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Selezione del paziente con ictus ischemico iperacuto da sottoporre al trattamento endovascolare

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Academic year: 2021

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FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA

Corso di Laurea Specialistica in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea

“Selezione del paziente con ictus ischemico iperacuto da sottoporre al trattamento endovascolare”

RELATORE

Chiar.mo Prof. Mirco Cosottini

__________________________________

CANDIDATO Chiara Montanaro

_____________________________

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RIASSUNTO ANALITICO

Lo stroke è una patologia cerebrovascolare conseguente ad uno squilibrio tra la richiesta metabolica e l’apporto sanguigno a carico del tessuto cerebrale e costituisce la seconda causa di morte dopo l’infarto, e la terza causa di disabilità (prima negli anziani), a causa delle sequele neurologiche che provoca I tassi di incidenza a livello mondiale oscillano tra 144 e 373/100.00/anno, con un tasso di mortalità intorno al 15%.

Recentemente è stata dimostrata l’utilità terapeutica della trombectomia meccanica nei pazienti che non si sono o non possono giovarsi della fibrinolisi per via endovenosa purchè la rivascolarizzazione avvenga entro le 6 ore nel circolo anteriore e 12 nel territorio vertebrobasilare.

La selezione del paziente da sottoporre a trattamento intrarterioso avviene tramite neuroimmagini, in particolare attraverso la dimostrazione della trombosi intrarteriosa con angioTC e la preservazione del parenchima cerebrale misurata con criteri radiologici nella TC basale.

Obiettivo

Validare le diverse metodiche TC e TC perfusionali nella selezione e nel potere predittivo dell’outcome nel paziente con ictus ischemico iperacuto da sottoporre al trattamento endovascolare .

Pazienti e metodi

Nel periodo compreso dal 1 gennaio 2017 al 31 luglio 2017 sono stati arruolati 44 pazienti sottoposti a trattamento endovascolare. Il campione è stato analizzato per distribuzione di età; clinica all’esordio(valutato mediante NIHSS e mRS); caratteristiche di neuroimaging (TC basale, AngioTC e TC perfusionale); sede dell’occlusione; tipo di trattamento endovascolare; outcome radiologico (valutato mediante tasso di ricanalizzazione) e outcome clinico (valutato mediante NIHSS e mRS).

I dati di neuroimaging, in particolare la TC basale e la TC perfusionale, sono stati analizzati da due reader esperti e valutati secondo criteri di selezione differenti. Sono stati applicati due criteri di lettura distinti per la valutazione dell’ASPECTS-TC (Alberta Stroke

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Program Early CT Score), il primo secondo le linee guida AHA (ASPECTSaha), il secondo con criteri di inclusione più restrittivi (ASPECTSsg). Per quanto riguarda la valutazione della TC perfusionale è stato attribuito un punteggio ASPECTS al core ischemico sulle mappe di perfusione CBV, ed è stata valutata la presenza di mismatch confrontando le mappe di perfusione CBV ed MTT.

I risultati ottenuti sono stati analizzati per tasso di riproducibilità intra e interosservatore e successivamente le variabili cliniche e radiologiche sono state testate come predittori di outcome clinico e radiologico post trattamento endovascolare.

Risultati e discussione

L’ASPECTSaha, risulta essere altamente riproducibile, ma non altrettanto sensibile nel predire l’outcome terapeutico

ASPECTSsg, e ASPECTSp mostrano una capacità predittiva elevata di outcome, e la loro applicazione potrebbe affinare i criteri di selezione dei pazienti candidabili a trattamento endovascolare. In particolare, l’ASPECTSp si associa ad un elevato tasso di riproducibilità intra e interosservatore, per tale motivo risulta essere la metodica più affidabile nella selezione del paziente.

Conclusione

La selezione dei pazienti nel trattamento endovascolare dello stroke è uno step fondamentale. L’utilizzo dell’ASPECTSaha rimane il metodo più diffuso, sebbene la sua bassa riproducibilità induca a ricercare metodi più accurati, come sembra essere l’ASPECTSp.

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4 Sommario

ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI ... 6

CAPITOLO I: LO STROKE ISCHEMICO ... 10

1.1 -Definizione ... 10

1.2 - Epidemiologia dello stroke... 10

1.3 - Fattori di rischio ... 11

1.4 - Eziologia e patogenesi ... 12

1.4.1 - Patologia dei grossi vasi ... 13

1.4.2 - Patologia dei piccoli vasi ... 13

1.4.3 - Cardioembolismo ... 14

1.4.4 - Altra eziologia ... 15

1.4.5 - Eziologia indeterminata o possibili cause multiple ... 16

1.5 - Clinica ... 16

1.5.1 - Generalità sul circolo cerebrale ... 16

1.5.2 - Occlusione arteria carotide interna ... 17

1.5.3 - Occlusione arteria cerebrale media ... 18

1.5.4 - Occlusione arteria cerebrale anteriore ... 19

1.5.5 - Occlusione arteria corioidea anteriore... 19

1.5.6 - Occlusione arteria vertebrale ... 20

1.5.7 - Occlusione arteria basilare ... 21

1.5.8 - Occlusione arteria cerebrale posteriore ... 22

1.5.9 - Occlusione arteria cerebellare ... 23

1.5.10 - Infarti lacunari ... 24

1.5.11 - Infarti giunzionali ... 25

1.6 – Terapia ... 26

1.6.1 – Il ruolo del 118 ... 26

1.6.2 - Arrivo al DEA (Dipartimento di Emergenza-Accettazione) ... 27

1.6.2 - Fibrinolisi sistemica ... 28

1.6.3 - Trattamento endovascolare ... 30

1.6.4 – Trattamento chirurgico ... 33

CAPITOLO II: DIAGNOSI DI STROKE ISCHEMICO ACUTO ... 34

2.1 - Imaging TC ... 34

2.1.1 - Tomografia computerizzata basale (NCCT – Conventional noncontrast CT) . 34 2.1.2 - CTA (Computed tomography angiography) ... 36

2.1.3 - CTP (Computed Tomography Perfusion) ... 39

2.2 - Risonanza Magnetica (RM) ... 43

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2.2.2 - Magnetic Resonance Angiography (MRA)... 44

2.2.3 - Diffusion Magnetic Resonance (DWI) ... 45

2.2.4 - Perfusion MR (PWI) ... 47

CAPITOLO III: PARTE SPERIMENTALE - SELEZIONE DEL PAZIENTE CON ICTUS ISCHEMICO IPERACUTO DA SOTTOPORRE AL TRATTAMENTO ENDOVASCOLARE ... 49

3.1. - Scopo ... 49

3.2 - Materiali e metodi ... 49

3.2.1 - Selezione dei pazienti ... 49

3.2 - Risultati ... 55 3.2.1 - Il database NRX-AOUP ... 56 3.2.2 – Analisi Statistica ... 70 3.3 - Discussione ... 74 3.3.1 - Considerazioni organizzative ... 74 3.3.2 - Considerazioni cliniche ... 75

3.3.3 - Correlazione dei parametri clinici con l’outcome ... 76

3.4 - Conclusioni ... 78

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6 ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI

ABC: Airways, Breathing, Circulation

ACA: Arteria Cerebrale Anteriore

AchA: Arteria Corioidea Anteriore

ACI: Arteria Carotide Interna

ACM: Arteria Cerebrale Media

AcoA: Arteria Comunicante Anteriore

AcoP: Arteria Comunicante Posteriore

ACP: Arteria Cerebrale Posteriore

ADAPT: A Direct Aspiration First Pass Technique

ADC: Coefficiente Apparente di Diffusione

AHA: American Heart Association

AICA: Arteria Cerebellare Antero-Inferiore

AIF: Arterial Input Function

AOUP: Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana

ASL: Arterial Spin Labeling

ASPECTS: Alberta Stroke Program Early CT Score

ASPECTSaha: ASPECTS valutato secondo le linee guida dell’American Heart Association

ASPECTSsg: ASPECTS valutato secondo le indicazioni dello study group pubblicato su Lancet nel 2000

ASPECTSp: ASPECTS valutato sulle mappe di perfusione

CADASIL: Arteriopatia Cerebrale Autosomica Dominante Con Infarti Subcorticali Ed Encefalopatia

