UNIVERSITÀ DI PISA
DIPARTIMENTO DI MEDICINA CLINICA E SPERIMENTALE
Corso di laurea magistrale in Medicina e Chirurgia
TESI DI LAUREA
“Ictus ischemico monogenico. Prevalenza su una coorte
di pazienti afferenti alla U.O. di Neurologia”
RELATORE:
Chiar.mo Prof.Ubaldo Bonuccelli
CANDIDATO:
Marco Brondi
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Ai miei strepitosi genitori,fratelli,cognate,nipoti e nonni…
..a Rosa e Andrea..
..a Isella e GianMaria..
..a te Zio Romano,che sei sempre con me...
SOMMARIO
RIASSUNTO ...4 INTRODUZIONE ...5 1.1. Aspetti epidemiologici...5 1.2. Fattori di rischio...8 1.3. Aspetti clinici...10 1.4. Classificazione...12 1.5. Aspetti prognostici...20ICTUS ISCHEMICO MONOGENICO...22
2.1. Cause rare di Ictus...22
2.2. Causa di ictus monogenetica... 23
2.2.1. CADASIL... 24
2.2.2. MELAS... 26
2.2.3. MALATTIA DI FABRY... 28
2.2.4. PSEUDOXANTOMA ELASTICUM... 30
PARTE SPERIMENTALE...31
3.1. Scopo dello studio...31
3.3. Risultati...33
3.4. Discussione...57
3.5. Tabelle e Immagini...62
BIBLIOGRAFIA ...73
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RIASSUNTO
Gli ictus monogenici si ritiene rappresentino circa il 5% del totale degli ictus, con oltre 50 geni correlati a tale patologia, anche se e’ verosimile che queste malattie siano sotto diagnosticate sia per la complessità diagnostica, causa dell’alta variabilità fenotipica, sia perché poco conosciute dai clinici.
Scopo del presente lavoro di tesi è stato quello di analizzare retrospettivamente la casistica di pazienti afferenti agli Ambulatori della Clinica Neurologica della nostra Azienda Ospedaliera Universitaria ai quali e’stata fatta diagnosi di ictus ischemico o TIA giovanile (esordio sotto i 60 anni di eta’), ovvero indirizzati presso i nostri ambulatori per un rilievo neuroradiologico di vascolopatia cerebrale ischemica. In tale popolazione abbiamo ricercato le patologie monogeniche correlate all’evento in oggetto. Il periodo di tempo preso in considerazione e’ il quinquennio 2008-2013.
Sono stati identificati un totale di 250 soggetti (150 maschi , 100 femmine) con età media compresa di 48,8 + 6,6 anni. Di essi, 63 (25%) sono risultati affetti da patologia non aterosclerotica dei vasi cerebrali, 86 (35%) da malattie cardiologiche, 28 (11%) da malattie ematologiche. Infine, abbiamo identificato 13 casi (che rappresentano il 5% della nostra casistica) di patologia vascolare ischemica cerebrale monogenica: 6 pazienti affetti da CADASIL (Arteriopatia Cerebrale Autosomica Dominante con Infarti Sottocorticali e Leucoencefalopatia), 1 caso di Pseudoxantoma Elasticum, 2 di malattia di Fabry e 4 casi di MELAS (encefalomiopatia mitocondriale con acidosi lattica e episodi simili a ictus). Nei rimanenti casi (24%, percentuale in linea con i dati di letteratura) non e’ stato possibile individuare il fattore causativo correlato all’evento cerebro vascolare. In tali pazienti la diagnosi posta è stata quella di ictus criptogenetico.
Durante la nostra analisi retrospettiva abbiamo potuto confermare che l’ictus monogenico rappresenta un’importante, seppur rara, causa di ictus giovanile il cui precoce riscontro puo’ causare importanti risvolti assistenziali e terapeutici. Una corretta gestione multidisciplinare del paziente consente in un’elevata percentuale di casi di raggiungere un corretto inquadramento diagnostico, anche se nel 24% dei casi (nostra esperienza) non è stato possibile identificare l’eziopatogenesi.
INTRODUZIONE
1.1. Aspetti epidemiologici
L’ictus cerebrale rappresenta oggi la seconda causa di morte a livello mondiale e la terza causa di morte nei paesi industrializzati, dopo le malattie cardiovascolari ed i tumori (Sarti e coll., 2000).
Attualmente si attribuiscono all’ictus cerebrale 6 milioni di morti nel mondo (Strong e coll. 2005). In Italia si stima che siano affette da patologie cerebrovascolari circa 900000 persone, con un tasso di incidenza e prevalenza progressivamente crescenti in base all’eta’ della popolazione (figura 1). In Italia l’ictus rappresenta la prima causa di disabilità, la seconda causa di demenza, la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie, causando il 10-12% di tutti i decessi per anno con un rilevante impatto individuale, familiare e socio sanitario (Di Carlo e coll. Lancet Neurol 2003, Murray CJL e coll, Lancet 1997 ,Marini C e coll, Neurology 2004). La valutazione dell’andamento storico dell’incidenza di ictus su base internazionale ha evidenziato una riduzione dagli anni ’70 agli anni ’80. Nel ventennio successivo, uno studio condotto a Malmö in Svezia sembra indicare una tendenza all’aumento di circa il 3% dei tassi di incidenza tra il 1989 ed il 1998 (Pessah-Rasmussen H, Stroke 2003) con un plateau o addirittura un’inversione di tendenza rispetto al decennio precedente. L’Oxford Vascular Study ha invece riscontrato un tasso grezzo di incidenza di primo episodio ictale ridotto del 29% tra gli anni 1981-1984 ed il 2002-2004 per le ischemie cerebrali e le emorragie intraparenchimali, non evidenziandosi invece per le emorragie subaracnoidee (Rothwell PM e coll., Lancet 2004). Relativamente alla situazione italiana, i cambiamenti della struttura demografica dei prossimi anni determineranno un aumento della popolazione nelle fasce più anziane (oltre i 65 anni) ed una contestuale riduzione nelle fasce inferiori ai 55 anni. Ad incidenza costante, pertanto, il numero di nuovi ictus è destinato ad aumentare. Evoluzioni analoghe sono attese per la prevalenza. Entro l’anno 2020, nonostante i progressi diagnostici e assistenziali e l’attenta prevenzione primaria (che risulta tutt’oggi l’arma più efficace), la mortalità per ictus sarà duplicata a causa dell’aumento dell’aspettativa di vita (quindi dei soggetti anziani) e della persistenza dell’abitudine al fumo di sigaretta. La prevalenza aumenta in relazione all’età, raggiungendo valori, in studi internazionali basati su popolazione, tra il 4,61% e il 7,33 % nei soggetti di età superiore a 65 anni (Di Carlo A e coll. Lancet 2003),
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(Figura 1). I dati relativi alla mortalità risentono molto del livello assistenziale, dell’affidabilità della certificazione di morte, della struttura della popolazione studiata. In tutti gli studi, comunque, la prevalenza e la mortalità aumentano al crescere dell’età.
Secondo l’ILSA (Italian Longitudinal Study of Ageing) (DiCarlo A e coll. Cerebrovasc Dis 2003) nella popolazione anziana (65-84 anni) italiana il tasso di prevalenza è pari al 6,5% (IC95 5,8-7,2) ed è lievemente superiore nel sesso maschile rispetto al femminile (7,4%; IC95 6,3-8,5 versus 5,9%; IC95 4,9-6,9). I dati di prevalenza generale di ictus in Italia per fascia d’età, basandosi invece sui dati di popolazione del censimento 2001 (Lindenstrom E, dati ISTAT) mostrano valori di 0,07% nella fascia 0-44 anni, 0,4% tra 45 e 54 anni, 1,3% tra 55 e 64 anni, 4,5% tra 65 e 74 anni, 8,8% tra 75 e 84 anni e 16,2% nei > 85 anni (vedi figura 1). L’incidenza, come la prevalenza, è anch’essa variabile da studio a studio. Le discrepanze riscontrate nei principali studi nazionali ed internazionali riflettono, oltre che una vera diversa frequenza della malattia, anche differenze nella composizione della popolazione in quanto l’ictus è patologia frequente soprattutto nella popolazione anziana. L’incidenza desunta dai dati di vari studi europei di popolazione, simili dal punto di vista metodologico, è risultata pari ad 8,72 per 1.000 (IC95 7,47-10,06) nei soggetti di età compresa tra 65 e 84 anni (Di Carlo A e coll., Neurology 2000). Si osserva, anche per l’incidenza, una crescita esponenziale con l’aumentare dell’età, raggiungendo il massimo negli ultraottantacinquenni. Eccetto che in quest’ultima fascia d’età l’incidenza è più alta nei maschi che nelle femmine. Risulta pertanto che il 75% degli ictus colpisce l’età geriatrica. Negli anziani di 85 anni ed oltre, l’incidenza è tra 20 casi su 1.000 e 35 casi su 1.000 abitanti per anno, con alta preponderanza di ictus ischemici e prognosi peggiore in termini di mortalità rispetto ai soggetti più giovani (Marini C, e coll, Neurology 2004). In conclusione, ogni anno vi sarebbero quasi 196.000 nuovi ictus in Italia, di cui una minoranza (circa il 20%) decede entro i 30 giorni successivi all’evento e circa il 30% sopravvive con esiti gravemente invalidanti. Di questi 196.000, l’80% sono primi episodi pari a circa 157.000 casi, mentre il 20% sono recidive, pari a circa 39.000 casi. Il TIA invece raggiunge negli Stati Uniti un’incidenza tra 200.000 e 500.000 casi per anno, ma la vera incidenza può essere più elevata poiché diversi episodi possono passare inosservati e non richiedere l’intervento del medico (Johnston SC, New England Journal of Medicine 2002 ).
