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DUE REPUBBLICHE: LUCCA FRA OLIGARCHIA ARISTOCRATICA E DEMOCRAZIA GIACOBINA (1789-1803)

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Dipartimento di Civiltà e forme del sapere

ANNO ACCADEMICO 2016/17

Tesi di Laurea Magistrale in Storia

DUE REPUBBLICHE: LUCCA FRA OLIGARCHIA ARISTOCRATICA E DEMOCRAZIA GIACOBINA

(1789-1803)

Relatore:

Chiar.mo Prof. Luca BALDISSARA

Controrelatore: Dott. Matteo Giuli

Candidato: Alessandro GIANNINI

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2 INDICE

1. Introduzione p. 3

2. La repubblica di Lucca a fine XVIII secolo 6

3. L’arrivo dei Francesi 17

4. La Repubblica Democratica e le sue vicissitudini 25

5. Il destino di uno Stato cittadino 33

6. La ricerca di Archivio 37

7. Conclusioni 52

8. Appendice documentaria 53

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3 1. Introduzione

“Gli Ateniesi e i Romani erano liberi, vale a dire che erano degli Stati liberi.

Non che ogni individuo avesse la libertà di resistere al proprio rappresentante; ma il loro rappresentante aveva la libertà di resistere a un altro popolo o di aggredirlo. Ai giorni nostri, sulle torri della città di Lucca, è scritta a grandi caratteri la parola Libertas; ciononostante nessuno può inferirne che un individuo goda qui di maggior libertà, o esenzione dal servire lo Stato, che a Costantinopoli. Che uno Stato sia monarchico o popolare, la libertà è sempre la stessa.”1.

Questa citazione introduce in modo appropriato l’oggetto di questa tesi di laurea magistrale. Sottolinea il diverso significato, rispetto all’oggi, che la parola “libertà” aveva nell’epoca dell’antico regime, quando serviva unicamente ad indicare l’indipendenza dello Stato.2 Non significava

assolutamente che le repubbliche si basassero sui quei principi di libertà, uguaglianza e diritti di tutti i cittadini che dovrebbero stare alla base dell’odierna democrazia liberale.

Il caso della Repubblica di Lucca è, da questo punto di vista, emblematico. Lo Stato lucchese del XVIII secolo (assieme alle altre due oligarchie italiane, Genova e Venezia) era infatti ancora dominato da una ristretta aristocrazia che deteneva in modo esclusivo il potere politico, escludendo da esso completamente la stragrande maggioranza della popolazione, non soltanto di fatto ma anche di diritto.

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1 HOBBES, Leviatano, trad. di Agostino Lupoli, Laterza 2011

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La Repubblica lucchese, dunque, è un modello di “repubblica” che si pone in totale antitesi con i progetti ed i fermenti “repubblicani” dell’Illuminismo. O almeno, con le sue componenti più radicali3, che troveranno le loro aspirazioni realizzate nella Repubblica francese nata dalla Rivoluzione. In questa tesi si tratterà per l’appunto dell’incontro tra due concezioni repubblicane radicalmente diverse, anzi del tutto opposte tra loro, per origine storica, principi fondanti e finalità sociali ed economiche. Da un lato troveremo la Repubblica Francese, Stato-nazione nato dalla Rivoluzione, che si espande in Europa agitando come sua bandiera il principio dei diritti e dell’uguaglianza di tutti i cittadini al di là delle appartenenze familiari e di sangue: principio funzionale alla nascente classe borghese per affermare il proprio dominio sociale ed economico di contro ai residui della vecchia aristocrazia e del suo mondo; dall’altro troveremo un ristretto gruppo di famiglie nobili, che dominano all’interno del loro piccolo Stato cittadino, dove la “libertas” repubblicana è un privilegio del “sangue” esattamente come lo era il potere sociale e politico dei nobili francesi prima della Rivoluzione.

In questo senso lo Stato cittadino di Lucca si rivela essere, paradossalmente, uno degli ultimi, e per certi aspetti più coerenti, rappresentanti di quel vecchio mondo di “antico regime” che perfino nelle monarchie assolutiste europee si era aperto a quel vento di novità e di riforma rappresentato dall’Illuminismo.

Lo spirito delle monarchie illuminate settecentesche è infatti quello del far emergere (a loro modo, e con tutti i limiti, anche macroscopici, del caso) la sostanziale “uguaglianza” dei sudditi, tutti teoricamente sottoposti (senza più i vecchi privilegi e distinzioni di tipo feudale) all’autorità di un unico monarca assoluto concepito come benevola guida governante dell’intera società.

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3 Infatti il repubblicanesimo “illuminista” settecentesco è lungi, a ben vedere, dall’essere tutto “di tipo moderno”. Per

Montesquieu, ad esempio, la “divisione dei poteri” è, di fatto, la spartizione di potere fra la monarchia e il parlamento medievale di Parigi. Lo stesso Rousseau scrisse una costituzione per la feudale e aristocratica Polonia.

La Rivoluzione francese, da questo punto di vista “teorico”, si limita a sostituire alla sovranità personale del Re, la sovranità popolare del Terzo

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stato, ovvero della Nazione. Questa sostituzione è, beninteso, una svolta sostanziale: nelle monarchie illuminate abbiamo infatti la prosecuzione dell’antico regime in forma “modernizzata” dal punto di vista soprattutto ideologico. Il potere di fatto dei nobili (e quello del clero) non viene in realtà mai meno, ma viene semplicemente limitato o, meglio dire, sottoposto alla suprema e indiscutibile guida di colui che da una teoria antica risalente al Medioevo è la fonte e la legittimazione di tutto il potere e i privilegi clericali e nobiliari: il Monarca.

Con la Rivoluzione francese abbiamo invece il crollo e l’abbattimento di una vecchia struttura sociale, economica e politica, che è sostituita da quella nuova che sta sorgendo in Europa: la struttura capitalistica, al cui vertice si pone la borghesia, nuova classe dominante.

A Lucca invece ci troviamo di fronte a un ceto dirigente che, in apparente continuità con l’antica tradizione comunale italiana, governa direttamente le classi subordinate senza il tramite di una superiore autorità regia, oppure di una struttura politico-ideologica “democratica” e “nazionale”. Infatti in questa città tale struttura politico-ideologica sembra coincidere pienamente (senza nessun altro “abbellimento” che i doveri e le consolazioni dell’ideologia religiosa tradizionale) con quella che è la struttura socio-economica: chi domina la società, domina anche automaticamente di diritto anche la sfera politica.

La costituzione politica dello Stato lucchese è in realtà frutto dei grandi mutamenti verificatisi nella penisola al passaggio dal Medioevo e l’età moderna. Infatti l’ordinamento rigidamente oligarchico della città risale solamente al Cinquecento e giunge quindi solo al termine di un processo storico che ha avuto origine nel seno della stessa borghesia mercantile medievale trasformatasi in una aristocrazia privilegiata tanto quanto (e forse più) quella dei grandi regni europei dell’antico regime.

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6 2. Lucca alla fine del secolo XVIII

La città di Lucca fu fondata nel 180 a.C. circa4 nel quadro della “pacificazione” dei territori appartenenti all’indomito popolo dei liguri-apuani, che sulle loro montagne avevano resistito a lungo all’avanzata romana.

La colonia assistette nel 56 a.C. all’incontro tra Pompeo, Crasso e Cesare in cui fu prorogato a quest’ultimo il proconsolato delle Gallie per altri cinque anni.

A partire dal IX secolo Lucca divenne la sede dei marchesi Obertenghi di Toscana e la lotta contro di questi per l’autonomia comunale troverà Lucca accomunata alle altre città della regione, quali Pisa, Firenze, Pistoia, Arezzo e Siena.

E’ ignoto l’anno preciso in cui Lucca si costituì “libero comune”: la prima guerra contro la vicina Pisa è attestata per l’anno 1002, il che fa pensare o che il comune fosse già costituito o che l’autorità marchionale fosse già abbastanza debole da non poter impedire all’auto-organizzazione armata dei cittadini lucchesi di far guerra ai loro vicini. Nei successivi secoli Lucca ebbe vicende molto simili a quelle degli altri comuni toscani. Conflitti interni alle famiglie della nobiltà cittadina, scontri tra la città ed i feudatari del contado, conflitto tra il popolo ed i magnati, poi cacciata di questi ultimi e costituzione di un governo popolare basato sulle arti e corporazioni, infine passaggio ad un governo signorile nel corso del Quattrocento, sotto Paolo Guinigi.

