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Programma integrato multistep di Self-management del dolore cronico. Dati preliminari.

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI PATOLOGIACHIRURGICA, MEDICA, MOLECOLARE E DELL’AREA CRITICA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN PSICOLOGIA

CLINICA E DELLA SALUTE

Tesi di Laurea

Programma integrato multistep di Self- management del dolore cronico.

Dati preliminari.

RELATORE: CANDIDATO: Prof.ssa Antonella Ciaramella Mario Anghinolfi

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For a star to be born, there is one thing that must happen: a gaseous nebula must collapse.

So collapse. Crumble. This is not your distruction.

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Abstract

Il seguente lavoro di tesi di tipo sperimentale è stato svolto prendendo in esame la letteratura nazionale ed internazionale sul tema del Self-management in campo clinico.

Il concetto di Self-management (termine generalmente utilizzato in lingua anglossassone che in italiano corrisponde letteralemente al termine di autogestione) è stato introdotto da Barlow (2001) intendendo: “il Self-management è collegato alle capacità dell’individuo nel gestire i sintomi, il trattamento, le conseguenze fisiche, sociali e lo stile di vita nella convivenza con la patologia cronica”. Egli, sostiene inoltre che, “l’efficienza del Self-management impatta le capacità di automonitoraggio e influenza le risposte di tipo cognitive, comportamentali ed emozionali, necessarie allo scopo di mantenere una qualità di vita soddisfacente”.

Il significato di Self-management racchiude, quindi, un concetto più ampio rispetto al termine di autogestione, per questo, in questa trattazione, preferiremo mantenere il termine in lingua anglosassone.

Le ricerche condotte da Van Hecke et al. (2013) permettono di evidenziare come il dolore cronico colpisca circa il 20% della popolazione europea, in particolar modo, donne e anziani. Sebbene negli ultimi anni sia stato osservato un notevole miglioramento nel trattamento di questo disturbo, molti pazienti ancora non ottengono un adeguato sollievo (Peleg et al., 2011).

Nel lavoro avanzato da Patterson (2001), vengono evidenziate le molteplici prospettive possibili che i pazienti adottano nei confronti della propria patologia cronica, osservando che chi soffre di una malattia cronica spesso presenta problematiche anche in campo psicologico, come ansia e depressione, con alterazioni nel proprio benessere generale. Bair et al., (2003) affermano che, laddove troviamo presenza di dolore nel paziente, sia importante rimarcare quanto dolore e depressione coesistano nel 30-50% dei casi e quanto questi agiscano, in modo reciproco e avverso, nei risvolti terapeutici e sulla risposta individuale al trattamento. Tra gli obiettivi del Self-management oltre che la riduzione del dolore si annoverano il miglioramento dello stato psicologico, qualità di vita, disabilità, e, come evidenziato da Freund et al., (2016), questo tipo di approccio mostra un’efficacia nella gestione delle cure rivelandosi uno strumento di successo, in quanto capace di migliorare l’abilità di autoefficacia nei pazienti.

Il Chronic Disease Self-management Program (CDSMP) della Stanford University è diventato il riferimento metodologico per gli operatori che vogliono approfondire o formarsi

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su tali metodiche. In diversi contributi riportati da Von Korff et al., (1998); Lorig et. al., (1999); Von Korff e Moore (2001); Damush et al., (2003b); Dixon et al., (2007), viene sottolineato come il potenziamento delle abilità di Self-management possano permettere un miglioramento generale della sintomatologia dolorosa.

Con questo studio, ancora in corso, si evidenzia come un percorso integrato, in cui, quando al trattamento farmacologico standard del dolore cronico si associa la psicoeducazione secondo i principi del Self-management, sia possibile avere un beneficio anche sulla componente affettiva del dolore che il solo trattamento standard non è in grado di migliorare.

Il miglioramento della dimensione affettiva sottesa in ambito neurobiologico dal sistema di controllo amigdala-corteccia prefrontale mediale (Ren & Neugehauer, 2010), sottolinea l’efficacia del Self-management nel dolore cronico. Infatti, fra gli obiettivi di tale approccio vi è il miglioramento del problem solving, della decision making e dell’autoefficacia dei pazienti. Il percorso integrato di self-management si rivela maggiormente efficace rispetto alla sola terapia farmacologica proprio perché in grado di agire sul “pain-related decision-making deficit” (Ji et al., 2010) associato al dolore cronico. Alla base del “pain-related decision-making deficit” vi è un’alterazione del sistema di controllo amigdala-corteccia prefrontale come per la dimensione affettiva del dolore (Neugebauer, 2015).

In quest’ottica, il programma di Self-management si rivela efficace, non solo nella prospettiva di una maggiore gestione del dolore cronico e nel migliorare la qualità di vita percepita, ma potrebbe rappresentare un intervento terapeutico alla stregua delle terapie convenzionali.

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INDICE

Parte I: INTRODUZIONE

CAPITOLO 1: Il Self-management………...……….………...9

1.1 Definizioni di Self-management………9

1.1.1 Il ruolo centrale dell’autoefficacia nei programmi di Self- management……….14

1.1.2 I destinatari del Self-management………..15

1.1.3 I contesti e gli operatori del Self- management………..16

1.1.4 Le modalità del Self- management………16

1.1.5 I contenuti del Self- management………..17

1.1.6 Efficacia del Self- management………18

1.1.7 Limiti degli studi sul Self- management………...18

1.1.8 La Self-management education e la riduzione dei costi..………..18

1.1.8.1 Limiti della Self-management education……….19

1.2 Ambiti di applicazione dei programmi di Self-management………...20

1.2.1 Le patologie croniche……….20

1.2.2 Il dolore cronico……….21

1.2.2a Il Self management in pazienti con fibromialgia………..24

1.2.2b Il Self-management in pazienti con dolore e depressione………26

1.2.2c Il Self- management in pazienti con ansia, depressione e sintomi somatici…….33

CAPITOLO 2: Approccio integrato nella gestione del dolore cronico……….37

2.1 I disturbi d’ansia………...37

2.2 Il dolore cronico………...39

2.3 Ruolo delle componenti psicologiche nella gestione del dolore cronico……….42

2.3.1 L’aspettativa influenza la percezione del dolore………42

2.3.2 Modulazione dell’attenzione e dolore………42

2.3.3 Effetto placebo e dolore……….43

2.4 L’ipnosi nel controllo del dolore………44

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2.4.2 Applicazione dell’Ipnosi in ambito clinico………..48

2.5 Terapia cognitivo comportamentale nel controllo del dolore cronico……….54

2.6 L’efficacia analgesica della TCC associata alla terapia antidepressiva………...57

2.7 L’applicazione della TCC di terza generazione a scopo antalgico………..58

2.8 L’uso della meditazione nel controllo del dolore………62

2.9 Yoga e dolore cronico………..63

Parte II: RICERCA SPERIMENTALE CAPITOLO 3: La ricerca……….……….66

3.1 Ipotesi………...66

3.2 Obiettivi………66

3.3 Materiale e metodi……….66

3.3.1 Il campione………..66

3.3.2 Il disegno dello studio……….67

3.3.2.1 Baseline (T0)……….67

3.3.2.2 Step 1 (T0-T2)………...68

3.3.2.3 Step 2 (T2-T4)………...69

3.3.2.4 Step 3 (T4-T6)………...70

3.4 Strumenti………..71

3.5 Analisi dei dati……….75

CAPITOLO 4: Risultati……….………...77

4.1 Analisi Descrittive………77

4.2 Analisi dei dati……….80

DISCUSSIONE………...93

CONCLUSIONI……….97

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Parte I INTRODUZIONE

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CAPITOLO 1

Il Self-management

Al giorno d’oggi, al pari con l’aumento della lunghezza di vita, sono sempre in aumento le persone che convivono con una patologia cronica. L’aumento esponenziale dei soggetti che soffrono di dolore cronico, ha portato come conseguenza principale un’alta domanda nei confronti dei servizi sanitari, i quali a loro volta, faticano a soddisfare i bisogni e le necessità specifiche che tale condizione richiede, per tale motivo sono nati e si sono diffusi gli interventi di Self-management.

