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Scienza & Politica, 29, 2003

Il “benessere”, almeno nei termini della affluent society, non era nelle prospettive di alcuno degli Stati europei che uscivano dalla Seconda Guerra Mondiale. Se la grande povertà era considerata definitivamente alle spalle dell’Europa industriale, la possibilità di avviare una fruizione generalizzata di consumi voluttuari era anco-ra ampiamente in discussione. Certo la definizione di “consumi voluttuari” è storicamente relativa e alcuni dei beni che ora si in-tendevano proporre come “diritti” connessi alla cittadinanza, si pensi alla casa monofamiliare o all’istruzione di base, solo un seco-lo prima sarebbero stati ancora posti in discussione entro la cate-goria dei beni non necessari per la generalità.

Occorre dunque fare una precisazione. Spesso si usa “consumi” come un termine pass-par-tout senza definire in maniera precisa a cosa si intenda riferirsi. Per questo si preferisce qui rifarsi al concetto di «standard di vita». La nota definizione di affluent society che l’eco-nomista americano John Kenneth Galbraith rese popolare col suo li-bro del 19581 riguardava il superamento di un sistema economico

che era stato fondato sul presupposto della scarsità dei beni disponi-bili e che dunque aveva fatto vivere in ristrettezze una quota molto ampia della società. Ora, si sosteneva, questa realtà era tramontata, la povertà si andava marginalizzando, ma soprattutto i livelli di vita si erano innalzati per la generalità del pubblico. Era il complesso dei beni a disposizione di quasi tutti i cittadini a fare la differenza, non il semplice livello dei consumi: avere a disposizione un alloggio con-fortevole, disporre di strumenti che alleviavano le fatiche domesti-che come frigorifero e lavatrice, avere accesso alla cultura tanto

at-Il caso italiano in prospettiva europea

Paolo Pombeni

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traverso l’istruzione pubblica che attraverso radio e televisione pos-sedute individualmente, conquistare mobilità grazie all’automobile, fare le vacanze in un luogo diverso da quello abituale di residenza, disporre di scelta nell’abbigliamento, etc., tutto questo era il “benes-sere”. Ai governi non si chiedeva dunque di favorire la “vita frivola” (sebbene questo risvolto cominciasse a essere presente con il crescere delle risorse finanziarie disponibili per i singoli), ma di promuovere quelle che sembravano le condizioni basilari di vita “civile”.

Questo tema però, nella prima fase della ricostruzione (1945-1950), non era affatto chiaro. Da un lato dominavano i problemi che con termine ampio potremmo definire della “pianificazione”, cioè di un’organizzazione molto razionale delle risorse economiche (organizzazione che proprio a questo fine andava sottratta alla li-bertà del mercato capitalistico) in maniera da rendere possibile una loro distribuzione più equilibrata fra tutte le classi sociali, ma so-prattutto da finanziare lo Stato come erogatore dei grandi servizi sociali. Sull’incentivazione dei consumi in quanto tali esistevano perplessità e remore, perché si temeva un ritorno di fiammate infla-zionistiche o di crisi congiunturali come quella del 1929. La fortu-na interfortu-naziofortu-nale del libro di un economista italiano, Giuseppe Bresciani Turroni, sull’inflazione a Weimar2 può testimoniare di

questo clima, così come il fatto che questo economista divenne uno degli editorialisti autorevoli che sul «Corriere della Sera» del 1949-51 esprimevano seri dubbi sull’efficacia delle politiche espansive contro la disoccupazione (anche se la guerra senza quartiere contro i “keynesiani” italiani fu condotta da un altro editorialista, Libero Lenti). Tuttavia la battaglia per il rigore era un’impresa che non te-neva conto del rinnovato clima politico: da questo punto di vista De Gaulle, che aveva una certa idiosincrasia per le questioni econo-miche3, aveva intuito, scegliendo nel gennaio 1945 a favore del

«morbido» Pléven contro il pianificatore rigorista Mendés France, che la gente non era tanto disposta a politiche di sacrifici sia pure in vista di consolidamenti futuri4. La questione dominante nei

pae-2 C. BRESCIANITURRONI, La vicenda del marco tedesco, Milano 1931. Il volume

è stato riedito col titolo Teoria dell’Inflazione, Milano 1978, ma la sua fortuna de-riva dall’ampia circolazione nel mondo anglosassone che gli fu garantita da una traduzione inglese, The economics of the Inflation: a study of currency depreciation in post-war Germany, Northampton 1956