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4 Per la storia della città si veda soprattutto l’opera classica di ANTONIO MAZZAROSA, nobile lucchese e l’ormai

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A questo punto, però, la storia di Lucca comincia a divergere da quella delle altre città toscane. Arezzo, Pistoia, Pisa e, per ultima, Siena, cadono l’una dopo l’altra sotto il dominio di Firenze, il cui Stato assume così dimensioni regionali. La sua antica forma repubblicana di tipo comunale è sostituita definitivamente dalla signoria dei Medici. Lucca invece non solo resta indipendente (e lo resterà fino al 1847), ma la signoria di Paolo Guinigi viene rovesciata e sostituita da una restaurazione repubblicana che non sarà effimera come quelle fiorentine del 1494-1513 e 1527-1533.

Lucca conserverà dunque (accomunata in questo dalle già citate Genova e Venezia) un ordinamento politico di origine comunale, ma riadattato (e quindi avente caratteri originali e “moderni”) alla peculiare situazione dell’Italia cinquecentesca. Situazione caratterizzata dalla crisi delle manifatture, causata dalla scoperta dell’America e dal conseguente sviluppo della concorrenza dei paesi atlantici. Gli elementi più agiati e potenti del ceto “borghese” di Lucca dovettero dunque disinvestire parte dei propri capitali dalla manifattura, e riallocarli nella costituzione di grandi patrimoni fondiari. Ciò trasformò la natura di classe del ceto dominante lucchese. I manifatturieri/mercanti medievali si erano di fatto trasformati in aristocratici “feudali” dell’età moderna, sia pure continuanti in parte l’attività mercantile e finanziaria.

Da elemento in origine dinamico e “progressivo”, il ceto dirigente lucchese venne dunque a costituire una roccaforte della conservazione di una società e di una cultura provinciale estremamente retriva per il metro non solo degli esponenti più radicali della Rivoluzione francese ma anche del vicino ed “illuminato” Gran ducato di Toscana.

A Lucca non esiste infatti nessuna traccia nel corso del Settecento di politiche illuminate come quelle portate avanti dal Granduca Leopoldo in Toscana, né troviamo (se non tardivamente) aperture di natura politica del ceto dirigente nei confronti del resto della popolazione, neppure nella forma della cooptazione di emergenti elementi borghesi all’interno dell’aristocrazia. A Lucca non esiste nessuna forma né di nobiltà di toga, né alcuna possibilità per i borghesi di acquisire la nobiltà con denaro. Con la riforma martiniana (così chiamata perché proposta dal Gonfaloniere Ferdinando Martini) del 1556 fu stabilito che soltanto i cittadini lucchesi

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nati da lucchesi potevano accedere al Consiglio generale. Questa norma segnò l’inizio dell’irrigidimento dell’accesso ai pubblici uffici all’interno della repubblica: la nuova classe aristocratica fondiaria non voleva che nuove famiglie borghesi provenienti dal contado (per “Lucchese” si intende infatti colui che è nato dentro le Mura della città) o da altre città potessero insidiare il processo di monopolizzazione del potere nelle loro mani.

Con la legge del “Libro d’Oro” del 1628 si stabilì che potevano essere membri del Consiglio Generale della Repubblica solo ed esclusivamente coloro le cui famiglie ne avessero fatto parte a partire dalla riforma martiniana.

Le politiche mercantiliste delle monarchie europee, privilegiando i mercanti e gli industriali nazionali, segnarono un grave colpo ad una antica presenza mercantile lucchese sulle piazze internazionali (in particolare furono colpiti i mercanti lucchesi di Lione, presenti in questa città da secoli) con il risultato che il processo di “inaristocratimento fondiario” del ceto dirigente lucchese subì un’accelerazione, con conseguente ulteriore peggioramento delle condizioni del commercio e della manifattura lucchesi.

Scopo di questa tesi è, pur nella scarsità della bibliografia, cercare di fotografare gli aspetti economici del dominio dell’aristocrazia lucchese sulla società, nel periodo in cui il mondo di tale aristocrazia si scontrò con e fu “infranto” dalle idee rivoluzionarie portate in città dagli eserciti del generale Bonaparte.

Tale dominio aristocratico è stato finora affrontato da storici locali i quali allineano i loro giudizi a quelli delle loro fonti, con poco o scarso spirito critico (il governo aristocratico lucchese è definito, da storici lucchesi del Novecento! come “benevolo” e “non eccessivamente gravante sui sudditi”. Mentre invece i giacobini son definiti “ladri”, “folli”, “gente che cerca rivolgimenti per il proprio interesse personale”.

Nel XVIII secolo Lucca si trova in una situazione molto particolare. Essa infatti è una città-stato, laddove la maggior parte dei paesi d’Europa sono Stati Nazione, o comunque tendono a essere tali. Lucca è una Repubblica aristocratica, dove la classe dominante dei proprietari fondiari governa direttamente la società senza il tramite un monarca. Questo fa sì che non ci

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siano nella città i tipici conflitti di quest’epoca fra nobiltà e potere monarchico, conflitti pericolosissimi per la stabilità e l’ordinamento politico, dato che da essi partirà la Rivoluzione Francese!

Quindi, si può credere che la piccola Repubblica di Lucca potesse essere più stabile della grande Francia. Questo sembra accertato dal fatto che il Terzo Stato francese trae vantaggi cercando di utilizzare un potere contro un altro, mentre invece i borghesi lucchesi sono tutti parimenti sottomessi all’autorità (si badi bene non giurisdizionale, anche nel caso di contadini affittuari) dell’aristocrazia. Infatti l’aristocrazia domina per così dire “in comune” e non esistono assolutamente diritti feudali. Infatti di diritti feudali ce ne sono di due tipi:

-Diritto di natura ECONOMICA: sfruttamento, per mezzo o di canone o di giornate obbligatorie di lavoro sulle terre del padrone;

-Diritto di natura POLITICA: dominio POLITICO del padrone sui contadini per mezzo del possesso della giurisdizione civile e penale (regalia) su di essi5.

A Lucca, se si eccettua il Feudo della Iura dei Canonici della Cattedrale, non esistono diritti feudali della seconda tipologia: esistono solo quelli della prima categoria, e con la specifica che non esiste la servitù della gleba e non esistono latifondi perché le terre sono disperse, nonostante siano in poche mani6.

Di conseguenza chi scrive respinge le interpretazioni secondo cui sarebbe stata l’ideologia “Moderna” dell’Illuminismo la causa dei cambiamenti economici e sociali tardo- settecenteschi. Ciò equivale, in un certo senso, a

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5 Per approfondire questo genere di problemi si veda Andrea Musi, il feudalesimo nell’età moderna e CHRIS WIKAM

“le società dell’alto medioevo”, nel quale si tratta specificatamente anche di Lucca nel periodo longobardo e si sottolinea la dispersione delle terre.

6 Prima di passare però ai dettagli d’una simile situazione, è necessario fare una premessa metodologica. Gli elementi

economici costituiscono la determinante storiografica principale. Dunque ogni presa di posizione ideologica e politica ha come movente e significato fondante la determinante economica antecedente.

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mettere il carro avanti ai buoi. Tuttavia non vuol dire che gli ideologi illuminati non abbiano avuto un ruolo di guida del movimento: ma il ruolo di guida dell’ideologia non significa che essa sia nata indipendentemente dalla struttura economica. Infatti l’ideologia nasce per determinante economica: e poi, in seguito, diviene essa stessa causa di mutamento socio-economico.

Dunque cercherò di concentrarmi nello studio della storia lucchese di questo periodo, non tanto sulle personalità intellettuali ma soprattutto sugli elementi sociali ed economici fondamentali.)

La borghesia lucchese risulta “numericamente ed economicamente troppo insignificante per costituire una forza attiva nella vita del paese”7.

Le imposte sono basse, i canoni bassi, ma gli scarsi investimenti fondiari, difficoltà di trasporto e divieti di esportazione, unite alla densità di popolazione rendono disastrose le condizioni del contadino lucchese8.

L’industria è poca e concentrata nella città. Solo l’industria della Seta fa eccezione. Nel decennio 1753-62 la seta costituiva l’80,6% delle esportazioni dello Stato. I lavoranti la seta si trovano però di fatto alle dipendenze di un mercante-imprenditore, spesso nobile9.