Il Self-management ha come focus centrale l’idea che il paziente debba essere l’artefice del proprio benessere e debba imparare ad autogestirsi nel modo più efficace. Specialmente nel dolore cronico, è solo il paziente può essere responsabile per la propria cura quotidiana, lungo il perdurare della malattia. Infatti il Self-management può essere visto come un “compito” estendibile per tutta la propria vita.

Prima di addentrarci negli aspetti clinici, è importante dare una definizione di Self-management, il quale sarà l’argomento centrale del presente capitolo.

1.1 Definizioni di Self-management

Molte sono le definizioni di Self-management che ritroviamo nella letteratura internazionale. Alderson e collaboratori (1999) identificarono il Self-management come “una classe dove si apprendono elementi interdisciplinari, che ha come base l’apprendimento, il trattamento individualizzato e la teoria per la gestione del caso”.

Nakagawa-Kogan e collaboratori (1988) invece, descrivono il Self-management come un trattamento che combina tecniche e interventi di tipo biologico, psicologico e sociale, con lo scopo di massimizzare il funzionamento e i processi del pazienti.

Clark (1991) approfondendo il tema della gestione sintomatologica e del proprio status di salute nel paziente, definisce il Self-management come “un compito quotidiano che il paziente deve assolvere per controllare o ridurre l’impatto della patologia sul proprio stato di salute”. Tali compiti e strategie sono applicate a domicilio grazie alla collaborazione e guida del medico e di altri operatori sanitari. L’elaborazione di Clark arriva anche ad approfondire

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impatto sulle condizioni economiche e sociali dei pazienti. Per questo motivo è fondamentale che il paziente conosca approfonditamente i meccanismi che sottostanno alla propria patologia e al suo trattamento, il modo in cui gestire la sintomatologia e l’applicazione delle abilità cruciali nel mantenimento di un funzionamento globale ottimale.

Barlow (2001) ci fornisce una definizione maggiormente esaustiva, affermando che “il Self-management è collegato alle capacità dell’individuo nel gestire i sintomi, il trattamento, le conseguenze fisiche, sociali e lo stile di vita nella convivenza con la patologia cronica”. Sostiene inoltre che, “l’efficienza del Self-management impatta le capacità di automonitoraggio e influenza le risposte di tipo cognitive, comportamentali ed emozionali, necessarie allo scopo di mantenere una qualità di vita soddisfacente”. Egli aggiunge che solamente tramite questo processo continuo, viene stabilita la capacità del soggetto di auto-regolarsi.

I pazienti che vivono quotidianamente con i disturbi di natura cronica, effettuano scelte quotidiane e attivano comportamenti di Self-management per la gestione della propria patologia. Tutto ciò ha permesso l’introduzione di un nuovo paradigma di gestione della malattia, ossia il patient-professional partnership (Bodenheimer et al., 2002).

L’approccio tradizionale al paziente, spesso di natura esclusivamente educativa, si limita a fornire informazioni e tecnicismi, mentre l’educazione basata sul Self-management insegna abilità di problem-solving permettendo il potenziamento dell’autoefficacia individuale. Studi clinici riportati nell’articolo di Bodenheimer et al., (2002) evidenziano che:

1. i programmi che insegnano abilità di Self-management sono maggiormente efficaci rispetto ai programmi esclusivamente basati sul fornire informazioni riguardanti il miglioramento gli oucomes clinici.

2. In alcune circostanze, l’educazione dei principi di Self-management ha portato un miglioramento della sintomatologia e una riduzione dei costi in pazienti adulti con diagnosi d’artrite e di asma.

3. In generale, sembra che, anche con pazienti che soffrono di diverse patologie croniche, l’educazione dei principi di Self-management possa essere utile nel migliorare gli outcomes e ridurre i costi. Proprio per queste ragioni, il programma educativo di Self-management sarà presto parte integrante dei servizi di cura primaria. Nella medesima ricerca, vengono confrontati due diversi modelli d’approccio relazionale nel trattamento di pazienti con patologie croniche:

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• Approccio di Alleanza tra paziente e professionista (patient-professional partnership). Gli aspetti principali su cui è focalizzato il confronto tra i due diversi approcci, riguardano le modalità di trattamento clinico e l’educazione del paziente.

Ogni giorno, i pazienti decidono quale impatto avere nella gestione della propria sintomatologia, ad esempio scegliendo quale cibo assumere nella propria dieta, oppure con quale frequenza fare esercizio fisico, o per quanto tempo assumere i farmaci prescritti. Il paziente si trova quindi a gestire la propria malattia ma non è chiaro a se o agli operatori sanitari comprendere la scelta di una specifica modalità di gestione piuttosto che un’altra. L’approccio tradizionale nei servizi di cura primaria, ha sempre previsto un contributo limitato da parte del paziente, il quale descrive e trasmette informazioni riguardanti la propria sintomatologia.

Tuttavia, secondo i contributi di Holman e Lorig (2000), si può intravedere un nuovo approccio alla gestione della malattia cronica in cui il paziente svolge in questa il ruolo centrale, essendo esso stesso il principale caregiver, mentre il professionista sanitario ha un ruolo di supporto, secondario nella gestione del processo. Quest’ultimo approccio basato sull’alleanza terapeutica, prevede due componenti principali:

• un approccio di cura congiunta (collaborative care);

• l’educazione alle abilità di Self-management e quindi nella trasmissione di strumenti per l’autogestione.

La collaborative care racchiude una visione dove il paziente e il medico prendono decisioni insieme, in merito alla cura.

Secondo il lavoro svolto da Von Korff et al. (1998) e Funnell et al. (2000), l’educazione al Self-management prevede che il paziente giunga anche alla stesura di un piano delle proprie abilità di problem-solving utili al potenziamento della propria vita. Infatti in base al collaborative care, i pazienti risultano essere i principali “esperti” in merito alla propria vita. Invece, nella situazione in cui il medico intravede come propria la responsabilità di convincere il paziente a seguire delle linee guida generali, dettate esclusivamente dalla competenza professionale, sono possibili percezioni o manifestazioni di frustrazione, sia a carico del paziente che del medico stesso. Dal momento in cui il medico riconosce la responsabilità e le conoscenze che il paziente ha in merito alla propria vita quotidiana, può fornire informazioni specialistiche di sostegno affinchè il paziente possa raggiungere obiettivi prefissati. Il medico ha quindi una funzione di empowerment, ossia di potenziamento, delle risorse del paziente nella gestione della propria condizione e nell’accettazione della

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responsabilità verso la propria salute. In questo modo viene facilitata la risoluzione dei problemi con una maggiore disponibilità di informazioni senza che queste siano viste come rigidi dogmi.

Questo paradigma, secondo Anderson et al. (1996) e Arnold et al. (1995) identifica il concetto di “motivazione intrinseca” come motore e principale promotore del cambiamento dello stile di vita, rispetto al paradigma tradizionalista in viene chiesto al paziente di limitarsi ad assecondare passivamente le indicazioni dello specialista. Alla base di tale paradigma vi è la convinzione che l’interazione tra medico e paziente possa produrre risultati migliori.

Infatti, spesso, come rilevato nella ricerca di Anderson e Funnell (2000) nel paradigma tradizionalista, laddove ci si trovi di fronte a scarsi risultati, i professionisti sanitari spesso colpevolizzano i pazienti, identificandoli come causa del fallimento terapeutico, lamentando una loro scarsa aderenza alle terapie prescritte.

Quando il paradigma basato sulla “collaborative care” viene accolto dal medico, secondo Glasgow e Anderson (1999), il fenomeno di colpevolizzazione e le accuse di scarsa aderenza terapeutica non hanno più motivo d’essere. Permettere, infatti, ai pazienti d’identificare i loro problemi può essere significativo e permette di cogliere informazioni che non sarebbero altrimenti rilevabili in una situazione di anamnesi strutturata. Nonostante queste evidenze, l’approccio del collaborative care non pare essere ancora il paradigma dominante nei servizi di cura primaria.

