mutazioni di PKD2 sono solo i 2/3 della grandezza trovata in PKD1 (623 vs 1041 ml). Nonostante ciò il tasso di variazione delle cisti non è significativamente differente nei due gruppi [15,16]. Inoltre alcuni studi mostrano una significativa differenza di genere nella gravità della malattia renale nei pazienti con mutazioni di PKD2: le donne sviluppano ESRD in media otto anni più tardi rispetto ai maschi (76 vs 68 anni)[17]. I dati su PKD1 sono meno chiari: alcuni studi indicano che non c'è nessuna differenza, altri studi invece mostrano che i maschi hanno una malattia più grave [12,18,19].

Nella nostra casistica, andando ad analizzare l'età di ingresso in dialisi dei pazienti, si osserva una distribuzione gaussiana del fenomeno in contrapposizione con i dati presenti in letteratura; tuttavia la concomitanza di altri fattori, quali l'ipertensione e l'ematuria, possono aver inficiato il risultato modificando il decorso della malattia. Stratificando i pazienti per sesso non si osserva infine alcuna differenza significativa tra maschi e femmine per quanto riguarda l'età di ingresso in dialisi e quindi la gravità di malattia.

Ematuria. L'ematuria è una manifestazione frequente nel

paziente con ADPKD (60% dei casi) e riconosce cause diverse. La più frequente è la rottura spontanea o traumatica dei fragili vasi che percorrono la parete della cisti; questo può provocare sanguinamento all’interno della cisti che tende a risolversi spontaneamente senza dare segno di sé, oppure può indurre una rapida espansione della cisti provocando un intenso dolore al fianco. Se il sanguinamento continua la cisti può raggiungere dimensioni tali da rompersi nelle vie urinarie

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causando appunto macroematuria. In alternativa essa si può rompere nello spazio al di sotto della capsula renale ed eventualmente dissecare la stessa, andando ad espandersi nel retroperitoneo; in caso di sanguinamento massivo, il sangue può raggiungere la cute che ricopre il fianco e dare origine ad una ecchimosi (segno di Gray-Turner) [20].

Tra i vari studi effettuati a riguardo, uno studio clinico retrospettivo di Gabow et al. ha evidenziato come gli atleti affetti da ADPKD che praticano sport di contatto abbiano più episodi di macroematuria e sviluppino insufficienza renale più velocemente rispetto agli altri pazienti [21-22].

Le emorragie renali causate dalla rottura di cisti possono presentarsi ad ogni età e riducono la qualità della vita; i pazienti con una storia di emorragie manifestatesi sottoforma di macroematuria hanno reni di dimensioni maggiori e mostrano una progressione più veloce verso l’insufficienza renale rispetto agli altri [20], soprattutto qualora i primi episodi inizino a comparire precocemente [23].

Nella nostra casistica l’unica paziente con emorragie ricorrenti ha mostrato una maggiore rapidità di progressione verso l’insufficienza renale terminale. Questo è in accordo con i dati della letteratura. Non si può tuttavia escludere che in questa paziente l’ematuria possa essere stata determinata da altre patologie di natura glomerulare o vascolare che abbiano favorito la più rapida progressione del danno renale.

Proteinuria. La proteinuria è relativamente poco frequente nella

malattia policistica, come è lecito attendersi considerando che non si tratta di una patologia primitivamente glomerulare; il riscontro di proteinuria massiva è un’evenienza decisamente rara.

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Gli studi clinici hanno evidenziato come la comparsa di proteinuria patologica (>300 mg/24h) si associ ad una progressione più rapida della malattia, soprattutto qualora la proteinuria sia > 1 g/24h.

In particolare uno studio americano ha analizzato 270 pazienti adulti affetti da ADPKD: di questi solo 48 presentavano proteinuria patologica (17,7%), a dimostrazione di quanto tale manifestazione non sia molto frequente. Tali pazienti inoltre mostravano una clearance della creatinina significativamente più bassa rispetto ai 222 soggetti non-proteinurici, valori pressori medi più elevati e reni di dimensioni maggiori [24].