Per quanto riguarda la etiologia dell’ictus, esistono pochi studi epidemiologici dettagliati. Nel registro de L’Aquila (Sacco S, e coll., Riv Ital Neurobiol 2006) la frequenza percentuale delle diverse forme di ictus è così suddivisa:
• forme ischemiche 82.6%
• forme emorragiche 16.2%
- intraparenchimali 13.5% - subaracnoidee 2.7%
• non classificabili 1.2%
Un certo grado di incertezza riguarda il fatto che una quota non trascurabile di casi rientra nella categoria degli ictus non classificabili per mancanza di documentazione strumentale o autoptica. Questa quota è più elevata nei soggetti di età molto avanzata in cui, più spesso che nei giovani, l’accertamento eziologico relativo all’ictus puo’ risultare incompleto. L’età di insorgenza è globalmente più elevata per gli ictus ischemici (età media superiore ai 70 anni), mentre le emorragie subaracnoidee colpiscono in età più giovanile (età media tra 48 e 50 anni) (Sacco S, e coll., Riv Ital Neurobiol 2006 , Ingall T e coll., Stroke 2000); le emorragie intraparenchimali si situano in una posizione intermedia. Per quanto riguarda il sesso, sia gli infarti ischemici cerebrali sia le emorragie intraparenchimali sono più frequenti nei maschi, al contrario l’emorragia prevale nelle donne con un rischio relativo significativo di 1,6 (Sacco S, e coll., Riv Ital Neurobiol 2006 , Ingall T e coll., Stroke 2000).
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1.2. Fattori di rischio
Un importante riferimento nella letteratura scientifica sui fattori di rischio dell’ictus cerebrale è costituito dai Conference Proceedings della American Heart Association (AHA). L’AHA ha organizzato periodici consensus panel che, a partire dal 1971, hanno precisato il ruolo dei principali fattori di rischio e hanno individuato nuovi possibili fattori. Secondo le linee guida dell’AHA/American Stroke Association sulla prevenzione primaria (Goldstein LB e coll., 2006) i fattori di rischio possono essere distinti in: fattori demografici (età, sesso); caratteristiche fisiologiche (pressione arteriosa, colesterolemia, glicemia); abitudini comportamentali (fumo, consumo di alcool, dieta, esercizio fisico) (Marmont MG, Poulter NR Lancet 1992).
I fattori del primo gruppo non sono modificabili; quelli del secondo possono richiedere un trattamento farmacologico oltre che misure preventive; quelli del terzo gruppo possono avvalersi di modificazioni dello stile di vita. Oltre alla suddetta divisione, possiamo distinguere più funzionalmente i fattori di rischio in tre gruppi, come segue:
• Non modificabili: età avanzata, sesso maschile, familiarità
• Modificabili ben documentati: ipertensione arteriosa, fibrillazione atriale, cardiopatie (coronaropatia; infarto miocardico acuto esteso e/o con trombosi endoventricolare; insufficienza ventricolare sinistra con frazione d’eiezione < 30%; aneurisma del setto interatriale; endocardite infettiva; mixoma atriale; trombosi su protesi valvolare; recente cardiochirurgia), attacchi ischemici transitori, fumo, arteriopatia periferica, diabete mellito, stenosi carotidea asintomatica, ipertrofia ventricolare sinistra, anemia falciforme, ridotta attività fisica, abuso di alcool, iperomocisteinemia, dieta
• Modificabili non completamente documentati: dislipidemia, obesità, sindrome metabolica, forame ovale pervio, placche dell’arco aortico, contraccettivi orali (20-44 anni), terapia ormonale sostitutiva (50-74 anni), stati trombofilici, abuso di stupefacenti, emicrania con aura, sindrome delle apnee ostruttive da sonno.
Tra tutti i fattori di rischio, la stenosi carotidea mostra correlazione tra rischio di ictus ischemico e grado di stenosi in soggetti asintomatici (Norris JW,. Stroke 1991). Il rischio di ictus per una stenosi asintomatica del 70% è di circa il 3% all’anno (non indicati, Lancet 1995).
In una popolazione non selezionata di età tra 65 e 84 anni è stata rilevata una prevalenza della stenosi >49% nel 5% circa dei casi, mentre una stenosi superiore al 15% era presente nel 17,5% (Del Sette M.e coll., 1993). Da vari studi emerge il ruolo dello spessore intima-media come fattore predittivo di eventi vascolari. L’aumento di spessore del complesso intima-media della arteria carotide, misurato ecograficamente, era direttamente correlato (P<0,001) con un aumento del rischio di infarto miocardico e di ictus in anziani senza storia di malattia cardiovascolare. Il rischio relativo di infarto miocardico o ictus (aggiustato per sesso e per età) per il quintile con spessore più elevato rispetto al quintile inferiore è 3,87 (IC95 2,72-5,51); il rischio relativo aggiustato per la presenza dei fattori di rischio tradizionali è 3,15 (IC95 2,19-4,52) (O’Leary DH e coll., 1999). Recentemente è stato confermato un aumento di rischio correlato all’ispessimento intima-media anche in due studi su soggetti sani, con un rischio relativo aggiustato per i possibili confondenti pari rispettivamente a 3,0 (IC95 1,1-8,3) (Kitamura A, Stroke 2004) e 2,30 (IC95 1,34-3,94) (Hollander M. e coll., 2003).
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1.3. Aspetti clinici
La definizione OMS considera l’ictus una “improvvisa comparsa di segni e/o sintomi riferibili a deficit focale e/o globale (ovvero il coma) delle funzioni cerebrali, con durata superiore alle 24 ore e/o ad esito infausto, non attribuibile ad altra causa se non a vascolopatia cerebrale” (WHO,1978). Molto utilizzata è la suddivisione in ictus minore (minor stroke) e ictus maggiore (major stroke), che è molto pratica, perché separa i pazienti che sopravvivono ad un ictus senza esiti funzionali, rispetto a quelli che rimangono disabili. Per valutare gli esiti funzionali viene utilizzata soprattutto la scala modified Ranking Scale (mRS) che attribuisce un punteggio crescente da zero a sei in funzione della gravità degli esiti. Sostanzialmente, la mRS definisce con il punteggio 0-2 i pazienti autosufficienti, con 3-5 i pazienti disabili e con 6 quelli deceduti.È definito invece dall’OMS come attacco ischemico transitorio (TIA: transient
ischemic attack), “l’improvvisa comparsa di segni e/o sintomi riferibili a deficit focale cerebrale
o visivo, attribuibile ad insufficiente apporto di sangue, di durata inferiore alle 24 ore” (WHO,1978). Recentemente è stata proposta una ridefinizione del concetto di TIA (Albers GW.e coll., 2002). Il presupposto di tale definizione è basato sul fatto che il limite di 24 ore di durata per il TIA è un limite arbitrario e la maggior parte dei TIA risolve entro un’ora dall’esordio dei sintomi. Secondo la nuova definizione sono da classificare come TIA solo quegli episodi di “disfunzione neurologica da ischemia cerebrale o retinica con durata in genere inferiore ad un’ora e senza evidenza di danno cerebrale permanente”. Il limite di tale definizione risiede nel fatto che la categoria diagnostica cui attribuire il paziente dipende all’accuratezza degli esami effettuati, in particolare la TC e la RMN dell’encefalo.