La concorrenza estera e il protezionismo tendono però a mettere in crisi la manifattura serica lucchese. I telai, 1244 nel 1709, passano a 596 nel 1765 e a 356 nel 179310. La stagnazione è in tutta Europa per quanto riguarda la seta, ma a Lucca è proprio il declino. Concorrenza estera, protezionismo e conflitti interni alle corporazioni la rovinano.

Per dare un’idea chiara della crisi della manifattura della seta lucchese nel XVIII secolo si pensi che l’esportazione annua di seta nel decennio 1702/1711 era di 77.600 libbre, mentre nel decennio 1782/1791 si era di fatto dimezzata a 34.104 libbre. L’unico decennio in controtendenza fu quello 1762/1771, nel quale si passò dalle 37.660 libbre del decennio

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7 GIULIANA SIMONINI, l’arte della seta a Lucca negli ultimi cinquant’anni della repubblica aristocratica, pag. 4.

8 SIMONINI, op.cit.

9 SIMONINI op.cit. pag. 13.

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precedente alle 39.243, che però precipitarono a 34.338 nel decennio successivo11. Considerando che una riforma dell’arte della seta avvenne proprio nel 1770, si può dire che essa sia completamente fallita. Ciononostante è interessante fornirne una breve analisi in quanto da essa emergono gli obiettivi che il governo lucchese si proponeva di raggiungere in campo economico.

Lo scopo di detta riforma era duplice: da un lato aveva la funzione di ridurre la disoccupazione al fine di prevenire il conflitto sociale12. In questo era completamente in linea con la tradizionale politica paternalista dell’aristocrazia lucchese, comune del resto a quella di molti stati di antico regime (si pensi alle norme per evitare le speculazioni sul grano). Contro tale genere di politiche paternalistiche si scagliarono proprio in questo periodo i primi teorici del liberismo, i quali contrapponevano all’intervento “premuroso” dello Stato l’attività del singolo spinta da interessi privati che, stando alla loro visione, avrebbe portato benefici alla collettività maggiori delle tradizionali misure paternalistiche (la famosa “mano invisibile” di Adam Smith).

Dall’altro, si voleva abbassare il costo sul mercato internazionale dei drappi di seta lucchesi. Si riteneva infatti che il principale problema della manifattura serica lucchese fosse proprio il prezzo di vendita sul mercato, senza riconoscere che il basso prezzo è una conseguenza dell’aumento della produttività del lavoro, dunque conseguenza dell’utilizzo di macchinari. A mio modo di vedere, la ragione per cui i nobili lucchesi non comprendevano questo (e quindi proponevano le misure inefficaci esposte più avanti) è dovuto a due ordini di motivi:

• l’utilizzo di nuovi macchinari avrebbe aumentato la disoccupazione; • i nuovi macchinari costavano e sfuggiva l’importanza della nascente

rivoluzione industriale inglese;

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11 SIMONINI pagg.16-17.

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• l’interesse dei nobili coincideva con quello dei mercanti (nella maggior parte dei casi le due figure si identificavano) e quindi, la loro visione tendeva a concentrarsi sugli aspetti commerciali della questione.

Nelle “minute e sostanze per le nuove leggi sopra l’arte della seta”13 si dice:

“la legge conserverà e accrescerà l’esito delle nazionali manifatture se,

riguardo a’bozzoli, procurerà il loro tenue prezzo. Otterrà ciò: primo, se contribuirà a renderne più abbondante il raccolto; secondo, se ne impedirà l’esito dallo Stato; e terzo, se toglierà di mezzo quelle contrattazioni e monopoli che ne possono alterare il loro vero naturale valore.”.

Sembrerebbe un piano economico complessivo, ma subito dopo si dice che “alcuna positiva disposizione non può avere presentemente luogo per

accrescere il prodotto dei bozzoli”, ossia niente si fa per accrescere la

produttività, con le opportune innovazioni tecnologiche nell’industria serica ma si utilizzano misure coercitive al fine di assicurare ai mercanti il monopolio dell’acquisto dell’esportazione dei drappi nello Stato, e per scaricare l’abbassamento del prezzo su manifattori, loro dipendenti e commercianti intermediari. Questi ultimi considerati classe inutile per lo Stato, con il risultato prevedibile di un ulteriore impoverimento del settore serico. Trattasi nei fatti di una ridistribuzione del reddito a vantaggio dei nobili mercanti.

Non a caso era molto diffusa tra i giacobini lucchesi della fine del secolo la speranza di un ritorno all’antico governo popolare guidato dai rappresentanti delle corporazioni dei manifattori. Infatti nel governo oligarchico lucchese le corporazioni (scuola dei testori, arte della lana, Arte della Quoieria e arte dei maniscalchi) erano tutte subordinate all’autorità della Corte dei Mercanti, l’organismo corporativo dominato dai mercanti nobili. Di conseguenza la politica economica dello Stato lucchese e di detta Corte andava sempre nella direzione e negli interessi del capitale commerciale da esportazione a scapito dello sviluppo industriale del territorio.

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Le stesse manifatture erano quindi sottoposte a regolamenti corporativi stabiliti dai mercanti nobili, e “aziende” poste fuori dal sistema corporativo, come le cartiere, erano spesso di proprietà di aristocratici che le affittavano a borghesi traendo quindi da esse una rendita di tipo “parassitario”.

Da rilevare che dai membri della commissione incaricata di stendere la riforma in argomento emersero diverse concezioni economiche. Alcuni sostenevano la necessità di mantenere l’antico protezionismo, nonché l’antico modo di regolare i rapporti tra i settori interni della manifattura e fra questi ed i mercanti; per altri invece bisognava avere il coraggio di compiere aperture nella direzione di una parziale liberalizzazione dei rapporti produttivi (ad esempio si pensava che la libera produzione e vendita dei bachi da seta potesse portare ad abbassarne il prezzo per effetto della concorrenza). Infine il risultato (così come è esposto nel già citato tratto dell’Arnolfini) è di fatto una via di mezzo tra le varie posizioni. In questo “giusto mezzo” si può notare come scrive il Caimani quella tendenza tipicamente lucchese al “rinnovamento in chiave conservatrice” che secondo questo storico caratterizzerebbe la politica e la forma mentis lucchese dal 1500 ai giorni nostri.

Nel 1750, per cercare di affrontare la crisi e “por mente ad altri mezzi, onde poter riparare la desolazione di questo Stato”14 si decise di ristabilire nel

Paese l’Arte della Lana. Gli scopi principali, secondo il Berti erano due15:

evitare l’importazione di panni di lana esteri, che comportava un’uscita di valuta dallo Stato di 12.000 scudi annui, di cui 7.000 per l’importazione dei soli “panni Grossolani di Prato” e dare un respiro alla disoccupazione, grazie al basso livello tecnologico dell’industria della Lana. Si decise di affidare il ripristino dell’Arte per dieci anni a un “Impresario”, cui sarebbe stato concesso un prestito di 8.000 scudi senza interessi, l’uso delle proprietà immobili e degli strumenti di produzione di proprietà dell’Arte, esenzione fiscale verso l’importazione delle materie prime.

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14 A.S.L. arte della lana n 20 Cc 2t-3t, cit. in Marcello Berti “L’esercizio laniero a Lucca” pag.74.