I nostri risultati confermano i dati della letteratura in quanto l’unica paziente con proteinuria elevata (>2 g/die) ha mostrato una maggiore velocità di progressione del danno renale, da attribuire con molta probabilità ad una concomitante patologia glomerulare non diagnosticabile mediante biopsia.

Gravidanza. Gli studi clinici rivelano come la gravidanza non

sia, in quanto tale, un “evento a rischio” per le pazienti affette; essa infatti tende ad avere un normale decorso, al pari delle donne sane. La presenza della malattia policistica rende però le pazienti più soggette ad andare incontro allo sviluppo di ipertensione gestazionale, peggioramento di una ipertensione insorta precedentemente alla gravidanza, pre-eclampsia.

L’outcome della gravidanza nelle donne affette da ADPKD non è comunque diverso rispetto ai controlli sani [9]; è richiesta semplicemente maggior attenzione verso le possibili complicanze che potrebbero insorgere in tale periodo.

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Viene invece enfatizzato il ruolo dell’ipertensione; la gravidanza nelle donne affette da policistosi e ipertese presenta un maggior rischio di prematurità e mortalità perinatale, soprattutto quando il controllo pressorio non è ottimale.

In ogni caso la funzione renale non pare essere influenzata dallo stato gestazionale. La progressione della malattia sembra accelerata solo nelle donne che hanno avuto 4 o più gravidanze [9].

Quindi appare più rilevante la presenza dell’ipertensione rispetto alla malattia renale nel determinarne l’outcome. Questo probabilmente dipende dal fatto che le gravidanze tendenzialmente si presentano in un'età in cui l’ipertensione può essere già presente, mentre la funzione renale, in virtù dei meccanismi di compenso messi in atto dall’organismo, può essere ancora nella norma.

Anche i nostri dati consentono di giungere alle stesse conclusioni, in quanto le pazienti che hanno avuto uno o più figli non mostrano un declino più rapido della funzionalità renale rispetto alle donne che non ne hanno avuti.

In conclusione la gravidanza può essere affrontata con serenità dalle pazienti affette, a condizione che venga mantenuto un adeguato controllo dei valori pressori. Deve comunque essere tenuta in considerazione la possibilità di trasmettere la malattia ai discendenti.

Ipertensione. L’ipertensione arteriosa è una manifestazione

comune e precoce della ADPKD: è presente nel 60% dei pazienti e può comparire già in seconda-terza decade di vita, quindi ben prima della comparsa del declino funzionale del rene. Si manifesta più comunemente e più precocemente nei pazienti che presentano la

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mutazione del gene PKD1 e nel sesso maschile [25].

La patogenesi dell’ipertensione è complessa e dipende da molti fattori che si influenzano a vicenda.

In condizioni normali si riscontra un'elevata espressione dei geni PKD1 e PKD2 all’interno delle cellule endoteliali e delle cellule muscolari lisce dei vasi sanguigni. La riduzione o l’assenza dell’espressione di tali geni, come accade nella ADPKD, è associata ad anomalie strutturali e funzionali della vascolarizzazione; la produzione di ossido nitrico (NO) infatti è ridotta e ciò comporta una risposta alterata da parte dell’endotelio allo stress parietale con diminuzione della distensibilità vasale[25].

Inoltre la formazione e l’accrescimento progressivo delle cisti renali comportano l’insorgenza di ischemia locale che conduce all’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS). La

pressione arteriosa in questo modo tende ad aumentare

progressivamente inducendo l’instaurarsi di un circolo vizioso, per cui elevati valori pressori favoriscono l’espansione cistica e viceversa [25-26]. A supporto di ciò un grosso studio clinico cinese ha dimostrato come la rimozione chirurgica delle cisti migliori il controllo pressorio [27-28]. Allo stesso modo lo studio CRISP ha rivelato come i pazienti normotesi abbiano cisti più piccole e volumi renali minori rispetto ai soggetti ipertesi [1]. Alla medesima conclusione giungono gli studi ecografici effettuati su bambini affetti da ADPKD, nei quali è stato possibile dimostrare una relazione tra volumi renali e pressione arteriosa [1].