I TIA sono classificati con criterio topografico (Gorelick PB e coll.,1999) in: TIA carotideo, TIA vertebro-basilare, Amaurosi transitoria (territorio dell’a.oftalmica)
Non sono da considerarsi sintomi di attacco transitorio, qualora siano isolati: ! Perdita di coscienza
! Sensazione d’instabilità ! Confusione mentale
! Perdita o calo del visus associati a ridotto livello di coscienza ! Incontinenza sfinteriale
! Vertigine ! Diplopia
! Perdita d’equilibrio ! Disfagia
! Sintomi sensitivi (parestesie, ipo/iperestesie) confinati a una parte di arto/volto ! Acufeni
! Scotomi scintillanti
! Amnesia globale transitoria ! Drop attack
Un buon metodo per stratificare il rischio ischemico nel paziente con TIA è il cosiddetto Age,
Blood pressure, Clinical features, Duration of symptoms and Diabetes ossia l’ABCD2 score
(Rothwel PM. E coll.Lancet 2005), che attribuisce un punteggio in base a cinque caratteristiche del paziente: l’età (1 punto se > 60 anni), la pressione arteriosa (1 punto se > 140/90 mmHg), il deficit neurologico clinico (1 punto per deficit fasico senza ipostenia, 2 punti per ipostenia unilaterale), la durata dell’attacco (1 punto per 10-59 minuti e 2 punti per > 60 minuti), la presenza di diabete mellito (1 punto).
Dal calcolo dello score si possono identificare pazienti con diverso profilo di rischio per ictus: • Punteggi tra 0 e 3 configurano un basso rischio, cioe’ la probabilita’ di sviluppare ictus
ischemico a 2 giorni dal TIA risulta pari all’ 1%;
• Punteggi tra 4 e 5 configurano un rischio moderato (4.1% a 2 giorni); • Punteggi tra 6 e 7 configurano un rischio elevato (8.1% a 2 giorni).
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1.4. Classificazione
La classificazione TOAST (Trial of Org 10171 in acute Stroke Treatment) del 1993 (Adams HP Jr e coll., 1993) suddivide i TIA e l’ictus ischemico in sottogruppi su base eziopatogenetica:
• Aterotrombotico (aterosclerosi delle grosse arterie) • Cardioembolico
• Malattia delle piccole arterie (lacunari)
• Altre cause determinanti (dissezioni, vasculiti, disordini coagulativi, altre) • Indeterminato (due o più cause o valutazione negativa/incompleta)
Vari registri sono concordi nell’attribuire circa il 30% degli ictus ad un’eziopatogenesi aterosclerotica; circa il 30% a cardioembolia; circa il 20% a malattia delle piccole arterie; circa il 10% ad altre cause determinanti e il restante 10% a cause non determinate.
! Eziopatogenesi Aterosclerotica
L’aterosclerosi è la patologia che più frequentemente colpisce le carotidi e tale prevalente localizzazione è correlata a numerosi fattori: geometrici, di velocità del flusso e di ‘shear stress’ al quale è sottoposto il vaso stesso.
La biforcazione carotidea è più frequentemente sede di placche aterosclerotiche perché situate in una regione ad alta turbolenza di flusso. Anche le cellule muscolari hanno un importante ruolo nell’iniziale sviluppo della placca, migrando dalla tonaca intima alla tonaca media, proliferando e promuovendo l’accumulo di colesterolo ed altre molecole lipidiche; i macrofagi, producendo fattori di crescita, stimolano ulteriormente la proliferazione di cellule muscolari e di matrice extracellulare. Le cellule muscolari lisce e i macrofagi provocano una risposta infiammatoria secondaria da parte degli stessi monociti-macrofagi e di linfociti T e, inglobando le LDL ossidate, sono trasformate in cellule schiumose (foam cells) caratteristiche delle lesioni aterosclerotiche. La placca aterosclerotica è composta da un denso cappuccio connettivale circondato da cellule muscolari lisce che ricoprono un core necrotico-lipidico, composto da prodotti di degradazione cellulare e di cristalli di colesterolo, separato dal lume carotideo da un cappuccio fibroso di spessore variabile, composto da fibroblasti e matrice extracellulare. L’interazione tra queste cellule è determinante per lo sviluppo e la progressione della placca e
per l’insorgenza di complicanze quali la trombosi e la rottura della placca stessa. L’integrità strutturale del cappuccio fibroso è, ovviamente, cruciale in relazione all’evoluzione finale della placca verso la ‘rottura’ (placca instabile) e alle sue sequele embolizzanti. Possono esservi inoltre successivi depositi di calcio, che rendono la carotide ancor più rigida dal punto di vista meccanico (e pertanto, di calibro meno adattabile alle variazioni del flusso ematico e dell’onda sfigmica). L’analisi anatomo-patologica comparata di campioni di endoarterectomia carotidea di soggetti con o senza sintomi neurologici ha fornito indicazioni sui determinanti di instabilità della placca carotidea, risultati molto simili a quelli responsabili della vulnerabilità a livello coronarico. La vulnerabilità alla rottura è caratterizzata da: ridotto spessore del cappuccio fibroso, grosso core lipidico-necrotico, ed infine un maggiore infiltrato di cellule infiammatorie all’interno della placca (in particolare macrofagi e linfociti T) (Golledge J. E coll., 2000). Uno studio effettuato da Virmani et al.(Virmani R. E coll.,2000) ha evidenziato come nelle placche vulnerabili coronariche vi sia un sottile cappuccio fibroso (≤ 150 µm) che ricopre un core lipidico nello spessore della parete. Inoltre, sebbene alcuni autori abbiano mostrato che la quantità di lipidi estraibili dalle placche di pazienti sintomatici sia maggiore rispetto a quella delle placche dei pazienti asintomatici (,Seeger J. E coll., 1995) altri hanno suggerito che il fattore determinante la rottura sia rappresentato dalla vicinanza del core lipidico al cappuccio fibroso. In particolare, Bassioumy et al.(Bassioumy HS e coll., 1997) hanno dimostrato che a parità di diametro del core lipidico, la vicinanza di quest’ultimo ad un cappuccio più sottile predispone maggiormente alla rottura. Inoltre, è stato dimostrato come la rottura della placca e l’ulcerazione sono significativamente maggiori nei pazienti sintomatici, mentre la trombosi luminale e l’emorragia intraplacca sono egualmente rappresentate nelle placche ottenute da pazienti sintomatici o asintomatici (Hatsukami TS e coll.,1997). Il rischio di rottura è legato non solo alle caratteristiche intrinseche della placca (vulnerabilità), ma anche a forze meccaniche ed emodinamiche che agiscono dall’esterno, in particolare a livello della biforcazione carotidea nelle regioni laterali della placca, dove il cappuccio fibroso è più sottile (Arroyo LH, e coll.,1999). I fattori emodinamici sembrano influenzare la stessa composizione cellulare. A tal proposito Dirksen et al. (Dirksen e coll. 1998) hanno dimostrato come diverse aree della placca abbiano una diversa composizione cellulare. In particolare, le aree della placca a valle del flusso sono più ricche di cellule muscolari lisce, mentre aree localizzate a monte rispetto al flusso subiscono un maggiore stress di taglio e sono più ricche di macrofagi.La progressione di placche carotidee stabili in placche vulnerabili è probabilmente legata ad un particolare microambiente della placca stessa, a sua volta dipendente da un bilancio tra migrazione e proliferazione cellulare, produzione e degradazione di matrice extracellulare ed
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infiltrato infiammatorio rappresentato da macrofagi e linfociti T. È ormai noto che i linfociti T, attraverso la produzione di interferone γ, da un lato stimolano i macrofagi a produrre le metalloproteasi (MMP), e dall’altro inibiscono la sintesi del collagene. Tale squilibrio tra produzione di collagene e matrice extracellulare e la sua digestione comporta un assottigliamento del cappuccio (Shah e coll.,1995). Alti livelli di MMP sono stati dimostrati nel cappuccio fibroso (Galis, e coll.,1991 , Spagnoli, e coll.,2002), mentre un aumento dell’apoptosi delle cellule muscolari lisce è di frequente riscontro in placche aterosclerotiche instabili (Best, e coll.,1999). Inoltre, l’accumulo di cellule T e di macrofagi, attraverso la produzione di citochine pro-infiammatorie, è stato correlato con l’ulcerazione della placca carotidea, la frequenza di microemboli e l’insorgenza di sintomi corticali cerebrali (Sitzer e coll.,1995 , Jander, 1998 , De Michele M, 2001). L’importanza del microambiente nella progressione delle lesioni aterosclerotiche e la possibilità di modulare le interazioni esistenti tra i suoi diversi componenti è stata ulteriormente chiarita da studi sperimentali che hanno dimostrato come il trattamento con farmaci ipolipidemizzanti, quali fluvastatina e pravastatina su conigli sottoposti a dieta ipercolesterolemica, oltre a ridurre i livelli plasmatici dei lipidi, abbassano i livelli di MMP-1, MMP-3 ed MMP-9 ed aumentano la sintesi di pro-collagene da parte delle cellule muscolari lisce (Fukumoto Ye coll.,2001), stabilizzando la lesione. Molti dei fattori di rischio per l’ictus ischemico hanno un effetto promotore sull’aterosclerosi, attraverso vari percorsi patogenetici riconducibili al danno endoteliale, all’aumentata adesione piastrinica, all’accelerata deposizione di LDL ossidate nella parete vascolare e all’interferenza con il meccanismo della coagulazione e della fibrinolisi. Il fumo di sigaretta, l’iperomocisteinemia, la dislipidemia, l’ipertensione e il diabete convergono proprio verso queste strade. Di più, ciascun fattore di rischio cerebrovascolare influenza in modo diverso la composizione istocitologica delle placche, portandole all’instabilità: è stato dimostrato da Spagnoli et al. (Spagnoli LG, e coll,.1994) che placche fibrose erano più specificatamente associate al diabete mellito, placche granulomatose ricche in cellule giganti all’ipertensione arteriosa, placche ricche in cellule schiumose all’ipercolesterolemia, mentre nei pazienti fumatori la placca appariva più spesso complicata da trombosi. Anche elevati livelli di fibrinogeno e PCR porterebbero alla maggiore infiammazione della placca, con aumento dei linfociti T e instabilità (Mauriello A. e coll.,2000). L’evoluzione sopra descritta, con un’esposizione del contenuto lipidico in profondità, predispone alla trombosi o alla tromboembolia. Un’ultima complicanza della placca aterosclerotica, in fase avanzata, è l’emorragia che può verificarsi anche in assenza della rottura della membrana fibrosa superficiale e dar luogo a dissecazioni.