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7 CBF: Cerebral Blood Flow

CBV: Cerebral Blood Volume

ceMRA: Contrast Enhanced Magnetic Resonance Angiography

CIN: Contrast Induced Nephropathy

CTA: Computed Tomography Angiography

CTA-SI: Computed Tomography Angiography Source Image

CTP: Computed Tomography Perfusion

DEA: Dipartimento di Emergenza-Accettazione

DSC: Dinamic Susceptibility Contrast

DTI: Diffusion Tensor Imaging

DWI: Diffusion Weighted Imaging

EPI: Echo-Planar Imaging

FA: Fibrillazione Atriale

FLAIR: Fluid Attenuated Inversion Recovery

FOV: Field Of View

GE: Gradient-Echo

GRE: Gradient Recalled Echo

HHT: Teleangectasia Ereditaria Emorragica

HMCAS: Hyperdense MCA Sign

HU: Unità Hounsfield

ICH: Emorragia Intraparenchimale

MDC: Mezzo Di Contrasto

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8 MPR: Multiplanar Volume Reformat

MRA: Magnetic Resonance Angiography

mRS: Modified Rankin Scale

MTT: Mean Transit Time

NCCT: Conventional Noncontrast CT

NIHSS: National Institutes of Health Stroke Scale

PC: Contrasto Di Fase

PFO: Forame Ovale Pervio

PICA: Arteria Cerebellare Postero-Inferiore

PWI: Perfusion Weighted Imaging

RM: Risonanza Magnetica

ROI: Region Of Interest

r-tPA: Attivatore Tissutale Ricombinante Del Plasminogeno

SAH: Emorragia Subaracnoidea

SCA: Arteria Cerebellare Superiore

SSD: Shaded Surface Display

SWI: Susceptibility Weighted Imaging

TC: Tomografia Computerizzata

TIA: Attacco Ischemico Transitorio

TOAST: Trial Of ORG 10172 in Acute Stroke Treatment

TOF: Time Of Flight

TR: Tempo di Ripetizione

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9 VOF: Venous Outflow Function

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CAPITOLO I: LO STROKE ISCHEMICO

1.1 -Definizione

Lo stroke (o ictus, dal latino “colpo”) è una patologia cerebrovascolare conseguente ad uno squilibrio tra la richiesta metabolica e apporto sanguigno a carico del tessuto cerebrale.

Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, lo stroke è una sindrome caratterizzata dall’improvviso e rapido sviluppo di sintomi e segni riferibili a deficit focale delle funzioni cerebrali senza altra causa apparente se non quella vascolare; la perdita della funzionalità cerebrale può essere globale (pazienti in coma profondo). I sintomi durano più di 24 ore o determinano il decesso (SPREAD 2007) (1).

In base alla patogenesi, si possono distinguere due grandi categorie di stroke: lo stroke ischemico e lo stroke emorragico. Lo stroke ischemico è caratterizzato dall’occlusione su base trombotica o tromboembolica di un vaso cerebro-afferente o intracranico con mancata perfusione del territorio a valle dell’ostruzione stessa.

Lo stroke emorragico, può essere invece causato da un’emorragia intraparenchimale (ICH), o da un’emorragia sub aracnoidea (SAH) (2).

Lo stroke ischemico conclamato deve essere distinto dall’attacco ischemico transitorio (TIA), quest’ultimo consiste in un breve episodio di disfunzione neurologica causata da un’ischemia focale cerebrale o retinica, i cui sintomi clinici hanno tipicamente una durata inferiore ad 1 ora in assenza di un infarto tissutale acuto (3).

TIA ricorrenti possono precedere uno stroke vero e proprio, il rischio è maggiore nelle prime 48 ore, per tale motivo è necessario un accurato inquadramento eziologico e uno stretto follow-up del paziente (4).

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A livello mondiale, lo stroke costituisce la seconda causa di morte dopo l’infarto, e la terza causa di disabilità (prima negli anziani), a causa delle sequele neurologiche che provoca (nel 35% dei pazienti colpiti residua una disabilità grave). I tassi di incidenza a livello mondiale oscillano tra 144 e 373/100.00/anno (5). La situazione Europea si attesta tra i 95 e i 290 casi su 100.000 abitanti per anno, con variazioni geografiche legate a fattori ambientali e genetici, alla differente distribuzione del rischio cardiovascolare, e alle differenti politiche sanitarie dei vari Paesi (6). In Italia, la prevalenza dell’ictus è pari al 6,5%, mentre l’incidenza oscilla tra 144 e 293/100.000/anno (5). Il tipo più frequente è lo stroke ischemico, responsabile dell’80% del totale (con un’incidenza di 114 casi/100.000 abitanti/ anno nel 2013 ed una prevalenza del 4,9%), mentre lo stroke emorragico costituisce circa il 20% dei casi (con un’incidenza di 54 casi/100.000 abitanti/ anno nel 2013 ed una prevalenza dell’1,9%) (5).

La mortalità a livello mondiale si attesta intorno al 15% (1), ed ha subito una riduzione dal 1990 al 2010 del 37% nei paesi ad alto reddito, e del 14% nei paesi a basso e medio reddito (5).

A causa delle frequenti recidive e complicanze in fase post-acuta, la spesa pubblica dedicata allo stroke non si limita all’episodio acuto, ma deve coprire anche i costi di riabilitazione. In particolare si stima che nei primi tre mesi dopo un ictus la spesa sanitaria per l’assistenza ammonti a circa 6.000 euro per paziente, aumentando fino a circa 10.000 euro per paziente nei primi sei mesi (1).

1.3 - Fattori di rischio

Il rischio di stroke ischemico è multifattoriale. L’età rappresenta il fattore più importante con aumento dell’incidenza per gli over 55. Anche la razza ed il sesso incidono, con un rischio maggiore per i soggetti di origine africana ed asiatica, e per i soggetti di sesso maschile (5). L’anamnesi positiva per TIA aumenta il rischio di stroke, che è maggiore nelle prime 24 ore, ma può perdurare fino ad un anno (7). Inoltre, fattori genetici che predispongano a malattie cardiovascolari devono essere presi in considerazione.

Alcuni dei fattori di rischio per stroke possono essere bersaglio di una prevenzione primaria mirata. In particolare, determinano un importante aumento del rischio alcune

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abitudini voluttuarie (come il fumo di sigaretta e l’abuso di stupefacenti), l’ipertensione, la dislipidemia, il diabete e condizioni di ipercoagulabilità. Inoltre, certe patologie cardiache, in particolare alterazioni valvolari, pregressi infarti e anomalie del ritmo (quali la fibrillazione atriale), possono rappresentare fonti emboligene, e causare migrazione di frammenti nei vasi cerebrali (3).

1.4 - Eziologia e patogenesi

Lo stroke ischemico è caratterizzato dall’occlusione di un vaso arterioso cerebro-afferente o intracranico che causa una riduzione della perfusione nel territorio a valle, tale da impedire la funzionalità e la sopravvivenza delle cellule neuronali. Normalmente, il flusso arterioso cerebrale (CBF) si mantiene intorno a 50 mL/100 g tessuto/minuto. Quando il flusso si riduce al di sotto di 18 mL/100 g tessuto/minuto, la funzione cerebrale viene compromessa, tuttavia i neuroni possono sopravvivere per un certo periodo di tempo. Se il CBF si riduce ulteriormente al di sotto di 8 mL/100 g tessuto/minuto la morte neuronale sopraggiunge entro 15 minuti, e si realizza l’infarto vero e proprio (3). Questi cut-off ci permettono di distinguere due diverse zone di sofferenza tissutale: il core ischemico, che rappresenta la zona dell’infarto vero e proprio, in cui i neuroni sono andati incontro a necrosi, e la cui funzione è andata definitivamente perduta; la penombra ischemica è invece una zona “stordita” del parenchima, il danno è prevalentemente funzionale, i neuroni sono ancora vitali, ed un intervento rapido permette di recuperarne l’attività. Tale distinzione è possibile grazie alla presenza di circoli collaterali, che garantiscono una certa perfusione alla periferia del tessuto ischemico (7). È importante considerare che il core e la penombra sono due entità dinamiche, pertanto con il passare del tempo è più probabile che il core si espanda, includendo parte della penombra, e riducendo la quantità di tessuto salvabile. Pertanto, è opportuno che la terapia venga impostata ed eseguita nel più breve tempo possibile (8).

Le cause che portano alla riduzione di perfusione del tessuto cerebrale sono molteplici, e la ricerca di una classificazione che le comprenda tutte è stata ed è tutt’ora oggetto di studio. Uno dei metodi più utilizzati in questo senso è la classificazione TOAST (Trial of ORG 10172 in Acute Stroke Treatment), che suddivide lo stroke ischemico, sulla base dell’eziologia, in cinque grandi categorie: 1) patologia dei grossi vasi; 2) patologia dei

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piccoli vasi (o infarti lacunari); 3) cardioembolismo; 4) altra eziologia; 5) eziologia non determinata o molteplici eziologie possibili (9).