In ogni caso l’ipertensione rappresenta prima di tutto un fattore di rischio cardiovascolare, tant’è che spesso i pazienti ipertesi presentano

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ipertrofia ventricolare sinistra (LVH) e ispessimento medio-intimale carotideo [25]; in alcuni casi però tali alterazioni si sviluppano prima della comparsa di ipertensione. Questo trova in parte spiegazione nel fatto che l’angiotensina stessa è in grado di indurre danno ossidativo, fibrosi e proliferazione cellulare ed è quindi potenzialmente capace di provocare alterazioni cardiovascolari anche in assenza di valori pressori elevati [25-26]. Inoltre uno studio clinico ha dimostrato come i pazienti normotesi con LVH mostrino assenza del fisiologico calo notturno della pressione arteriosa, il quale può contribuire all’aumento della massa ventricolare [26].

L’ipertensione quindi risulta strettamente correlata al progressivo accrescimento delle cisti, all’ipertrofia ventricolare sinistra ma anche al deterioramento della funzione renale.

I pazienti ipertesi rispetto ai normotesi di pari età mostrano reni più grandi, un maggior tasso di accrescimento degli stessi, maggior incidenza di proteinuria e riduzione del flusso ematico renale che precede il declino funzionale dell’organo [25].

I pazienti normotesi tendono quindi ad avere una prognosi migliore rispetto agli ipertesi [29]; in particolare l’influenza sulla prognosi sembra ancora più marcata qualora l’ipertensione insorga precocemente (< 35 anni) e l’effetto che essa può indurre sulla progressione del danno appare tanto maggiore quanto più tardivamente viene instaurato il trattamento [22,25].

Uno studio clinico retrospettivo arabo del 2006 [30] ha analizzato 231 pazienti affetti da ADPKD suddividendoli in tre gruppi sulla base della velocità di variazione della creatininemia: il primo gruppo includeva i pazienti i cui livelli plasmatici raddoppiavano in

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meno di 36 mesi, il secondo coloro nei quali lo stesso risultato veniva raggiunto in più di 36 mesi e nell’ultimo i pazienti che mantenevano una creatininemia pressoché stabile per tutto il periodo di osservazione. I risultati hanno evidenziato che l '86% dei soggetti (81 su 94) facenti parte dei primi due gruppi erano ipertesi, mentre nel terzo gruppo solo il 40% risultavano affetti da ipertensione (55 soggetti su 137).

Lo stesso studio ha poi analizzato le terapie antiipertensive dei pazienti per individuare i soggetti che necessitavano di tre o più farmaci per ottenere un controllo pressorio soddisfacente; il primo gruppo presentava una percentuale di soggetti in politerapia lievemente superiore rispetto agli altri due gruppi.

L’ipertensione può manifestarsi anche nei bambini affetti da ADPKD ed evidenze recenti suggeriscono che il trattamento precoce possa cambiare drasticamente il decorso della malattia. In uno studio randomizzato su bambini affetti con valori pressori borderline, il controllo della pressione arteriosa ottenuto utilizzando ACE-Inibitori ha stabilizzato la funzione renale ed evitato il potenziale sviluppo di ipertrofia ventricolare sinistra rispetto ai bambini non trattati [31].

Nella nostra casistica tutti i pazienti, ad eccezione di uno, sono risultati ipertesi. Questo ci consente di confermare l’elevata incidenza di ipertensione nella popolazione di soggetti affetti da ADPKD. Per lo stesso motivo non è stato tuttavia possibile confrontare tra loro soggetti normotesi e soggetti ipertesi, al fine di verificare come lo sviluppo di ipertensione possa influenzare la prognosi.

Abbiamo comunque potuto constatare come i pazienti necessitino di un numero diverso di farmaci per ottenere un adeguato controllo pressorio e come la politerapia rispetto alla monoterapia non

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influenzi un più o meno rapido declino della funzione renale. Questo risultato si discosta leggermente da quanto riscontrato nello studio arabo del 2006, che osservava come l’utilizzo di 3 o più farmaci fosse lievemente più frequente nei pazienti con progressione più rapida della malattia.