3 Dopo l’incontro per chiarirsi le idee che aveva chiesto con entrambi i

conten-denti, Mendés France e Pleven, De Gaulle aveva detto al suo collaboratore Louis Vallon: «Non permetterò più a nessuno di parlarmi per tre ore intere di econo-mia…», citato da J. LACOUTURE, De Gaulle, vol. II: Le politique. 1944-1959, Paris 1985, p. 124.

4 Su questa disputa si veda J. LACOUTURE, Pierre Mendes France, Paris 1981. Il

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voglia-si europei rimaneva quella di non arretrare (e in seguito posvoglia-sibil- possibil-mente avanzare) sulla via di quel crescente benessere generalizzato che, dopo tutto, aveva caratterizzato la vita quotidiana dell’Europa fra le due guerre. Gli «standard di vita» sarebbero diventati, come vedremo, un elemento di misura della legittimazione dei governi.

Peraltro sarebbe errato pensare che sin dal 1945 la sola questio-ne determinante fosse quella economica. I temi classici della legit-timità dell’ordine costituzionale complessivo che andava rapporta-to sul complesso della tradizione costituzionale europea rimaneva-no in campo con tutta la loro forza. Si tratta qui di individuare, per quanto possa risultare poco agevole, le radici di una questione che lo storico britannico A. J. P. Taylor aveva presentato in una conversazione alla BBC nel 1945 come legata alla problematica dei «diritti dell’uomo». In verità Taylor ebbe un’intuizione fonda-mentale: la questione dei diritti civili, sia pure declinati in maniera relativamente nuova, sarebbe stata cruciale nell’esperienza costi-tuente dei nuovi Stati continentali. Sia la componente che in sen-so lato chiameremo «sen-socialista» sia quella cattolica si erano mostra-te piuttosto atmostra-tenmostra-te su questo mostra-terreno, molto più di quanto non fa-cessero pensare i loro retroterra ideologici. Tuttavia non vi era in questo alcuna conversione o alcun cambio di prospettiva teologi-ca: più semplicemente entrambe queste correnti ideali avevano sperimentato, al tempo delle dittature, quanto utili alla propria di-fesa politica avrebbero potuto essere i grandi principi liberali in materia di diritti fondamentali. La pura prospettiva dello «Stato di diritto», che, in alternativa al sistema delle garanzie costituzionali aveva finito con l’affermarsi come la forma «tecnica» dell’applica-zione dei sistemi giuridici basati sui presupposti dell’eguaglianza, della prevedibilità e della certezza, si era infatti rivelata una fragi-lissima barriera al tempo delle dittature, poiché era bastato che i totalitarismi si impadronissero appunto dello «Stato» per trovarsi nella posizione di chi poteva agevolmente «fare la legge» a proprio piacimento, con buona pace dei sistemi di tutela legale.

Ora si potrebbe discutere su che cosa noi dobbiamo intendere con «liberalismo», se puramente il sistema di tutela della libertà di possedere e della libertà di «intraprendere», se il sistema della tute-la dei diritti dell’uomo e del cittadino, se una combinazione di questi due, se il sistema costituzionale rappresentativo o qualco-mo vincere la terza battaglia di Francia, quella che si combatte per la ricostruzione e il rinnovamento del paese, s’impongono sforzo produttivo e semplicità di vita, e non per una sola classe della popolazione, ma per tutte. Ho il compito – certuni lo definiranno “ingrato” – di dovervi parlare di sacrifici…» (ibidem, p. 171; corsivo mio). Sulla rottura con Pléven e l’abbandono del governo, ibidem, pp. 172-176.