1.4.1 - Patologia dei grossi vasi

La patologia dei grossi vasi è responsabile di circa il 13% degli stroke di prima insorgenza. Il primum movens è l’apposizione di una placca aterosclerotica, generalmente complicata, che causa un’occlusione emodinamicamente significativa del vaso. I vasi solitamente colpiti sono la carotide interna, il circolo vertebrobasilare e le loro diramazioni maggiori (arterie cerebrali prossimali). La compromissione dei territori irrorati da questi vasi può non essere completa grazie alla presenza di circoli collaterali provenienti da rami leptomeningeali o dal poligono di Willis (10). Oltre ad avere un effetto stenotico, la placca ateromasica si può complicare con una sovrapposizione trombotica, causando un’interruzione completa della perfusione a valle. Inoltre, un trombo che si frammenti, o un’ulcerazione della placca possono dar luogo ad embolizzazione distale con sviluppo di un infarto nel territorio irrorato da un vaso di minori dimensioni (11). Infine, la placca può causare la dissecazione della parete del vaso, che può anch’essa portare a interruzione del flusso (8).

1.4.2 - Patologia dei piccoli vasi

L’occlusione dei piccoli vasi è responsabile del 25% degli stroke di prima insorgenza. Istologicamente si caratterizza per lesioni arteriolosclerotiche e lipoialinosi della parete del vaso (3). Tali modificazioni sono più evidenti nei soggetti di età avanzata ed ipertesi, ma possono entrare in gioco anche altri fattori, quali l’ipoperfusione, l’aterosclerosi generalizzata, il diabete, e l’ipotensione ortostatica. Il meccanismo aterosclerotico coinvolge per lo più i vasi con diametro maggiore (300-900 micron), provocando infarti di maggiori dimensioni e più frequentemente sintomatici. I vasi di dimensioni minori (meno di 200 micron) sono invece più frequentemente soggetti alla lipoialinosi e alla necrosi fibrinoide, conseguenti al danno cronico da ipertensione severa di lunga durata. In questo caso, si riscontrano per lo più infarti della corona radiata e del

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talamo, di piccole dimensioni, spesso multipli, e generalmente asintomatici, talvolta associati a fenomeni di leucoaraiosi (malacia della sostanza bianca associata a perdita di assoni, demielinizzazione e gliosi) (7). Nell’occlusione dei piccoli vasi sembrano implicati anche altri fattori, tra i quali le vasculiti, microemboli, dissecazione arteriosa, e la trombosi in situ legata a stati ipercoagulativi (9). Anche la meningite cronica infettiva (es. TBC) può causare un’infiammazione perivascolare delle arterie perforanti tale da causarne la compressione e la stenosi (8). Infine, una condizione particolare che si associa a patologia dei piccoli vasi è l’arteriopatia cerebrale autosomica dominante con infarti subcorticali ed encefalopatia (CADASIL) legata a mutazione del gene NOTCH3, che si caratterizza per l’insorgenza in età adulta, frequentemente con stroke o TIA ricorrenti (12).

1.4.3 - Cardioembolismo

In questo caso l’occlusione arteriosa è dovuta ad un embolo di origine cardiaca, e si verifica nel 15-27% dei pazienti al loro primo episodio di ictus, con un picco nei soggetti di età inferiore ai 45 anni (9). Tra le patologie cardiache che possono rendersi responsabili di un ictus embolico, non tutte hanno la stessa predisposizione. Si possono pertanto identificare dei gruppi sulla base della stratificazione del rischio (13). La più frequente causa di ictus cardioembolico (circa il 14%) è rappresentata dalla fibrillazione atriale (FA), ovvero l’attivazione elettrica caotica dell’atrio associata a contrazioni inefficaci, che presenta maggiore frequenza nei pazienti con età superiore agli 80 anni. La presenza di FA viene valutata assieme ad altri fattori (età, sesso, coagulopatie, iperomocisteinemia) nei protocolli di stratificazione del rischio protrombotico, come il CHA2DS2VAsc, il quale valuta la necessità di mettere in atto interventi di prevenzione primaria, come la somministrazione di antiaggreganti piastrinici o anticoagulanti, che possono impedire l’insorgenza dello stroke (14).

Altre cause frequenti di emboli di origine cardiaca sono l’insufficienza cardiaca sinistra e l’infarto del miocardio: in entrambi i casi, la disfunzione del muscolo cardiaco produce una stasi del sangue con formazione di trombi che possono frammentarsi ed embolizzare. La patologia valvolare rappresenta un ulteriore fattore di rischio per la formazione di emboli, sia per l’eventuale presenza di vegetazioni dovute ad endocardite (15), sia in corso di sostituzione protesica, la quale può causare il distacco di frammenti

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calcifici che possono poi migrare fino al circolo cerebrale. Una condizione piuttosto frequente che può associarsi allo sviluppo di un ictus è il forame ovale pervio (PFO). Questa malformazione si risconta in circa il 25% della popolazione adulta, e può essere la causa del cosiddetto “embolismo paradosso”: in questo caso, un embolo di origine venosa, legato ad esempio ad una trombosi venosa profonda, bypassa il circolo polmonare finendo nel circolo sistemico, dove può dare occlusione vascolare a vario livello, incluso il circolo cerebrale (16). Nella sindrome di Osler-Rendu-Weber (teleangectasia ereditaria emorragica, HHT), la formazione di shunt artero-venosi polmonari, può causare embolismo paradosso (17). Rare fonti di emboli di origine cardiaca (meno dell’1%) sono rappresentate dai tumori primitivi del cuore, quali il mixoma ed il fibroelastoma, i quali possono presentare, come prima manifestazione, proprio un ictus ischemico (18).

1.4.4 - Altra eziologia

Nel 2% dei pazienti al primo episodio di ictus in cui sono state escluse le cause sopra menzionate, lo stroke deve essere dovuto ad altra patologia (9). Un esempio sono le vasculiti autoimmuni, come l’angioite granulomatosa primitiva del sistema nervoso centrale (PACNS), rara vasculite di causa sconosciuta, che colpisce selettivamente le piccole arterie e vene del sistema nervoso centrale, provocando sclerosi della parete del vaso, con conseguente formazione di trombi, infarti o emorragie (19). Le arteriti gigantocellulari di Horton e di Takayasu possono presentare come prima manifestazione clinica sintomi riconducibili ad uno stroke ischemico (20). Un’altra condizione autoimmune che può associarsi allo sviluppo di ictus è il lupus eritematoso sistemico (LES), che più frequentemente può essere causa di microinfarti (21). Causa rara di stroke è la Moya-moya, un disordine cerebrovascolare di eziologia sconosciuta, che provoca una progressiva stenosi e/o occlusione della porzione distale della carotide interna e del poligono di Willis (22). L’ictus ischemico può anche insorgere come complicanza di un’emorragia subaracnoidea, generalmente tra i 7 e i 10 giorni dopo l’evento acuto. In questo caso è legata all’associazione di diversi fattori, tra cui lo sviluppo di un vasospasmo, l’insufficienza del microcircolo e la povertà di circoli collaterali. Si può far fronte a questa situazione cercando di migliorare la perfusione cerebrale, attraverso il mantenimento di una condizione di euvolemia (23). Studi epidemiologici hanno inoltre

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dimostrato che la cefalea con aura si associa ad un significativo incremento del rischio di sviluppare uno stroke ischemico (24). Condizioni sistemiche, come gli stati protrombotici, congeniti (deficit di fattori della coagulazione, iperomocisteinemia) o acquisiti (contraccettivi orali), possono essere coinvolti nello sviluppo di un’ischemia (25), potendo causare trombosi in sedi inusuali, quali i seni venosi della dura madre (26). Infine l’interruzione del flusso sanguigno cerebrale in corso di manovre chirurgiche come l’endoarterectomia può essere responsabile di uno stroke (27).

1.4.5 - Eziologia indeterminata o possibili cause multiple

Il 35% dei pazienti che presentano un primo episodio di stroke rientra in questa categoria: ciò può avvenire o perché non è possibile riuscire a definire una causa, nonostante gli accertamenti eseguiti, o perché lo stroke è stato provocato da un concorso di cause (ad esempio trombosi più embolismo) (9).

1.5 - Clinica

Lo stroke ischemico si può presentare con un corredo sintomatologico multiforme, caratterizzato da un esordio repentino e da un carattere focale. Dato che i diversi vasi che compongono la circolazione cerebrale forniscono dei territori ben precisi, la variabilità delle manifestazioni cliniche è dovuta alla sede e all’estensione dell’infarto.