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Unico obbligo richiestogli: il divieto di esportazione delle lane prodotte nello Stato. Non si garantiva però inizialmente all’impresario la proibizione dell’importazione di panni forestieri, tanto che la società che assunse l’incarico pretese che “non si possino sgabellare generi di pannine senza l’intervento dell’impresario della fabbrica, o loro deputato”. Ma il governo dichiarò che avrebbe accettato questo solo se i panni prodotti dell’impresario fossero stati “di buona qualità” e di prezzo uguale a quelli esteri. L’attività dell’impresario, a queste condizioni, iniziò nel 1752 e terminò scaduti i dieci anni nel 1762. Stando al Berti, il profitto fu contenuto ma non trascurabile, il 4% (700-800 scudi annui). Però nessun altra società si presentò e dunque il problema passò “dalla reintroduzione della manifattura” a quello “della sua continuazione”. Si aprì un dibattito: alcuni sostenevano che bisognasse ridurre la somma fornita senza interesse dallo Stato al prossimo impresario da 8.000 a 6.000 scudi, e di fornirne altri 6.000 con l’interesse del 3% (lo stesso concesso ai mercanti di seta). Altri ritenevano invece che lo Stato dovesse versare .8000 senza interesse e 8.000 al 3%. Si noti che nel primo caso la spesa pubblica equivale ai 12.000 scudi che uscivano dallo Stato per l’importazione di panni forestieri negli anni precedenti la reintroduzione dell’Arte a Lucca; nel secondo la supera. Si propose poi di sostituire l’esenzione fiscale sulle materie prime d’entrata con una sovvenzione diretta da parte dello Stato di 200 o 300 scudi. Nella relazione della Balia dell’Arte della Seta del 18 ottobre 1762 emerge un punto di vista interessante. Vi si legge16: “La privativa (n.d.r. ovvero le

concessioni all’impresario) non debba consistere nella facoltà dell’Impresario d’esercitare questa Fabbrica ad esclusione di ogni altro, ma sia lecito a ciascuno di fare quegli esperimenti che più gli parrà, potendosi con ciò darsi luogo di ridurre a perfezione quest’arte”. Ossia, nonostante i privilegi accordati all’impresario, si propone di consentire una forma di concorrenza contro di lui da parte di eventuali altri soggetti manifattori. Questa “tendenza” verso un maggiore liberismo proseguì nella relazione del 24 dicembre, nella quale si propone di abolire completamente il divieto dell’importazione di panni esteri.

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A gennaio 1763 fu proposto che l’Impresario pagasse il dazio d’importazione delle materie prime e di esportazione dei drappi, ma che si mantenesse il divieto di importazione di panni esteri. Ma i “liberisti” ribattono che tali proibizioni sarebbero senza vantaggio per lo Stato, e dannose per le masse povere. Anche se propongono un aggravio del dazio di importazioni dei panni esteri. Insomma, si ondeggia fra il tradizionale protezionismo e caute suggestioni verso le nuove idee liberiste. Il risultato è però una politica contraddittoria, dove si impongono all’Impresario condizioni che rendono meno onerosa la sua attività. Viene poi però introdotta la gestione pubblica, non senza contrasti. I luoghi principali dell’importazione di lana risultano essere Spagna, Maghreb e Levante!17

Nello stesso periodo c’è anche una serie di cartiere, la principale delle quali sembra esser quella di Villa Basilica. Qui all’inizio dell’ottocento esistevano sette cartiere, in genere di proprietà di nobili che le affittavano a borghesi, i più ricchi dei quali, i Pollera, erano una famiglia di artigiani cartari venuta cent’anni prima da Voltri, repubblica di Genova. Sempre nel paese di Villa Basilica, la manifattura della carta impiegava il 17% della popolazione attiva, fra uomini, donne e fanciulli18.

Come si evince dai “terrilogi delle vicarie”19 quasi tutte le terre sono di

proprietà di un aristocratico membro del Consiglio Generale. Però tali terre non sono affatto concentrate: in ogni comune rurale le terre sono ripartite in modo “equo” fra due o più nobili, di conseguenza tutti gli abitanti sono sottoposti ad uno di essi ma, collettivamente, a nessuno. Tanto che il dominio del “collettivo” dei signori si manifesta sotto forma di dominio dello Stato lucchese sopra i comuni rurali e “stato lucchese” equivale a dire “Insieme dei nobili”.

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17 Berti, pag.50. Questo aprirebbe un’interessante riflessione sui rapporti economici fra l’Occidente manifatturiero in “via

di industrializzazione” e i paesi del medio-oriente, legati a un’economia fondamentalmente ancora di tipo agro-pastorale. Ciò si pone però fuori dall’argomento di questa tesi. Per approfondire questo genere di problemi si veda ERIC L. JONES

il miracolo europeo, ambiente, economia e geopolitica nella storia europea e asiatica e OLIVIER

PETRE’-GRENOUILLEAU la tratta degli schiavi, saggio di storia globale).

18 Sabbatini, op.cit. pag. 30. 19 A.S.L. fondo terrilogi, vol. 1.

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Le grandi e grandissime concentrazioni di proprietà sono poche. Per il resto la proprietà è sparsa in virtù di una pratica che mirava più a estendere una “Piccola” influenza su tutto il territorio che una più grande e completa in un solo punto. Ciò serviva anche a impedire guerre civili fra le famiglie, che avrebbero lacerato lo stato: infatti ciascuna non aveva un “territorio” da cui muovere guerra alle altre. Esso ha anche rappresentato un fattore di coesione contro i tentativi d’annessionismo mediceo delle città sviluppati dai signori di Firenze partire dal cinquecento con la complicità, a volte nascosta a volte manifesta dell’Impero (del quale, a rigore, Lucca doveva essere un feudo).

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17 3. L’arrivo dei francesi

Come accennato sopra, l’impatto politico dell’Illuminismo a Lucca fu scarso la mancanza di un potere regio, impedì l’attuazione della pur minima riforma limitante il privilegio aristocratico. Parzialmente diverso fu per quanto riguarda alcuni aspetti scientifici e culturali. Secondo alcune fonti, Lucca sarebbe stata la prima città italiana ad avere una loggia massonica (1726)20, solo otto anni dopo la fondazione a Londra della Gran Loggia d’Inghilterra. Questo però è un argomento sulle quali le fonti sono scarse o nulle, a causa della normale riservatezza delle attività massoniche e della circostanza dell’incendio degli archivi delle logge di Lucca per opera delle squadre fasciste nel 1925. Una possibile presenza massonica riemergerà solo negli anni 1796-99, quando testimonianze riportano che le “riunioni dei giacobini lucchesi” in alcuni casi avvenivano sotto forma di “riunioni di Loggia”. Si può quindi postulare una certa qual influenza massonica, che però, ripetiamo, ebbe poche ricadute politiche almeno fino agli anni della prima discesa del Bonaparte in Italia. Inoltre non ho elementi sufficienti per affermare che le iniziative “culturali” illuministiche dei decenni precedenti implichino una presenza massonica dato che, per quanto riguarda l’intera Europa, il dibattito storico è lungi da aver trovato conclusioni definitive sul rapporto fra Massoneria e Illuminismo.

La principale delle iniziative culturali illuministiche a Lucca fu la stampa della prima edizione italiana dell’“Encyclopedie”. Lucca risultò essere la città adatta per la sua tradizionale indipendenza (malgrado la grande estensione delle terre di proprietà ecclesiastica) dalle intromissioni papali, in tempi più antichi manifestatasi nel divieto all’Inquisizione di accedere al territorio lucchese.

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Un altro ambito che attrasse l’attenzione dei lucchesi fu quella delle recenti teorie nel campo della meteorologia, utilizzate dai nobili lucchesi per meglio pianificare la produzione delle loro aziende agricole.

Quando giunse a Lucca la notizia della Rivoluzione Francese, ciò generò spavento fra i nobili e una certa qual simpatia fra le masse. Sono riportate affermazioni di quel tempo quali “bisognerebbe fare come in Francia”. Presto però, con l’arrivo delle notizie sul Terrore e le persecuzioni anti-religiose, tutti i ceti sociali furono coinvolti in una grande paura. Cominciarono a circolare voci (alimentate, presumibilmente, a bella posta da nobili e clero) secondo cui i francesi erano dei demoni, che volevano sostituire il culto di Dio con quello del demonio, che non avevano nessuna morale e che usassero costringere le “vergini a ballare nude intorno agli Alberi della Libertà”. Solo pochi simpatizzarono per la Rivoluzione. Molti di questi erano, sembra, piccoli artigiani e commercianti. I quali però, lungi dal riunirsi, come si temeva, in “conventicole segrete” si limitavano a esternazioni pubbliche e a “dare consiglio ai contadini di ribellarsi”. Diversi furono denunciati e arrestati ma, accertata la loro bassa pericolosità, tosto rilasciati, a volte in cambio di multe o cauzioni. All’interno della classe aristocratica, una delle poche personalità che in questo periodo (1789-94) è attestata essere simpatizzante per la rivoluzione è Luigi Bambacari. Nato in Piazza Bernardini, era figlio di un nobile “libertino” col vizio del bere, delle donne e del gioco d’azzardo. La sua vita sregolata lo portò a riempirsi di debiti e al suicidio quando Luigi era ancora bambino. Fu allevato in convento, e visse sempre poveramente, in parte perché tutti beni gli erano stati sperperati dal padre; in parte perché finì anch’egli per condurre una vita simile, tanto che morì suicida e pieno di debiti nel 1805. Bambacari teneva un diario che è una delle principali fonti di informazione sul periodo in esame. Nelle sue pagine denunciava l’avidità dei nobili, definiti “coccodrilli della Repubblica”, la loro cattiva amministrazione, la loro conservatrice e reazionaria ristrettezza di vedute. Aspirava vagamente a una sorta di rigenerazione della Nazione Lucchese e invocava qualcosa di simile all’alfieriana “sbastiglizzazione” della città. Benché contrario agli “eccessi” del Terrore, fu sempre simpatizzante della Francia, ricoprendo anche cariche pubbliche dopo la arrivo dei francesi. Bambacari rappresenta dunque un caso di nobile “illuminato”, aperto alle novità, ma non per questo disposto

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a “sporcarsi” le mani nella cospirazione. Se non fosse per il suo diario, nulla mi pare che potremo noi sospettare, dal suo comportamento, che avesse particolari simpatie per la rivoluzione.