In ogni caso l’ipertensione rappresenta un fattore rischio indipendente per la progressione del danno renale [25], oltre ad essere direttamente correlata al verificarsi di eventi cardiovascolari, principale causa di morte nei soggetti affetti da ADPKD. E’ chiaro quindi come diventi indispensabile un controllo adeguato e precoce dei valori pressori, indipendentemente dal numero di farmaci che si utilizzano per ottenerlo.

Rimane ancora da chiarire quali debbano essere i target terapeutici: lo studio HALT-PKD, tuttora in corso, sta esaminando a tal proposito i potenziali benefici di un controllo pressorio rigoroso rispetto ad uno standard (≤110/75 vs ≤130/80) ottenuto tramite la combinazione di Lisinopril+Telmisartan versus Lisinopril in monoterapia. Il volume renale totale (TKV) e il tasso di filtrazione glomerulare (eGFR) verranno utilizzati come parametri atti a valutare l’outcome e saranno studiati due gruppi di pazienti, il primo con malattia renale in stadio iniziale (eGFR>60 ml/min/1,73 m2 ) e il secondo con malattia in stadio avanzato (eGFR 25-60 ml/min/1,73 m2).

Sesso del paziente. E’ noto che le patologie renali possano

colpire con incidenza diversa maschi e femmine e possano presentare decorso clinico o prognosi differenti nei due sessi. Questo accade in parte anche nella malattia policistica renale. Infatti, sebbene l 'incidenza

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della malattia policistica non sia diversa nei due sessi, dal punto di vista clinico si possono riscontrare delle differenze: gli uomini tendono con maggior frequenza a sviluppare ipertensione arteriosa, mentre le donne sembrano più soggette allo sviluppo di ricorrenti episodi di infezioni urinarie. Anche la prognosi appare diversa in quanto negli uomini la progressione verso la malattia renale terminale sembra essere più rapida.

A tal proposito uno studio clinico giapponese [32] ha messo a confronto il tasso di progressione di maschi e femmine nel contesto di varie malattie renali croniche, tra cui anche ADPKD. I risultati hanno evidenziato come gli uomini raggiungano la fase terminale di malattia (ESRD) prima rispetto alle donne, essendo quindi costretti ad iniziare il trattamento emodialitico ad un’età più precoce. La differenza, seppur statisticamente significativa, in realtà appare lieve, soprattutto se paragonata a quella riscontrata nel contesto di altre patologie renali croniche come la nefropatia diabetica o le glomerulonefriti. Secondo i dati ottenuti infatti, gli uomini cominciano il trattamento sostitutivo circa 1,3 anni prima, con una età media di 55.9±12.4 anni contro i 57.2±11.5 anni delle donne.

Un altro studio clinico americano [22] ha analizzato 1215 pazienti per confrontare i “tempi di sopravvivenza renale”, ossia il tempo necessario al paziente per andare incontro a dialisi, trapianto o morte, in uomini e donne affetti da ADPKD. I risultati hanno evidenziato come le donne mostrino miglior sopravvivenza rispetto agli uomini (56 vs 52 anni).

Anche i nostri dati ci consentono di giungere alle stesse conclusioni, in quanto il sesso femminile presenta un tasso di declino

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della funzione renale lievemente più lento rispetto a quello maschile. La nostra casistica ha però evidenziato come la presenza di importanti fattori di progressione possa cambiare drasticamente la prognosi rispetto a quanto atteso. Ricordiamo infatti come le due pazienti che presentavano proteinuria elevata e ricorrenti episodi di macroematuria abbiano mostrato un declino della funzione renale decisamente più rapido, sia rispetto alle altre donne che agli uomini. Le eventuali comorbidità (patologia glomerulare) potrebbero aver modificato la velocità di progressione della malattia renale.

Non è noto da che cosa possa dipendere la differenza di prognosi tra femmine e maschi, ma si è immediatamente portati ad attribuire un ruolo in tal senso agli ormoni sessuali. Si potrebbe ad esempio ipotizzare un effetto nefroprotettore da parte degli estrogeni; alcuni studi prospettici [33] infatti suggeriscono che la protezione renale mostrata dal genere femminile sia evidente soltanto in epoca premenopausale.