1.5.1 - Generalità sul circolo cerebrale

Il circolo arterioso cerebrale si compone di due distinti sistemi, anteriore e posteriore, anastomizzati tra loro mediante l’interposizione del poligono di Willis. Il circolo anteriore è formato dalla carotide interna e dai suoi rami, che suppliscono i due terzi anteriori dell’encefalo e l’occhio. Il circolo posteriore è formato dal sistema

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vertebrobasilare, che vascolarizza il rimanente terzo del cervello, il tronco encefalico e parte del midollo spinale.

La carotide interna (ACI) origina dalla biforcazione della carotide comune insieme alla carotide esterna, all’incirca a livello della quarta vertebra cervicale. Da qui si dirige cranialmente fino alla base cranica, nella quale penetra attraverso il foro carotico. Attraversa la rocca petrosa ed il seno cavernoso, poi, dopo aver dato origine all’arteria oftalmica, penetra attraverso la dura madre nello spazio subaracnoideo, e dà origine alle arterie comunicante posteriore (AcoP) e corioidea anteriore (AchA), prima di suddividersi nei suoi rami terminali, le arterie cerebrali anteriore (ACA) e media (ACM), che con le loro diramazioni vascolarizzano i due terzi anteriori della faccia mediale e laterale dell’emisfero, rispettivamente. Le arterie cerebrali anteriori sono anastomizzate tra loro attraverso l’arteria comunicante anteriore (AcoA).

Il circolo posteriore prende origine dalle arterie vertebrali, rami delle succlavie, le quali decorrono nei forami intertrasversari delle prime sei vertebre cervicali prima di perforare la membrana atlanto-occipitale e penetrare nella base cranica attraverso il forame magno. All’interno del cranio, a livello del solco bulbo-pontino, le due arterie vertebrali, dopo aver emesso l’arteria cerebellare postero inferiore (PICA), confluiscono a formare l’arteria basilare, che decorre al davanti del ponte nella cisterna prepontina. Nel suo decorso, l’arteria basilare emette l’arteria cerebellare antero inferiore (AICA), rami perforanti per la vascolarizzazione del ponte e l’arteria cerebellare superiore (SCA), prima di terminare biforcandosi nelle arterie cerebrali posteriori (ACP). Queste ultime vascolarizzano il terzo posteriore degli emisferi cerebrali, e sono messe in comunicazione con il circolo anteriore mediante l’arteria comunicante posteriore (AcoP) (28).

1.5.2 - Occlusione arteria carotide interna

La stenosi della carotide interna può dare effetti diversi in base alla sua localizzazione ed alla presenza di collaterali arteriosi. Nella maggior parte dei casi, la stenosi della carotide non determina una sintomatologia clinica particolarmente grave, grazie all’elevato numero di collaterali, e si manifesta per lo più come TIA dell’arteria oftalmica, manifestandosi come amaurosi fugace, o, più comunemente, dell’arteria

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cerebrale media, con emiparesi o monoparesi controlaterale associata a perdita parziale della sensibilità tattile e termica, ed afasia globale se è coinvolto l’emisfero dominante (29).

Nei casi in cui l’occlusione dell’ACI è completa, con scarsi circoli collaterali, si produce un infarto esteso, che coinvolge i territori dell’ACA e dell’ACM, e si può accompagnare ad un edema massivo (29), e a cefalea, dolore e sindrome di Horner all’occhio omolaterale se l’occlusione è dovuta ad una dissecazione (29).

1.5.3 - Occlusione arteria cerebrale media

L’arteria cerebrale media è uno dei due rami terminali della carotide interna, decorre nella scissura Silviana, vascolarizza con i suoi rami corticali il lobo frontale, parietale e temporale. Subito dopo la sua origine emette dei rami lenticolostriati che vascolarizzano il braccio posteriore della capsula interna, il putamen e parte del caudato e del globus pallidus. Successivamente termina con due o più raramente con tre rami, dai quali prendono origine i rami emisferici destinati alla corteccia (28).

L’occlusione del tronco comune dell’ACM (M1) produce emiparesi ed emideficit sensitivo controlaterali, disartria, deviazione oculare omolaterale ed emianopsia. Se il danno colpisce l’emisfero dominante si associa ad afasia globale, se interessa l’emisfero non dominante compare emineglect controlaterale. Qualora i collaterali corticali siano abbastanza efficienti da garantire una buona perfusione, il danno si manifesta solo a livello dei rami perforanti, causando una sindrome lacunare che si può estrinsecare con deficit motorio puro, o misto sensorimotorio, emiparesi atassica o dysarthria clumsy hand syndrome (30). L’occlusione di una sola delle sue diramazione dà luogo a quadri parziali.

Talvolta, l’occlusione della ACM può manifestarsi come sindrome maligna, caratterizzata da un rapido peggioramento neurologico (in meno di 24 ore) dovuto alla comparsa di edema massivo con ipertensione endocranica e possibili erniazioni. Questo quadro si presenta con cefalea, vomito a getto, papilledema, peggioramento delle funzioni neurologiche e riduzione dei livelli di coscienza. La mortalità di questa sindrome raggiunge l’80% dei pazienti, e la morte sopravviene più spesso a causa di ernianzione transtentoriale (31).

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19 1.5.4 - Occlusione arteria cerebrale anteriore

L’arteria cerebrale anteriore è il secondo ramo terminale della carotide interna. Alla sua origine, emette le arterie lenticolostriate mediali che penetrano nella sostanza perforata anteriore, poi si anastomizza con la controlaterale mediante l’arteria comunicante anteriore, ed emette l’arteria ricorrente di Heubner, che irrora la commissura anteriore, il braccio anteriore della capsula interna e parte del globus pallidus e del nucleo caudato. Infine decorre nel solco interemisferico, emettendo dei rami per la parte inferiore e mediale della corteccia frontale, e per la parte mediale della corteccia parietale (28).

Le occlusioni prossimali dell’ACA (A1) sono generalmente ben tollerate, grazie ai collaterali provenienti dalla controlaterale, condizione che non può verificarsi nel caso di un’origine comune delle due ACA (variante Azygos), in cui l’infarto interesserà le porzioni mediali e anteriori di entrambi gli emisferi, con comparsa di paraplegia, incontinenza, abulia e afasia non fluente (7).

Nel caso in cui i collaterali non siano sufficienti ad impedire l’infarto, si manifesterà un’emiparesi con maggiore interessamento dell’arto inferiore, talvolta associata a deficit sensitivi. Si possono manifestare turbe del comportamento come apatia e abulia (32), incontinenza urinaria, sindrome dell’arto alieno ed aprassia degli arti, nonché labilità emotiva (33), sonnolenza, confusione amnesia e parkinsonismo (34). Il coinvolgimento dell’emisfero sinistro provoca anche afasia transcorticale motoria (35).

1.5.5 - Occlusione arteria corioidea anteriore

L’arteria corioidea anteriore è un ramo terminale della carotide interna che origina dal tratto C7 del sifone carotideo, al di sopra dell’arteria comunicante posteriore. Questa arteria irrora fibre motorie e sensitive del braccio posteriore della capsula interna, parte del globus pallidus, il tratto ottico, il corpo genicolato laterale e le radiazioni ottiche. Termina nel plesso corioideo del corno temporale del ventricolo laterale, dove si anastomizza con l’arteria corioidea posteriore.

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La sua occlusione avviene raramente, ed è caratterizzata da emiplegia ed emi-ipoestesia controlaterali, associate ad emianopsia omonima settoriale (non raggiunge la linea mediana del campo visivo).

Le lesioni dell’emisfero non dominante possono comprendere anche emineglect spaziale sinistro ed aprassia costruttiva, mentre le lesioni dell’emisfero dominante possono presentare lievi disordini della parola e del linguaggio. Tuttavia, non esiste una sindrome clinica univocamente attribuibile all’ostruzione di questa arteria, poiché in molti casi il territorio che perfonde riceve un’irrorazione anche da collaterali circostanti (30).

1.5.6 - Occlusione arteria vertebrale

Il quadro clinico associato all’occlusione di un’arteria vertebrale è piuttosto variabile, dipendendo dalla sede dell’occlusione, dalla pervietà di entrambe le arterie (nel 10% dei soggetti una delle due è dominante, mentre l’altra è atrofica), e dal coinvolgimento o meno dell’arteria cerebellare posteroinferiore (PICA).