! Eziopatogenesi Cardioembolica
L’embolia di origine cardiaca causa circa il 15% di tutti gli ictus. L’ictus causato da una malattia cardiaca è dovuto principalmente a emboli o alla formazione di materiale trombotico sulla parete atriale o ventricolare, oppure sulle valvole cardiache sinistre; questi trombi si staccano ed entrano nella circolazione arteriosa, dove possono frammentarsi o andare incontro a lisi con pronto ripristino del circolo; in alternativa, possono condizionare un’occlusione arteriosa permanente e può verificarsi una trombosi distale all’ostruzione con conseguente interruzione della circolazione collaterale distale. Gli emboli provenienti dal cuore si dirigono più frequentemente verso la cerebrale media o uno dei suoi rami; raramente causano un infarto nel territorio della cerebrale anteriore. Gli emboli sufficientemente grandi da occludere la porzione principale della cerebrale media (3-4 mm) hanno come conseguenza un ampio infarto che coinvolge sia la sostanza grigia che la sostanza bianca e una parte della superficie corticale e della sostanza bianca sottostante. Un embolo più piccolo può occludere un piccolo ramo corticale o uno dei rami penetranti; la localizzazione e le dimensioni dell’infarto dipendono anche dal grado di risparmio del circolo collaterale.
Si ritiene che l’embolia cerebrale si verifichi quando si rinvengano o siano già note aritmie cardiache o anomalie strutturali; le cause più comuni di ictus cardioembolico sono la fibrillazione atriale (FA) di origine non reumatica (spesso detta “non valvolare”), l’infarto miocardico, la sostituzione di valvole, la malattia reumatica cardiaca, la cardiopatia ischemica e la pervieta’ del forame ovale.
La fibrillazione atriale non reumatica è la causa più comune di embolia cerebrale; i pazienti portatori di FA presentano un rischio medio annuo di ictus pari a circa il 5%, anche se la per-centuale varia in relazione alla presenza di altri fattori di rischio come l’età avanzata, l’ipertensione, una ridotta funzionalità ventricolare sinistra, un precedente episodio di cardioembolia e il diabete mellito. I pazienti di età inferiore a 60 anni senza alcun fattore di rischio presentano un rischio annuo di circa 0,5%, mentre quelli con più fattori hanno un rischio del 15% circa. Il meccanismo presunto dell’ictus è la formazione di trombi nell’atrio fibrillante o nell’auricola, con successiva embolizzazione. (Wolf PA, e coll,. 1991)
Un infarto miocardico, in particolare se transmurale e con coinvolgimento della parete ventricolare anteroapicale, è una condizione ad alto rischio di embolia, in particolare nelle prime settimane.
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Le cardiomiopatie con ridotta funzionalità ventricolare sinistra si associano frequentemente a formazione di trombi nel ventricolo sinistro. (Vemmos K, e coll., 2011)
Le protesi valvolari cardiache, in particolare quelle meccaniche, sono una causa comune di embolia cerebrale. (Vemmos K, e coll., 2011)
La malattia reumatica cardiaca di solito causa ictus ischemico in presenza di una stenosi mitralica documentabile o di una FA; l’ingrandimento atriale sinistro e l’insufficienza cardiaca congestizia costituiscono ulteriori fattori di rischio per la formazione di trombi atriali (Vemmos K, e coll., 2011).
Il prolasso della valvola mitrale può essere fonte di emboli; questa patologia comune probabilmente è causa di embolia cerebrale solo quando è grave. (Vemmos K e coll., 2011) I difetti settali congeniti possono associarsi ad embolia cerebrale. Il Forame Ovale Pervio, altrimenti abbreviato con l’acronimo PFO, definisce un’anomalia cardiaca in cui l’atrio destro comunica con il sinistro a livello della fossa ovale tra septum primum e il septum secundum. Statisticamente interessa all’incirca il 25-30% della popolazione adulta. In realtà la comunicazione tra i due atri è assolutamente normale e anzi essenziale durante la vita fetale, prima della nascita. Durante la vita fetale i polmoni sono inattivi e l’ossigeno che va ai tessuti proviene dalla madre tramite la placenta e i vasi del cordone ombelicale. Dovendo oltrepassare i polmoni, il sangue fluisce direttamente dalla porzione destra del cuore nella parte sinistra tramite due aperture il dotto di Botallo posto tra l’arteria polmonare e l’aorta toracica e il forame ovale che connette i due atri. Alla nascita, la circolazione placentare viene interrotta, i polmoni iniziano la loro attività respiratoria e il circolo polmonare diventa pienamente funzionante. Le modificazioni delle resistenze vascolari fanno si che la pressione atriale sinistra diventa leggermente superiore a quella destra. Questa differenza di pressione fa accollare al forame ovale una piccola membrana chiamata septum primum. Normalmente, entro il primo anno di vita, la membrana si salda alla parete e la chiusura diviene permanente. Il forame ovale viene definito pervio (aperto), quando questa saldatura non avviene e la chiusura anatomica risulta imperfetta o manca completamente e quindi il septum primum viene mantenuto in sede soltanto dalla differenza pressoria.Nelle nornali condizioni di vita, il PFO non comporta nessun problema. Se invece la pressione nell’atrio destra supera quella dell’atrio sinistro,ci può essere un passaggio (shunt) di sangue nell’atrio sinistro e avere quindi un embolia paradossa. Un forame ovale pervio (PFO) è stato riscontrato a livello autoptico nel 25-35% della popolazione adulta senza differenza di sesso (Hagen PT, e coll., 1984).
Utilizzando l’ecocardiografia con mezzo di contrasto bolloso (iniezione endovenosa di soluzione fisiologica agitata associata a un ecocardiografia trans-toracica o trans-esofagea), o con un Doppler Transcranico per ricerca di pervietà del forame ovale, un PFO si può rilevare nel soggetto vivente nel 5-20% della popolazione adulta (Lynch L, e coll., 1984).
Pazienti giovani (di età inferiore ai 60 anni), colpiti da uno o più episodi di ischemia cerebrale la cui causa non sia stata determinata (“criptogenetica”) e si sospetti una embolia cerebrale paradossa devono essere sottoposti ad indagini strumentali per verificare la presenza del PFO (Jones H, 1983).
Numerosi studi hanno comunque confermato una forte associazione tra la presenza di un PFO e il rischio di embolia paradossa o di episodi di ischemia cerebrale.(Lechat Ph, 1988 - Mas JL: 1996).
Confrontati con un gruppo di soggetti di controllo senza PFO, i pazienti con PFO hanno un rischio di soffrire di un evento trombo-embolico che è quattro volte più alto; tale rischio è 33 volte maggiore nei pazienti che hanno sia il PFO che un aneurisma del setto interatriale (Cabanes e coll. 1993.)