In merito all’aspetto educativo del collaborative care è possibile distinguere due modalità differenti: l’approccio educativo tradizionale si focalizza su aspetti informativi e sulle technical skills (per esempio con pazienti con diabete vengono fornite informazioni riguardo la dieta, esercizio fisico, il monitoraggio dei livelli di glucosio e gli aspetti farmacologici); mentre la Self-management education, secondo D’Zurilla (1990), si focalizza nell’insegnare abilità di problem-solving, permettendo ai pazienti d’identificare loro stessi i propri problemi ed avvalersi di tecniche per aiutarli ad assumere decisioni ed agire in base ai cambiamenti e alle varie fasi che la patologia presenterà.

Corbin e Strauss (1988), delineano tre diversi gruppi di compiti che, chi soffre, ad esempio, di dolore cronico, sì trova ad affrontare:

1. gestione farmacologica (assunzione di farmaci, cambio dieta, automonitoraggio dei livelli di zucchero nel sangue…);

2. ruoli nuovi da creare e mantenere nella propria vita quotidiana, nei vari ambiti quali il lavoro, la famiglia e gli amici;

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3. risvolti emotivi legati alla patologia cronica, come rabbia, paura, frustrazioni, tristezza.

Un elemento importante che differenzia la Self-management education, secondo Lorig et al. (1993), è il “piano d’azione” stilato dal paziente, il quale consiste in una lista di azioni, selezionate dal paziente, a cui attenersi nel breve termine. Il motivo per cui è importante che la lista d’azioni venga stilata dal paziente è dovuto dal fatto che, quando un medico chiede al paziente, per esempio, di camminare per 2 chilometri al giorno e il paziente non mantiene questa prescrizione, l’unico risultato ottenuto è un vissuto d’inefficacia o fallimento. Qualora invece venga trovata una cooperazione reciproca tra medico e paziente nella scelta dell’esercizio e sulla sua utilità a breve termine, il paziente potrebbe persino, in seguito, alzare la posta in gioco e decidere di camminare un chilometro in più, per esempio.

L’obiettivo quindi è permettere al paziente di sviluppare fiducia nelle sue abilità per la gestione della patologia, autoalimentandosi tramite la motivazione intrinseca.

Troviamo due aspetti principali che definiscono la Self- management education:

1. i pazienti hanno la possibilità d’apprendere abilità, utili a identificare i problemi dal loro punto di vista ed usare piani d’azione quando è necessario trovando una soluzione per una migliore gestione della propria malattia.

2. Tutte queste abilità (skills) sono applicate alla patologia cronica su diversi fronti: medico, sociale ed emotivo.

Tutto ciò che è stato riportato non va però a deresponsabilizzare il personale di cura, che come afferma Von Korff (1998), deve usare le proprie competenze con lo scopo di informare, attivare e assistere i pazienti nell’autogestione del proprio stato di salute. Le abilità e le competenze del Self-management possono essere insegnate in un corso fatto di 6 sedute/sessioni.

Una delle patologie, secondo Gibson et al. (2003), dove è possibile riscontrare effettivi benefici grazie alla Self-management education, in termini di risultati, è per esempio l’asma in pazienti adulti.

Nello studio sopra citato, sì arrivò alla conclusione che la sola educazione del paziente non sia sufficiente a migliorare gli outcomes in pazienti adulti con diagnosi di asma. Altri studi basati su piani stilati tramite l’applicazione del Self-management mostrano invece un’importante tendenza positiva nel migliorare gli outcomes rispetto a pazienti che non fanno uso di un piano d’azione. Gli interventi basati sul Self-management, effettuati in pazienti con diagnosi di asma da un livello lieve fino a moderato, hanno mostrato un effetto minore

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Da uno studio, condotto da Kaupinnen et al. (2001), dove i pazienti parteciparono a un intervento di Self-management della durata di 1 anno con follow up nei successivi 5 anni, si notò che i miglioramenti che furono ottenuti nel primo anno si mantennero soltanto parzialmente nei 5 anni successivi.

1.1.1 Il ruolo centrale dell’autoefficacia nei programmi di Self- management

Uno dei principali prerequisiti, secondo Freund et al., (2016), per un Self-management di successo da parte dei pazienti è l’abilità d’autoefficacia. Questo concetto è stato teoricamente ed empiricamente avvallato dai lavori da Barlow et al., (2005) e fu originalmente sviluppato da Bandura nel 1970.

Infatti, l’abilità di autoefficacia comprende la fiducia del paziente di riuscire ad indirizzare il proprio comportamento nella direzione necessaria per raggiungere i propri scopi. Per tale ragione l’autoefficacia viene potenziata quando il paziente riesce a risolvere i propri problemi con successo.

Tutto ciò, secondo Bodenheimer et al., (2002), permette ai pazienti di ottenere nuovamente controllo sulla propria vita, acquisendo maggiore fiducia in se stessi e nelle proprie capacità per svolgere i compiti, aumentando infine le abilità di Self- management.

Nel protocollo utilizzato durante gli interventi di Self-management si chiede ai pazienti di provare a mettere in pratica nuovi comportamenti, dando una nuova interpretazione dei sintomi e delle conseguenze psicologiche. Questa nuova interpretazione deve essere sostenuta da informazioni valide e attendibili da un punto di vista scientifico. Le problematiche psicologiche come l’umore depresso, lo stile di vita, il supporto sociale e la comunicazione sono abilità generiche che possono trovare spazio e miglioramento in qualsiasi contesto di malattia. L’applicazione dell’intervento deve però trovare flessibilità in base alla problematica portata dai pazienti.

Nel lavoro portato avanti da Glasgow e collaboratori (1992), per esempio, il protocollo fu applicato a pazienti diabetici, per misurare la capacità di cura autonoma in relazione all’autoefficacia. Sono stati tenuti sotto controllo i livelli di glucosio nel sangue, ma l’attenzione fu rivolta anche alle abilità di problem solving, alla dieta seguita, all’esercizio fisico, agli obiettivi stabiliti dai pazienti e alle problematiche psicosociali vissute. Al contrario, nella ricerca di Bailey e collaboratori (1999) con pazienti asmatici, il focus risultava maggiormente orientato sulla terapia farmacologica e la gestione dei sintomi.

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Elementi come l’autoefficacia, la fiducia, il comportamento e l’uso di strumenti che il Self-management mette a disposizione dei pazienti sono stati raramente oggetto di approfondimento psicometrico.

Quando invece viene misurata l’autoefficacia, la misura è spesso coerente rispetto alla problematica riportata dal paziente oppure riguarda i comportamenti di Self-management insegnati. Pochi studi hanno utilizzato le misure sulla qualità di vita, come costrutto generale. Vi sono sempre più numerose evidenze che ci permettono di sostenere che, rispetto all’assenza d’intervento specifico (dovuto alle difficoltà di servizio da parte del sistema sanitario nazionale), gli approcci volti al Self-management possono portare importanti benefici ai pazienti in termine di consapevolezza, comportamento, autoefficacia e un miglioramento in vari aspetti di vita quotidiana.

Il programma denominato ASMP, “Arthritis Self-Management Programme” utilizzato nello studio di Barlow et al. (2000), per il trattamento di disturbi cronici come l’artrite reumatoide, è condotto da un tutor che svolge il compito di guida e sostegno per i partecipanti, e ha portato importanti benefici, grazie all’applicazione di esercizi specifici, in termine di consapevolezza e autoefficacia. Infatti, dopo 6 mesi, i partecipanti hanno riportato diminuzione del dolore, aumento dell’autoefficacia, aumento degli esercizi svolti e minor frequenza nelle visite mediche.

Studi condotti con la presenza di gruppi di controllo randomizzati hanno evidenziato un aumento di consapevolezza, di compliance farmacologica e una migliore gestione sintomatologica in interventi di Self-management per pazienti con patologia asmatica, rispetto alle normali prassi del sistema sanitario nazionale.