L’occlusione dell’arteria vertebrale si associa più spesso a danno midollare che si può estrinsecare come sindrome di Wallenberg o come sindrome di Dejerine.

La sindrome di Wallenberg, o sindrome midollare laterale, si sviluppa quando la PICA viene interessata dall’occlusione, e rappresenta lo stroke più frequente nel tronco encefalico (36). Il danno è a carico dei fasci spinotalamico e trigeminotalamico, e si manifesta con vertigine, emiatassia omolaterale, disartria e sindrome di Horner omolaterale. Possono associarsi disfonia e disartria per paralisi del nono e decimo nervo cranico, ed alterazioni dei movimenti oculari, come nistagmo, lateropulsione e skew deviation (37). Spesso questa sindrome è causa di dolore cronico urente che colpisce l’emivolto omolaterale da solo o assieme agli arti controlaterali (38).

Quando non è coinvolta la PICA, l’occlusione dell’arteria vertebrale può provocare la sindrome di Dejerine, o sindrome midollare mediale, caratterizzata da deficit motori, nistagmo battente in alto, vertigini, sonnolenza e disturbi respiratori, dovuti alla compromissione del controllo sulla muscolatura volontaria, soprattutto quando è coinvolto un territorio esteso, o in caso di stroke bilaterale, o se si manifesta in associazione alla

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sindrome di Wallenberg (36). Raramente si associa paralisi controlaterale del palato e alterazioni della minzione (incontinenza o ritenzione). Questa sindrome si presenta spesso come lesione bilaterale, ed ha una prognosi peggiore rispetto alla Wallenberg (39).

1.5.7 - Occlusione arteria basilare

L’arteria basilare vascolarizza, tramite rami perforanti, il ponte, all’interno del quale sono presenti numerosi nuclei e molteplici fasci nervosi che mettono in comunicazione la corteccia con il midollo spinale. Un esempio sono i fasci corticospinali, corticopontocerebellari e corticobulbari, la cui lesione causa più spesso debolezza dell’arto. A seconda dell’entità del danno, si può assistere ad un danno esclusivamente motorio, ad un’emiparesi atassica, disartria o clumsy hand syndrome (30). Anche il lemnisco spinale ed il tratto spinotalamico possono essere coinvolti, con comparsa di un emideficit sensitivo, la cui estensione è tanto minore quanto più piccolo è il territorio interessato (40). La lesione della regione paramediana del tegmento del ponte produce invece una disfunzione motoria dell’occhio, che può estrinsecarsi come paralisi del sesto nervo cranico (oftalmoplegia internucleare).

Una lesione monolaterale della formazione reticolare pontina paramediana produce paralisi dello sguardo. Se comprende anche il fascicolo longitudinale mediale dello stesso lato, causa paralisi coniugata omolaterale dello sguardo (one and a half syndrome) (41).

Quando invece lo stroke è bilaterale coinvolge di solito i tratti corticospinali, con comparsa di tetraparesi. Un altro sintomo comune è l’atassia o l’incoordinazione motoria, che si osservano negli arti con paresi moderata. Sono comuni anche la disartria e disfagia gravi. Anche se frequenti, le manifestazioni sensitive sono di solito sopravanzate da quelle motorie. Sono frequenti deficit motori oculari per compromissione dell’area tegmentale dorsale, come paralisi dei movimenti orizzontali, bobbing oculare, ptosi e miosi. Se vengono coinvolte le strutture uditive, come l’ottavo nervo cranico, si possono associare tinnito, sordità o allucinazioni uditive. Un segno importante è l’alterazione della coscienza, dovuta all’ischemia tegmentale mediale pontina bilaterale. Si possono anche manifestare alterazioni del comportamento, come riso o pianto patologico. In casi estremi, si verifica la cosiddetta “locked in syndrome”, caratterizzata da tetraplegia e anartria senza perdita di

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coscienza e con mantenimento della motilità oculare (42). La sindrome si può accompagnare a complicanze polmonari, dovute alla compromissione della muscolatura ventilatoria, che spesso portano a morte il paziente (37).

L’occlusione dell’apice della basilare si manifesta con la sindrome omonima, caratterizzata da un danno alle regioni rostrali del tronco encefalico ed alle regioni emisferiche vascolarizzate dai rami della basilare. Tale sindrome si caratterizza per deficit visivi, oculomotori e comportamentali, solitamente senza compromissione motoria, la cui entità varia a seconda dell’estensione del territorio ischemico (43).

1.5.8 - Occlusione arteria cerebrale posteriore

L’ACP vascolarizza il mesencefalo, il talamo, parte dei lobi temporale, parietale e del lobo occipitale. Anche in questo caso avremo sintomi diversi a seconda del territorio colpito. Lo stroke del mesencefalo può dare manifestazione di sé con atassia della marcia, disartria, atassia o paresi di un arto, sintomi sensitivi, paralisi del terzo nervo cranico, o oftalmoplegia internucleare. Lesioni che coinvolgano il peduncolo cerebrale possono invece causare vari tipi di sindromi motorie, anche se in genere è prevalente l’atassia, per il coinvolgimento del tratto corticopontocerebellare e del tratto cerebellorubrotalamico. Se quest’ultimo viene coinvolto bilateralmente si manifesterà atassia bilaterale, con atassia della marcia e disartria. In alcuni pazienti si può manifestare tremore per il coinvolgimento di fibre provenienti dal cervelletto. La paralisi del quarto nervo cranico non si accompagna tanto a questo tipo di lesione, quanto all’occlusione della SCA (30). Quando il danno coinvolge principalmente la corteccia, sono coinvolti i lobi occipitale, temporale posteriore e parietale. Il deficit più frequente è a carico del campo visivo, che si può accompagnare a deficit mnesici ed afasia. Il danno visivo può estrinsecarsi come allucinazioni visive. Neglect visivo, agnosia visiva, prosopagnosia, disnomia per i colori, palinopsia e agnosia per i colori (44).

Quando lo stroke provoca l’occlusione di rami profondi, si assiste alla comparsa di un infarto talamico. Il talamo è irrorato da vasi originati dalle porzioni P1 e P2 dell’ACP: sulla base della vascolarizzazione si possono distinguere dei precisi territori. Il territorio irrorato dalle arterie talamogenicolate comprende il talamo ventrale laterale con i nuclei

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ventrolaterale e ventrale posteriore. Lo stroke in questa zona rappresenta il più frequente tra gli infarti talamici, e si manifesta più di frequente con emideficit sensoriali. Se lo stroke è abbastanza esteso da coinvolgere la capsula interna, può esitare in una sintomatologia mista sensitiva e motoria, e se sono coinvolte anche le fibre cerebellotalamiche si presenta l’emiparesi atassica iperestesica (45). Un infarto nel territorio irrorato dalle arterie tuberotalamiche coinvolge i nuclei ventrale anteriore, ventrale laterale e dorsale mediale, e si manifesta con deficit neuropsicologici: si possono avere fluttuazioni dell’attenzione e compromissione nella formazione della memoria recente. Alcuni pazienti diventano abulici, con calo della spontaneità e ritardo nelle risposte alle domande. Nelle lesioni dal lato sinistro compaiono anche disturbi del linguaggio (46).

Il territorio delle arterie paramediane include i nuclei intralaminari e la maggior parte del nucleo dorsomediale. Questo territorio è frequentemente compromesso nelle occlusioni dell’apice di basilare, e il danno si può manifestare con sonnolenza, fluttuazione dei livelli di coscienza, confusione, agitazione, aggressività ed apatia, cui si associa paralisi verticale dello sguardo, deficit della convergenza, pseudoparalisi del sesto nervo cranico, alterazioni pupillari e ocular tilt reaction dovuti al coinvolgimento del mesencefalo rostrale. È frequente anche una difficoltà nella produzione di nuovi ricordi (47).

Nel caso in cui si occluda l’arteria corioidea posteriore (di norma in concomitanza con qualche altra occlusione), il tessuto infartuato comprende il corpo genicolato laterale, parte del pulvinar, ed i nuclei laterale dorsale e laterale posteriore del talamo. Le manifestazioni preponderanti comprendono deficit visivi, come l’emianopsia omonima, la quadrantopsia e sectoranopsia, ed emideficit sensitivi per il coinvolgimento del nucleo ventrale posteriore (30).