Questo dunque deve farsi supporre che, forse, anche altri elementi dell’aristocrazia condividessero simile, prudente, atteggiamento; se è vero che l’aristocrazia lucchese fu opportunisticamente pronta a mettersi, nel periodo napoleonico, sul “carro del vincitore”, può però anche darsi che, almeno per quanto concerne alcuni, le novità non andassero proprio a dispiacere. Considerato poi, come vedremo, che si trattò di novità molto meno importanti che nel resto d’Italia.

Comunque sia, certo la simpatia aristocratica verso la Francia fu sempre in questo periodo minoritaria.

Lo Stato lucchese (non dimentichiamo che era l’espressione del potere collettivo delle famiglie aristocratiche della città) infatti prese subito misure atte a scongiurare, da un lato, il pericolo rivoluzionario interno, da un lato qualsiasi coinvolgimento nella guerra delle Potenze assolutiste contro la Francia. Il timore lucchese era infatti che, in caso di vittoria della Francia, questa avrebbe potuto utilizzare il sostegno lucchese alle Potenze come pretesto per annettersi Lucca. Così i Lucchesi “come gli arlecchini” inaugurarono una politica di non-allineamento internazionale. Politica che però, per essere mantenuta comportava anche dei sacrifici economici. Lucca nulla poté infatti contro le richieste austriache di contribuzione economica alla guerra; e ancor meno contro le analoghe richieste rivoltele, dopo il 1796, dalla Francia. Questa politica però riuscì a mantenere intatta l’indipendenza della città e l’annesso dominio aristocratico fino al 1799, ben oltre l’invasione (1796) dell’Italia da parte dei Francesi.

Questa era una politica, in verità, che Lucca aveva già sperimentato da secoli. Già nel Cinquecento-Seicento era valsa a mantenere la sua indipendenza contro le brame annessionistiche del Granduca di Toscana. La stessa esecuzione del Gonfaloniere Burlamacchi, che avrebbe voluto creare una federazione di repubbliche centro-italiche, era più dovuta al timore che un simile personaggio potesse attirare un invasione medicea,

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piuttosto che da un opposizione “ideologica” ai suoi progetti semi-nazionali21.

Così, Lucca tentò la stessa politica anche a fine Settecento: prima con gli austriaci22 e poi coi i Francesi. Sembra che, ancora in questo periodo, le poderose Mura avessero un qualche ancor piccolo effetto deterrente; ma alla fine la loro conquista fu una delle ragioni della fine della repubblica.

Ma se la politica estera era all’insegna dalla prudenza, della flessibilità e dell’accomodamento, diversa era la situazione per quanto riguarda la politica interna. A partire dal 1794, il governo lucchese cominciò a intensificare la vigilanza e la repressione interna. Spie vennero inserite fra i servi di quelle case dove si simpatizzava per la causa francese. Buona parte dei giacobini lucchesi fu costretta all’esilio23. I luoghi principali furono Massa, annessa nel 1796 alla Repubblica Cisalpina e Livorno, sede dal 1796 di un comando francese, circostanza imposta con la forza al recalcitrante granduca di Toscana.

Un primo complotto contro la Repubblica fu effettuato a Livorno. Fu organizzato da una personalità molto singolare: l’abate Ferloni. Parmense, abitante però a Lucca fin dagli anni della gioventù, egli aveva una concezione molto particolare dei rapporti fra religione e Repubblica Francese.

La cospirazione partì da Livorno e prevedeva che due colonne di esuli, una proveniente da Ripafratta e l’altra dal Passo di Dante convergessero su Lucca, laddove elementi interni avrebbero spalancato le porte. La rivoluzione avrebbe subito proclamato il suo rispetto per la religione, e sarebbe stato subito eletto un parlamento democratico. Ma i congiurati ebbero la malaccortezza di informarne il console francese a Livorno, il quale (essendo la Francia allora in buoni rapporti con la Repubblica di Lucca) ne informò subito gli Anziani, i quali bloccarono le due colonne alla frontiera.

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21 Mancini, pag.112.

22 che minacciarono velatamente la città ricordandole che la sua indipendenza derivava da una concessione feudale, in

linea teorica revocabile, di Carlo IV.

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Un altro tentativo fu fatto da esuli a Massa. Il loro piano era: occupazione di Montignoso, per mettere la Cisalpina di fronte al fatto compiuto e così sostenerli nell’occupazione del resto del territorio. Ma l’occupazione di Montignoso non smosse i Cisalpini, cosicché i congiurati dovettero rientrare a Massa.

Il governo lucchese fu molto severo con i simpatizzanti interni di queste congiure. Furono fatti arresti e processi, molti dei quali finirono con dure pene detentive. Anche se molti furono graziati per timore che le loro esecuzioni fossero usate da pretesto dai Francesi per invadere la città, a simboleggiare la situazione precaria in cui comunque si trovava l’oligarchia lucchese. Infatti sembra da fonti francesi che l’unico motivo per cui Lucca non veniva occupata era semplicemente questo: la Francia guadagnava di più dal denaro che riceveva dai Lucchesi per non essere invasi che da quanto avrebbe potuto ricavare da una dispendiosa occupazione militare.

Di conseguenza il ceto aristocratico lucchese sopravvisse negli anni 1796-99 in questo modo. E sembrava, cessata la guerra in Europa nel 1797 con la pace di Campoformio (restava fra i nemici della Francia l’Inghilterra sul mare), che la situazione dovesse durare. Nonostante il dominio francese in Italia, l’oligarchia lucchese (a differenza della genovese e veneziana) sembrava sopravvissuta. Ma ecco che però sarà proprio da una sconfitta francese nel lontano Egitto la causa principe della sconfitta lucchese.

Bonaparte partì per l’Egitto nel 1798 con l’intenzione di tagliare le linee di comunicazione fra l’Inghilterra e le Indie. Ma la distruzione della flotta francese nella baia di Abukir per opera di Nelson isolò il più abile generale francese in Egitto. Le potenze continentali, bramanti rivincita, ne approfittarono per riprendere le armi contro la Francia. Ed ecco che si formò la Seconda Coalizione.

Ma il re di Napoli, impaziente, si mosse senza attendere gli altri e sbarcò a Livorno. Al che i francesi furono costretti da ragioni strategiche a occupare l’importante snodo strategico e fortezza di Lucca. Così il 28 dicembre 1798 le truppe francesi guidate del generale Serrurier entrarono in città.

Per prima cosa Serrurier pretese una fortissima contribuzione. Dopodiché decise di liberare tutti i prigionieri politici. Quindi chiese al governo

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lucchese di abolire la costituzione martiniana e di restaurare l’antico “governo popolare”. Non potendo far altrimenti, gli Anziani votarono la fine del loro dominio. Furono indette le prime elezioni democratiche della storia lucchese. Qui allora si potrebbe riflettere sulla questione secondo cui, benché poi come vedremo vincerà le elezioni la contro-rivoluzione in modo schiacciante, i contadini “diffidavano dei francesi perché non capivano oppure non capivano perché diffidavano”. Era una situazione molto particolare e piena di multiformi sfaccettature ognuna delle quali, prima di proseguire, deve essere attentamente vagliata.

