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Valutazione dello stato ecofisiologico di quattro specie vegetali spontanee della Macchia mediterranea di Marina di Vecchiano

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Academic year: 2021

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IOLOGIA

A. A. 2014/2015

T

ESI DI LAUREA MAGISTRALE

Valutazione dello stato ecofisiologico di quattro specie

vegetali spontanee della Macchia di Marina di Vecchiano.

Relatore:

Candidato:

Dott. Carlo Sorce

Francesca Nannipieri

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1. INTRODUZIONE 4

- 1.1 La Macchia Mediterranea 4

- 1.2 Gli stress biotici e abiotici 9

- 1.3 Iniziative per la salvaguardia dell’ambiente 16

- 1.4 Studio ecofisiologico della Macchia Mediterranea 18

- 1.4.1 Specie selezionate per lo studio 23

- 1.4.2 Parametri ecofisiologici per lo studio della vegetazione 28

- 1.4.2.1 Efficienza fotosintetica 28

- 1.4.2.2 La fluorescenza come indice dell’efficienza fotosintetica 32 - 1.4.2.3 Regolazione e riparazione dell'apparato fotosintetico 33

- 1.4.2.4 Pigmenti fotosintetici 38

- 1.5 Scopo del lavoro 41

2. MATERIALI E METODI 42

- 2.1 Area di studio 42

- 2.2 Campionamenti 43

- 2.3 Misurazione dei valori di fluorescenza 44

- 2.3.1 La fotoinibizione 47

- 2.4 Determinazione del contenuto dei pigmenti fotosintetici 48

- 2.5 Analisi statistiche 49

3.RISULTATI 50

- 3.1 Andamento climatico 50

- 3.2 Efficienza fotosintetica 52

- 3.2.1 Efficienza fotosintetica potenziale (Fv/Fm) 52

- 3.2.2 Efficienza fotosintetica operativa (φPSII) 53

- 3.2.3 Fotoinibizione 54

- 3.3 Concentrazione dei pigmenti 57

- 3.3.1 Cisto 57 - 3.3.2 Fillirea 58 - 3.3.3 Ginepro 59 - 3.3.4 Ginestra 60 4. DISCUSSIONE 64 5. CONCLUSIONI 66 6. BIBLIOGRAFIA 68

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1. INTRODUZIONE

1.1 La Macchia Mediterranea

L’ecosistema della Macchia Mediterranea si trova nelle aree in cui il clima prevalente è quello di tipo Mediterraneo, considerato un clima di transizione tra il clima secco tropicale e il clima temperato, con l’aggiunta della presenza delle estati aride (Joffre et al., 2007).

L’ambiente Mediterraneo presenta una distribuzione prevalente nelle zone caldo-aride della Terra, caratterizzate da una temperatura media annua compresa tra i 14°C e i 18°C, inverni non rigidi, miti, umidi, con una temperatura media stagionale di circa 10°C ed estati generalmente calde e aride (20/25°C). Le precipitazioni sono scarse e concentrate soprattutto in autunno e in inverno, mentre in estate sono rare o assenti (Audisio et al., 2002).

Il clima Mediterraneo è presente, oltre che nelle aree che comprendono le coste del Mar Mediterraneo, anche in zone situate tra il 30° e il 45° di latitudine a Nord e a Sud dell’equatore, come le coste della California, la zona costiera del Cile, l’Africa meridionale ed alcune regioni dell’Australia (Audisio et al., 2002).

La Macchia Mediterranea rappresenta un complesso ecosistema, caratterizzato da un’elevata biodiversità oltre ad un’alta variabilità di nicchie ecologiche e di adattamento, che rendono questo ambiente uno tra i più diffusi e più vulnerabili ai cambiamenti dell’ambiente (Camarda, 2004).

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L’aridità dell’estate limita la disponibilità di acqua e quindi la crescita della vegetazione nei mesi più caldi, mentre il freddo invernale limita la crescita durante la stagione in cui la disponibilità di acqua è generalmente più alta.

Il Parco di San Rossore-Migliarino-Massaciuccoli, che occupa la fascia costiera della Toscana Settentrionale, ospita ambienti naturali che in diverse zone sono ben conservati e in cui si possono osservare i tipici habitat della vegetazione di ambienti sabbiosi, o psammofila.

La vegetazione presente nel litorale è costituita da una successione di comunità vegetali che nasce dalla zona afitoica della battigia fino ad arrivare ai boschi di caducifoglie. La successione si distribuisce ordinatamente in fasce contigue seguendo il grado di stabilizzazione della duna, di evoluzione del substrato e di disponibilità idrica.

Di seguito è riportato un profilo della successione vegetale naturale (Amadei et al., 2004; Audisio et al., 2002).

1) Zona afitoica

Questa zona, comunemente chiamata battigia, appare priva di vegetazione come conseguenza dell’azione del mare. È composta da sabbia e tracce di vegetali marini, come la Posidonia oceanica (L.) Delile, di cui si possono trovare i resti sferoidi, modellati dal moto ondoso. Nella zona afitoica le condizioni ambientali risultano proibitive a causa delle variazioni che si susseguono con estrema rapidità: nelle fasi di alta marea, o durante le mareggiate, l’acqua salata si deposita sulla sabbia

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mentre quando il mare si ritira la sabbia superficiale si dissecca quasi completamente.

2) Cakiletum

Subito dietro la fascia di battigia si insedia la vegetazione annuale pioniera dei depositi marini composta da: Cakile maritima Scop. subsp. maritima, il ravastrello, una pianta succulenta erbacea annuale che riesce a conservare una certa riserva idrica nei tessuti delle foglie, appartenente alla famiglia delle Crucipheree, e che produce semi in grado di galleggiare sull’acqua; Salsola kali L., una pianta erbacea, molto ramificata, di colore grigio-verde con piccole foglie coriacee e Calystegia soldanella (L.) Roem. & Schult., il vilucchio marittimo, un’altra pianta perenne succulenta che ha un’elevata capacità di diffusione attraverso i semi.

3) Agropyretum

Più all’interno, sulle dune embrionali, si trovano le graminacee perenni come l’Agropyron junceum (L.) Beauv., con rizomi molto resistenti attraverso i quali consentono l’edificazione delle dune. L’azione del vento tende a far scivolare la sabbia verso il basso ma contemporaneamente l’azione dell’apparato radicale di queste graminacee trattiene la sabbia che lo circonda per cui questa si accumula attorno alle piante pioniere che così permettono il consolidamento delle dune. Sono presenti anche l’Euphorbia paralias L., un’euphorbia con lunghi rizomi e l’Otanthus maritimus (L.) Hoffmann & Link, una pianta della famiglia delle Asteracee, che presenta una fitta peluria che la protegge dalla traspirazione eccessiva.

4) Ammophiletum

Sulle dune più interne e consolidate, sono presenti le graminacee cespitose perenni come ad esempio l’Ammophila littoralis (Beauv.) Rothm., lo sparto pungente; queste piante svolgono anch’esse un’azione di grande importanza nel processo edificatorio delle dune grazie ai loro rizomi resistenti e molto estesi e ai loro ciuffi che favoriscono l’accumulo di sabbia.

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5) Crucianelletum

Questa ampia zona retrodunale, formata da dune consolidate, è composta da una vegetazione molto ricca in specie. Sono presenti esemplari di: Seseli tortuosum L. var. maritimum Guss., la finocchiella marittima appartenente alla famiglia delle Apiacee, Helichrysum stoechas (L.) Moench, l’elicriso, una pianta aromatica perenne, appartenente alla famiglia delle Asteracee, Echinophora spinosa L., la carota spinosa, appartenente alla famiglia delle Apiacee con foglie coriacee per ridurre la traspirazione fogliare, Eryngium maritimum L., l’eringio marino, una pianta della famiglia delle Apiacee anch’essa con foglie coriacee, Pancratium maritimum L., il giglio di mare, una pianta bulbosa della famiglia delle Amaryllidacee, Medicago marina L., l'erba medica marina, una pianta della famiglia delle Fabacee, con fiori gialli brillanti e peli sulle foglie per ridurre la traspirazione, Silene colorata Poir., una pianta annuale con fiori rosa appartenente alla famiglia delle Caryophyllacee e due piante endemiche del tratto di costa che va dal fiume Arno al fiume Magra, Solidago litoralis Savi, la verga d’oro delle sabbie, della famiglia delle Asteracee e Centaurea aplolepa subsp. subciliata (DC.) Arcang. (o Centaurea sphaerocephala L. o Centaurea subciliata), il fiordaliso delle spiagge, appartenente alla famiglia delle Asteracee.