1.5.9 - Occlusione arteria cerebellare

Gli stroke delle arterie cerebellari non sono particolarmente comuni. Gli infarti cerebellari si manifestano più comunemente con sonnolenza e vertigine, che può essere accompagnata da nausea e vomito, e da nistagmo di solito orizzontale. L’edema che accompagna la lesione può causare cefalea, dovuta allo stiramento di strutture che possiedono una innervazione dolorifica, come ad esempio i vasi, che può assumere

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maggiore severità con l’aumento dell’edema o con la trasformazione emorragica del tessuto. Molto frequente è anche la perdita di coordinazione degli arti. Nei pazienti con occlusione della SCA è frequente la presenza di disartria (48).

Se lo stroke coinvolge l’AICA, la sindrome clinica che ne deriva è differente rispetto all’occlusione delle altre arterie cerebellari: i pazienti presentano i comuni sintomi di compromissione cerebellare, accompagnati da tinnito, paralisi omolaterale dei muscoli facciali, perdita dell’udito, perdita della sensibilità trigeminale e sindrome di Horner. Se la lesione coinvolge anche la parte laterale del ponte, si associa emiparesi degli arti controlaterali (49).

1.5.10 - Infarti lacunari

Un infarto lacunare è una cavità ripiena di liquido con diametro inferiore a 1,5 cm (rilevato all’imaging con TC o RM), che rappresenta lo stadio di guarigione di un piccolo infarto situato in profondità, probabilmente dovuto all’occlusione di un singolo ramo perforante (di diametro compreso tra 80 e 800 micron) originato dalle arterie che costituiscono il circolo di Willis o dall’arteria basilare.

Le arterie perforanti più frequentemente coinvolte includono le arterie lenticolostriate (originanti dall’ACM), le talamostriate (originanti dall’ACA), e le perforanti che originano dall’arteria comunicante anteriore (AcoA), pertanto, i territori maggiormente interessati da un infarto lacunare sono generalmente localizzati in profondità nella sostanza bianca degli emisferi cerebrali: i due terzi superiori dei nuclei della base (caudato e putamen), le capsule interna ed esterna, il centro semiovale, il talamo, e le regioni paramediane e laterali del tronco encefalico (soprattutto la regione paramediana del ponte) rappresentano le sedi in cui più spesso si riscontrano evidenze di tale tipo di danno (9).

Spesso gli infarti lacunari decorrono asintomatici, tuttavia in taluni casi il danno ischemico si può verificare in un punto della sostanza bianca in cui si concentrano i fasci di fibre che mettono in comunicazione la corteccia con altre aree del sistema nervoso: in questo caso si può estrinsecare con una sindrome clinica ben caratterizzata, che dipende dalla sede e dall’estensione dell’infarto e può manifestarsi come un’emiparesi motoria pura

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(65%), una sindrome sensorimotoria mista (20%), un’emiparesi atassica (9%), una sindrome sensitiva pura (5%) o una “dysartria – clumsy hand syndrome” (1%) (3). La prognosi di guarigione è migliore rispetto a quella degli stroke ischemici che colpiscono vasi di calibro maggiore (3).

1.5.11 - Infarti giunzionali

Gli infarti giunzionali (o watershed infarctions) si manifestano quando c’è una compromissione di una delle zone che possiedono una vascolarizzazione “di ultimo prato”. Questa consiste nelle diramazioni più piccole dei vasi cerebrali, che irrorano territori in cui la distribuzione dei grossi vasi cerebrali si sovrappone. In queste aree, il flusso sanguigno, il volume, la pressione di perfusione e la frazione di estrazione di ossigeno sono significativamente ridotti, pertanto sono più sensibili ad un insulto ischemico.

Perché si verifichi un infarto giunzionale, è necessario che ci sia una condizione predisponente (in genere l’occlusione di un vaso del sistema carotideo o vertebrobasilare) cui si sovrapponga un evento precipitante (ipoperfusione sistemica, sindromi da furto, ipovolemia) (50). Gli infarti giunzionali possono essere distinti in corticali e profondi, a seconda che siano maggiormente coinvolte strutture superficiali o quelle poste profondamente nell’emisfero.

La sede del danno influenza la clinica. Gli infarti giunzionali anteriori, localizzati nel territorio di sovrapposizione dell’ACA e dell’ACM, si presentano tipicamente con un deficit motorio degli arti controlaterali, con risparmio della muscolatura facciale. Se la lesione è prevalentemente corticale il deficit è maggiore all’arto superiore, e da luogo alla “man in the barrel syndrome” quando si verifica bilateralmente. Una lesione profonda coinvolge maggiormente l’arto inferiore, manifestandosi come sindrome pseudospinale se il danno è bilaterale. Anche l’emisfero colpito influisce: se è il sinistro, si accompagna afasia transcorticale motoria, mentre il destro si associa a disturbi dell’umore, come apatia o euforia (51).

Gli infarti giunzionali posteriori, localizzati tra l’ACM e l’ACP, si manifestano invece con deficit campimetrici, quadrantopsia inferiore omonima o emianopsia per compromissione delle radiazioni ottiche. Se la lesione è bilaterale la compromissione

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visiva è più grave, potendo portare a cecità corticale, sindrome di Balint (caratterizzata da simultanagnosia, aprassia ed atassia ottica) ed allucinazioni visive. Se colpisce il lato sinistro si può associare ad afasia di Wernicke o afasia transcorticale sensitiva. I disturbi motori sono generalmente assenti, mentre possono manifestarsi emineglect o anosognosia per l’interruzione delle connessioni tra l’area sensitiva primaria e le aree associative. Se il danno è profondo, la clinica ricalca quella di uno stroke lacunare.

L’infarto giunzionale cerebellare è più raro, ma se si verifica provoca vertigine, sonnolenza e atassia della marcia, mentre un danno simile al tronco encefalico causa un quadro clinico più severo, caratterizzato dalla riduzione dei livelli di vigilanza ed altri segni di disfunzione del tronco, come la paralisi dello sguardo (52).

1.6 – Terapia

I costi correlati allo stroke ischemico, sia in termini umani (mortalità e morbidità) che economici sono estremamente elevati, per tale motivo è di primaria importanza una corretta gestione dell’emergenza ischemica nel più breve tempo possibile (53). La precoce risoluzione dell’occlusione consente di limitare l’estensione del tessuto ischemico, la quale correla direttamente con l’outcome clinico (54). Un rapido e mirato planning terapeutico prevede il coinvolgimento di diverse figure professionali sanitarie: personale del 118, medico di PS, neurologo, neuroanestesista e neuroradiologo. Al fine di ottimizzare le tempistiche è fondamentale potenziare un sistema rete-tempo.

1.6.1 – Il ruolo del 118

Il primo soccorso nel paziente con sospetto stroke deve comprendere un’attenta raccolta anamnestica e la stabilizzazione dei parametri clinici. Inoltre è essenziale la comunicazione con il Pronto Soccorso ed un rapido trasporto.

Una volta stabilita la sicurezza della scena, i soccorritori devono valutare l’ABC del paziente (Airways, Breathing, Circulation), ricercare la presenza di segni che possano indicare un trauma, e misurare alcuni parametri vitali come la saturazione di ossigeno, la

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glicemia, e la pressione arteriosa. Inoltre, i soccorritori devono indagare sui tempi di insorgenza della sintomatologia (ultima volta visto sano), ponendo domande sia al paziente che ai familiari o agli eventuali astanti. Allo stesso modo è necessario raccogliere informazioni riguardanti le circostanze che hanno accompagnato l’esordio del sospetto ictus, ad esempio se si è accompagnato ad un trauma o se si è manifestato con convulsioni. Altri elementi che possono aiutare ad inquadrare il paziente comprendono patologie preesistenti (come diabete, epilessia, precedenti ictus, fibrillazione atriale) e la terapia in atto (5).

Queste informazioni consentono di effettuare una valutazione preliminare delle condizioni del paziente, e di poter determinare se è possibile sottoporlo a trattamento fibrinolitico endovenoso o meno. I soccorritori quindi informano la Centrale Operativa del sospetto stroke, in modo che durante il trasporto del paziente, che deve essere più rapido possibile, possano essere allertati gli elementi dell’Unità Neurovascolare, consentendo al paziente un accesso immediato alle metodiche diagnostiche ed alla terapia (55).

1.6.2 - Arrivo al DEA (Dipartimento di Emergenza-Accettazione)

Ogni paziente con sospetto stroke deve essere trattato come un’urgenza, a causa della ristretta finestra temporale in cui può essere somministrata la terapia. All’arrivo al DEA, deve essere eseguita la valutazione primaria, in particolare per quanto riguarda la pervietà delle vie aeree, la respirazione e la valutazione cardiovascolare (ABC), con ripetuti monitoraggi della saturazione di ossigeno (che deve essere mantenuta a valori superiori al 95%) e della frequenza cardiaca.