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s’altro. Storici e studiosi di politica si affannano da decenni lungo queste strade senza trovare una risposta del tutto soddisfacente. Da un lato infatti si fatica a individuare un archetipo di Stato liberale “puro”, in quanto già dalla fine dell’Ottocento si erano avute in tutta Europa forme più o meno vaste di intervento dei pubblici poteri come forze di “governo” se non di “alterazione” dei mercati, intesi nel senso più ampio possibile del termine (si pensi, tanto per fare il caso più emblematico, al mercato della cultura, a partire dalla scuola per arrivare alla produzione della scienza e dell’arte). Dall’altro lato le forme di declinazione dei grandi modelli che ave-vano connotato l’esperienza storica del liberalismo ottocentesco erano state piuttosto varie e sia il sistema costituzionale di organiz-zazione dello spazio pubblico, sia il quadro del sistema dei diritti e delle garanzie di libertà appariva piuttosto variegato.

Tutto questo entrò in gioco in Italia non solo nella fase propria-mente costituente, ma anche nella successiva stabilizzazione degli ultimi anni Quaranta. Da un lato la nuova Carta Costituzionale elaborò, soprattutto sotto la spinta dei gruppi della sinistra cattoli-ca, una nozione della cittadinanza intesa come diritto allo svilup-po delle svilup-potenzialità presenti in ogni cittadino e nelle comunità a cui faceva riferimento. Essa era stata pensata come un elemento che da un lato doveva superare quello che la tradizione dottrinaria cattolica considerava come un “individualismo” liberale letto come una sorta di “atomismo” che negava il riconoscimento alle reti di connessione sociale esistenti (e quindi, in primis, a quelle religio-se), e che dall’altro configurava però dei diritti di sviluppo delle persone intesi in senso morale e di “valori”, piuttosto che come impegni a sostenere un accesso generalizzato a quello che alcuni avrebbero potuto considerare come forme di “lusso”.

Si tratta di una questione generale che non interessa solo l’Italia. Alcuni hanno costruito il facile gioco retorico per cui ora nell’Euro-pa occidentale l’abolizione delle distinzioni di classe non si raggiun-geva più con l’impedire “il lusso” alle classi superiori (sebbene an-che questo venisse in parte fatto attraverso lo strumento della tassa-zione progressiva ora largamente ampliato), ma con l’estenderne la fruizione alle classi inferiori. Lo studioso professionale deve sempre diffidare di questi giochi retorici, ma bisogna riconoscere che esiste in questo caso qualche elemento di verità: la creazione di un “tem-po libero” come fruibile, a livello di diritto “tem-politico, “tem-potenzialmente da tutta la cittadinanza è una rivoluzione da non sottovalutare5. La

5 Anche questa era iniziata da tempo. È noto come i fascismi agirono

ampiamen-te in questo conampiamen-testo, ma altresì come la riduzione dell’orario di lavoro operata in Francia ai tempi del governo di Fronte Popolare si muovesse in direzione analoga.

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«libertà dal bisogno» veniva ora prevalentemente vissuta come una libertà dai lavori “servili” nell’ambito domestico: la lavatrice e il fri-gorifero divenivano assai rapidamente, a partire già dagli anni Cin-quanta, requisiti di “civiltà” non meno dell’innalzamento degli standard abitativi (l’autentica rivoluzione nella pianificazione dei servizi igienici a livello di edilizia privata popolare), dell’accesso al-l’istruzione scolastica, della tutela della salute. Altrettanto la tradi-zionale richiesta di accesso alla cultura si incarnava ora nella richie-sta di accesso alla cultura-spettacolo offerta prima dalla radio e poi (molto rapidamente) dal nuovo mezzo televisivo.

Il rigorismo dell’impostazione costituente era stato prevalente fi-no agli inizi degli anni Cinquanta: i due celebri articoli con cui Giorgio La Pira, uno dei leader della sinistra democratico cristia-na, si batteva perché la politica economica italiana fosse orientata non dal vecchio monetarismo che temeva solo l’inflazione, ma da una visione keynesiana capace di basarsi anche sul deficit spending, avevano di mira la creazione della piena occupazione, cioè il tipico obiettivo delle riflessioni seguite alla crisi del 1929, e non la pro-pulsione dei consumi di massa. Fra il 1951 e il 1953 fu istituita una commissione parlamentare d’inchiesta sulla povertà, che veni-va ancora considerata come un problema strutturale e non come una questione di marginalità sociale.