Inoltre, la presenza di un forame ovale ampiamente pervio (con separazione tra septum primum e septum secundum >5mm) o con ampio shunt destro-sinistro (più del 50% dell’atrio sinistro riempito da ecocontrasto) sono state identificati come predittori ecocardiografici di un aumentato rischio di embolia paradossa (Hausmann D, e coll., 1995)
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! Eziopatogenesi Lacunare
Infarti piccoli e profondi causati dall’occlusione delle arterie perforanti. Le piccole arterie che penetrano nelle strutture cerebrali profonde (ad esempio i nuclei della base, la capsula interna, il talamo, il ponte) sono particolarmente suscettibili alle alterazioni degenerative da ipertensione arteriosa: l’ipertrofia della tunica media, le alterazioni fibrinoidi e la lipoialinosi restringono gradualmente i lumi di queste arterie, ostacolandone il flusso ematico. Placche arteriose, che bloccano o si estendono all’interno degli orifizi delle arterie perforanti, e i microateromi sono più frequenti nei diabetici. Alti valori di ematocrito aumentano la viscosità ematica, che aumenta i rischi di infarti lacunari e di occlusione di grandi arterie. L’occlusione di un’arteria perforante causa un infarto piccolo e profondo (lacuna). Le lacune sono < 2 cm nel loro diametro massimo e colpiscono solo le strutture più profonde. L’origine delle arterie perforanti può essere occlusa da microateromi e micro dissezioni, con conseguenti infarti a identica distribuzione. Le lacune insorgono più frequentemente nel circolo posteriore; la loro prevalenza aumenta con l’età, ma non sembra correlarsi al sesso o alla razza.
! Eziopatogenesi da altra causa
L’aterosclerosi è di gran lunga la più frequente, in virtù dell’alta prevalenza di malattia nella popolazione generale. Le altre cause (principalmente dissezioni, arteriti, displasia fibromuscolare, forme post-attiniche e genetiche), sono considerate nelle ‘eziologie rare’, responsabili nel 5% dei casi e maggiormente rappresentate nelle forme giovanili. (Cerrato e Azzaro, 2004, Neurological Sciences, 2004)
Oltre alla TOAST, una altra classificazione adottata, secondo i criteri dell’Oxfordshire Community Stroke Project (OCSP) (Bamford J e coll.,1991), è quella clinica,che distingue il TIA e l’ictus ischemico in sindromi territoriali così suddivise:
- TACS: sindrome totale del circolo anteriore (ramo principale dell’arteria silviana eventualmente associato all’arteria cerebrale anteriore) con emiplegia ed emianestesia, emianopsia e disturbo corticale superiore (afasia o disturbo visuospaziale)
- PACS: sindrome parziale del circolo anteriore (ramo dell’arteria silviana) con deficit sensitivo-motorio ed emianopsia, oppure deficit sensitivo motorio e compromissione corticale, oppure emianopsia e deficit corticale
- POCS: sindrome del circolo posteriore (arteria del circolo vertebro-basilare o cerebrale posteriore) con paralisi di nervo cranico e deficit sensitivo-motorio bilaterale, oppure deficit motorio e/o sensitivo bilaterale, oppure disturbo coniugato di sguardo, oppure disfunzione cerebellare, oppure emianopsia isolata
- LACS: sindrome lacunare (piccole arterie perforanti profonde) con ictus motorio puro, ictus sensitivo puro, ictus sensitivo-motorio, emiparesi atassica. L’ictus o il TIA sono senza afasia, disturbi visuospaziali, senza compromissione del tronco e della coscienza.
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1.5. Aspetti prognostici
I dati di prognosi hanno una notevole rilevanza per la pianificazione sanitaria e per l’elaborazione di ‘linee guida’ in relazione alla prevenzione primaria e secondaria, al trattamento ed alla riabilitazione dell’ictus. La mortalità è il principale parametro prognostico, ma i suoi valori sono molto variabili essendo influenzati dal tipo di studio (studi di popolazione, registri ospedalieri); risentono poi in maniera molto spiccata del livello di qualità assistenziale nella fase acuta. Con lo sviluppo delle stroke unit e con il miglioramento generale dell’assistenza, la mortalità per ictus è in progressivo calo dal 1970 in poi.
L’ictus ischemico globalmente considerato ha una mortalità a 30 giorni oscillante, nei vari studi, tra 10% e 25% circa; se si eliminano quelli lacunari la prognosi a breve termine è leggermente peggiore, dato che questi hanno una mortalità modesta. Nell’ambito dei vari tipi di ictus, quelli a prognosi acuta peggiore sia in termini di mortalità che di entità di esiti, sono quelli globali del circolo anteriore, mentre meno grave è la prognosi di quelli parziali del circolo anteriore e di quelli del circolo posteriore. Per ciò che riguarda la prognosi a lungo termine, la mortalità ad 1 anno dei pazienti con ictus ischemico è pari a circa il 30-40% mentre la frequenza di recidiva è tra 10% e 15% nel primo anno e tra 4% e 9% nei primi 5 anni dopo l’evento iniziale (Dennis MS, e coll.,1993). I dati di popolazione del Registro de L’Aquila (Sacco S, e cool.,2006), indicano una mortalità a 30 giorni per ictus ischemico del 21,2%. È inoltre presente un aumentato rischio per eventi vascolari importanti anche in altri distretti vascolari (coronarie, arti inferiori, morte improvvisa), trattandosi per lo più di soggetti affetti da vasculopatie pluridistrettuali o portatori di multipli fattori di rischio per aterosclerosi. I TIA si manifestano in circa un terzo dei soggetti che in seguito presentano un ictus ischemico e rappresentano perciò un importante fattore di rischio di ictus (Loeb C, Gandolfo C. handbook of clinical neurology 1988). Il rischio assoluto di ictus nei soggetti con TIA e minor stroke varia tra il 7% ed il 12% nel corso del primo anno (10 volte la popolazione generale di pari età e sesso (Koudstaal PJ e coo., 1992)) e tra il 4% ed il 7% per anno nei primi 5 anni dopo l’evento iniziale (Warlow CP. E coll.,2001). Anche la mortalità generale è significativamente aumentata nei soggetti con TIA, anche se la causa principale è la cardiopatia ischemica e non l’ictus. Il TIA è infatti un campanello d’allarme anche per le sindromi coronariche acute.I pazienti che presentano un infarto lacunare presentano una mortalità molto bassa (Gandolfo C, 1998 , Kappelle LJ , 1995) del 4,3% a 30 giorni e del 13% a 1 anno, come stimato da Sacco e coll.,
contro il 26,7% e il 40,3% dei restanti ictus di tipo ischemico. Inoltre gli ictus lacunari hanno circa la metà del rischio di recidiva a 5 anni (2,8% vs 5%) (Sacco S. e coll., 2006)
Nell’ambito dei vari tipi di ictus, quelli a prognosi acuta peggiore sia in termini di mortalità che di entità degli esiti, sono quelli globali del circolo anteriore (TACS), mentre meno grave è la prognosi di quelli parziali del circolo anteriore (PACS) e di quelli del circolo posteriore (POCS).
Resta il fatto che nel 35% dei pazienti colpiti da ictus, globalmente considerati, residua una grave invalidità e una marcata limitazione nelle attività della vita quotidiana (Di Carlo A e coll.2000).
ICTUS ISCHEMICO MONOGENICO
2.1. Cause rare di ictus
L’ictus ischemico monogenico rientra tra le cause rare di ictus. Le cause rare possono essere suddivise in base ai determinanti eziopatogenetici (Cerrato e Azzaro, 2004) in :
• Patologie non aterosclerotiche dei vasi cerebrali comprendenti dissecazione dei vasi epiaortici, displasia fibromuscolare, sindrome di Moya-moya, malattie del collagene (sindrome di Marfan, sindrome di Ehlers-Danlos), vasculiti, arteriopatia post-attinica e altre.
• Malattie ematologiche comprendenti anomalie della coagulazione di tipo congenito (deficit degli inibitori della coagulazione quali antitrombina III, proteina C ed S , mutazione del fattore II e del fattore V) o acquisiti (sindrome da anticorpi antifosfolipidi, CID) e patologie coinvolgenti gli elementi corpuscolari del sangue (policitemia vera, trombocitemia essenziale , anemia a cellule falciformi)
• Malattie Monogeniche (CADASIL, CARASIL, Sindrome di Fabry, MELAS, Pseudoxantoma elascticum, Omocistenuira, Neurofibromatosi tipo 1 )
• Abuso di droghe, sostanze simpatico mimetiche, l’infarto emicranico, la sindrome di SICRET e la sindrome di HERNS
2.2. Ictus da causa monogenetica
Gli ictus monogenici si ritiene rappresentino circa il 5% del totale degli ictus (José M Ferro 2010). Tuttavia si pensa che queste malattie siano tale percentuale sia sottostimata, sia per la complessità diagnostica, sia per l’alta variabilità fenotipica e, infine, perché poco conosciute dai clinici. Le malattie monogeniche sono state classificate in maniera eterogenea in letteratura e sono stati identificati fenotipi diversi da quelli classici per cui è stata fatta una riclassificazione delle malattie monogeniche a seconda dei vasi che vanno a interessare (Jounalle of cerebral blood flow and methabolism al 2007).