Devono anche essere opportunamente riconosciuti e corretti eventuali squilibri glicemici: l’ipoglicemia al di sotto di 60 mg/dl può mimare i sintomi di uno stroke, mentre l’iperglicemia si associa ad un outcome peggiore nei pazienti con stroke. La glicemia dev’essere pertanto mantenuta tra 140 e 180 mg/dl (56).

Anche la pressione arteriosa influenza la guarigione: una pressione eccessivamente elevate provoca effetti deleteri a vario livello nel microcircolo, ma un aumento moderato dei valori pressori nelle fasi immediatamente successive all’occlusione cerebrovascolare potrebbe avere un ruolo protettivo nei confronti del tessuto sano, garantendo un’aumentata

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perfusione ai territori della penombra ischemica. Pertanto è utile cercare di mantenere la pressione arteriosa sistolica intorno a valori di 185 mmHg e la diastolica intorno a 105 mmHg (57).

Completate le valutazioni iniziali, è necessario procedere con l’anamnesi e l’esame obiettivo generale. Infine si procede con la valutazione neurologica.

Con l’anamnesi è necessario indagare sui tempi di insorgenza della sintomatologia, cercando di essere quanto più accurati possibile, in quanto questo condiziona la possibilità di somministrare la terapia e conseguentemente l’outcome del paziente. Inoltre è importante raccogliere informazioni su eventuali sintomi di accompagnamento che possano indirizzare su altre patologie che mimano lo stroke (epilessia, trauma, abuso di droghe). Infine, è essenziale conoscere l’eventuale presenza di patologie cardiovascolari e la terapia che il paziente assume, soprattutto per quanto riguarda terapie anticoagulanti.

L’esame obiettivo generale si focalizza sulla valutazione ripetuta dei parametri vitali e sulla ricerca di segni che possano indirizzare verso uno stroke-mimic. È importante in questa fase eseguire un esame obiettivo toracico, che può consentire di sospettare un’eziologia cardioembolica alla base dello stroke. Segue un esame neurologico mirato, che viene eseguito mediante l’utilizzo di scale standardizzate, come la National Institutes of Health Stroke Scale (NIHSS), che consentono di valutare l’entità della compromissione neurologica, la localizzazione del danno, ed il possibile outcome. È utile ripetere nel tempo questo tipo di valutazione per valutare l’eventuale progressione o regressione del deficit neurologico (53).

Infine, il paziente viene inviato agli accertamenti strumentali, ed eventualmente alla terapia.

1.6.2 - Fibrinolisi sistemica

La fibrinolisi è un processo fisiologico mediante il quale la plasmina, derivata dal plasminogeno, degrada il reticolo di fibrina che stabilizza il trombo rosso (formato dalle piastrine). Nel sangue si trova però l’ 2-antiplasmina, che degrada rapidamente le piccole quantità di plasmina che si formano spontaneamente. Per questo motivo, il trattamento

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medico dello stroke ischemico si basa sull’utilizzo di agenti enzimatici che potenziano la conversione del plasminogeno in plasmina attivata, in quantità tali da sopraffare gli effetti dell’α2-antiplasmina (58).

Numerosi studi hanno consentito di valutare l’efficacia di questo tipo di terapia, tanto maggiore quanto più precocemente somministrata. Tuttavia l’effetto terapeutico risulta evidente se i fibrinolitici sono somministrati non oltre le 4,5 ore dall’insorgenza della sintomatologia (59). Storicamente, i farmaci utilizzati in questo tipo di terapia sono tre, streptochinasi, urochinasi e l’attivatore tissutale del plasminogeno ricombinante (r-tPA), i quali condividono il medesimo meccanismo d’azione.

La streptochinasi è un enzima derivato dallo Streptococcus hemoliticus che richiede di essere legato alla plasmina prima di poter esplicare la sua azione: è infatti il complesso streptochinasi-plasmina ad avere attività fibrinolitica. Anche se storicamente è stato il primo ad essere utilizzato, a causa dell’effetto sistemico produce un aumentato rischio di emorragia intracranica, inoltre ha attività antigenica e può provocare reazioni di ipersensibilità. È stato pertanto sostituito da farmaci con maggiore profilo di sicurezza (60).

L’urochinasi è un attivatore glicoproteico del plasminogeno di origine endogena: non produce perciò reazioni da ipersensibilità. Il suo precursore deve essere attivato dalla plasmina mediante una reazione di idrolizzazione, pertanto ha un’attività più specifica a livello del trombo, consentendo un minore effetto proemorragico rispetto alla streptochinasi (58).

L’r-tPA (Alteplase) è una serina proteasi endoteliale con elevata specificità per il trombo, la cui attività è incrementata fino a 400 volte quando si lega alla fibrina. Attualmente rappresenta il gold standard della terapia endovenosa, risultando sicuro ed efficace alla dose di <0,95 mg pro chilo. il farmaco ha dimostrato una buona efficacia se viene somministrato in un periodo finestra compreso tra le 3 e le 4,5 ore dall’esordio dei sintomi (61).

Oltre al criterio temporale, per poter somministrare la terapia endovenosa bisogna tener conto di ulteriori parametri, tra i quali l’età (superiore ai 18 anni ed inferiore agli 80), l’assenza di emorragie in atto o recenti (per esempio parto nei 30 giorni precedenti, o puntura venosa o arteriosa nei 10 giorni precedenti) o di fattori di rischio emorragici

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(diatesi emorragica, uso di anticoagulanti, patologie d’organo ad elevato rischio di sanguinamento). Bisogna inoltre considerare i valori pressori e glicemici.

La più comune reazione avversa a questo tipo di terapia è l’emorragia intracranica. Si possono anche manifestare sanguinamenti sistemici, rottura del miocardio se i fibrinolitici sono somministrati a breve distanza da un infarto miocardico (meno di sei settimane), e reazioni come l’anafilassi e l’angioedema, anche se rari (56).

1.6.3 - Trattamento endovascolare

La terapia fibrinolitica endovenosa somministrata entro le 4,5 ore dall’esordio dei sintomi ha dimostrato una notevole efficacia nel prevenire l’estensione dell’area infartuata e nel consentire il recupero funzionale dell’area lesa. Tuttavia un buon numero di pazienti si presenta al DEA più tardi rispetto al cut-off temporale necessario per trarre un qualche beneficio dalla fibrinolisi, e molti presentano comunque delle controindicazioni alla terapia sistemica. Inoltre, spesso l’r-tPA non è efficace nella disostruzione di trombi che colpiscono i grossi vasi cerebroafferenti nel loro tratto prossimale (59).

Per questo motivo sono state sviluppate tecniche intraarteriose basate sull’utilizzo di device che disgreghino, aspirino o recuperino il trombo o l’embolo che hanno causato l’occlusione, ripristinando pertanto il flusso di sangue all’encefalo (54).

Il trattamento endovascolare può consistere nella somministrazione locale di un agente fibrinolitico (come lo stesso r-tPA) o nella rimozione meccanica di un trombo. Nel primo caso, prende il nome di trombolisi chimica, e consiste nell’inserimento di un microcatetere per via arteriosa, che raggiunga la sede del trombo. A questo punto si esegue un’angiografia per verificare la sede del trombo, e si perfora delicatamente il trombo con il microcatetere. Una volta superato il trombo, inizia l’infusione di trombolitici (es. urochinasi) durante la quale il microcaterere viene retratto. La procedura viene ripetuta alcune volte, e generalmente il trombo si dissolve in circa 90 minuti, tempo che dipende dall’età del paziente e dalle caratteristiche istologiche del trombo stesso (i trombi di recente genesi sono più sensibili alla trombolisi chimica, gli emboli invece sono più resistenti).

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Questo tipo di approccio ha diversi svantaggi: in primis, la lisi del trombo può provocare embolizzazioni a distanza che richiedono di riposizionare il catetere e ripetere la procedura in vasi di dimensioni minori; il microcatetere può causare perforazione o dissecazione dei vasi che attraversa; la dissoluzione del trombo richiede un tempo piuttosto lungo, con il rischio di ridurre la penombra ed i fibrinolitici aumentano localmente il rischio emorragico (62).

Inoltre non tutte le occlusioni possono essere risolte con i farmaci, ed è qui che entra in gioco la trombolisi meccanica. Questa presenta alcuni vantaggi rispetto alla trombolisi chimica, ad esempio riduce notevolmente il rischio di emorragia, poiché può essere utilizzata in sostituzione dei fibrinolitici, inoltre è in grado di rimuovere il materiale tromboembolico che non viene lisato dai farmaci.