Come abbiamo già accennato sopra, quando arrivò la notizia della Rivoluzione Francese, e soprattutto del Terrore, sia il Popolo che i Nobili si spaventarono moltissimo: il primo prestava fede cieca alla propaganda clericale e reazionaria che presentava i rivoluzionari, in linea generale, come seguaci di Satana non certo (solo) per creduloneria, ma perché le novità rivoluzionarie provenivano da un mondo sconosciuto e alieno, e dunque minaccioso. Simili sentimenti di diffidenza e paura erano peraltro presenti fra il clero e la nobiltà, e ciò al di là ed oltre il fatto che questi ultimi avessero, concretamente, qualcosa da perdere.

Gli Anziani decisero di reagire alla minaccia rivoluzionaria in due modi. Da un lato, diedero inizio a una repressione sistematica contro i (pochi) simpatizzanti delle idee rivoluzionarie. Dall'altro, si proclamarono assolutamente neutrali nel conflitto fra la Francia e le potenze assolutiste per non dare ai “Giacobini di Francia” nessun pretesto per poter invadere il territorio della Repubblica. Questa politica si dimostrò, in un primo tempo, efficace.

Quando nel 1796 Napoleone dilagò in Italia rovesciando ovunque le antiche aristocrazie e imponendo governi rivoluzionari borghesi, Lucca non fu toccata. Giuseppina, moglie di Napoleone, si recò in visita a Lucca e dichiarò l' "eterna amicizia fra la Repubblica di Francia e la Repubblica di Lucca". Certo, in questo influì anche il fatto che i Lucchesi offrirono al Direttorio Francese una quantità enorme di oro per non essere invasi: sembra che occupare la città sarebbe stato meno conveniente per i francesi, date le spese di occupazione...

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Comunque si stabilì una solida intesa, tanto che la Francia arrivò a sacrificare il democratismo lucchese!

Gli Anziani Lucchesi erano soddisfatti: come si erano salvati, in passato, da Pisani, Fiorentini e Spagnoli, ora l'avevano scampata anche dai terribili "Giacobini Atei". Ma l'illusione durò ancora per poco.

Così si giunse al 28 novembre 1798. I Napoletani sbarcarono a Livorno. Per sbarrare l'avanzata partenopea in Toscana divenne strategicamente necessario ai Francesi occupare il territorio della Repubblica di Lucca. Il 28 dicembre 1798 le forze del generale Serrurier entrarono in città. Le cronache riferiscono che tutte le strade erano deserte e tutti i negozi chiusi: i Lucchesi stavano chiusi in casa, timorosi. Contentissimi furono poi quando gli "atei giacobini" si acquartierarono nelle loro case, mangiando il loro cibo e stando nelle vicinanze delle loro figlie...

L’atteggiamento politico di questo generale nei confronti dei rivoluzionari fu abbastanza moderato. Una delegazione di una ventina di democratici lucchesi si recò infatti dal generale “ad effetto di ottenere la

Democratizzazione, ed avendo avuto in risposta dal detto Generale, che egli non aveva istruzioni per questo effetto, ma che solo avrebbe democratizzato il paese (si noti che è il Generale che ha il potere di “democratizzare” o

meno) quando avesse veduto, che questo fosse stato il desiderio di un gran

numero di persone”24.

Al che i giacobini cercarono di fare delle sottoscrizioni “per mezzo delle

quali poter far presente al Generale che il molto numero desiderava la democratizzazione”. Pur di fare numero, sembra che i giacobini abbiano

detto a molti che “avrebbero avuto impieghi pubblici se avessero sottoscritto”

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24Tutte le citazioni seguenti sono ripotate nella fondamentale opera di GIORGIO TORI, Lucca giacobina, primo governo

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Egli non aveva grandi simpatie per i giacobini, e cercò di trovare una conciliazione fra questi e i nobili.

Entrati i Francesi a Lucca, le varie tendenze politiche cittadine uscirono allo scoperto, organizzandosi della forma del "club", sul modello della Francia rivoluzionaria. I "club" principali erano tre:

- IL CLUB DEGLI "ILLUMINATI". Di tendenza moderata, era popolato da negozianti, mercanti, avvocati, notai, professori,.. Volevano un suffragio censitario (votano solo i borghesi...) e cercava una conciliazione fra la Rivoluzione e il clero. Era il partito del Governo Provvisorio;

-IL CLUB DEI "TERRORISTI". Il più radicale e "giacobino" di tutti. Buona parte dei suoi membri avevano partecipato all'azione contro Montignoso. Essi (perlopiù intellettuali idealisti piccolo-borghesi) invocavano "la ghigliottina, scure della Nazione, per sopprimere tutti i nemici della Libertà" (cioè: ex-nobili, preti e contro-rivoluzionari). Il loro giornale, "La Staffetta del Serchio", fu il primo quotidiano politico della storia lucchese. Dalle sue pagine si denunciavano "le ruberie dei Francesi" e "della nuova aristocrazia lucchese del denaro, che ha semplicemente sostituito quella vecchia di sangue".

Agli occhi del Governo, quel giornale era "irresponsabile, perché incrementa l'avversione del volgo contro il Governo, a tutto vantaggio de'Reazionari”. Fu soppresso per ordine del Governo dopo pochi mesi. -IL CLUB DEI "SAVI". Chiamato dagli altri "Club degli Imbecilli" riuniva "i preti, gli ex-nobili e i più retrivi fra i Negozianti, quelli che amano la loro passata oppressione ed hanno in odio la Libertà".

Alla fine, i francesi furono cacciati da Lucca dagli Austro-Russi, che instaurarono una loro “Reggenza Provvisoria”, fino a che, dopo la Battaglia di Marengo, l’Italia fu riconquistata dai francesi. Ora a Napoleone Primo Console spettava il compito di decidere le sorti della città.

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4. La Repubblica Democratica e le sue vicissitudini

Pertanto dobbiamo considerare adesso la natura del movimento democratico lucchese, alla luce delle testimonianze contemporanee riportate dal TORI. Egli riporta alcune delle deposizioni ai processi anti-giacobini celebrati sotto la Reggenza Austriaca.

“Quelli di massima sono coloro che di cuor guasto e corrotto dalle massime

libertine hanno procurato di tradir la patria per vivere a loro capriccio. Gli altri sono quelli che per parentela, per amicizia, e per bisogno si sono lasciati trasportare al di loro partito, da’primi. Ne metterò ancora una terza specie che chiamerò degli sciocchi, che illusi dalla falsa voce della Libertà e dell’Uguaglianza, hanno abbracciato il Partito de’Patriotti colla lusinga di cangiare stato e fortuna” 25.

Deposizione di Carlo Torcigliani, lavorante al Caffè dei Patrioti:

“si incominciarono a fare delle adunanze di persone fuori dal ceto nobile

che soleva venirvi, e ciò seguì non molti giorni dopo che li francesi erano entrati in questa Città” Vincenzo Petrucci gli avrebbe detto: “che voleva ridurre il Caffè suddetto del Decanato… per il caffè dei Patriotti, e che voleva togliere quelli “pirrucconi” che vi venivano, cioè li Signori, e che avrei così io fatti de’denari e mi sarei arricchito, perché avrei avute continuamente in cinque o seicento persone”.

Molti si riunivano a discutere al Caffè dei Patrioti degli argomenti all’“ordine del giorno” a casa di Luigi e Benedetta Pozzi, luogo di ritrovo e di decisione principale dei giacobini “dove poi andavano tutti insieme”26.

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25 Citazione riportata dal Tori da JACOPO CHELINI, Zibaldone pag. 135.

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Altro luogo importante di incontro era il monastero di S. Maria Forisportam. In questi due luoghi e negli altri dove s’incontravano i club, secondo Domenico Piaggia, mugnaio e spia del Magistrato dei Segretari Pier Angelo Guinigi si facevano discorsi sovversivi “et temendo che il generale Sérurier

non secondasse i loro desideri, ma che volesse sostenere il Governo aristocratico, macchinavano di voler piantare l’albero notte tempo e fare così la rivoluzione, avendo distribuito la Città in vari rioni, per ciascun rione assegnati tanti uomini, et avendo ancora nella lega vari ufficiali francesi, alcuni de’quali intervenivano alle adunanze, questi si diceva avrebbero impedito il Generale suddetto che si opponesse alla rivolta anche con ucciderlo… i titoli che si davano gli adunanti erano di assemblea per tutta la società e qualche volta di frammassoni, e gli affari vi si trattavano all’incirca come de’Consigli Democratici, a seconda della Costituzione francese.”