Legenda: AD = automico dominante , AR = autosomico recessivo, XL-R = x linked recessive, CADASIL = cerebral
autosomal dominant arteriopathy with subcortical infarcts and leukoencephalopathy, CARASIL = cerebral autosomal recessive arteriopathy with subcortical infarcts and leukoencephalopathy, MELAS = Mitochondrial encephalomyopathy, lactic acidosis, and stroke-like episodes, NF1 = Neurofirbromatosi 1, PXE = Pseudoxantoma elasticum, HEARNS = Hereditary endotheliopathy with retinopathy, nephropathy, and stroke
Nei prossimi paragrafi verranno presentate le forme di ictus monogenico di più comune osservazione (almeno nella razza Caucasica) ed oggetto del nostro lavoro sperimentale.
VASI INTERESSATI GENE/CROMOSOMA PATTERN DI EREDITAREITA’
Piccoli vasi • CADASIL • CARASIL • HEARNS Gene Notch 3 Unknow 3p21.1-p21.3 AD AR AD Piccole e grandi arterie
• MALATTIA FABRY • PXE • NF1 Gene α-galattossidasi A ABCC6 Gene NF-1 XL-R AD – AR AD Grandi arterie • MOYA-MOYA 3p242-26 \ 17q25 AR Dissezioni arteriose • S. MARFAN • S. E-D tipo IV Gene FBN1 o TGFβR2 Gene collagene tipo III
AD AD
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2.2.1. CADASIL
CADASIL è l’acronimo per Arteriopatia Cerebrale Autosomica Dominante con Infarti Sottocorticali e Leucoencefalopatia. La CADASIL è una malattia genetica trasmessa con modalità autosomica dominante. Nel mondo sono state descritte finora oltre 500 famiglie affette (Kalimo e coll., 2002) e in Europa ne sono state riportate più di 400 (Peters e coll., 2004). Negli ultimi anni il numero di pazienti diagnosticati è notevolmente cresciuto ed esistono motivi per pensare che la prevalenza reale della malattia sia molto maggiore. Da un punto di vista clinico è caratterizzata da accidenti cerebrovascolari, soprattutto eventi ischemici (infarti lacunari), ed emicrania con o senza aura. L’esordio dei sintomi avviene intorno ai 40 anni. L’evoluzione della malattia è definita da successivi infarti, soprattutto lacunari, deterioramento cognitivo, disfunzioni psichiatriche (sindrome depressiva, a volte episodi di mania o melanconia) e talvolta epilessia (Chabriat e coll., 1995; Desmond e coll., 1999;Dichgans e coll., 1998). La diagnosi viene sospettata alla valutazione anamnestica e clinica e confermata con RMN, che mostra leucoaraiosi ed infarti lacunari. Alcuni reperti neuroradiologici supportano la diagnosi, come lesioni iperintense nella parte anteriore dei lobi temporali e alla capsula esterna alle immagini T2-pesate. (O’Sullivan e coll., 2001; Auer e coll, 2001). Tali lesioni sono evidenziabili sia in pazienti sintomatici sia in portatori asintomatici della mutazione genetica(Dichgans e coll., 1998). Il gene causativo, Notch 3, che mappa sul cromosoma 19p13.1, è stato identificato nel 1996. La malattia è geneticamente omogenea visto che tutte le famiglie affette da CADASIL sono state legate a Notch 3. Questo gene comprende 33 esoni. I difetti genetici sono mutazioni puntiformi, con cluster in specifici esoni. Notch 3 codifica per una proteina di membrana, che contiene domini EGF (fattore di crescita epidermico) simili ricchi in cisteina ed è espresso nelle cellule muscolari lisce dei piccoli vasi sanguigni cerebrali ed extracerebrali. Le mutazioni patogenetiche causano sia la perdita che il guadagno di funzione di un residuo di cisteina e comportano l’accumulo di Notch3 in membrana. Notch 3 è evidenziabile con anticorpi nelle cellule muscolari lisce delle arteriole. Dal punto di vista vascolare nella CADASIL si riconosce una micro-angiopatia arteriolosclerotica e non-amiloidea che in microscopia elettronica si caratterizza per la presenza di depositi elettrondensi di materiale granulare osmiofilico (GOM) nella membrana basale delle arteriole (Ruchoux e coll., 1997). Tali depositi sono evidenziati non solo nelle piccole arterie cerebrali ma anche in quelle di altri organi compresa la cute (Ruchoux e coll., 1997; Mayer e coll,. 1999). La diagnosi di CADASIL può essere posta con l’individuazione della mutazione del gene Notch3 tramite l’analisi genetica o con il rilevamento della presenza di GOM su biopsia cutanea (Markus e
coll., 2002; Peters e coll., 2005). Mentre la specificità di questa ultima metodica sembra essere vicino al 100%, la sensibilità appare minore con dati variabili a seconda degli studi (Markus, 2002;Kalimo, 2002). Per quanto riguarda la diagnosi genetica, il sequenziamento del gene
Notch 3 richiede tempi lunghi e costi elevati. Per tale motivo molti centri limitano l’esame agli
esoni 3 e 4 che, secondo studi Nord-Europei e Nord-Americani, risultano mutati in oltre il 70% dei casi (Kalimo et al, 2002). Recenti studi condotti in Inghilterra, Olanda e Italia hanno però evidenziato un profilo mutazionale diverso da quello inizialmente delineato (Markus,2002; Lesnik Oberstein 2003; Dotti et al 2005). Limitare il sequenziamento agli esoni 3 e 4 potrebbe quindi aver portato ad una sottostima della reale frequenza della malattia. Un altro motivo che può essere responsabile della attuale sottostima della malattia è la alta variabilità dell’espressività fenotipica della CADASIL. Variabile è l’età di esordio che può spaziare dall’adolescenza all’età geriatrica anche se la maggior parte dei casi vengono diagnosticati in età giovane-adulta (Singhal e coll., 2004; Markus e coll., 2002). Variabili sono anche i disturbi che portano al sospetto di malattia. Se infatti i sintomi di esordio sono per lo più caratterizzati da emicrania e/o eventi ischemici cerebrali, sono stati descritti casi in cui il sospetto diagnostico è stato posto in seguito ad un disturbo psichiatrico acuto (Leyhe e coll., 2005; Pantoni e coll., 2005), ad una crisi epilettica, o in età avanzata da lievi disturbi della memoria. Variabile infine è la fase conclamata della malattia con forme paucisintomatiche e forme caratterizzate dal quadro clinico completo. Tale variabilità è presente anche fra i vari membri della stessa famiglia. Tutto questo suggerisce la necessità di uno screening sistematico almeno nei contesti clinici in cui sono più comuni le manifestazioni della malattia (Inzitari e Sarti, 2003). Una accurata conoscenza dell’espressività fenotipica potrebbe essere di aiuto nel descrivere la storia naturale della malattia e consentire il disegno di specifiche procedure per lo screening di nuovi pazienti con sospetta CADASIL nella popolazione. Per quanto concerne le possibilità terapeutiche, al momento non esiste alcun trattamento di provata efficacia. L’approccio terapeutico, pertanto, è esclusivamente sintomatico. L’emicrania, per la bassa frequenza degli attacchi, in genere non richiede terapia profilattica. Quando necessaria, beta-bloccanti ed antiepilettici sono efficaci. Per la fase acuta, la sintomatologia è ben controllata dai FANS. La prevenzione degli attacchi ischemici è basata sulle stesse misure preventive dell’ictus ischemico non cardioembolico: antiaggreganti piuttosto che anticoagulanti, che aumenterebbero il rischio di emorragie cerebrali ed il trattamento dei fattori di rischio. Discussa, invece, risulta l’efficacia di farmaci inibitori delle acetilcolinesterasi (donepezil) per il decadimento cognitivo. Utile, inoltre, supporto assistenziale in termini di riabilitazione, fisioterapia e psicoterapia. Accertamenti diagnostici – possibilità terapeutiche – monitoraggio raccomandato.