6) Juniperetum

Procedendo verso l’interno, le dune diventano più compatte grazie alla presenza della vegetazione erbacea e arbustiva. Il terreno è ancora sabbioso, la falda freatica è profonda, la forza del vento e il soleggiamento sono ancora forti e le temperature sono piuttosto elevate. Gli arbusti tipici di quest’area sono piante sempreverdi sclerofille, con foglie coriacee, mediterranee, come: lo Juniperus oxycedrus L. subsp. macrocarpa (S. et S.) Ball, il ginepro coccolone, appartenente alla famiglia delle Cupressacee; Phillyrea latifolia L. e P. angustifolia L., apparentanti alla famiglia delle Oleacee; Pistacia lentiscus L., il lentisco, un arbusto sempreverde della famiglia delle Anacardiacee; l’Arbutus unedo L., il corbezzolo, o albatro, un piccolo albero appartenente alla famiglia delle Ericacee, la Spartium junceum L., la ginestra odorosa appartenente alla famiglia delle Fabacee e Cistus

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creticus L. e C. salvifolius L., i cisti appartenenti alla famiglia delle Cistacee.

7) Il bosco

La vegetazione cespugliosa delle dune può essere osservata solo in zone a clima Mediterraneo. La fascia di arbusti si dirada ed è sostituita dalla vegetazione arborea formata da boschi di caducifoglie e pini. È presente il Pinus pinea L., il pino da pinoli introdotto e coltivato in Italia dal XVII secolo, in quanto è spontaneo soltanto nella Penisola Iberica. Si trovano anche Quercus robur L., la farnia, Populus alba L., il pioppo, e l’Alnus glutinosa (L.) Gaertn., l’ontano nero. Nel sottobosco rimane la vegetazione arbustiva sempreverde composta dalle filliree, dai cisti, da Smilax aspera L., la salsapariglia nostrana o stracciabraghe, appartenente alla famiglia delle Smilacacee, dal Laurus nobilis L., l'alloro, una pianta aromatica appartenente alla famiglia delle Lauracee, da Erica arborea L. e E. scoparia L., due arbusti sempreverdi, dalla corteccia rossastra, a portamento eretto, appartenenti alla famiglia delle Ericacee.

Associazione vegetale

Specie

Zona afitoica Resti di Posidonia oceanica L.

Cakiletum Cakile maritima Scop. subsp. maritima, Salsola kali L. e Calystegia soldanella (L.) Roem. & Schult.

Agropyretum Agropyron junceum (L.) Beauv., Euphorbia paralias L. e Otanthus maritimus (L.) Hoffmann & Link.

Ammophiletum Ammophila littoralis (Beauv.) Rothm.

Crucianelletum Seseli tortuosum L. var. maritimum Guss.,

Helycrisum stoechas (L.) Moench, Echinophora spinosa L., Eryngium maritimum L., Pancratium maritimum L., Medicago marina L., Silene colorata

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Poir., Solidago litoralis Savi e Centaurea subciliata. Centaurea aplolepa subsp. subciliata (DC.) Arcang. (o Centaurea sphaerocephala L. o Centaurea subciliata)

Juniperetum Juniperus oxycedrus L. subsp. macrocarpa, Phillyrea latifolia L., Phillyrea angustifolia L., Pistacia lentiscus L., Arbutus unedo L., Spartium junceum L., Cistus creticus L. e C. salvifolius L.

Bosco Pinus pinea L., Quercus robur L., Populus alba L., l’Alnus glutinosa (L.) Gaertn., Phillyrea latifolia L., Cistus creticus L., C. salvifolius L., Smilax aspera L., Laurus nobilis L., Erica arborea L. e E. scoparia L.

La fascia costiera della Toscana Settentrionale ospita ambienti naturali in cui la biodiversità è molto elevata, in cui si possono osservare tipici habitat della Macchia Mediterranea, ma che sono vulnerabili e seriamente minacciati a causa della presenza di stress ambientali biotici e abiotici (Acosta et al., 2003). I fattori che determinano lo stress per le piante spontanee di questi ambienti possono agire in combinazione tra loro amplificando i loro effetti, riducendo la biodiversità dell’ambiente e la sopravvivenza della vegetazione.

1.2 Gli stress biotici e abiotici 1. Lo stress idrico

La scarsità di acqua nel suolo è il maggiore ostacolo per le piante delle aree mediterranee.

Quando la pianta necessita di una quantità di acqua superiore a quella disponibile nel terreno, si può manifestare una relativa mancanza di acqua. Questa carenza idrica sottopone le piante ad uno “stress idrico” che rappresenta una delle principali cause della riduzione della crescita e della produttività dei vegetali in regioni semi aride e determina in essi una serie di risposte a livello molecolare, cellulare e fisiologico (Bray, 1993).

La disponibilità di acqua nel suolo dipende dalla forza con cui l’acqua è trattenuta dalle particelle del terreno e viene indicata con il parametro Ψ, o potenziale idrico, che è una misura dell'energia potenziale che ha l'acqua libera

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presente nel suolo. In botanica tale parametro è ampiamente impiegato per quantificare il lavoro che le piante devono svolgere per assorbire l’acqua dal terreno attraverso le radici.

Valori di potenziale idrico molto bassi indicano la presenza di una condizione di stress causata da una forte disidratazione (Smirnoff, 1993).

Lo stress dovuto alla carenza di acqua può verificarsi in associazione all’elevata irradianza durante i periodi estivi, soprattutto nelle aree mediterranee.

L’aridità riduce la conduttanza stomatica, che porta ad una riduzione dell’assimilazione di CO2 atmosferica e ad una conseguente riduzione della

crescita (Chaves et al., 2002).

Lo stress idrico, inoltre, può indurre l’accumulo di radicali liberi e perossidi nei tessuti. Ciò potrebbe causare danni ossidativi all’organismo distruggendo le membrane e le proteine dell’apparato cellulare (Noctor e Foyer, 1998).

D’altra parte però questa condizione di stress permette un aumento da parte della pianta della produzione di molecole antiossidanti come ad esempio la superossido dismutasi (SOD), la catalasi, la glutatione riduttasi, l’ascorbato perossidasi, enzimi che detossificano i radicali liberi, riducendo il rischio di un danno alle membrane (Smirnoff, 2000).

I danni da stress ossidativo risultano meno gravi in piante esposte al sole rispetto a quelle cresciute all’ombra poiché le prime hanno sviluppato sistemi di difesa più efficienti (Guidi et al., 2008).

2. Lo stress salino

Questo tipo di stress è causato dalla presenza, in alte concentrazioni, di ioni Na+ e Cl- in eccesso nel terreno che riduce la capacità delle piante di estrarre l’acqua disponibile dal suolo: ciò contribuisce all’aumento dello stress idrico per le specie che vivono in questi ambienti.

L’origine dei sali che si trovano nel substrato di crescita e i loro effetti sulla vegetazione sono stati descritti da Audisio et al. (2002). La presenza di sali in elevate concentrazioni nel terreno, può essere dovuto a due fattori: la contaminazione delle falde acquifere da parte dell’acqua di mare e l’aerosol provocato dal moto ondoso, soprattutto in zone costiere.

L’acqua marina, portata dalle correnti e dalle maree, imbeve la sabbia e quando percola in profondità, arriva nelle falde acquifere e le inquina con l’acqua salata. Le radici non possono assorbire quell’acqua a causa del potenziale idrico eccessivamente negativo per cui sviluppano una rete molto

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fitta di radici superficiali, con cui riescono ad intercettare l’acqua piovana prima che questa scenda in profondità e si mescoli alla falda salata.

Negli ambienti dunali è presente il fenomeno dell’aerosol, la sospensione nell’aria di sale marino provocata dal vento e dal moto ondoso. La deposizione del sale sulla superficie può avvenire anche fino a qualche decina di metri dalla costa, ma il fenomeno è più marcato ad esempio durante le burrasche invernali e sulle pareti rocciose delle scogliere, dove la presenza del sale può essere riscontrata anche a più di 100 metri sul livello del mare.

L’acqua salata portata dal vento si deposita sulla superficie della sabbia e sulle foglie, dove in seguito alla sua evaporazione, il sale rimane in forma cristallina. Alla prima pioggia il sale si scioglie per cui è direttamente innocuo per la pianta, ma attraversa la sabbia fino a raggiungere le falde acquifere, aumentando la salinità dell’acqua che viene poi assorbita dalle piante.

Le piante che riescono a sopravvivere sulla sabbia presentano un’elevata specializzazione ecologica che ne permette l'insediamento su questi terreni salini caratterizzati dalla secchezza dell’ambiente e dall’elevato calore dovuto alla radiazione solare.