Deposizione di Filippo Fatinelli, nobile democratico arrestato nell’agosto 179927:

“mi affacciai in una sera a detta stanza per curiosità di vedere cosa si

operava nella medesima e non potei entrare perché nell’atto che entravo mi fu chiusa la porta in faccia, ma dopo il detto decreto due o tre volte vi entrai e trovai nella detta stanza circa due o trecento persone, tutte di

bassa condizione, che per non averne io la pratica non ne conobbi alcuna, ne io vi attesi perché la confusione che facevano tutte quelle persone era infinita… Nelle volte in cui fui introdotto in quella stanza compresi che la medesima era una vera babilonia, e che non vi era alcun ordine, intesi bensì in quel poco tempo che mi ci trattenni in dette volte che erano tutti animati a desiderare la variazione del Governo, giacchè ora alcuni urlavano dicendo “democrazia”, altri “morte a’tiranni”, e altri “viva la libertà, viva la gran nazione”, e si sentivano ancora de’schiamazzi di voci che dicevano “si pianti lo stecco”, con che intendevano l’Albero della Libertà, e con tali urli e clamori intesi che consisteva l’adunanza, ma essendoci un grande odore di vino e gran caldo presi il partito di andarmene”.

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27 Deposizione di Francesco Brancoli:

“il partito de’francesi erano pochi, ma che altro così ben legati insieme, che

ad un cenno si trovavano tutti in un dato sito, qual era piaggia Romana per il che avean fatto più volte l’esperimento sul più tardo della notte con essere andati alle case de’segnati, e con aver fatto un dato segno, che aveano fra loro, e che non mi disse, erano sempre stati tutti pronti, e che lui era stato molte notti senza dormire per esser pronto al segno per non esser mancante, e che erano sicuri di non esser traditi, ne’di tradirsi fra loro atteso il secreto giuramento che si erano vicendevolmente prestati”.

Comprendiamo dunque in breve sintesi la situazione lucchese. Il generale Serrurier entra in Città. Però ha posizioni moderate, diffida dei giacobini lucchesi: teme verosimilmente il loro possibile radicalismo democratico. Non bisogna infatti dimenticare che la Francia in questo periodo si trova nel periodo termidoriano, e per di più dopo il Fruttidoro, quando l’esercito ha usato la forza per destituire deputati eletti ostili al governo del Direttorio. La rivoluzione è dunque diventata conservatrice, e timorosa delle opposizioni, sia quella di destra (monarchici, sostenitori dell’antico regime) sia di quella di sinistra (democratici e giacobini). Tale atteggiamento circospetto si proiettava anche nella politica d’occupazione italiana, nella quale si aggiungeva la necessità di garantire sempre il controllo dei governi alle fazioni più remissivamente filo-francesi. Anche da questo punto di vista, i giacobini lucchesi davano qualche pensiero. Il Tori fa discendere l’atteggiamento prudente di Serrurier dal suo “carattere” e anzi suggerisce che la sua moderazione si contrapponesse in qualche modo alla volontà del Direttorio di “rigenerare” la Repubblica lucchese28. Ma in realtà tale

moderazione è del tutto in linea con la politica del Direttorio di quegli anni. I giacobini lucchesi avevano infatti dimostrato, nonostante il loro scarso numero, la determinazione necessaria a muoversi INDIPENDENTEMENTE dai Francesi. E nel caso della cospirazione di Livorno, cui ebbero la “gentilezza” di avvertirli si trovarono da essi traditi.

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Dunque ciò avrà sicuramente accentuato nei lucchesi la volontà di agire indipendentemente dalla Francia29; e al contempo ciò avrà dunque reso i francesi, evidentemente coscienti di questo, più circospetti e disposti a “rigenerare” ma con un compromesso fra la vecchia aristocrazia e i nuovi democratici, di modo da equilibrare le due fazioni (ciascuna da sola pericolosa per la Francia) di modo che i negoziati, i compromessi e gli scontri fra loro ne annullassero in qualche modo il potenziale anti-francese di entrambe.

Questa politica, chiaramente, andava più a vantaggio dei nobili (che, non dimentichiamo, furono assieme, se non più dei patrioti, consultati per il nuovo ordinamento costituzionale da Serrurier!) che dei Giacobini.

Tanto che l’idea del nuovo sistema istituzionale, basato su una rigida divisione dei poteri e su sistema rigidamente bi-camerale venne in mente al nobile Cristoforo Boccella:

“Feci in que’brevi momenti un calcolo semplicissimo,… che se mi riusciva

di porre in piedi siffatto provvisorio (governo) in molto numero di soggetti, e con autorità divisa in più corpi, l’opposizione e il contrasto che ne sarebbe nato avrebbe reso tutte le operazioni che si volevano dal peggior partito meno rapide, e che dandosi luogo a qualche variazione di circostanza, avrebbe potuto questa avverarsi senz’avere sperimentati de’gravi disastri”.

Del resto Serurier aveva comunicato al governo lucchese il 28 dicembre, prima di entrare in città:

“Lucchesi, lo ripeto, io non vengo a distruggere i Governi; farò rispettare

le vostre persone e le vostre proprietà. La vostra religione non sarà toccata; del resto la condotta di chi vi governa regolerà la mia” 30-31.

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29 Tanto che alcuni ebbero a dire che sarebbero arrivati, con l’appoggio di ufficiali francesi loro simpatizzanti…a uccidere

Serrurier!

30 A.S.L. archivio Sardini n 176 cit. in TONINI il governo provvisorio democratico lucchese nel 1799.

31 Qui il Tonini diverge dal Tori, laddove il primo presenta Serrurier come sostenitore dei democratici, mentre il Tori lo

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In pratica i nobili non erano in grado di impedire la democratizzazione. Ma furono però in grado, con l’appoggio in questo dei Francesi, di stabilire la forma del nuovo potere anti-aristocratico, una forma tale da impedirgli di incidere sullo status quo.

In questo la Costituzione Lucchese si rivelò opposta alla costituzione giacobina del 1793 (monocamerale) e più in sintonia con quella ligure e francese termidoriana, concepite con la stessa intenzione “frenante il potere centrale”, nel timore esso potesse cadere in mani rivoluzionarie. Con però un’importante differenza: la costituzione termidoriana è opera di una borghesia che vuole sì evitare ulteriori cambiamenti rivoluzionari, ma vuole anche mantenere quelle che son state le conquiste essenziali della rivoluzione che, abbattendo l’antico regime, ha consegnato a lei il potere. Invece i nobili lucchesi sono, sia pure con le specifiche di cui sopra, un’aristocrazia che NON VUOLE alcun cambiamento rivoluzionario.

Ora, si potrebbe molto discutere sui confronti fra la borghesia francese nata dalla rivoluzione e la nobiltà lucchese. Secondo alcuni (mi riferisco in specie a una storiografia tendenzialmente di destra) i borghesi francesi termidoriani di fatto non fecero altro che sostituirsi ai nobili, e che quindi la continuità con l’antico regime sia sostanziale. Però questa questione esula dall’argomento della nostra tesi.

Attenendoci al consueto schema “Francia rivoluzionaria dominata dalla borghesia”, “Lucca dominata dai nobili” questo è il risultato dei ragionamenti nostri.

Riassumendo: il partito democratico lucchese, verosimilmente costituito da borghesi (e da qualche nobile) premeva per un’integrale “democratizzazione”, democratizzazione che poteva passare anche da un “governo militare” di tipo dittatoriale e straordinario; i nobili invece premevano per una sorta di compromesso/conciliazione, che possibilmente, “cambiasse tutto per non cambiare nulla”. Visto il moderatismo di Serrurier, questa fu la linea vincente. Ora vediamo come si strutturò il compromesso, chi riuscì a prevalere nella città, all’infuori dei francesi e delle loro contribuzioni.

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Una delle prime misure fu la presa delle dichiarazioni dei redditi nobiliari, al fine di farli pagare. Dietro questo c’erano due diverse istanze. Da un lato quella dei francesi, volta a far cassa. Da un lato quella dei giacobini che volevano “colpire i nobili in modo da non farli più risorgere”.

Si tratta di due istanze differenti, che vanno distinte, anche se hanno tratti di rassomiglianza.

Le due istanze in qualche modo, dunque, coincidevano.

La politica del governo democratico fu dunque una politica tendente da un lato a un compromesso coi nobili all’insegna del moderatismo, dall’altro alla necessità di rispondere alle sempre pressanti esigenze economiche della Francia.