Pochi studi però hanno evidenziato cambiamenti nella capacità comunicativa, nella dieta e nei fattori psicologici, anche quando questi rientravano come scopi terapeutici.

Studi randomizzati nel campo del diabete invece mostrano come il Self-management possa migliorare l’uso dei comportamenti appresi nel corso dell’intervento, in particolare il monitoraggio dei livelli di glucosio nel sangue. Brown e Hanis (1995) hanno creato un programma di sostegno e di educazione efficace nel ridurre i livelli di glucosio nel sangue. Questo programma era rivolto a un target di anziani con età superiore a 60 anni. E’ stata riscontrata una significativa riduzione delle assunzioni di calorie, una notevole perdita di peso e un aumento del numero di controlli di glucosio sia dopo 3 mesi dalla conclusione dell’intervento che dopo 6 mesi. Non furono trovate differenze nelle misure riguardanti le variabili di qualità di vita.

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1.1.2 I destinatari del Self-management

Jenkinson e collaboratori (1988) hanno rilevato che la maggior parte degli approcci Self-management sono stati destinati a pazienti adulti, mentre in pochi si sono concentrati sui bambini o accompagnatori. Tutt’oggi la letteratura scientifica evidenzia una lacuna di interventi Self-management indirizzati a bambini, giovani adulti e accompagnatori.

Gli studi riguardanti l’uso del Self-management con bambini, di solito sono formati da campioni ristretti e con un’insufficiente capacità di misurare il cambiamento. Le uniche eccezioni, secondo gli autori sopra citati, riguardano i pazienti asmatici, dove diversi studi hanno incluso tra i partecipanti sia adulti che bambini (per esempio partecipanti dai 3 ai 49 anni). Nonostante i limiti nell’applicazione del protocollo Self-management con bambini, dagli studi condotti vengono comunque confermate le potenzialità del protocollo applicato su tali pazienti, soprattutto nel caso di pazienti diabetici nel migliorare i livelli di glucosio nel sangue, nel monitoraggio dei comportamenti e nella comprensione delle linee guida generali dell’intervento.

1.1.3 I contesti e gli operatori del Self- management

Il Self-management è applicabile in una gran varietà di contesti che spaziano dalle strutture cliniche, alle comunità, ai centri di riabilitazione psichiatrica, ad ospedali, a scuole, fino ad arrivare a luoghi di lavoro.

Gli operatori che sì apprestano a fornire gli strumenti specifici del Self-management possono essere diversi: la maggioranza degli studi presi in analisi prevede che il servizio sia svolto da professionisti sanitari, ma ci sono eccezioni dove viene formato un tutor, affetto lui stesso da patologia cronica, per effettuare l’intervento.

Nella valutazione dei vari interventi di Self-management, sono necessari follow-up a lungo termine, per esempio anche a distanza di uno, due, tre e più anni, con una valutazione dei costi, e includendo la verifica dei risultati psicosociali oltre ai risultati legati alla gestione della malattia.

1.1.4 Le modalità del Self- management

Da quanto emerge dalle ricerche sopra citate, posso affermare che le modalità in cui il Self-management può essere applicato spaziano da un approccio individualizzato fino all’approccio di gruppo, o una combinazione di entrambe le modalità. Spesso i gruppi, composti dai 6 ai 12 pazienti, vengono supportati con materiale scritto o registrazioni audio,

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oltre che con la possibilità di poter ricevere un sostegno di persona dal professionista/tutor oppure possono esserci aggiornamenti tramite follow-up telefonici.

Nei casi in cui il Self-management venga applicato in condizioni cliniche specifiche come pazienti con spettro autistico o schizofrenia, l’intervento include tecniche di condizionamento comportamentale tramite un sistema di premiazione, in modo da rinforzare le interazioni sociali.

Concludendo questa disamina si può affermare che la maggior parte degli interventi Self-management è di tipo multi-componenziale, e per questa ragione, è complesso individuare il preciso meccanismo che permetta ai pazienti di effettuare il cambiamento. Tuttavia questa problematica è controbilanciata dal contributo portato alle varie capacità e abilità dei pazienti che vivono la realtà della patologia cronica. Il professionista potrà comunque selezionare le tecniche che egli crede maggiormente efficaci in base alla natura dei problemi esposti dai pazienti.

1.1.5 I contenuti del Self- management

I contenuti su cui verte l’intervento sono finalizzati al fornire informazioni utili al paziente sul proprio funzionamento in relazione al disturbo riportato, per gestire in modo adeguato gli aspetti farmacologici e la sintomatologia, per affrontare le conseguenze psicosociali, per rinforzare uno stile di vita sano (per esempio, l’importanza data all’esercizio quotidiano), per la ricerca di supporto sociale, per migliorare la comunicazione e anche le strategie di autogestione come, per esempio, spingere i pazienti a crearsi nuovi obiettivi da raggiungere. Secondo Barlow (2002) gli elementi che possono quindi essere misurati nell’intervento coinvolgono:

• gli aspetti fisici;

• le variabili psicologiche; • lo status sociale; • la consapevolezza di malattia; • la compliance; • i test di laboratorio; • l’autoefficacia; • i comportamenti di self-management.

Spesso le variabili psicologiche vengono valutate utilizzando strumenti di valutazione globale piuttosto che strumenti di misura patologica, questo a causa dei fattori psicologici comuni che

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vengono riscontrati in differenti patologie croniche (per esempio, la vulnerabilità verso gli aspetti depressivi).

1.1.6 Efficacia del Self- management

Ci sono determinate condizioni nelle quali viene presupposto che il Self-management sia maggiormente efficace come intervento (Barlow, 2002):

• immediatamente dopo una diagnosi, • nel perdurare della patologia.

E’ stata rilevata poca differenza, nell’efficacia clinica, all’interno dei diversi approcci di Self-management. Gli approcci individuali parrebbero essere efficaci tanto quanto gli approcci di gruppo. Anche se va sottolineato che, gli approcci di gruppo includono momenti di approccio individualizzato, come per esempio la possibilità del paziente di ricevere un sostegno psicologico. In conclusione l’autore sostiene che l’approccio Self-management nel suo globale, sia efficace tanto quanto altri interventi di natura cognitivo-comportamentale.

1.1.7 Limiti degli studi sul Self- management

Come sostiene Barlow (2002), un limite riscontrato nelle varie ricerche è che metà degli studi sul Self-management presi in esame dal team dell’autore, sono caratterizzati da un campione ridotto (20-30 soggetti) con brevi follow-up, di solito di 4-6 mesi. Queste frequenze risultano essere inadeguate in rapporto alla natura cronica e permanente del disturbo.

Inoltre è ancora da considerare l’ipotesi per la quale il Self-management possa essere allargato a differenti range d’età, diverse origini culturali, e se sia possibile l’inclusione dei membri familiari.

Sempre secondo Barlow (2002) è presente la forte necessità di comprendere se l’applicazione degli strumenti concessi tramite il Self-management permettano di mantenere un cambiamento nello stato di salute del paziente, per un lungo periodo di tempo, per esempio 12 mesi.

1.1.8 La Self-management education e la riduzione dei costi

La Self-management education, quando applicata, tende a giocare un ruolo importante anche nella riduzione dei costi: dei 15 studi che hanno misurato l’impatto della Self-management education in pazienti adulti con diagnosi di asma, 8 hanno sottolineato un uso ridotto degli ospedali o un ridotto accesso al pronto soccorso, mentre altri 7 studi non hanno dimostrato di

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poter risparmiare risorse economiche. Tuttavia, ben 6 studi su 8 che hanno mostrato un abbattimento dei costi, includevano un “piano d’azione” basato sul Self-management.

Non risultano esservi sufficienti dati a supporto dell’efficacia della Self-management education nella riduzione della spesa pubblica sanitaria. Barlow et al. (2000) e Lorig et al. (1999) hanno preso in esame 10 studi dove è stata offerta la Self-management education per pazienti con artrite, 3 studi su 10 hanno rilevato una diminuzione delle visite mediche e una diminuzione dei costi (in uno studio, la riduzione dei costi è arrivata al 40%).