Queste piante sono definite alofite o alofile e vivono sul fango lagunare salato. Si può ritenere che le piante psammofile debbano superare degli stress che sulla maggior parte delle piante avrebbero conseguenze letali. Il loro problema principale è quello di accedere all’acqua presente nelle falde acquifere, indispensabile per il loro metabolismo.

Le caratteristiche di adattamento delle piante alofile all’elevato calore e alla secchezza dell’ambiente costiero, secondo Audisio et al. (2002), sono:

1. Accumulo di soluti osmoticamente attivi per abbassare il potenziale idrico cellulare in modo da mantenere la capacità di assorbire l’acqua dalla falda salata, escludendo i sali.

2. Modificazione di foglie e rami della pianta, in parti carnose nelle quali viene conservata una certa riserva idrica, come accade in Cakile maritima e Calystegia soldanella.

3. Sviluppo di una fitta peluria su foglie e giovani fusti per rallentare la traspirazione, come nell’Otanthus maritimus.

4. Sviluppo di un apparato radicale in grado di sottrarre le radici al surriscaldamento. Nel caso dell’Ammophila littoralis si assiste alla

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formazione di rizomi striscianti sotto la sabbia e alla formazione di un manicotto di foglie secche alla base del culmo della pianta.

5. Formazione delle foglie coriacee con una spessa cuticola e con stomi in numero ridotto per limitare dal perdita di vapore acqueo dalla foglia, come nelle piante Echinophora spinosa, Eryngium maritimum e Salsola kali.

La resistenza alla salinità del terreno consiste in diversi meccanismi: minore assorbimento degli ioni Na+ e Cl-, accumulo nei vacuoli cellulari, esclusione dal tessuto metabolicamente attivo con uno specifico apparato ghiandolare mediante cellule secretrici, i tricomi epidermici, presenti nel fusto e nelle foglie. Questo fenomeno è presente nel Mesembryanthemum crystallinum L. e in varie specie di Limonium (Agarie et al., 2007).

L’elevata concentrazione salina determina inoltre danni alle strutture cellulari, provoca l’inibizione delle attività enzimatiche, un forte stress ossidativo e la riduzione dell’assorbimento minerale. Molti di questi disturbi sono associati alla generazione di ROS, le specie reattive dell’ossigeno, che possono aumentare lo stress fisiologico (Cruz de Carvalho, 2008). Per proteggersi dagli effetti tossici determinati dagli ioni Na+ e Cl- in eccesso, le piante sintetizzano proteine specifiche, gli acidi o le basi e osmoliti (come la prolina) che determinano azioni detossificanti (Zhu et al., 1998).

Inoltre negli ecosistemi naturali, la quantità di sale e la capacità di tolleranza alla siccità sembra spesso essere inversamente proporzionale al tasso di crescita (Munns, 2002). Lo stress salino riduce lo sviluppo della vegetazione in quanto è stata osservata sia l’inibizione della divisione cellulare che la riduzione della conduttanza stomatica (Waisel, 1972). La chiusura degli stomi porta ad un ridotto scambio gassoso tra la foglia e l’atmosfera, che può consentire una maggiore capacità di trattenere l’acqua ma al tempo stesso porta alla riduzione della fotosintesi a causa del decremento nel tasso di assorbimento e di fissazione della CO2 (Flexas et al., 2004).

3. Il vento

Il vento è da considerarsi come una fonte di stress biotico in quanto può determinare modificazioni dell’equilibrio della vegetazione delle sabbie.

La presenza di un vento costante e unidirezionale può causare il cambiamento della direzione di crescita della chioma degli arbusti e degli alberi che spesso

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assumono un portamento prostrato. Allontanandosi di poco dalla costa, grazie all’azione di protezione dal vento di questi primi individui, le piante raggiungono dimensioni maggiori ed hanno un portamento eretto.

Il vento determina la presenza dell’aerosol marino. Questo è la causa anche del disseccamento e della morte di alcune

piante psammofile, in quanto viene

trasportato materiale inquinante

derivante dai detergenti disciolti nel mare che il vento porta in sospensione. In associazione con il sale, i detergenti provocano danni alle attività metaboliche della vegetazione costiera (Audisio et al., 2002).

Il vento può inoltre indurre l'accumulo di sabbia attorno alla base delle piante, permettendo il consolidamento delle dune, la dispersione dei semi e la conseguente colonizzazione del territorio. In alcuni casi però l’azione del vento è deleteria per la vegetazione poiché possono verificarsi fenomeni di essiccamento della pianta causati dall’esposizione dei rizomi e delle radici al vento in seguito allo spostamento di grandi quantità di sabbia (Ievinsh, 2006) e fenomeni di seppellimento della vegetazione di piccole dimensioni più vicina alle zone costiere.

4. Le specie aliene invasive

La flora dell’ecosistema dunale è molto specializzata per vivere in questi ambienti e non riesce a tollerare l’inserimento di specie aliene invasive, spesso infestanti, anche di origine esotica (Audisio et al., 2002).

È ormai nota la presenza di specie alloctone invasive come la Yucca aloifolia L., nelle fasce dunali delle coste tirreniche ed anche in vaste aree del pSIC (Sito di Interesse Comunitario proposto) “Dune litoranee di Torre del Lago” in cui si inserisce questa trattazione.

Queste specie invasive di origine esotica possono crescere in modo isolato, o in piccoli agglomerati sparsi, oppure in densi yuccheti, spesso in associazione con altre specie, anch’esse di origine esotica, come l’Amorpha fruticosa L., l’Elaeagnus argentea Pursh ed alcune specie di Tamarix.

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La presenza della yucca in grandi quantità è causata soprattutto dalla facilità con cui queste piante si

propagano vegetativamente in

seguito alla loro introduzione a scopo ornamentale; in queste aree è stato completamente compromesso lo sviluppo delle formazioni vegetali tipiche delle fasce dunali e retrodunali.

Le specie aliene invasive possono provocare anche fenomeni di interrimento delle aree umide retrodunali e contribuiscono alla perdita e all’alterazione della biodiversità della flora e della fauna legate a questi ambienti naturali. Proprio in questo pSIC, l’interrimento delle aree umide retrodunali ha portato alla sostituzione delle cenosi autoctone con specie di origine esotica; nelle paludi calcaree la yucca ha preso il posto del Cladium mariscus (L.) Pohl, mentre l'Amorpha fruticosa sta sostituendo le cenosi a cannuccia palustre, Phragmites australis (Cav.) Trin. ex Steud. e a falasco, Cladium mariscus, ancora presenti con piccoli nuclei residui per un'estensione totale di poco più di un ettaro.

5. La pressione antropica

Il bacino del Mediterraneo è intensamente colpito dagli effetti dell’alterazione degli habitat costieri a causa della presenza dell’uomo (Lavorel et al., 1998). A seguito dell’urbanizzazione, dell'industrializzazione, dell’espansione dei centri abitati e dello sviluppo delle attività turistiche, si è assistito ad un’importante trasformazione del paesaggio ed alla frammentazione degli ambienti naturali. Le azioni di pulizia meccanica delle spiagge, la presenza di sentieri, insediamenti balneari ed il calpestìo sono correlati strettamente con il degrado e la perdita di integrità degli ambienti costieri e della biodiversità (Ciccarelli et al., 2013; AA.VV., 2008).

I processi di antropizzazione degli habitat generano una progressiva riduzione della superficie degli ambienti naturali e un aumento del loro isolamento: si creano, in questo modo, sia delle forti discontinuità nella vegetazione, che trova ostacoli nel processo di colonizzazione della superficie, sia delle barriere difficilmente superabili per la fauna presente (AA.VV., 2008).

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I danni più gravi si manifestano soprattutto nel periodo primaverile-estivo quando si concentra il carico turistico intenso e incontrollato che causa il calpestìo delle aree di battigia, l’attraversamento disordinato delle dune e l’asportazione dei fiori di alcune delle piante più caratteristiche, minacciando seriamente l’integrità di questi ambienti naturali (Audisio et al., 2002). Questi fenomeni riducono la biodiversità delle aree naturali e provocano l’alterazione diretta e indiretta degli habitat costieri e dunali.

In particolare, nel pSIC “Dune litoranee di Torre del Lago”, si può notare la formazione di sentieri provocati

dal calpestìo dei bagnanti nel tratto dalla strada alla linea di mare, con grave alterazione delle fasce vegetazionali. È così resa difficile, alla vegetazione, la ricolonizzazione delle zone di sabbia nuda, innescando anche importanti fenomeni erosivi.