In realtà tali valutazioni potrebbero essere influenzate dalla presenza di co-fattori, quali i valori pressori o i livelli di lipidi plasmatici [34]; per questo motivo al momento non siamo in grado di stabilire con certezza quale sia il reale peso degli ormoni sessuali sulla determinazione della prognosi.

In ogni caso alcuni studi in vitro hanno dimostrato come testosterone ed estrogeni abbiano effetti diretti diversi sulle cellule mesangiali [35]; ciò fa supporre che siano fattori in grado di influenzare il decorso delle malattie renali croniche, determinando una differente prognosi degli uomini rispetto alle donne [34].

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Capitolo 4

Conclusioni

I risultati di questo studio dimostrano che non è possibile identificare due distinte popolazioni con differente età di inizio del trattamento emodialitico. Naturalmente avendo avuto a disposizione la localizzazione genica della anomalia e raggruppando i pazienti in base ad essa avremmo forse ottenuto due valori medi differenti.

La storia naturale della malattia policistica è altamente variabile: essa può comparire dalla vita intrauterina fino all'età adulta, mostra caratteristiche cliniche differenti e la sua progressione può essere più o meno rapida. Il decorso clinico della malattia è quindi influenzato da diverse variabili, alcune potenzialmente modificabili altre non-modificabili, come la mutazione genetica che sottende la patologia o il sesso del paziente.

Tra i più importanti fattori in grado di influire sul declino della funzione renale ricordiamo l'ipertensione arteriosa, il cui trattamento precoce e tempestivo può rallentare la progressione del danno; altro importante fattore di progressione è la proteinuria, in parte modificabile grazie all’uso di farmaci ACE-inibitori o bloccanti dei recettori dell’angiotensina (ARB), in grado se non di normalizzare quanto meno di contenere l’entità della proteinuria. La gravidanza rappresenta un evento capace di indurre alcuni rischi aggiuntivi più che un vero e proprio fattore di progressione. Gli episodi ricorrenti di macroematuria comportano un outcome peggiore, soprattutto quando compaiono in giovane età.

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sono rappresentati dalle infezioni ricorrenti delle vie urinarie, dai livelli plasmatici di colesterolo-HDL, dall’escrezione urinaria di sodio e dall’osmolarità urinaria delle 24h.

Negli ultimi anni sono stati compiuti molti passi in avanti riguardo la comprensione della patogenesi della malattia, mentre i progressi in campo terapeutico sono stati meno eclatanti. L’obiettivo futuro rimane quello di sviluppare nuovi farmaci, in quanto una terapia specifica per la malattia policistica attualmente non è disponibile. In particolare risulterebbe sicuramente utile disporre di farmaci in grado di interferire con il meccanismo patogenetico che porta alla formazione e all’accrescimento delle cisti. A tal proposito l’elevato numero di studi attualmente in corso per testare nuove molecole fa ben sperare per il futuro, soprattutto riguardo la possibilità concreta di arrestare l’aumento volumetrico dei reni che, come evidenziato in precedenza, correla con la velocità di deterioramento funzionale dell’organo.

In questo contesto inoltre è importante riuscire ad individuare tutti i possibili fattori di progressione del danno renale, in particolare quelli modificabili; infatti ogni intervento atto a correggerli, sembra potenzialmente in grado di cambiare significativamente il decorso clinico della malattia. Da non sottovalutare è anche l’identificazione delle variabili non-modificabili della malattia, che può comunque consentire di definire sottogruppi di pazienti da considerare a più alto rischio per ESRD, i quali potrebbero beneficiare di un follow-up più attento ed eventualmente di trattamenti più aggressivi.

In conclusione i fattori di progressione svolgono un ruolo importante nel determinare l’insorgenza della insufficienza renale terminale.

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Quindi, indipendentemente dalla alterazione genetica di base, risulta fondamentale seguire accuratamente i pazienti affetti da rene policistico in modo da intervenire tempestivamente sui fattori di progressione della malattia al fine di rallentare l’evoluzione verso l’insufficienza renale terminale.

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