Per le patologie croniche in generale, nel lavoro di Lorig et al. (1999), i pazienti hanno partecipato al programma della durata di 7 settimane intitolato “7-week Chronic Disease Self-Management Program” il quale ha riportato minori ospedalizzazioni rispetto al gruppo di controllo in un periodo di 6 mesi, portando un risparmio, solo per questo lasso di 6 mesi, di circa 750 dollari a paziente.

Il programma di Self-management ci permette di comprendere le potenzialità della sua applicazione clinica in quanto porta con sé il presupposto di ridurre le divergenze tra i bisogni dei pazienti e le capacità ricettive delle strutture sanitarie.

1.1.8.1 Limiti della Self-management education

Rimane comunque il limite e la difficoltà nel generalizzare l’impatto della Self-management education sui costi e sugli outcomes clinici. Nonostante ciò è possibile riportare qualche conclusione a cui si è arrivati:

• I programmi educativi che insegnano le abilità di Self-management risultano maggiormente efficaci nel migliorare gli outcomes clinici dei pazienti, rispetto al limitarsi alla trasmissione esclusiva delle informazioni utili.

• In determinate circostanze, la Self-management education è efficace nel migliorare gli outcomes e nel ridurre i costi in pazienti con artrite e pazienti asmatici adulti.

• In studi iniziali, il Chronic Disease Self-Management Program è stato in grado di migliorare gli outcomes e ridurre i costi per gruppi di pazienti con diverse condizioni croniche.

Inoltre, in letteratura, sono stati evidenziati anche i seguenti limiti nel Self-management: 1. il primo limite è dovuto all’incertezza sulla continuità in merito agli outcomes clinici

positivi e quindi anche alla riduzione dei costi, una volta concluso l’intervento di Self-management. Infatti, alcuni benefici iniziali tendono ad affievolirsi col passare del tempo.

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2. Il secondo limite, riscontrato da Glasgow et al. (1999) è l’uso di volontari o soggetti di ricerca negli studi sul Self-management, portando il programma quindi a non essere generalizzabile alla popolazione generale.

3. Un terzo limite è dovuto al fatto che le condizioni essenziali per il successo dell’intervento educativo di Self-management, debbano ancora essere determinate. In conclusione possiamo affermare che i medici che operano nelle strutture di cura primaria potrebbero iniziare ad integrare la collaborative care e gli elementi di Self-management nella loro pratica clinica quotidiana, domandando ai pazienti il loro punto di vista, assistendo alla stesura di un piano d’azione e alla formulazione degli obiettivi. I medici inoltre potrebbero imparare le basi teoriche che sottostanno al Self-management, con lo scopo di rinforzare l’autoefficacia e il piano d’azione. Vi sono tre “barriere” che stanno limitando la diffusione della Self-management education:

1. lo scarso numero di personale qualificato limita la disponibilità dei corsi di Self-management all’interno di diverse strutture di cura primaria.

2. I pazienti con patologie croniche sono ormai abituati al modello medico, che ha sempre visto il paziente come dipendente e passivo rispetto alla figura medica. Questo potrebbe causare un’adesione limitata ai programmi di Self-management da parte dei pazienti.

3. Le compagnie assicurative private tendono a non rimborsare la Self-management education.

Se queste barriere fossero eliminate, la Self-management education e il concetto di collaborazione tra medico e paziente nella gestione della malattia, diverrebbe un approccio ampiamente utilizzato.

1.2 Ambiti di applicazione dei programmi di Self-management

Sono state condotte varie ricerche per identificare i contributi del Self-management, utilizzando come criteri di riferimento: l’uso dell’approccio del Self-management e la valutazione dell’intervento.

1.2.1 Le patologie croniche

E’ sempre maggiore l’interesse attorno alle potenzialità dei vari protocolli Self-management per coloro che convivono con una condizione cronica, soprattutto per l’’efficacia a breve

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termine. Importanti miglioramenti sono stati notati anche nell’umore, in particolare per gli aspetti depressivi.

Persistono perplessità in alcuni paziente, rifiutando questo tipo di approccio e preferendo un ruolo passivo e di totale affidamento all’operatore sanitario. Tuttavia informare questi pazienti dei programmi di Self- management risulta comunque importante in quanto questi pazienti potrebbero aver bisogno di un supporto alla motivazione nel passare da una fase definibile come “pre-contemplativa” ad una fase di “apertura” per permettere al Self-management di far parte della propria vita.

Nel lavoro di revisione condotto da Barlow (2002) sono stati analizzati differenti casi di patologie croniche ai quali è stato, in seguito, applicato il protocollo di Self-management. Troviamo un’alta concentrazione di studi condotti su pazienti asmatici (n=66), seguiti da quelli su pazienti diabetici (n=18) e pazienti con artrite (n=17). La maggior parte degli studi presi in analisi sono stati effettuati in USA (82), nel Regno Unito (13), in Australia (10) e 40 studi in altre nazioni.

Nonostante vi siano molte similitudini nell’applicazione del protocollo tra le varie patologie croniche, vi sono anche delle differenze. Le similitudini possono riguardare il contenuto dell’intervento basato sull’importanza di approfondimenti informativi e sull’uso di tecniche cognitivo-comportamentali. Un altro elemento in comune alle varie applicazioni, è il risultato atteso. Per esempio, il Self-management per pazienti asmatici pone il suo focus sulle capacità di gestione della sintomatologia e dei farmaci, mentre nel Self-management per pazienti affetti da artrite reumatoide l’intervento è maggiormente olistico con approfondimenti relativi agli stili di vita e alla gestione di comportamenti con conseguenze psicosociali.

1.2.2 Il dolore cronico

Una delle prime ricerca è stata condotta da Bodenheimer (2002) su MEDLINE in cui sono stati trovati due studi randomizzati sulla Self-management education in pazienti con diverse condizioni di dolore cronico.

Nel primo studio, derivante dall’ASMP (Arthritis Self-management Program), i pazienti hanno svolto sette incontri settimanali per imparare le abilità di problem solving e per stilare i piani d’azione. Una volta trascorsi i 6 mesi dalla partecipazione al corso di Chronic Disease Self-Management Program, secondo il lavoro di Lorig et al. (1999), i partecipanti hanno migliorato il controllo sui propri sintomi e dimostrato una maggiore capacità di praticare le proprie attività rispetto al gruppo di controllo. Dopo due anni, Lorig et al. (2001), hanno

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trovato conferma dei miglioramenti effettuati, nei punteggi in scale di autoefficacia e nel distress collegato allo stato di salute.

La maggior parte dei programmi che prevedono la presa in carico di pazienti con dolore cronico e l’applicazione di strategie di Self-management, hanno come punto di riferimento i protocolli della Stanford University di cui fa parte la stessa Lorig. Il Chronic Disease Self-management Program (CDSMP) della Stanford University è diventato il riferimento metodologico per gli operatori che vogliono approfondire o formarsi su tali metodiche. Il modello CDSMP pone le proprie basi nella Teoria Socio-Cognitiva di Bandura (1986) e si focalizza nel potenziamento delle abilità di autoefficacia e nella ricerca di supporto sociale per la gestione della malattia cronica ed in particolare del dolore lombare o dei sintomi legati all’artrite.

Il programma gestito da personale infermieristico comincia dall’educazione del paziente nell’individuare la “storia” del proprio dolore dando risalto ai possibili potenziali miglioramenti nel tempo, in modo tale da aumentare l’ottimismo nei confronti di un possibile miglior funzionamento senza cadere però in aspettative irrealistiche. I comportamenti che vengono promossi servono per fornire una struttura giornaliera ai pazienti includendo obiettivi e abilità di problem solving.