De Luca et al. (2011) e Attorre et al. (2013) correlano l'assenza di dune embrionali a fenomeni di erosione, in quanto la vegetazione pioniera che si insedia nelle dune embrionali, è molto resistente e permette sia il consolidamento di dune più forti, sia la formazione del substrato idoneo allo sviluppo della vegetazione.

I sentieri hanno inoltre un andamento per lo più perpendicolare alla linea di costa, elemento che favorisce l’erosione del suolo dovuta al vento. Per ridurre l’impatto sono stati costruiti camminamenti di legno, con andamento non rettilineo, per circoscrivere la formazione dei sentieri.

Un altro problema dovuto alla presenza turistica è dato dalle regolari azioni di pulizia e di

spianamento meccanico della

spiaggia che impediscono la

formazione delle dune embrionali e danneggiano le dune già in via di

Fig. 1.6 Pedana in legno

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consolidamento. Inoltre la pulizia meccanica elimina i cumuli di legname spiaggiato, che costituiscono un efficace mezzo per favorire la fissazione della duna, riducendo i fenomeni di erosione costiera, e rappresentano l’habitat per le locali comunità di invertebrati sabulicoli, rilevanti sia da un punto di vista conservazionistico, sia nell’ambito delle reti trofiche (Audisio et al., 2002).

1.3 Iniziative per la salvaguardia dell’ambiente

Per proteggere questi habitat naturali, la Tenuta di San Rossore è stata designata come un SIR (Sito di Interesse Regionale), un pSIC (Sito di Interesse Comunitario proposto) "Dune litoranee di Torre del Lago" ed una ZPS (Zona di Protezione Speciale) denominata “Selva Pisana” (IT5160002).

Il SIC, sito di interesse comunitario, è un concetto definito dalla direttiva comunitaria n. 43 del 21 maggio 1992, (92/43/CEE), relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, della flora e della fauna selvatiche nota anche come Direttiva "Habitat", recepita in Italia a partire dal 1997.

In ambito naturalistico il termine SIC è utilizzato per individuare un'area geograficamente definita finalizzata a mantenere e a conservare gli habitat naturali e le specie animali e vegetali di interesse comunitario che sono ivi presenti e che contribuisce in modo significativo a tutelare la biodiversità attraverso specifici piani di gestione (Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali). Secondo quanto stabilito dalla Direttiva "Habitat", ogni stato membro della Comunità europea deve indicare un elenco di siti nei quali si trovano habitat naturali e specie animali e vegetali a rischio e quindi da tutelare. Questi siti sono i cosiddetti pSIC, siti di interesse comunitario proposti. Sono esclusi dalla richiesta di pSIC quei siti che già ospitano gli uccelli previsti nella direttiva Uccelli (Direttiva 79/409/CEE).

Raccogliendo le indicazioni fornite negli elenchi da ogni singolo Stato membro della Comunità europea, la Commissione forma un elenco di siti d'interesse comunitario (SIC). Entro sei anni dal riconoscimento del SIC, l'area deve essere dichiarata dallo stato membro zona speciale di conservazione (ZCS).

In Italia la redazione degli elenchi per i SIC e le ZPS è stata effettuata a cura delle regioni e delle province avvalendosi della consulenza di esperti e di associazioni scientifiche del settore.

Le zone di protezione speciale o ZPS, sono territori idonei in numero e superficie alla conservazione di specie animali minacciate, rare o

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potenzialmente danneggiate da modifiche del loro habitat. Spesso sono zone poste lungo le rotte di migrazione dell’avifauna, finalizzate al mantenimento ed alla sistemazione di idonei habitat per la conservazione e la gestione delle popolazioni di uccelli selvatici migratori.

All’interno della Tenuta di San Rossore sono presenti anche altri tipi di habitat di interesse comunitario, cioè habitat che rischiano di scomparire, in quanto hanno un’area ristretta e sono rappresentativi di una o più delle regioni biogeografiche. Esempi sono: l’habitat “Dune mobili del cordone litorale con presenza di Ammophila arenaria (dune bianche)”, l’habitat “Dune fisse del litorale del Crucianellion maritimae”, l’habitat “Dune mobili embrionali”, l’habitat “Vegetazione annua delle linee di deposito marine” e gli habitat di interesse prioritario, come l’habitat “Dune costiere con Juniperus spp.” e in zona retrodunale l’habitat “Paludi calcaree con Cladium mariscus e specie del Caricion davallianae”.

“Rete Natura 2000” è una rete ecologica diffusa su tutto il territorio dell'Unione Europea, formata da un sistema coordinato e coerente di aree presenti nel territorio dell'Unione e destinate alla conservazione della biodiversità ed in particolare alla tutela di una serie di habitat e di specie animali e vegetali di interesse comunitario.

La “rete” è composta da aree, individuate dagli stati membri dell'Unione Europea, attraverso i Siti proposti di Importanza Comunitaria (pSIC), previsti dalla Direttiva “Habitat” (92/43/CEE) e le Zone di Protezione Speciale (ZPS), previste dalla Direttiva “Uccelli” (79/409/CEE).

La costituzione della rete ha l'obiettivo di preservare le specie e gli habitat per i quali i siti sono stati identificati e di svolgere un ruolo chiave nella protezione della biodiversità nel territorio dell'Unione europea.

Le aree che compongono la rete Natura 2000 non sono riserve rigidamente protette dove le attività umane sono escluse; la Direttiva Habitat intende garantire la protezione della natura tenendo anche conto delle “esigenze economiche, sociali e culturali, nonché delle particolarità regionali e locali” (Art. 2).

In Italia, i SIC, le ZSC e le ZPS coprono complessivamente circa il 19% del territorio terrestre nazionale e quasi il 4% di quello marino.

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1.4 Studio ecofisiologico della Macchia Mediterranea

Ogni tipo di stress, abiotico o biotico, per le piante porta allo sviluppo di meccanismi volti a contrastarne e limitarne i danni. Questo poiché le piante sono organismi sessili, quindi non in grado di fuggire dalla fonte dello stress. La selezione naturale a lungo termine ha portato allo sviluppo di adattamenti morfologici e fisiologici ai diversi ambienti generando specie ed ecotipi differenti (Savolainen et al., 2007).

Lo studio della diversità biologica rappresenta un tentativo di inquadrare dal punto di vista quantitativo la molteplicità e la varietà con cui si manifesta il mondo vivente nelle sue espressioni spazio-temporali. Con il termine biodiversità si può indicare la varietà degli organismi viventi in un dato ambiente e rappresenta uno degli indicatori del buono stato di conservazione ambientale (AA.VV., 2008).

La presenza della vegetazione, in ogni habitat, è fondamentale per conoscere e valutare l’integrità dell’ambiente, in quanto riveste molte funzioni importanti nel determinare le caratteristiche del suolo, del clima e dell’ambiente stesso in cui è presente.

Le piante attraverso i loro apparati radicali di vario tipo riescono a modificare la struttura fisica e chimica del suolo. Ad esempio, le piante pioniere delle dune, come l’Agropyron junceum e l’Ammophila littoralis proteggono il suolo dall'erosione superficiale permettendo l’insediamento delle prime forme di vegetazione delle dune, grazie alla presenza di lunghe radici rizomatose che trattengono la sabbia e permettono così anche il consolidamento delle dune stesse e un habitat adatto alla crescita di altre piante psammofile (Lomba et al., 2008).

L’erosione, inoltre, costringe le piante a sopravvivere in aree ristrette in conseguenza dell’interruzione del naturale processo di successione della vegetazione (Ciccarelli et al., 2012).

È stato dimostrato che le piante delle comunità dunali, sono in grado di recuperare in un tempo relativamente breve i danni apportati dal calpestìo, nel caso in cui questo fattore di disturbo sia rimosso velocemente, grazie alle caratteristiche di resistenza tipiche delle piante pioniere (Santoro et al., 2012). Le piante possono contribuire anche alla catena delle reti trofiche naturali, a vari livelli: gli animali erbivori si cibano delle giovani foglie e dei giovani fusti di molte specie vegetali e le piante rilasciano spesso composti organici nella

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soluzione circolante nel terreno che vengono utilizzati dai microrganismi del suolo. Inoltre i residui vegetali aumentano la quantità di sostanza organica del terreno.

La vegetazione svolge dunque fondamentali funzioni nei confronti dell’ambiente in cui è presente e quindi è di fondamentale importanza avere cura di conoscere lo stato fisiologico delle specie presenti nei vari ambienti naturali in modo da poter valutare la possibilità di attuare azioni mirate alla conservazione dell’habitat naturale, a breve e a lungo termine.