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2.2.2. MELAS
La sindrome MELAS (Encefalomiopatia mitocondriale con acidosi lattica e episodi simili a ictus) è una patologia progressiva caratterizzata da disturbi neurologici acuti paragonabili a ischemie cerebrali, associati ad acidosi lattica e disfunzioni mitocondriali multisistemiche (Mancuso e coll, 2007). La prevalenza di tale malattia è sconosciuta. Durante l’infanzia o la prima adolescenza, i pazienti sono soggetti di solito a crisi acute, spesso causate da un’infezione o da uno sforzo fisico. Queste crisi si associano a cefalee, vomito e a volte ad episodi pseudoischemici, emiparesi e emianopsia. Si manifestano spesso in pazienti con sintomi cronici come deficit motorio, sordità, diabete, bassa statura, cardiomiopatia, ritardo dello sviluppo, difficoltà di apprendimento, di memoria e di attenzione. La malattia è dovuta alle mutazioni del DNA mitocondriale. Sono state identificate 10 mutazioni differenti ma l’80% dei casi è dovuto alla mutazione 3243°>G nel gene del tRNA della leucina (tRNA Leu) (Mancuso e coll, 2007). Questa mutazione viene definita spesso “mutazione MELAS”, sebbene sia associata a segni clinici diversi; la sua prevalenza in Europa è stimata in 1 su 6250 e si associa alla sindrome in oltre il 7,5% dei pazienti. La diagnosi si basa sulle manifestazioni cliniche, sul neuroimaging, sulla biopsia muscolare e sull’analisi genetica e laboratoristica. La risonanza magnetica può rivelare la presenza di numerose lesioni profonde iperintense nella materia grigia e bianca del cervello, mentre la TAC identifica atrofia cerebrale e calcificazioni dei gangli basali. La risonanza e la TAC mostrano che le lesioni non sono confinate nelle aree vascolari e di conseguenza gli episodi acuti non si possono considerare tipici ictus. La concentrazione anomala di lattato è frequente nel sangue e pressoché costante nel liquido cerebrospinale. La biopsia muscolare è anomala nell’85% dei pazienti, mostra una proliferazione mitocondriale atipica (fibre rosse lacerate) e fibre muscolari con deficit di citocromo-c-ossidasi. L’analisi delle attività enzimatiche della catena respiratoria muscolare può rivelare un deficit del complesso I o un deficit combinato dei complessi I e IV. L’identificazione della mutazione causale deve tenere conto della sua eteroplasmia, cioè la sua coesistenza con una popolazione residuale di DNA mitocondriale normale. La proporzione delle mutazioni varia notevolmente a seconda dei tessuti, ma spesso può essere molto elevata (oltre il 90% della popolazione del DNA mitocondriale) e può essere ricercata anche nel sangue e nelle urine. La mutazione è trasmessa per eredità materna, essendo i mitocondri (con il loro DNA) trasmessi dai soli ovociti. Un maschio affetto non è in grado di trasmettere la malattia. Sebbene una proporzione elevata della mutazione nel sangue della madre aumenti il rischio di nascita di un bambino gravemente affetto dalla malattia, esistono molti esempi di segregazione
estrema madre-figlio, che rendono difficile la consulenza genetica. La presenza di percentuali eterogenee della mutazione nei diversi tessuti impedisce, in teoria, la diagnosi prenatale. La terapia risulta scarsamente efficace, e si avvale dell’utilizzo del coenzima Q10 e del suo analogo, della creatina monoidrato e dell’arginina. La prognosi è in genere grave; spesso il paziente decede in giovane eta’ per acidosi lattica. Nel decorso della malattia, caratterizzata da ricorrenza di episodi tipo stroke, porta a deterioramento mentale, perdita della vista e dell’udito e grave miopatia, che potenzialmente può contribuire alla perdita dell’autonomia.
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2.2.3. MALATTIA DI FABRY
La malattia di Fabry (FD) è una malattia da accumulo lisosomiale multisistemica, progressiva, ereditaria, caratterizzata da specifici segni neurologici, cutanei, renali, cardiovascolari, cocleo-vestibolari e cerebrovasculari (Germain, 2010). L’incidenza annuale è di 1/80.000 nati vivi, ma la prevalenza potrebbe essere sottostimata. Se si considerano le varianti a esordio tardivo, la prevalenza proposta è circa 1/3.000. Il quadro clinico comprende un ampio spettro di sintomi, che varia dalle forme lievi nelle femmine eterozigoti, ai casi gravi nei maschi omozigoti con le forme classiche, che non mostrano alcuna attività residua dell’alfa-galattosidasi A. Questi pazienti possono presentare tutti i segni tipici della malattia a livello neurologico (nevralgia parestesica), cutaneo (angiocheratoma), renale (proteinuria, insufficienza renale), cardiovascolare (cardiomiopatia, aritmia), cocleo-vestibolare e cerebrovascolare (ictus, episodi ischemici transitori). Le femmine possono mostrare sintomi lievi-gravi. Il dolore è un sintomo comune precoce (dolore cronico caratterizzato da parestesia con bruciore e prurito e rare crisi episodiche caratterizzate da dolore acuto con senso di bruciore). Il dolore può risolversi nell’età adulta. Possono insorgere anidrosi o ipoidrosi, che causano intolleranza al calore e all’esercizio. Altri segni clinici sono l’angiocheratoma, le alterazioni della cornea (“cornea verticillata”), il tinnito, l’affaticamento cronico, le anomalie cardiache e cerebrovascolari (ipertrofia ventricolare sinistra, aritmia, angina), la dispnea e la nefropatia.
La malattia di Fabry è un difetto del metabolismo dei glicosfingolipidi, dovuto alla riduzione o assenza di attività dell’enzima lisosomiale alfa-galattosidasi A, da mutazione del gene GLA (Xq21.3-q22), che codifica per l’enzima. La diminuzione dell’attività provoca l’accumulo di globotriaosilceramide (Gb3) all’interno dei lisosomi, nei tessuti viscerali e nell’endotelio vascolare di tutto l’organismo. Questo accumulo provoca danno a livello renale, cardiaco e del sistema nervoso centrale. La diagnosi di laboratorio è confermata dalla dimostrazione di un deficit marcato dell’enzima nei maschi emizigoti. Le analisi enzimatiche possono a volte facilitare l’identificazione degli eterozigoti, anche se spesso sono inconcludenti a causa dell’inattivazione casuale del cromosoma X, che rende obbligatori i test molecolari (genotipizzazione) nelle femmine. Durante l’infanzia, possono essere escluse le altre cause di dolore (artrite reumatoide e dolori di crescita). Durante l’età adulta, a volte la diagnosi e’ ritardata essendo il quadro clinico e neuroradiologico talora erroneamente scambiato per malattie demielinizzanti, quali la sclerosi multipla. La trasmissione della malattia è ereditaria e legata al cromosoma X. Le madri, ad ogni concepimento, hanno una probabilità del 50% di trasmettere il gene difettoso ai propri figli, siano essi di sesso maschile o femminile. I padri non trasmettono il gene difettoso ai propri figli maschi, ma solamente alle figlie femmine. In
funzione di un complesso meccanismo genetico noto come inattivazione del cromosoma X, i soggetti eterozigoti sviluppano la malattia in forma lieve, moderata oppure classica. In genere sono i maschi a sviluppare i sintomi in maniera più forte ma in ogni caso, anche all’interno della stessa famiglia, la malattia può presentarsi con sintomatologie ed evoluzione clinica anche molto differente. E’importante riconoscere tempestivamente la malattia in quanto e’ oggi disponibile la terapia enzimatica sostitutiva (enzima alfa-galattosidasi A ingegnerizzato in vitro). Il trattamento tradizionale prevede poi i farmaci sintomatici; gli analgesici per controllare il dolore, la nefroprotezione (inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina e bloccanti del recettore dell’angiotensina), gli antiaritmici, il pacemaker e il defibrillatore cardioverter impiantabile, la dialisi e il trapianto renale. Con l’età, si verifica un deterioramento progressivo degli organi vitali, che può provocare insufficienza d’organo. L’insufficienza renale terminale e le complicazioni cerebrovascolari o cardiovascolari potenzialmente fatali limitano l’attesa di vita dei maschi e delle femmine, con una riduzione di 20 e 10 anni, rispettivamente, rispetto alla popolazione generale.