In particolare, Damush et al., (2003a, b) afferma che in ogni sessione di tale programma, i pazienti sono incoraggiati a proporsi obiettivi settimanali utilizzando un piano comportamentale, dove vengono scelti comportamenti, approfonditi nella stessa o nelle precedenti sessioni o che hanno loro stessi intenzione di modificare. Risulta essere, quindi, importante la capacità di automonitoraggio e viene incoraggiata l’abilità nel risolvere autonomamente i propri problemi, l’uso di metodi di rilassamento e un dialogo positivo. Queste due ultime strategie hanno avuto successo nel migliorare aspetti negativi.

Il programma di management per la gestione del dolore cronico (The Chronic Pain Self-Management Program, o CPSMP) viene applicato in centri per anziani, in chiese, librerie e ospedali, consiste in workshop della durata di due ore e mezza una volta a settimana per sei settimane grazie alla supervisione di due esperti dove almeno uno dei due soffre a sua volta di dolore cronico. I temi trattati nei workshop possono essere di diverso tipo:

• tecniche per fronteggiare e gestire la frustrazione, l’isolamento, la fatica, e le problematiche legate alla scarsa igiene del sonno;

• l’applicazione di esercizi per il mantenimento e il potenziamento della forza, della flessibilità e della resistenza;

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• l’utilizzo adeguato dell’aspetto farmacologico;

• la comunicazione efficace con famiglia, amici e professionisti sanitari; • gli aspetti legati alla nutrizione;

• ritmi di attività e riposo;

• considerazioni su nuovi trattamenti.

Ogni partecipante al workshop viene inoltre supportato tramite un libro di testo intitolato “Living a Healthy Life with Chronic Pain” contenente inoltre un CD per agevolare l’attività fisica. I presupposti principali su cui si basa questo intervento sono la possibilità di avere un supporto reciproco tra partecipanti in modo tale da aumentare la fiducia nei partecipanti stessi nella gestione della propria salute.

Il programma di Self-management non interferisce con altri trattamenti o altri programmi seguiti contemporaneamente dai pazienti ma ha lo scopo di fornire abilità nella gestione del proprio benessere e del proprio stile di vita.

Il CPSMP è stato sviluppato da Sandra LeFort all’Università McGill di Montreal (Canada) grazie al contributo congiunto di Kate Lorig e del gruppo dello Stanford Patient Education Research Center. Questo programma deriva dallo Stanford’s Arthritis Self-Management Program e dal Chronic Disease Self-Management Program.

Il CPSMP è stato sviluppato per persone con diagnosi primaria o secondaria di dolore cronico. Alcune delle patologie previste all’interno del programma sono:

• dolore cronico muscolo scheletrico (il quale coinvolge il collo, le spalle e la schiena); • fibromialgia;

• colpo di frusta;

• sindromi da dolore cronico regionali; • molteplici dolori da sforzo;

• dolore cronico pelvico oppure dolore post operatorio della durata di oltre sei mesi; • dolore neuropatico causato da traumi;

• nevralgie (per esempio la nevralgia trigeminale); • dolore post infarto o dolore centrale.

Inoltre vengono anche trattate condizioni cliniche come: • emicranie persistenti;

• morbo di Crohn;

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• gravi dolori muscolari dovuti a patologie come la sclerosi multipla.

I risultati degli studi condotti per la valutazione del CPSMP hanno confermato che i partecipanti al programma hanno beneficiato, rispetto a soggetti che non hanno partecipato a tale programma, di:

• maggior vitalità o energia; • minor dolore;

• condizioni di maggior indipendenza;

• miglioramento sul versante della salute mentale; • maggiore partecipazione alle attività quotidiane; • miglior senso di soddisfazione riguardo le proprie vite.

Il programma è stato somministrato e valutato in 10 differenti cliniche in Ontario (Canada) rilevando un miglioramento tra i partecipanti in termini di:

• abilità di coping; • risorse informative; • migliore qualità di vita.

1.2.2a Il Self management in pazienti con fibromialgia

Un ambito in cui possiamo trovare una maggiore applicazione del protocollo di Self-Management è quello della patologia fibromialgica. La fibromialgia (FM) è una condizione di dolore cronico, caratterizzata dalla presenza di numerosi sintomi (es. dolore diffuso, fatigue, disturbi del sonno), molti dei quali risultano essere in comune anche con altri disturbi.

La diagnosi di fibromialgia dipende, come affermato nell’ICD-10 (2001), oltre che dai criteri clinici d’inclusione ed esclusione, da quali sintomi vengono riferiti dal paziente stesso. Il motivo di questa procedura è che non esiste un unico test, globalmente valido, che possa confermare la diagnosi o stimare con assoluta precisione l’intensità della sintomatologia. Come accade per differenti condizioni croniche, abbiamo diversi possibili approcci terapeutici dove il clinico cerca di selezionare il trattamento più adeguato in base alle necessità individuali del paziente.

Storicamente, secondo i contributi di Graham (1953), la gestione della fibromialgia è spesso stata esclusivo appannaggio del reumatologo, tuttavia, recentemente sono state coinvolte più figure dei servizi di cura primarie, come ad esempio, psichiatri e neurologi.

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Come emerge dagli studi di Ablin e Buskila (2008) e Yunus (2007) non può più essere classificata come una patologia muscoloscheletrica ma preferibilmente come una sindrome dolorifica dovuta dall’instabilità dell’attività del sistema nervoso centrale.

A conferma del coinvolgimento di maggiori professionisti, vi sono alla base una serie di evidenze e prove che testimoniano quanto la fibromialgia sia un disturbo dell’elaborazione e modulazione del dolore centrale, ed è per questa ragione che il Self-management trova un proprio ruolo come approccio multidimensionale a sostegno dei differenti livelli di problematiche che i pazienti lamentano in questa patologia.

Nello studio portato avanti da Able et al. (2016), gli scopi principali sono stati quelli di valutare le differenze di prospettiva e approccio tra vari specialisti del settore della salute (per esempio reumatologo, psichiatra, neurologo, ginecologo…) riguardo alla diagnosi, la valutazione dello stato clinico dei pazienti e, più in generale, nel trattamento della fibromialgia.

I differenti professionisti che lavorano con pazienti affetti da fibromialgia, nonostante occupino settori diversi, concordano tutti nell’affermare che il riconoscimento della fibromialgia sia una propria competenza.

Risulta esservi inoltre, un consenso generale nel riconoscere gli aspetti psicologici della fibromialgia come elementi importanti, ma è stato trovato disaccordo, tra le varie figure, nel classificare tale disturbo come un insieme di sintomi psicosomatici. Tuttavia, essendo il protocollo di Self-management un approccio che permette di potenziare le risorse individuali dei pazienti, in particolare il loro livello di autoefficacia e problem-solving, il miglioramento generale a livello di funzionamento e qualità di vita, permettere di migliorare lo stato di benessere globale del paziente.

Infatti, un notevole grado di accordo, tra i diversi professionisti, è presente anche nel proporre un approccio di tipo multidimensionale e multidisciplinare, includendo approcci terapeutici farmacologici e non farmacologici, anche se i medici tendono ancora ad affidarsi ai farmaci piuttosto che alle terapie alternative.

Tutti i pazienti dello studio di Able et al. (2016), hanno riportato un dolore moderato o severo, molteplici comorbidità, e i trattamenti che prevedono l’uso di farmaci e terapie non farmacologiche.

Nell’ambito dello studio sopra citato, sulla diagnosi e trattamento della fibromialgia, sono stati intervistati diversi medici, i quali hanno espresso fiducia nelle proprie capacità d’identificare ed effettuare una corretta diagnosi di fibromialgia, approcciando la

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respinta l’ipotesi che tale diagnosi venga applicata nei casi laddove non sé stato possibile fornire diagnosi alternative.

Un altro elemento che crea notevole disaccordo tra gli specialisti, è l’assunto che dichiara come i sintomi caratteristici dei pazienti fibromialgici siano, in realtà, di origine psicosomatica.