In questo studio si è concentrata l’attenzione sulle specie più rappresentative dell’ambiente della Macchia Mediterranea, avendo come riferimento i diversi gruppi funzionali, a cui le specie principali appartengono:

A) Sclerofille

Sono piante per lo più sempreverdi, con foglie caratterizzate da dimensioni ridotte, dotate di 2 o 3 strati di cellule a palizzata, con parete cellulare spessa, alta densità di piccoli stomi e una spessa cuticola, la cui funzione è di limitare l’evapotraspirazione, trattenendo così più acqua possibile all’interno della pianta (De Lillis, 1991). Tollerano gli stress del clima Mediterraneo mantenendo intatte le foglie verdi per tutto l’anno e mostrando vari adattamenti morfologici come la presenza delle foglie sclerofille e un sistema di radici molto profondo (Mooney, 1981). Sono piante che producono rami verdi e giovani foglie esclusivamente in autunno e in primavera, quando le piogge sono più abbondanti e la temperatura è più favorevole alla ripresa delle loro attività vitali. Le sclerofille sempreverdi dominano nelle regioni a clima Mediterraneo. La dominanza può essere spiegata come un adattamento convergente in risposta alle condizioni climatiche.

Le caratteristiche morfo-anatomiche delle foglie possono essere così interpretate dal punto di vista adattativo (Seddon, 1974):

1) adattamento all’aridità. Le cellule con parete spessa possono resistere meglio alla pressione di turgore negativa sotto stress idrico (Lo Gullo e Salleo, 1988)

2) la durezza delle foglie è un epifenomeno, cioè un aspetto secondario, della presenza di poco fosforo nel suolo (Loveless, 1961; Monk, 1966) 3) la foglia dura e coriacea è un adattamento contro gli erbivori.

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B) Semidecidue

Sono piante che sopportano parzialmente lo stress dovuto all’elevata irradianza ed alle alte temperature. Mostrano una strategia diversa per sopportare questi stress, infatti, tendono a minimizzare l’intercettazione della luce, sia riducendo la superficie delle foglie, attraverso l’abscissione fogliare durante la stagione critica, sia modificando l’angolo di inserzione della foglia. Infatti la pianta produce le giovani foglie in primavera con un angolo di inserzione nel fusto di circa 30° sull’orizzontale in modo che siano perpendicolari alla direzione di intercettazione dei raggi solari. In estate, invece, le foglie sono inserite nel fusto con un angolo di circa 70°, molto vicino alla perpendicolare al suolo, in modo da ridurre la superficie di esposizione della foglia al sole (Werner et al., 1999). In questo modo riducono la fotoinibizione che abbassa l’efficienza fotosintetica in presenza di eccessiva irradianza. La riduzione della superficie fogliare e la pubescenza aumentano la resistenza all’aridità (Oliveira e Peñuelas, 2004).

C) Leguminose

Le risposte della vegetazione all’aumento della concentrazione della CO2 sono

fondamentali per prevedere l’effetto dei cambiamenti climatici sulla produzione vegetale primaria (Joffre et al., 2007).

La conoscenza dei meccanismi molecolari e biochimici attraverso i quali le piante rispondono all’aumento della concentrazione della CO2, può permetterci

di prevedere le trasformazioni degli ecosistemi in relazione all’aumento di questo gas.

Negli anni dal 1980 al 2015 la concentrazione atmosferica della CO2 a livello

globale è passata da 338,80 a 399,45 ppm (Dlugokencky e Tans, 2015).

Entro la fine del secolo, intorno al 2100, secondo l’IPPC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico - Intergovernmental Panel on Climate Change) - scenario climatico IS92a -, la concentrazione della CO2 nei siti

attivi della Rubisco nelle piante C3 aumenterà da 6,3 a 15 µM e la concentrazione della CO2 atmosferica sarà di 750 µmol/mol (Albritton et al.,

2001).

Inoltre la temperatura subirà un aumento di 1,8-4°C (McCarthy et al., 2001) e l’aridità rappresenterà uno dei maggiori problemi per gli ecosistemi.

La combinazione di questi fattori ambientali ha un effetto sinergico (Guidi e Calatayud, 2014).

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Le piante rispondono all’incremento della concentrazione della CO2

aumentando la capacità di fotosintesi, quindi la fissazione del carbonio, e riducendo la conduttanza stomatica (Long et al., 2004).

L’attività fotosintetica aumenta probabilmente per due motivi (Long et al., 2004):

1. Poiché la Rubisco è limitata dalla concentrazione del substrato CO2,

l'aumento di questo gas porterà ad un incremento della velocità della reazione di carbossilazione.

2. La crescita della concentrazione della CO2 potrebbe inibire le reazioni di

ossigenazione della Rubisco e quindi la fotorespirazione.

Al tempo stesso la conduttanza stomatica diminuisce (Assmann, 1993), così come il numero di stomi per unità di superficie fogliare (Gautam et al., 2013). Le leguminose sono in grado di utilizzare l’azoto molecolare (N2) libero

nell’atmosfera, attraverso l’azotofissazione da parte dei batteri, a differenza delle altre piante che invece utilizzano prevalentemente l’azoto nitrico presente nel suolo. Le leguminose ricevono l’azoto in forma ammoniacale od organica, immediatamente disponibile per le piante, come risultato dell’azione dei batteri azoto fissatori del genere Rhizobium che vivono nei noduli radicali delle radici. Tutte le altre piante assorbono l’azoto nella forma nitrica NO 3-direttamente dalla soluzione circolante del terreno.

Le leguminose quindi hanno accesso ad una fonte di azoto che le rende quasi totalmente indipendenti dalla necessità di assorbire azoto minerale dal terreno. Questo rappresenta un indubbio vantaggio per le specie che vivono in ambienti litoranei, caratterizzati da substrati di crescita generalmente poveri di elementi nutritivi. Inoltre, grazie alla simbiosi con i rizobi le leguminose ricevono l’azoto sottoforma ammoniacale od organica, con un notevole risparmio di risorse (ATP e NADPH) per l’assimilazione di questo elemento rispetto alle altre specie, non simbiontiche. In un ambiente in cui la concentrazione atmosferica di CO2 è in aumento, i processi di assimilazione del

C e del N possono competere sempre più intensamente fra loro per le risorse necessarie (ATP e NADPH). Poiché le leguminose assimilano N a costi energetici inferiori, tale competizione fra processi di assimilazione potrebbe verificarsi in misura molto minore, perciò queste specie potrebbero beneficiare maggiormente dell’aumento dell’attività fotosintetica indotto dagli elevati livelli di CO2 atmosferica (Ainsworth e Rogers, 2007). Inoltre, le leguminose

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potrebbero riuscire a produrre maggiori quantità di Rubisco tale da permettere a queste piante di accrescersi bene anche su terreni poveri di sostanze nutritive, e in particolare poveri di azoto, come i terreni sabbiosi e della Macchia Mediterranea.

Quindi in presenza di elevata CO2, le leguminose, potrebbero accrescersi

meglio delle altre piante C3, per cui in uno scenario futuro di cambiamenti climatici volti all’aumento della concentrazione di CO2, potremmo assistere ad

una variazione della composizione floristica a vantaggio delle leguminose.

D) Gimnosperme

Le gimnosperme sono piante che si sono adattate alla fascia climatica Mediterranea ed alcune specie sono diventate tipiche di questo ambiente. Generalmente sono sempreverdi, con foglie di ridotte dimensioni, aghiformi e ricoperte da cuticola per limitare la perdita di acqua da traspirazione; in questo modo le piante possono sopportare anche temperature molto elevate. È noto che l’ambiente Mediterraneo è caratterizzato da condizioni di carenza idrica, per cui, per poter affrontare la scarsità d’acqua, queste piante limitano la perdita di efficienza con cui questa è trasportata in tutte le sue parti.

Le piante gimnosperme hanno evoluto un sistema di conduzione formato da tracheidi, elementi conduttori dello xilema, composte da cellule singole, allungate, cave, a lume stretto. Sono cellule prive di citoplasma e di organuli, per cui ciò che rimane delle cellule sono soltanto le pareti molto lignificate, che impediscono a queste cellule di collassare su se stesse in seguito alla depressione che si viene a creare nei vasi per la traspirazione delle foglie. Le pareti lignificate presentano dense punteggiature, cioè piccole zone dove è assente la parete secondaria, ma è presente quella primaria non lignificata, grazie alla quale ciascun elemento comunica con le altre tracheidi (Taiz e Zeiger, 2002).

Questo tipo di sistema di conduzione costituisce l'unico tipo di trasporto dell'acqua nelle gimnosperme e svolge anche un’importante funzione di sostegno dei fusti, grazie proprio alla presenza delle pareti lignificate delle cellule morte.