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2.2.4. PSEUDOXANTOMA ELASTICUM
Lo pseudoxantoma elastico (PXE) è una malattia ereditaria del tessuto connettivo caratterizzata dalla calcificazione e della frammentazione progressiva delle fibre elastiche della cute, della retina e della parete delle arterie (Cerrato e Azzarro, 2004). La prevalenza stimata è tra 1/25.000 e 1/100.000. Il rapporto femmine maschi è 2:1 ma la causa di questa prevalenza del sesso femminile è ancora poco conosciuta. Le lesioni della pelle compaiono nel secondo decennio e aumentano di numero e di gravità durante l’adolescenza. La malattia è clinicamente eterogenea, può essere limitata ad un solo organo in alcuni pazienti, o colpire i tre apparati in altri. Le lesioni della pelle sono papule gialle che possono confluire e formare placche. Compaiono principalmente nelle regioni di flessione del collo e dei gomiti, nello spazio popliteo e nella regione ombelicale e sono accompagnate da una lassità della pelle intorno alle pieghe inguinali e ascellari. La compromissione degli occhi si manifesta con anomalie dell’epitelio pigmentato della retina, drusen, con strie angioidi (lacerazioni della membrana di Bruch della retina) e formazione di nuovi vasi, il cui sanguinamento è causa di emorragie retiniche e, in molti pazienti, di cecità. Il coinvolgimento della macula può portare i pazienti ad essere dichiarati legalmente ciechi. Le manifestazioni cardiovascolari portano a claudicazione intermittente degli arti inferiori e/o coinvolgimento degli arti superiori, dovuta all’aterosclerosi delle arterie di medio calibro con calcificazione delle pareti dei vasi. Gli attacchi ischemici transitori e l’angina pectoris sono più rari. Le emorragie gastrointestinali si riscontrano nel 5% dei casi, soprattutto durante l’adolescenza. Anche se i primi casi descritti in letteratura provavano che le donne affette potevano incontrare difficoltà nel corso della gravidanza, studi più recenti dimostrano che la gravidanza nelle pazienti con PXE non è associata a specifiche complicanze. La malattia è trasmessa con modalità autosomica recessiva. I casi sporadici di familiari affetti in due generazioni successive sono da attribuire a pseudodominanza piuttosto che ad una trasmissione autosomica dominante. Lo PXE è dovuto a mutazioni omozigoti o eterozigoti composte del gene ABCC6 (16p13.1), che codifica per una proteina transmembrana appartenente alla superfamiglia del trasportatore ABC (ATP binding cassette) (Cerrato e Azzarro, 2004). La maggior parte delle manifestazioni patologiche è irreversibile, ma si possono adottare misure profilattiche per prevenire o minimizzare alcuni segni e sintomi, in particolare il coinvolgimento cardiovascolare. L’eccesso delle pliche cutanee e le lesioni dermatologiche possono essere corrette con la chirurgia plastica se causa di problemi estetici.
PARTE SPERIMENTALE
3.1. Scopo dello studio
Scopo del presente lavoro di tesi e’ stato quello di analizzare retrospettivamente la casistica di pazienti afferenti agli Ambulatori di Neurogenetica Clinica e delle Patologie Cerebrovascolari della Clinica Neurologica della nostra Azienda Ospedaliera Universitaria a cui e’stata fatta diagnosi di ictus ischemico o TIA giovanile (esordio sotto i 60 anni di eta’), ovvero indirizzati a codesti Ambulatori per il riscontro neuroradilogico di segni vascolari ischemici encefalici, e valutare la frequenza in tale popolazione di patologie monogeniche correlati all’evento ictale. Il periodo di tempo preso in considerazione e’ il cinquennio 2008-2013.
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3.2. Materiali e metodi
Presso gli Ambulatori di Neurogenetica Clinica e delle patologie Cerebrovascolari della Clinica Neurologica sono attivi specifici database clinico laboratoristici. Ad oggi sono censiti 250 pazienti affetti da patologia cerebrovascolare giunti alla nostra osservazione o in seguito ad un episodio cerebrovascolare ischemico (transitorio o ictale), oppure indirizzati alla nostra attenzione in seguito al riscontro neuroradiologico di sofferenza ischemica cerebrale (infarti lacunari, lesioni ischemiche nei territori dei grandi vasi, leucoaraiosi).
Di questi, 250 pazienti (150 maschi, 100 femmine, età media 48,8±6,6 anni) hanno avuto esordio della sintomatologia sopra definita prima dei loro 60 anni di età.
3.3. Risultati
Sono stati esaminati 250 pazienti afferenti agli Ambulatori con età di esordio inferiore ai 60 anni.
La tabella sottostante mostra la distribuzione etiologica osservata.
In particolare: Patologie non aterosclerotiche 25% Malattie cardiologiche 35% Malattie Ematologiche 11% Malattie Monogenetiche 5% Criptogenetico 24%
34 (i) Patologie non aterosclerotiche dei vasi cerebrali
- dissezione dei vasi epiaortici= 38 casi - displasia fibromuscolare= 1 caso - sindrome di Moya-Moya: 1 caso - vasculiti cerebrali= 23 casi
Dissezione 60% Displasia Fibromuscolare 2% Moya-‐Moya 2% Vasculiti Cerebrali 36%
PATOLOGIE NON ATEROSCLEROTICHE
DEI VASI CEREBRALI
(ii) Malattie cardiologiche - PFO = 38
- Cardiopatia ischemica e/o aritmogena = 48
PFO; 44% Cardiopatia Ischemica e/o Aritmogena; 56%
MALATTIE CARDIOLOGICHE
36 (iii) Malattie ematologiche:
- anomalie della coagulazione di tipo congenito (deficit degli inibitori della coagulazione quali antitrombina III, proteina C ed S , mutazione del fattore II e del fattore V, mutazione MTHFR)= 18 casi.
- anomalie della coagulazione di tipo acquisito (quali la sindrome da anticorpi antifosfolipidi, policitemia vera, trombocitemia essenziale, anemia a cellule falciformi) = 10 casi Anomalie Coagulazione Congenite 64% Anomalie Coagulazione Acquisite 36%
MALATTIE EMATOLOGICHE
(iv) Malattie Monogeniche: sono stati individuati 13 pazienti con malattia monogenica 6 CADISL, 4 MELAS, 1 Pseudoxantoma Elasticum, 2 Malattia di Fabry
In 60 pazienti (che rappresenta il 24 % della nostra casistica) non e’stata identificata la causa responsabile dell’ictus. Tali pazienti sono stati definiti come criptogenetici.
Segue la descrizione dei casi geneticamente determinati individuati nel nostro lavoro di tesi.
CADASIL 54% MELAS 23% Pseudoxantoma Elasticum 8% Malattia di Fabry 15%
ICTUS MONOGENICO
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3.3.1. Casi Clinici
CASO CLINICO 1
Si tratta di un paziente Italiano maschio di 55 anni, giunto alla nostra osservazione nel maggio 2011. In anamnesi ipertensione arteriosa e, dal 2000, parestesie periorali ed a livello delle dita della mano sinistra. Per tale sintomatologia il paziente aveva praticato accertamenti tra cui una RM encefalo con riscontro di encefalopatia multifocale confluente della sostanza bianca periventricolare e sottocorticale e grigia insulo-lenticolare. Data la familiarità per malattia cerebrovascolare (madre con emiplegia destra in giovane età, una sorella deceduta all’età di 45 anni per emorragia cerebrale, un’altra sorella deceduta all’età di 45 anni per rottura di aneurisma cerebrale), sempre nel 2000 il paziente aveva praticato angiografia selettiva cerebrale risultata non significativa. Nel 2009, dato il persistere della sintomatologia e per la comparsa di disturbi mnesici e di difficoltà di concentrazione, su consiglio di specialista neurologo, il paziente aveva praticato ulteriori accertamenti tra cui test neuropsicologici (nella norma), ecocolorDoppler carotideo-vertebrale (ai limiti della norma), RM encefalo di controllo (che mostrava estensione delle focalità segnalate) ed angio-RMN cerebrale (nella norma). Al momento della visita il paziente lamentava persistenza della sintomatologia parestesica e sensazioni ricorrenti di “testa confusa” associate a difficoltà di concentrazione e deficit della memoria di fissazione. L’obiettività neurologica era negativa. In tale occasione, dato il quadro neuroradiologico e l’anamnesi familiare del paziente, venivano richiesti esami ematici di routine (nella norma), screening reumatologico (negativo), stato trombofilico (nella norma), Doppler transcranico per ricerca di PFO (negativo), ecocardiogramma (nella norma), dosaggio ematico di vitamina B12, folati e omocisteina (nella norma). Il paziente e’stato quindi sottoposto a studi molecolari per ricerca mutazioni associate a malattia di Fabry (risultati negativi), a mitocondriopatia (negativi) ed a sindrome CADASIL con riscontro nell’esone 9 del gene Notch3 della mutazione patogena c.1477T>A che determina la sostituzione aminoacidica p.Cys493Ser. Veniva quindi posta diagnosi di sindrome CADASIL. Da allora il paziente e’ seguito presso i nostri ambulatori. Stabile dal punto di vista neurologico, ad un controllo del giugno 2013 comparsa di disturbo dell’umore caratterizzato da depressione del tono dell’umore, alternato a momenti di facile irritabilità.