Questo è dunque il quadro generale della questione e la tesi dunque si suddivide in due: una parte riguarda le questioni economiche di fine settecento (seta, lana, cartiere), dall’altra il primo governo democratico e poi cenni alla sorte di Lucca stabilita da Napoleone Primo Console.

Ma c’è da considerare che l’atteggiamento moderato di Ferloni si poneva in antitesi con quanto da lui stesso proclamato in varie occasioni, in specie prima dell’instaurarsi del governo, ma anche in altri suoi discorsi successivi. Tanto che il suo estremismo gli costerà l’esilio. Il governo, nella mani della corrente più moderata dei giacobini, diverrà sempre più autoritario.

Il Ferloni scrisse32:

“La democrazia esclude l’esenzione, il privilegio e vuole l’eguaglianza in

tutti. Se tosto non potete conseguire tutto il sollievo che la nuova Repubblica vorrebbe potervi arrecare, non è sua la colpa, è dell’antico Governo, il quale largheggiando in spese in ogni maniera per mantenersi l’autorità usurpata ha depauperato, ha lasciato vuote di denaro le pubbliche casse, quantunque una e tre volte impinguata con argenti di Chiesa, con esazioni affrettate, con l’avvocazione de’sacri pegni del Monte, in attentato solenne all’altrui proprietà”.

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Nel Giugno il Corpo Legislativo Lucchese proclamò l'annessione alla Repubblica della zona di Camaiore, da secoli un feudo (di fatto uno Stato indipendente) di proprietà del Capitolo del Duomo di S. Martino. I contadini del posto, molto affezionati ai loro padroni preti, insorsero. La guarnigione francese fu disarmata. La notizia raggiunse Viareggio, e i pescatori cominciarono a bombardare la caserma francese e la Prefettura lucchese con cannoni, ci cui si ignora la provenienza, fra il giubilo della folla. La guarnigione francese si arrese. Il Governo era paralizzato dal terrore. Già giravano per la città infondate voci allarmistiche: che le Mura stessero per essere attaccate da due lati: da Ovest dai ribelli e da Nord dagli Austro-Russi, che si vociferava avessero sconfitto i Francesi in val Padana e stessero varcando i passi appenninici. Essendo la guarnigione francese ridotta a poche centinaia di uomini (il grosso era stato mandato in Pianura Padana a combattere gli Austro-Russi) si decise di creare una "Guardia Nazionale Lucchese" composta di volontari. Da ogni quartiere della città si sarebbe dovuto ricavare un battaglione di 500 uomini. In tutta la città si presentarono 30 volontari! Si dovette dunque chiamare alle armi i cittadini contro la loro volontà. Ma i "coscritti" covavano gli stessi sentimenti clericali e reazionari degli insorti: si temeva fondatamente che sarebbero passati dalla loro parte alla prima occasione. Intanto le voci furono smentite: i ribelli non avanzavano verso la città, e gli Austro-Russi non avevano ancora sconfitto i Francesi! Fu però accertato che gli insorti di Camaiore "controllavano i passi di Monte Magno e Quiesa, dai quali possono scendere in qualunque momento nella Piana di Lucca". Il Governo allora non poté che ricorrere alla sua ultima speranza: l'Arcivescovo di Lucca. L'Arcivescovo era un uomo molto prudente, e quando il Governo gli chiese di recarsi a Camaiore e a Viareggio per convincere gli insorti a deporre le armi accettò, temendo che. Raggiunti gli insorti, il prelato ricordò loro "Il dovere cristiano di rispettare le autorità costituite" e promise loro "l'impunità, qualora avessero deposto le armi". Il Governo fu costretto a accordare l'impunità per l' "insurrezione" ma non "per i danni alle persone e alle proprietà". Essendo stata la rivolta caratterizzata da vandalismi e violenze, e essendo presente al largo delle coste toscane una flotta britannica, gli insorti si rifiutarono, non senza però implorare all'Arcivescovo il perdono per non aver rispettato i suoi pastorali consigli. Sembrava la fine per il Governo: quando giunse la notizia che un

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corpo d'armata francese, stava avanzando da Livorno contro Viareggio. In realtà, quel corpo d’armata era stato inviato come rinforzo alle forze di Moreau impegnate in Liguria contro gli Austro-Russi. Gli insorti "dall'iniziale baldanza”, di fronte al pericolo “tornarono ciascuno nelle proprie case!". La Repubblica Democratica era, per ora, salva!

Ma non sfuggirà alla sconfitta delle forze francesi per mano delle forze austro-russe comandate dal generale Suvorov, che occuperanno la città nel luglio 1799 ponendo fine all’esperienza del primo governo democratico.

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33 5. Il destino di uno Stato cittadino

Il come Napoleone decise il destino di Lucca è narrato da GIORGIO TORI, la costituzione lucchese del 1802. Inizialmente, Napoleone pensava di dare lo Stato di Lucca ai Savoia come compensazione per la perdita del Piemonte, annesso alla Francia (allo stesso modo in cui aveva dato la Toscana a Maria Luisa di Spagna in cambio dell’annessione francese di quel ducato).

In seguito ricevette proposte dal Saliceti e da Talleyrand che ora brevemente discuteremo, seguendo la narrazione degli avvenimenti che fa il Tori.

Nell’agosto del 1801 Talleyrand scrisse a Bonaparte riguardo alle sorti della Repubblica di Lucca “le meilleur changement est de donner une parte de

cette republique a la Ligurie et le reste a la Toscane” Talleyrand ribadì lo stesso concetto scrivendo al ministro francese in Toscana Clarcke “Il a paru plus conforme au retàblissement de l’ordre en Italie delaisser subsister cette petite republique qui, par ses principes et par sa faiblesse tint constamment à la neutralitè et dont la position intermediarie peut prevenir de graves contestations entre la Ligurie et la Toscane”. Anche alcuni lucchesi

pensavano che Lucca dovesse perdere la sua indipendenza. Paolo Lodovico Garzoni scrisse: “L’unione alla Toscana di cui propriamente fa parte lo stato lucchese è quella che gli conviene per ogni riguardo. Il paese di Lucca non può rimanere più a sé. La sopra indicata sorte è l’unica che può ridonargli la perduta tranquillità e prosperità di commercio”. Ma un documento del Ministero degli affari esteri francese del 21 agosto dimostra che a quella data la volontà del Primo Console si indirizzava verso il mantenimento dell’indipendenza della piccola repubblica. Per sottolineare quanto i lucchesi fossero coinvolti in queste decisioni citiamo direttamente il Tori:” I lucchesi furono informati di ciò soltanto alla fine dell’ottobre……tale notizia gli venne data da Murat “Mediante uno sborso di denaro, e furno trentaseimila franchi”…..maneggi di parte lucchese “ erano “ sostanzialmente estranei all’effettiva decisione della sorte di Lucca”. (Tori pag. 51)

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Riportiamo l’inizio del testo di questo primo documento che è la prima bozza della costituzione di Lucca.

3 fructidor an.IX

Premier projet de constitution pour Lucques.

Titre premier: division du territoire. Mode d’élection. Art. 1

Le territoire de la République de Lucques se partage en douze communautés: la ville de Lucques en renferme deux; la population du reste de l’Etat est répartie dans les dix autres.

Art.2

Les propriétaires de chacune des douze communautés qui ont atteinte l’age de 21 ans, choississent dans la communauté trois électeurs, et l’assembée qui résulte de la réunion de ces trentesix membres, nomme aux premières magistratures de l’état.

Art.3

Chacun de ces électeurs est en fonction pendant neuf ans: tous les trois ans, leur assemblée se renouvelle par tiers: le membre sortant peut etre réélù. Titre 2: organisation du gouvernement.

Art.4

Le gouvernemet se compose d’un conseil législatif et d’un pouvoir exécutif et d’un conseil administratif. Les membres de ces trois corps sont nommés par les 36 electeurs.

Art.5

Le conseil législatif est composé de cent vingt individus: chacun d’eux reste trois ans en fonctions et ne peut etre réélu q’un an après leur cessation. Ce conseil est renouvellé par tiers tous les ans.

Il secondo progetto costituzione venne invece elaborato a partire dal 14 ottobre, data in cui Talleyrand inviò il progetto a Saliceti, che quest’ultimo gli rimandò il giorno successivo con le sue considerazioni. Saliceti voleva

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