Le gimnosperme hanno sviluppato questo tipo di conduzione dell’acqua per sopportare le condizioni avverse dei climi aridi, come l’aumento della tensione negativa dell’acqua in condizioni di carenza idrica. Queste condizioni ambientali possono causare, negli elementi conduttori, il fenomeno della cavitazione, la

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formazione delle bolle di gas, o emboli, che possono gravemente compromettere la sopravvivenza della pianta, provocando l’interruzione del flusso di acqua nello xilema. Nello specifico, le bolle di gas nel flusso di acqua all’interno delle tracheidi, si possono formare in seguito alla presenza di un’eccessiva tensione nello xilema. Questa richiama aria dall’esterno delle tracheidi attraverso la punteggiatura; quando le bolle d’aria sono molto grandi, l’acqua evapora in modo esplosivo nelle bolle stesse ed il flusso di acqua si interrompe perché il volume interno della tracheide è occupato dai gas. Il diametro piccolo delle tracheidi è correlato ad un diametro ridotto delle punteggiature, perciò in questo tipo di elementi conduttori viene ostacolato l’ingresso di aria causato dalle forti tensioni. Inoltre, il ridotto diametro interno delle tracheidi favorisce il successivo riassorbimento degli emboli, una volta che la tensione xilematica si è ridotta come conseguenza di un bilancio idrico più favorevole per la pianta. Gli emboli possono essere riassorbiti di notte, quando la tensione diventa meno negativa, a causa della riduzione della traspirazione. Il trasporto dell'acqua nelle tracheidi è più lento, quindi si parla di bassa efficienza di trasporto, in quanto l’acqua, spostandosi da una tracheide all’altra attraverso le punteggiature, incontra alta resistenza.

1.4.1 Specie selezionate per lo studio:

Per valutare le differenti risposte delle specie appartenenti a questi gruppi funzionali, sono state selezionate quattro specie, una per ogni gruppo. Di esse, si riporta una breve descrizione, qui di seguito, secondo quanto osservato da Amadei et al., 2004 e Ciccarelli et al., 2013:

1) Gruppo funzionale delle semidecidue: Cistus creticus L. subsp. creticus I nomi comuni di questa pianta sono Cisto di Creta, Cisto rosso e Cisto canuto. Il nome del genere Cistus deriva dal greco antico 'kìst(h)os', che significa capsula o cesta, con riferimento alla forma e alla consistenza coriacea del frutto; l'epiteto specifico creticus deriva dal latino 'creticus, -a, -um', che significa originario di Creta, l’isola del Mar Mediterraneo.Questa specie è ampiamente diffusa in tutti i paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo ed è la specie di Cistus più presente nella flora italiana. E’ presente in gran parte del territorio italiano, infatti, si trova in Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria,

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Sicilia e Sardegna. E’ una specie protetta a livello regionale in Veneto ed in Emilia Romagna.

L’habitat in cui vive questa specie è quello della Macchia Mediterranea e della gariga, spesso al limite dei boschi. É una specie semidecidua, cioè perde una parte delle foglie prima della stagione estiva per evitare lo stress da siccità. Questa specie cresce su terreni sabbiosi calcarei o silicei e medio-argillosi, ben drenati, in qualche caso poveri di sostanze nutritive e con pH acido, neutro o basico.

E’ presente a varie altitudini, da 0 a 800 m s.l.m.

E’ una specie eliofila e termofila, predilige posizioni assolate, può tollerare la sic-cità e l'esposizione marittima ma non cresce in ombra. Spesso il Cistus creticus si può trovare consociato con il Cistus salvifolius L.

Il Cistus creticus è una pianta arbustiva legnosa, alta 30-100 cm con fusti molto ramificati, lignificati alla base che le conferiscono un portamento cespitoso. La corteccia dei fusti è bruno-rossiccia ed all'apice assume una colorazione bianco-grigiastra. I rami sono ricoperti da peli semplici misti a peli stellati.

Ha le foglie ovali quasi rotondeggianti con margine lievemente ondulato, cuoiose, di colore verde brillante, generalmente ricoperte da una sottile e spessa peluria formata da peli stellati. Sono opposte e con un breve picciolo alla base.

Da aprile a giugno il cisto produce numerosi fiori ermafroditi di colore rosa che appassiscono in una giornata, composti dalla corolla formata da 5 ampi petali e dal calice persistente con 5 sepali triangolari.

I frutti sono piccole capsule semilegnose di colore marrone ricoperte da peluria e contengono numerosissimi piccoli semi.

Il cisto è una pianta aromatica ricca di polifenoli. Il nome Cistus appare già negli scritti di Dioscoride, un medico, botanico e farmacista greco che esercitò la sua professione a Roma ai tempi dell'imperatore Nerone. Fu descritta come la

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pianta da cui si estraeva una sostanza resinosa, il ladano, che era utilizzata come incenso. Spesso il cisto viene impiegato in tisane ed infusi per rafforzare il sistema immunitario.

Il cisto è una pianta pioniera e colonizzatrice di terreni rimasti scoperti dalla vegetazione dopo un incendio, poiché il fuoco permette la rottura del duro tessuto legnoso protettivo dei semi e provoca l’eliminazione di alcune sostanze fenoliche che limitano l'afflusso di ossigeno all'embrione. La germinazione dei semi del cisto, in luoghi che hanno subito il passaggio del fuoco, è 10 volte superiore a quella dei semi in condizioni normali.

2) Gruppo funzionale delle gimnosperme: Juniperus oxycedrus L. subsp. macrocarpa (Sibth. & Sm.) Neilr

Il nome comune di questa pianta è ginepro coccolone. E’ una sottospecie dello Juniperus oxycedrus L. È una specie caratteristica della Macchia Mediterranea e si trova in prossimità delle dune consolidate dove si sta instaurando la vegetazione forestale psammofila. Spesso si trova in associazione con Pistacia lentiscus L.

La specie Juniperus oxycedrus L. subsp. macrocarpa è una pianta arbustiva a portamento prostrato o eretto, sempreverde, molto ramosa e con chioma ampia. Può raggiun-gere l’altezza di 7-10 m.

Ha tante piccole foglie aghiformi, cu-ticolate e pungenti con due righe bian-che che rappresen-tano le file di stomi.

E’ una pianta dioica; i fiori sono piccoli, bianchi e formano dei glomeruli.

Il frutto è un galbulo globoso, di colore verde-glauco che diviene castano-pur-pureo a maturità.

Dal suo fusto si ricava un legno pregiato, scuro e profumato, utiliz-zato per la realizza-zione di mobili, arnesi e suppellet-tili. I galbuli sono utilizzati come ingredienti

Fig. 1.8 Juniperus oxycedrus L. subsp. macrocarpa (Sibth. & Sm.) Neilr

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aromatici nella cottura, in particolare della selvaggina, e fatti macerare come aromatizzanti nell’acquavite e nella grappa.

Il decotto di galbulo maturo viene utilizzato anche per usi cosmetici e nella preparazione di pomate.

A livello medico si attribuiscono ai galbuli del ginepro proprietà diuretiche, digestive e antiasmatiche.

3) Gruppo funzionale delle sclerofille: Phillyrea angustifolia L. Il nome comune della Phillyrea è ilatro sottile.

Le due specie del genere Phillyrea presenti in Italia, e Phillyrea latifolia L., sono state nel tempo in qualche caso attribuite a 3 o 4 specie diverse o riunite in un'unica specie. Molte specie di origine asiatica, attribuite nell'Ottocento a questo genere sono poi

state spostate in altri generi, in particolare nei generi Ligustrum e Olea. Il nome del genere deriva dal greco ‘philyra’, una

parola usata da

Dioscoride e Teofrasto,

forse composta da

‘philos’, amico e ‘hyron’, sciame delle api, infatti la Phillyrea è una buona pianta mellifera.

Il nome della specie deriva invece da latino ‘angustus’, stretto e ‘folium’, foglia, poiché le foglie di questa pianta sono lanceolate e strette.

La specie Phillyrea angustifolia L. è tipica della Macchia Mediterranea e si trova in tutto il bacino occidentale e centrale del Mediterraneo.

In Italia è presente allo stato spontaneo in tutte le regioni italiane che si affacciano sul Mar Tirreno, fino a 600 m di quota.

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E’ una pianta xerofila, vive dunque su terreni difficili e aridi ed è particolarmente adatta ai climi caldi con siccità stagionale. È eliofila e termofila, predilige esposizioni in pieno sole, necessita di almeno alcune ore al giorno di irradiamento solare e non teme il freddo.