Nel lavoro svolto da Wolfe et al. (1990) e Price e Staud (2005), viene sottolineato quanto i sintomi di tipo fibromialgico non siano di natura psicosomatica perché, in diversi casi, i sintomi di dolore possono essere ritrovati anche in pazienti che vivono condizioni dove non è rilevabile alcuna forma di anormalità clinica.

Secondo lo studio effettuato da Robinson et al. (2012), i trattamenti non farmacologici maggiormente applicati nella cura della fibromialgia sono disposizioni circa il riposo e indicazioni in merito ad esercizi, seguiti da tecniche di rilassamento, o meditazione.

I pazienti di specialisti reumatologi tendevano in frequenza minore a rivolgersi agli psicologi per ricevere counseling, rispetto a specialisti di altre aree. Inoltre, sempre i pazienti di specialisti reumatologi, tendevano a ricorrere a tecniche di stimolazione elettrica nervosa transcutanea. Un altro elemento rilevato è che i pazienti che tendono a rivolgersi a reumatologi tendono a riportare un più basso livello di depressione, disturbi del sonno, ansia, e fatica cronica rispetto a pazienti di altri specialisti del sistema di cura primario.

Le differenze riportate nei vari trattamenti sottolineano quanto manchi un approccio di tipo universale come trattamento di tutti i pazienti che rientrano nella categoria diagnostica fibromialgica.

Robinson et al. (2012) sottolinea questo aspetto, affermando che lo spettro dei farmaci che vengono prescritti è altrettanto variegato, passando dalla duloxetina, ai farmaci NSAID, al pregabalin e concludendo con gli oppioidi. L’autore prosegue indicando come i sintomi dei pazienti (intensità del dolore, depressione, ansia, disabilità, disturbi del sonno…) non risultavano essere presi in considerazione per decidere a quale trattamento affidarsi.

Nelle ricerche condotte da Häuser et al. (2010), le recenti linee guida indicano importanti evidenze scientifiche sulla base dell’uso di farmaci come triciclici, antidepressivi, duloxetina, milnacipran, pregabalin, e gabapentin per il trattamento della fibromialgia. Le benzodiazepine, sono stati i farmaci maggiormente utilizzati nello studio di Able et al. (2016), ma potrebbero essere state prescritte, assieme ai sedativi, per via del loro ruolo nei disturbi del sonno piuttosto che per la cura della fibromialgia.

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1.2.2b Il Self-management in pazienti con dolore e depressione

Analizzeremo ora, più nel dettaglio, l’uso del Self-management in pazienti con dolore e depressione. L’applicazione del Self-management tra pazienti con condizioni mediche e comorbidità psichiatriche non è ben compresa.

E’ stata, tuttavia, valutata l’efficacia della combinazione di trattamenti farmacologici e interventi comportamentali per l’autoefficacia della gestione dei sintomi e dei comportamenti di Self-management in pazienti con dolore e depressione.

Nello studio di Damush e collaboratori del 2016 è stata eseguita un’analisi longitudinale nei comportamenti di Self-management in relazione ai risultati attraverso un esperimento della durata di 12 mesi in 250 pazienti, seguiti da strutture di cure primarie, con dolore cronico muscolo scheletrico e depressione. I partecipanti sono stati randomizzati e divisi in due gruppi: un primo gruppo che è sottoposto esclusivamente a cure primarie/tradizionali e un secondo gruppo sottoposto, invece, anche a trattamenti che prevedono l’ottimizzazione della terapia antidepressiva associata a 6 sessioni del programma di Self-management del dolore (Pain Self-Management o PSM) condotte da personale infermieristico. In particolare, è stata valutata l’efficacia delle singole sessioni di Self-management in rapporto alla severità depressiva e all’interferenza del dolore. Coloro che hanno partecipato al programma e a tutte le 6 sessioni di Self-management hanno riportato un miglioramento nella riduzione della severità depressiva e una riduzione dell’interferenza del dolore rispetto a coloro che non avevano partecipato ad alcuna sessione. Dai risultati, rilevati alla fine dei 12 mesi, i partecipanti del secondo gruppo hanno dedicato un maggior quantitativo di tempo a comportamenti di Self-management come il potenziamento, esercizi di stretching, progressivo rilassamento muscolare, esercizi di visualizzazione. Inoltre, tali pazienti hanno riportato una maggiore autoefficacia nella gestione dei sintomi legati al dolore e alla depressione.

Non è chiara tuttavia identificare l’esatta componente che sottende l’efficacia del programma, inoltre non è chiaro se le persone che partecipano a tutte le sessioni abbiano particolari tratti di personalità rispetto a coloro che invece non prendono parte all’intero programma. Tale studio dimostra che un intervento combinato permette di aumentare nei pazienti la presenza di comportamenti di Self-management e l’autoefficacia nella gestione dei sintomi. Quindi il PSM risulta essere statisticamente correlato ai miglioramenti legati alla riduzione dell’interferenza del dolore e alla gravità della sintomatologia depressiva.

Dagli studi di Kroenke (2003) il dolore risulta essere il sintomo maggiormente riportato nei servizi di cura primaria, tra questi uno dei dolori maggiormente riportati è quello

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muscolo-secondo Kroenke (2011) il dolore muscolo-scheletrico cronico è spesso associato a depressione nel 30-50% dei casi, dove le due condizioni hanno reciproci effetti avversi. Da quanto emerge dalle ricerche di Lorig e Fries (1996) e dai successivi studi svolti da Lorig e collaboratori (1998), uno dei programmi di Self-management particolarmente utilizzato nella gestione del dolore cronico risulta essere l’Arthritis Self-Management Program.

Tale programma come viene spiegato nello studio condotto da Lorig e Holman (2003) prevede la formazione di figure di sostegno per implementare un programma standardizzato rivolto a pazienti che vivono con dolore cronico, insegnando loro abilità di coping, gestione dei sintomi e stimolando una partecipazione attiva nella gestione del proprio stile di vita. Infatti, come evidenziato da Bodenheimer (2002) gli interventi di Self-management si basano proprio sulla partecipazione attiva dei pazienti, permettendo loro un aumento di fiducia nella gestione dei propri sintomi e la nascita di un senso di autocontrollo che porta al miglioramento delle proprie condizioni di salute.

Gli scopi principali di tali programmi di Self-management consistono: • nel permettere al paziente una gestione attiva del dolore;

• nella possibilità di comunicare in modo più efficace gli aspetti legati ai trattamenti; • nel praticare strategie di autogestione;

• nel valutare gli effetti di tali strategie sulla propria salute e sui propri sintomi prima di ricercare terapie alternative.

Inoltre, diverse ricerche condotte da Von Korff et al., (1998); Lorig et. al., (1999); Von Korff e Moore (2001); Damush et al., (2003b); Dixon et al., (2007), sostengono che il potenziamento delle abilità di Self-management possano permettere un miglioramento del outcomes correlati al dolore.

Kroenke (2003) e Bair et al., (2003) hanno rilevato che tra i pazienti con dolore cronico appartenenti ai servizi di cura primaria è più complesso applicare strategie di Self-management a causa della comorbidità depressiva presente nel 30-50% dei casi. Questa comorbidità depressiva limiterebbe, appunto, le abilità dei pazienti nell’autogestione del dolore. Ad ogni modo vi sono differenti ricerche che prevedono pratiche di Self-management con pazienti che presentano contemporaneamente sia condizioni mediche che psichiatriche. Nel lavoro portato avanti da Patterson (2001), sono state evidenziate le molteplici prospettive possibili che i pazienti adottano nei confronti della propria patologia cronica, osservando che chi soffriva di una malattia cronica spesso presentava problematiche anche in campo psicologico e alterazioni nel proprio benessere generale.

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In questa prospettiva, il Self-management si prefigge lo scopo di aiutare i pazienti a mantenere uno stato di benessere, concentrandosi in 3 principali compiti, proposti da Corbin e Strauss (1988) e approfonditi in uno studio di tipo qualitativo:

1. Gestione degli aspetti medici della patologia: per esempio seguire la terapia farmacologica (compliance terapeutica, esempio l’uso dell’inalatore per l’asmatico), aderire ad una dieta…

2. Mantenere, cambiare e creare nuovi comportamenti per noi significativi, oppure crearci delle regole di vita quotidiana (per esempio, pazienti con dolore alla schiene potrebbero dover cambiare il modo in cui partecipano alle attività sportive).