Queste tecniche possiedono tuttavia degli svantaggi, che consistono innanzitutto nella loro complessità, nella possibilità di danno ai vasi, come perforazioni e dissecazioni, e frammentazione del trombo con embolizzazione distale.

La terapia endovascolare ha molti vantaggi: raggiunge con precisione la sede di occlusione, consentendo l’utilizzo di una dose minore di fibrinolitico a fronte di una concentrazione locale del farmaco maggiore; inoltre in questo modo il farmaco deve essere somministrato solo finchè perdura l’occlusione, esponendo il paziente a minori effetti avversi, e consentendo l’estensione della finestra terapeutica fino a 6 ore per occlusioni del circolo anteriore e fino a 12 ore per occlusioni dell’arteria basilare dall’esordio dei sintomi (62); la ricanalizzazione è ottenuta in un numero elevato di pazienti e il ripristino del flusso migliora l’outcome neurologico. Il trattamento può essere utilizzato in pazienti non elegibili per la fibrinolisi sistemica (trombolisi primaria), ma può anche essere effettuato in maniera concomitante alla terapia endovenosa, o come trattamento di salvataggio (rescue) nei pazienti in cui la fibrinolisi da sola non abbia ottenuto i risultati sperati (trombolisi secondaria). A fronte di tali vantaggi, l’approccio intraarterioso ha però delle limitazioni: dev’essere somministrato da personale qualificato ed esperto e si avvale di tecnologie costose e reperibili in pochi centri specializzati, il che implica costi aggiuntivi, in termini economici e di tempo, per consentire lo spostamento di un paziente dal presidio ospedaliero più vicino a quello che può fornire questo tipo di trattamento (63).

Nonostante la maggiore flessibilità di utilizzo, anche in questo caso esistono dei criteri ben definiti per poter avere accesso a tale terapia: il paziente deve avere un’età

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compresa tra 18 e 85 anni, diagnosi clinica di ictus, ed i reperti TC devono documentare presenza di occlusione di un grosso vaso intracranico (tratto terminale dell’arteria carotide interna, tratto M1/M2 dell’arteria cerebrale media e arteria basilare) all’angio-TC e l’assenza di segni di emorragia o di coinvolgimento ischemico esteso (valutato con ipodensità della media o ASPECT score, vd. Capitolo 2). Bisogna inoltre valutare la performance neurologica del paziente, poichè soggetti con gravi deficit neurologici, grave compromissione dello stato di coscienza (coma) e per cui i dati a disposizione non fanno prevedere in recupero della funzione, non traggono alcun beneficio dalla riperfusione intraarteriosa, e vengono pertanto esclusi (64).

La trombolisi meccanica si basa sull’uso di device che permettono la frammentazione del trombo mediante diverse tecniche e la successiva aspirazione e rimozione dei frammenti prodotti.

Le due principali tecniche su cui si basa la trombolisi meccanica prevedono l’utilizzo di stent retrievers o di cateteri da aspirazione distale.

Gli stent retrievers sono stent autoespandibili che vengono inseriti con un microcatetere mediante accesso femorale fino a raggiungere e superare il trombo. Raggiunta la sede dell’occlusione, lo stent viene espanso, e cattura il trombo, consentendo un’immediata ripresa del flusso di sangue all’interno del vaso. Il device viene quindi lasciato in posizione per qualche minuto, per assicurare la corretta cattura del coagulo e l’effettiva riperfusione, poi viene gonfiato un catetere a palloncino che blocca il flusso di sangue anterogrado, consentendo il recupero, mediante il catetere guida, del device e del materiale in esso intrappolato (65).

Questa tecnica risulta essere particolarmente maneggevole ed efficace, tuttavia può dare luogo a frammentazione del trombo e a lesioni dell’endotelio, e la necessità di ricorrere al palloncino per consentire il recupero dello stent provoca un blocco del flusso sanguigno che può esacerbare gli effetti dell’ischemia a valle. Inoltre non è adatto a tutti i tipi di trombo, in quanto risulta più efficace quando essi siano costituiti per la maggior parte da fibrina, pertanto il tasso di riperfusione non copre il 100% dei pazienti.

Per questo motivo, sono state ricercate nuove tecniche di riperfusione meccanica: la tromboaspirazione ha dato risultati promettenti (ADAPT, a direct aspiration first pass technique for the endovascular treatment of stroke). In questo caso, un catetere da

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aspirazione distale viene posizionato in un vaso di grosso calibro, il più vicino possibile alla sede dell’occlusione, poi il trombo viene superato con un microcatetere ed una guida, in modo da fornire un supporto stabile all’avanzamento del catetere da aspirazione, che viene così portato in contatto con il materiale da rimuovere (66). Rispetto allo stent retriever, questa tecnica ha un minor rischio di embolizzazioni periprocedurali e lesioni endoteliali. Inoltre, nel caso in cui la tromboaspirazione fallisca, il catetere può essere utilizzato per introdurre uno stent retriever o altri device aggiuntivi, e presenta pertanto notevole versatilità (67). Tuttavia, i cateteri che vengono utilizzati hanno un calibro troppo grande per le occlusioni di vasi di dimensioni minori, e questa metodica è tutt’ora oggetto di studi.

Talvolta, nelle situazioni in cui il vaso tenda alla riocclusione, può essere necessario ricorrere all’angioplastica con il posizionamento di uno stent che mantenga il lume pervio (56).

1.6.4 – Trattamento chirurgico

In alcuni casi, gli atti terapeutici sopra esposti hanno scarsa o nulla efficacia, ed è pertanto necessario ricorrere alla chirurgia open.

In particolare, negli infarti estesi (come la sindrome maligna dell’ACM e gli infarti cerebellari bilaterali) l’edema può essere tale da produrre una lesione occupante spazio, che conduce invariabilmente allo sviluppo di ipertensione endocranica. Quest’ultima, oltre ad essere possibile causa della formazione di ernie cerebrali, rappresenta un ostacolo all’afflusso di sangue all’encefalo, e porta allo sviluppo di un’ischemia generalizzata con grave compromissione neurologica ed exitus del paziente. Per far fronte a questa situazione è necessario ricorrere ad un intervento di emicraniectomia decompressiva, che si pone come obiettivo la riduzione della pressione intracranica per consentire il ripristino del flusso cerebrale e la riperfusione della penombra ischemica, consentendo la sopravvivenza del paziente (68).

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CAPITOLO II: DIAGNOSI DI STROKE ISCHEMICO ACUTO

Lo scopo dell’imaging nello stroke ischemico è di escludere l’eziologia emorragica, valutare la localizzazione dell’occlusione vascolare, e distinguere il core infartuato dalla penombra ischemica, che può beneficiare di una riperfusione.

Possono essere utilizzate a questo scopo sia la tomografia computerizzata (TC) che la risonanza magnetica (RM), a seconda della disponibilità dei macchinari e del personale specializzato. Tuttavia, per la sua facile reperibilità, la rapidità di utilizzo ed il basso costo, la TC è solitamente preferita in un setting d’emergenza.

È essenziale, prima di procedere all’acquisizione delle immagini, aver raccolto informazioni riguardanti la clinica, quali l’esordio dei sintomi, il punteggio NIHSS (indice di compromissione neurologica) ed i dati anamnestici di maggiore importanza (69).

2.1 - Imaging TC

2.1.1 - Tomografia computerizzata basale (NCCT – Conventional noncontrast CT)

La metodica di prima linea nella diagnosi dello stroke ischemico iperacuto (entro 6 ore dall’esordio) è la tomografia computerizzata (TC). Questa metodica permette l’acquisizione di immagini in tempi rapidi ed a basso costo, ed è diffusamente disponibile nei presidi ospedalieri (70).

In circa la metà dei pazienti, l’ictus all’esordio non presenta segni visibili alla TC. Quando però tali segni sono presenti, uno dei più frequentemente valutabili è l’ipodensità del tessuto. Non sempre si assiste ad una franca riduzione della densità: talvolta, soprattutto precocemente, è frequente che si abbia piuttosto una riduzione della differenza di densità tra sostanza bianca e grigia, nelle circonvoluzioni corticali, o nei nuclei della base, o a livello dell’insula (insular ribbon sign). Ciò è probabilmente dovuto all’edema citotossico, causato dall’acidosi lattica e dalla disfunzione delle pompe di membrana dovuta al deficit di ATP. Questo provoca una ridistribuzione dell’acqua tra i compartimenti intra- ed extracellulare troppo limitata per produrre una netta alterazione della densità .

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