La Phillyrea angustifolia è una pianta arbustiva legnosa sclerofilla sempreverde, con portamento cespuglioso molto ramificato, alta da 1 a 3 metri, con corteccia grigiastra e rami giovani glabri o finemente pelosi, numerosi e con internodi molto raccorciati.

E’ una sclerofilla, per cui ha foglie coriacee, semplici, opposte, sempreverdi, color verde scuro, con forma uguale tra di loro, con il margine generalmente liscio e persistenti per 2-3 anni.

I fiori vengono prodotti da marzo a maggio. Sono profumati, dioici, piccoli, bianchi o rosei, raccolti in brevi grappoli posti all'ascella delle foglie e composti da 5-7 fiori con 4 sepali e 4 petali riuniti parzialmente in un breve tubo.

I frutti sono drupe carnose, blu e poi nere a maturazione, vagamente simili alle olive, ma più piccoli, più rotondi e riuniti in grappoli.

La fillirea era utilizzata in passato per le sue proprietà medicinali e diuretiche ed è impiegata oggi nella produzione di miele.

Attualmente viene spesso utilizzata nella realizzazione a scopo ornamentale di giardini con vegetazione di tipo Mediterraneo e per consolidare terreni franosi e scarpate.

Il legno è bruno chiaro e molto resistente, per questo è utilizzato per piccoli lavori artigianali e i suoi giovani polloni sono utilizzati per la creazione di ceste. Come molte altre specie mediterranee, la fillirea si rinnova facilmente per via vegetativa, grazie alla sua elevata capacità pollonifera, dopo il paesaggio del fuoco.

4) Gruppo funzionale delle leguminose: Spartium junceum L. Il nome comune di questa pianta è ginestra odorosa.

La specie Spartium junceum L. è tipica degli ambienti di gariga e di Macchia Mediterranea ed è l'unica specie del genere Spartium.

Questa specie è nativa dell'area del Mediterraneo e tutt’ora è presente nel sud dell'Europa, nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Cresce in zone soleggiate da 0 a 1200 m s.l.m. e predilige i suoli aridi e sabbiosi.

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La ginestra è una pianta appartenente alla famiglia delle Fabaceae, chiamata anche Leguminose o Papilionacee. Il nome Papilionacee deriva dalla forma del fiore che ricorda una farfalla (papilio), con

simmetria bilaterale. La corolla è costituita da un grande petalo superiore, detto vessillo, e da due petali laterali che somigliano alle due ali di una farfalla. I due petali inferiori saldati insieme in basso formano la carena.

Ha un portamento arbustivo, è alta fino a 3 m ed è perenne.

Ha lunghi fusti verdi, cilindrici ed eretti. Ha piccole foglie lanceolate, i fiori sono portati in racemi terminali di colore giallo vivo e i frutti sono dei legumi.

1.4.2 Parametri ecofisiologici per lo studio della vegetazione 1.4.2.1 Efficienza fotosintetica

La fotosintesi è il più importante processo bioenergetico sul nostro pianeta e permette l’esistenza della vita. Avviene nelle piante, nelle alghe, nei licheni e in alcuni gruppi di batteri, fra cui i cianobatteri. Negli organismi fotosintetici aerobici il donatore di elettroni è l’acqua, mentre l’accettore di elettroni è IL NADP+. I prodotti finali della fotosintesi sono l’ossigeno, l’acqua e i carboidrati. Nelle piante l’apparato fotosintetico è situato all’interno dei cloroplasti e il processo viene svolto nelle membrane tilacoidali e nello stroma. La cattura della luce e tutti gli eventi

connessi al trasporto degli elettroni avvengono nella membrana e nello stroma dei tilacoidi (fase luminosa), mentre il ciclo di Calvin-Benson che porta alla formazione di carboidrati (fase oscura) avviene nello

Fig. 1.10 Spartium junceum L.

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stroma.

Nelle piante i cloroplasti sono organelli che si trovano nelle cellule delle foglie e di tutte le altre parti verdi come i giovani fusti. I cloroplasti sono delimitati da una doppia membrana lipoproteica e contengono lo stroma nel quale si trovano i tilacoidi, che possono impilarsi a formare i grana. I tilacoidi sono formati dalle membrane tilacoidali nelle quali sono immersi i pigmenti fotosintetici, le clorofille, i carotenoidi, e quasi tutte le proteine coinvolte nel processo di fotosintesi, come:

1. i complessi pigmento-proteici dei fotosistemi (PSI e PSII) e i relativi complessi delle antenne, chiamati LHCII - Light Harvesting Complex of PSII, adibiti alla cattura della luce;

2. i plastochinoni, il complesso del citocromo (cyt b6f) e la plastocianina che compongono la catena di trasporto degli elettroni;

3. il complesso ATP-sintasi, adibito alla produzione di ATP;

4. il sistema di fotolisi dell’acqua, l’OEC - Oxygen Evolving Complex, associato al PSII.

La fotosintesi è un processo molto complesso che si svolge attraverso numerosi chimica contenuta nei composti organici.

L’energia luminosa che arriva alle foglie è composta da fotoni, i quali vengono assorbiti dalle molecole di clorofilla nelle antenne dei fotosistemi; l’energia di eccitazione è convogliata alle clorofille trappola dei PSI e PSII.

La clorofilla A trappola del PSI è la clorofilla A P700, mentre la clorofilla A trappola del PSII è la clorofilla A P 680 (Munekaga, 2004).

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Nei complessi antenna LCHII sono presenti oltre alle clorofille A, le clorofille B e i carotenoidi, chiamati pigmenti accessori, sempre associati alle proteine.

Le clorofille A trappola, colpite dai fotoni, passano dal loro livello energetico di base ad un livello energetico superiore, o eccitato. In questo stato le clorofille entrano in risonanza, trasmettendo l’energia alle molecole di clorofilla e agli altri pigmenti vicini che incanalano l'energia luminosa verso il centro di reazione. Alla fine, la clorofilla A trappola dell’antenna si de eccita ossidandosi, donando un elettrone ad una molecola accettrice primaria e avviando il trasporto fotosintetico degli elettroni. Quando invece la clorofilla eccitata torna al livello energetico di base riemettendo l’energia assorbita sotto forma di un fotone, si ha il fenomeno della fluorescenza (Ning et al., 1995).

L’evento fotochimico primario, che converte l’energia degli elettroni in energia chimica, è il trasferimento di un elettrone della clorofilla eccitata ad un’altra molecola accettrice, o ad un pigmento accessorio, presente nel centro di reazione (Taiz e Zeiger, 2002).

Dalla clorofilla A trappola del centro di reazione del PSII, l’elettrone viene trasferito in modo molto veloce all’accettore primario di elettroni, la molecola feofitina (Feo), che si riduce, mentre la clorofilla P680 del PSII si ossida perdendo un elettrone (P680+).

Successivamente gli elettroni sono trasferiti ai vari trasportatori di elettroni che si trovano lungo la membrana tilacoidale, i quali si riducono e si ossidano permettendo il trasferimento di un elettrone alla volta: il plastochinone (PQA), il citocromo (cyt b6f) e la plastocianina (PC), che è un trasportatore mobile di elettroni.

Se la velocità con cui le clorofille A trappola assorbono l’energia derivante dai fotoni è maggiore della velocità con cui gli elettroni vengono trasferiti lungo la catena di trasporto, si ha la chiusura del centro di reazione, in quanto il PQA persiste nella sua forma ridotta e non riesce più ad acquisire altri elettroni. La chiusura del centro di reazione costringe le clorofille a de eccitarsi maggiormente attraverso altre vie di de eccitazione, fra cui la fluorescenza. Quando la trasmissione degli elettroni dal plastochinone al citocromo (cyt b6f) riprende, si ha la riapertura del centro di reazione e la diminuzione dell’intensità di fluorescenza.

La molecola di clorofilla ossidata P680+ riacquista un elettrone dalla fotolisi dell’acqua, in particolare, da una tirosina (TyrZ) che fa parte del complesso di evoluzione dell’ossigeno (OEC).

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La fotolisi dell’acqua produce elettroni, protoni H+ e ossigeno O2. Gli elettroni

entrano nel trasporto fotosintetico riducendo la clorofilla A trappola ossidata, P680+, al suo stato basale; i protoni si accumulano nel lume aumentando il gradiente di concentrazione di ioni H+ attraverso la membrana tilacoidale e fornendo in tal modo l’energia per la produzione di ATP attraverso l’ATP-sintasi; l’ossigeno prodotto diffonde al di fuori del cloroplasto.