3. Capacità di gestire e convivere con gli aspetti emotivi dati dall’avere una patologia cronica (per esempio, il saper gestire rabbia, paura, frustrazioni, depressione. Tutti elementi di sofferenza che sono comuni a chi vive determinate situazioni mediche). La ricerca di Corbin e Strauss (1988) poggia le sue basi sulle percezioni dei pazienti rispetto alla propria malattia. L’intervento di Self-management infatti va costruito, come se fosse un abito su misura, sulle preoccupazioni e necessità del paziente. Molto spesso, pensiamo per esempio ai pazienti con artrite, la preoccupazione principale è rivolta alla gestione del dolore. Oltre alla gestione del dolore vanno comunque date solide basi per gestire anche i limiti dei pazienti. Per esempio un fattore importante che causa dolore è la debolezza o la tensione di tipo muscolare. In questo caso, gli esercizi fisici permetteranno di rinforzare e distendere i muscoli del paziente, consentendogli di diminuire il dolore.

Ancora una volta vediamo come, nei servizi di cura primaria, dolore e depressione risultano essere i sintomi fisici e psicologici maggiormente frequenti.

In particolare, Schappert (1992) riporta come due pazienti su tre che lamentano dolore, presentino una sintomatologia a livello muscoloscheletrico.

Secondo il lavoro di Bair et al., (2003) laddove troviamo presenza di dolore, è importante rimarcare nuovamente quanto dolore e depressione coesistano nel 30-50% dei casi e quanto questi agiscano, in modo avverso, sugli outcomes terapeutici e sulla risposta individuale al trattamento.

Nelle ricerche condotte da Jackson et al., (2006), emerge che l’uso di antidepressivi permette di ottenere risultati sul versante depressivo e consente, inoltre, una moderata efficacia anche nella gestione del dolore. Secondo il lavoro di Lorig (2003) e di Von Korff e Moore (2001), il Pain Self-management Program (PSM) ha dimostrato efficacia sia per il dolore lombare che per l’osteoartrite (spesso lamentata a livello dell’anca e/o del ginocchio), con possibili

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Warsi et al., (2003) e Chodosh et al., (2005) riportano come in letteratura pare che l’efficacia del Self-management sia inferiore, a livello di risultati, nel trattamento delle condizioni muscoloscheletriche rispetto ai risultati ottenuti in condizioni mediche come diabete, ipertensione e asma.

Ulteriori analisi condotte da Kroenke et al., (2011) nello studio longitudinale, della durata di 12 mesi, sulla relazione reciproca tra dolore e depressione confermano che cambiamenti precedenti a livello dell’intensità del dolore sono forti predittori della conseguente gravità depressiva, e al contrario, un precedente cambiamento nell’intensità depressiva è un forte predittore dell’intensità dolorifica. Il peggiorare di una delle due variabili predice una conseguente gravità dell’altra, mentre al migliorare di una di esse troviamo una risposta di minor gravità nell’altra. Quindi, per esempio al peggiorare del dolore è possibile predire una maggiore gravità depressiva, viceversa un miglioramento dello stato di dolore predice una minor gravità depressiva.

Dersh et al., (2002) e Fishbain et al., (1997) sono giunti alla conclusione che il dolore cronico sia un fattore di rischio per il disturbo depressivo e per la sua intensità, permangono tuttavia dubbi sul ruolo della depressione come fattore di rischio nei confronti del dolore cronico. Nonostante ciò lo studio di Kroenke et al., (2011) evidenzia il ruolo equivalente di dolore e depressione nella reciproca influenza avversa. Allo stesso tempo risulta che il dolore cronico e la depressione siano condizioni indipendenti, in quanto due pazienti su tre che soffrono di una delle due condizioni non soffrono dell’altra. Tuttavia, essi agiscono insieme rispetto all’influenza avversa reciproca, richiedendo una gestione con un approccio coordinato. Sempre nel presente studio gli autori hanno analizzato, oltre al contributo del dolore e della depressione, anche la fatigue e la disabilità dolore correlata. E’ stato rilevato che il dolore aveva un ruolo nel predire la depressione ma che questa fosse mediata attraverso la fatigue e il dolore da disabilità correlata. Inoltre, è stata rilevata una forte relazione reciproca tra depressione e fatigue. In terzo luogo il dolore da disabilità e la fatigue, ma non la depressione, sono stati predittori di conseguente dolore. Risulta comunque chiaro che il livello di disabilità sia fortemente influenzato sia dal dolore che dalla depressione.

Infatti, secondo Arnow et al., (2006) e Bair et al., (2003) la presenza contemporanea di dolore e depressione è associata a una notevole e maggiore disabilità rispetto alla presenza delle singole problematiche individuali.

Inoltre, Arnow et al., (2009) afferma che la presenza contemporanea di dolore e depressione aumenta l’accesso ai servizi sanitari di cura e i costi a essi correlati.

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Ulteriori studi longitudinali condotti da Bair et al. (2004); Kroenke et al., (2008); Linton (2000); Mavandadi et al. (2007) e Thielke et al., (2007) confermano che la presenza del dolore può ridurre l’efficacia dei trattamenti che hanno come obiettivo di cura la depressione, ugualmente, la presenza della depressione potrebbe ridurre la risposta del dolore alle terapie. Jackson et al., (2006) sostengono che alcuni trattamenti possono essere efficaci in entrambi le condizioni, seppur non con la stessa risposta di miglioramento singolo da parte di dolore e depressione, come per esempio gli antidepressivi e la terapia cognitivo comportamentale. In alcuni casi, trattamenti sintomi specifici (per esempio: ottimizzazione della terapia analgesica, programmi di gestione di self- management del dolore, rinvii a specialisti del dolore o professionisti della salute mentale) potrebbero essere necessari se la persistenza di una condizione interferisca col miglioramento dell’altra. Un limite di tale studio, secondo gli autori, è la mancanza di una misura globale che monitori contemporaneamente il dolore e la depressione; per questa ragione è stato impossibile categorizzare i pazienti in base ai miglioramenti, ai peggioramenti o ai non cambiamenti, come misure individuali.

Dersh et al., (2002) e Bair et al., (2003) affermano che una varietà di altri fattori, considerando anche gli aspetti fisiologici (nocicettivi ed affettivi) sono stati presi in analisi per spiegare la relazione tra dolore e depressione. I neurotrasmettitori norepinefrina e serotonina, i quali sono centrali nella patofisiologia dei disturbi dell’umore, sono coinvolti inoltre nel meccanismo di controllo dal gate del dolore.

Ricerche recenti condotte da Max et al., (2006) hanno esplorato dei polimorfismi nell’ambito del dolore e dell’umore considerandoli come possibili geni e fattori eziologici potenziali. Secondo Covic et al., (2003); Dersh et al., (2002); Williams et al. (2006) vi possono essere altri fattori mediatori importanti quali: abilità di coping mal-adattive, basso senso di autoefficacia e altri fattori cognivo comportamentali.

Leuchter et al., (2009) invece sostengono che vi possano essere terzi fattori comuni ad entrambe le condizioni (per esempio comorbidità dal punto di vista fisico, basso status socio-economico) che influenzino in modo predisponente o accentuante.

Kroenke et al., (2009) ha condotto uno studio denominato “Stepped Care for Affective disorders and Musculoskeletal Pain” (SCAMP) che consiste in un esperimento clinico randomizzato della durata di 12 settimane di ottimizzazione della terapia antidepressiva (step 1) svolta dal personale infermieristico supervisionato da un medico specializzato in depressione. Allo step 1 seguono 6 sessioni di PSM somministrate nell’arco di 12 settimane (step 2), e alla fine 6 mesi di monitoraggio per valutare la sintomatologia e rinforzare il

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