Analogamente a quanto accade per il PSII, l’energia luminosa assorbita dai pigmenti nelle antenne del PSI, è trasferita al centro di reazione contenente la clorofilla A trappola P700. L’ossidazione della clorofilla P700, dovuta al trasferimento di un elettrone ad un’altra molecola nel centro di reazione, è bilanciata da un elettrone derivante dalla plastocianina ridotta, per far sì che la clorofilla A trappola P700 torni al suo stato basale. La plastocinanina ridotta cede l’elettrone alla clorofilla A P700+ e torna nella forma ossidata, pronta per accettare un altro elettrone dal cyt b6f.

Dalla clorofilla P700, gli elettroni vengono trasferiti lungo una catena di trasportatori, una serie di proteine ferro-zolfo, fino alla ferredossina (Fd), che grazie all’enzima ferredossina NADP+ riduttasi (FNR), riduce il NADP+ a NADPH, prelevando un protone dallo stroma.

La reazione di riduzione del NADP+ può essere così schematizzata: NADP+ + 2e-  H+ + NADPH

Durante tutto il trasporto degli elettroni lungo la membrana tilacoidale, si forma un gradiente protonico fra i due lati della membrana dovuto all’immissione di protoni H+ nel lume, liberati dalla fotolisi dell’acqua (4H+) e dal ciclo dei chinoni (2H+). Questo gradiente è dissipato attraverso l’ATP-sintasi permettendo la produzione di ATP.

La descrizione delle fasi degli eventi bioenergetici, che vanno dalla fotolisi dell’acqua alla riduzione del NADP+, è sintetizzata in un diagramma noto come “Schema Z” (Taiz e Zeiger, 2002).

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1.4.2.2 La fluorescenza come indice dell’efficienza fotosintetica

Nelle piante, la quantità di luce assorbita e la fotosintesi sono correlate da un parametro chiamato resa quantica della fotosintesi, che indica il rapporto tra le moli di CO2 fissate nel Ciclo di Calvin per ogni mole di PAR (radiazione

fotosinteticamente attiva) assorbita.

L’energia luminosa assorbita dalle molecole di clorofilla presenti in una foglia può subire tre destini diversi: essere usata nella fotosintesi, riemessa sottoforma di fluorescenza o dissipata sottoforma di calore (decadimento non radiante). Questi tre processi sono in competizione tra loro, così che qualsiasi aumento dell’efficienza di uno di essi causa una diminuzione degli altri due (Niyogi et al., 2005).

La misurazione dell’entità, o resa, della fluorescenza delle clorofille fornisce informazioni sulle variazioni dell’entità delle reazioni fotochimiche e del decadimento non radiante, proprio perchè la riduzione di tutti gli accettori di elettroni nella catena di trasporto fotosintetico, a valle del PSII, impedisce alle clorofille di de eccitarsi attraverso la fotosintesi e quindi l’energia deve essere dissipata attraverso gli altri due processi.

Dal punto di vista dello studio delle variazioni della fluorescenza, questo processo di decadimento radiante, cioè mediante emissione di fotoni, può essere attenuato (o estinto) attraverso i seguenti processi (o gruppi di processi):

1. Estinzione fotochimica (photochemical quenching, qP): le clorofille trappola dei centri di reazione si de eccitano con la reazione fotochimica. Più gli accettori primari di elettroni si trovano nello stato ridotto, meno possibilità avranno le clorofille trappola, e di conseguenza anche quelle dei complessi antenna, di de eccitarsi attraverso questo processo;

2. Estinzione non fotochimica (non photochemical quenching, NPQ): comprende diversi processi, alcuni noti, come il decadimento non radiante e le transizioni di stato delle antenne, ed altri non completamente definiti, fra i quali diversi tipi di fotodanneggiamento dei fotosistemi. Il processo quantitativamente più rilevante è di solito la dissipazione sottoforma di calore dell’energia di eccitazione delle clorofille, che rappresenta il principale meccanismo di fotoprotezione;

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esso aumenta di entità, con l’aumento del numero dei centri di reazione chiusi.

Al fine di avere dati affidabili sull’efficienza fotosintetica di una pianta, è necessario essere in grado di distinguere i contributi dell’estinzione fotochimica e di quella non fotochimica.

Il procedimento più usato è quello di “spegnere” uno dei due processi, ad esempio la fotosintesi, saturando i fotosistemi e chiudendo tutti i centri di reazione mediante un “flash” di luce saturante, estremamente intenso (intorno alle 5000 µmoli m-2 s-1 di fotoni); esso permette l’annullamento dell’estinzione fotochimica, così che si possa misurare la fluorescenza in presenza solo del quenching non fotochimico e con qP = 0 (Quick e Horton, 1984).

Nelle foglie acclimatate al buio, tutti, o la maggior parte, dei processi responsabili del NPQ sono disattivati. Somministrando il flash saturante a una foglia in queste condizioni, la fluorescenza raggiunge il valore massimo (Fm), poiché non viene estinta dal qP, né dal NPQ. Tuttavia, in presenza di danni all’apparato fotosintetico, NPQ avrà comunque un’azione estinguente più o meno forte sulla fluorescenza, limitandone l’intensità.

In una foglia acclimatata alla luce, le condizioni sono totalmente diverse: sia l’attività fotosintetica (qP), sia NPQ, e in particolare il decadimento non radiante, cioè la de eccitazione mediante emissione di calore, sono attivi ed estinguono la fluorescenza. Quest’ultima, durante un flash saturante non potrà raggiungere il valore massimo Fm delle foglie acclimatate al buio: infatti, anche se durante il flash si azzera qP, i processi di NPQ restano attivi ed estinguono la fluorescenza fotosintetica.

Attraverso l’elaborazione e il confronto dei valori della fluorescenza massima al buio (Fm) e alla luce (Fm’), della fluorescenza emessa dalle clorofille durante il processo fotosintetico (Ft) e della fluorescenza minima (Fo) prodotta nella foglia acclimatata al buio, si ottengono precise informazioni sull’efficienza del PSII e quindi della fotosintesi nel suo complesso (Schreiber, 2004).

1.4.2.3 Regolazione e riparazione dell'apparato fotosintetico

I sistemi fotosintetici delle foglie sono composti in modo tale da assorbire quantità notevoli di energia luminosa per trasformarla in energia chimica. Nel caso in cui l'energia dei fotoni non sia utilizzata in modo sufficiente attraverso

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processo fotochimico, l’energia in eccesso può risultare dannosa per le cellule vegetali che possono subire vari tipi di danni.

L’esposizione delle piante, negli ambienti naturali, ad alti livelli di irradianza causa la riduzione, reversibile, dell’efficienza fotosintetica (fotoinibizione dinamica). Se l’apparato fotosintetico subisce danneggiamenti, con degradazione dei suoi componenti, si parla di fotoinibizione dinamica, se il danno non è grave e la velocità di riparazione permette di evitare conseguenze a lungo termine. Se invece il livello di irradianza è troppo alto e il danno subito ha superato la capacità di autoriparazione, prendono il sopravvento i processi coinvolti nella fotoinibizione cronica e nella fotoossidazione (Melis, 1999). Il PSII è il fotosistema che è maggiormente soggetto a stati di stress e a danneggiamenti dovuti all'eccesso di irradianza (Lichtenthaler e Rinderle, 1988).

Fotoinibizione e fotoossidazione sono condizioni normali a cui le piante, soprattutto quelle adattate alle alte irradianze, sono sottoposte quotidianamente. Il problema però acquisisce un’importanza maggiore se, associato allo stress da alta irradianza, si aggiungono il deficit idrico o le temperature elevate (Adams e Demmig-Adams, 1995). Questo è un serio problema per le specie sempreverdi di ambiente mediterraneo (Werner et al., 1999).

La bassa disponibilità idrica induce nelle foglie una predisposizione alla fotoinibizione; le piante, per ridurre la traspirazione delle foglie, diminuiscono la conduttanza stomatica, che limita l’afflusso di CO2 ai siti di carbossilazione. In

questo modo, la fissazione del carbonio rallenta, cosicché rallenta la rigenerazione dell’accettore finale del trasporto fotosintetico degli elettroni (il NADP+), finché il trasporto stesso si blocca. Complessivamente si riduce l’efficienza fotosintetica della pianta (Björkman e Powles, 1984).

Meccanismi di regolazione e riparazione:

Gli organismi fotosintetici, per evitare o ridurre i danni a livello dei fotosistemi, hanno sviluppato una serie di meccanismi di regolazione e di riparazione:

A. Fotoprotezione:

I carotenoidi, oltre al ruolo di pigmenti accessori nei complessi antenna, sono fondamentali nei fenomeni di fotoprotezione. L'energia delle clorofille nello

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