L’Italia aveva ancora larghe zone di sottosviluppo, sicché il pur indubbio miglioramento del tenore di vita della popolazione che si verificò a partire dalla ripresa economica indotta dalla guerra di Corea e l’avviarsi di una stagione di consumi voluttuari di massa non vennero immediatamente percepiti come segnali inequivoca-bili di un cambiamento del quadro sociale tradizionale6. Se

qual-che gruppo di giovani intellettuali, come il gruppo de «Il Mulino» di Bologna, iniziava a parlare di «democrazia industriale» e di pre-valere del suo modello (non si dimentichi che due dei suoi perso-naggi di rilievo, Federico Mancini e Gino Giugni, erano studiosi di diritto del lavoro, cioè osservatori professionali del settore più a diretto contatto con la trasformazione del capitalismo), in com-plesso il discorso politico tendeva ancora a ruotare attorno ai due stereotipi della «classe operaia» (di cui si facevano ovviamente pa-ladini comunisti e socialisti) e dei «ceti medi», identificati per lo più con la vasta fascia degli impiegati pubblici (di cui la Democra-zia Cristiana rivendicava la rappresentanza privilegiata). Eppure

6 Per una valutazione della cultura economica di fronte ai problemi della

rico-struzione si può ancora leggere con profitto P. BARUCCI, Ricostruzione, pianifica-zione, Mezzogiorno. La politica economica in Italia dal 1943 al 1955, Bologna 1978.

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anche per l’Italia di questo periodo si colgono molti segnali della trasformazione in atto: vi è l’impetuoso sviluppo dell’industria pubblica, che porta alla formazione di una classe manageriale di estrazione “politica”, uomini che iniziano a presentare il modello dello sviluppo industriale come «valore sociale» e non come sem-plice occasione di guadagno economico; vi è il progressivo emer-gere all’interno del partito di maggioranza relativa, la DC, dell’ala legata alla nuova politica di sviluppo (Fanfani e i suoi uomini, in parte collocati nel nuovo settore dell’industria pubblica). Peraltro la domanda di benessere era in Italia ben lungi dall’essere stata soddisfatta. Secondo un’inchiesta svolta dal sociologo Alessandro Pizzorno nel 1957 solo l’1% dei lavoratori possedeva una lavatrice (e il 38% diceva di desiderarla, ma di non potersela permettere). Cifre che diventavano 2% contro 41% relativamente al frigorifero e 1% contro 66% per quel che riguardava l’automobile7. Come si

vede la domanda di “benessere” era alta, ma si confrontava con una situazione ancora interessata da un certo ritardo nella promo-zione dell’innalzamento degli standard di vita dei ceti popolari.

Un episodio che dimostra bene il cambio di clima politico che si stava determinando nel paese fu nel 1956 un evento apparente-mente periferico e di ambito locale: la vicenda della candidatura di Giuseppe Dossetti a sindaco di Bologna8. Il capoluogo emiliano

era la più grande e simbolica città governata dal 1945 da un auto-revole sindaco comunista; quell’anno, per un complesso di circo-stanze, ambienti ecclesiastici e una parte del vertice democristiano si allearono per tentare il colpo di sottrarre Bologna alla guida dei comunisti. Per sfidare il sindaco in carica, Giuseppe Dozza, fu scelto l’ex leader della sinistra DC, Giuseppe Dossetti, che era sta-to l’avversario ssta-torico di De Gasperi e che si era ritirasta-to dalla poli-tica nel 1951, dandosi agli studi di teologia. Figura carismapoli-tica, protagonista della stesura della costituzione repubblicana, Dossetti ritenne di poter sfidare «da sinistra» il governo locale comunista, accusandolo di essere «al massimo un governo rosa» e predicando una via austera al confronto con la trasformazione della società. I comunisti in risposta usarono argomenti moderati, difendendo quel loro ruolo di promotori di un maggior benessere materiale per le classi popolari e medie che a Dossetti era parso annacquare così tanto le loro pretese «rivoluzionarie». Il risultato fu una chiara vittoria elettorale con riconferma del sindaco comunista uscente,

7 L’inchiesta è citata in D. ELLWOOD, L’Europa ricostruita. Politica ed economia

tra Stati Uniti ed Europa Occidentale 1945-1955, Bologna 1994, p. 313.

8 L’episodio è stato ricostruito da M. TESINI, Oltre la città rossa. L’alternativa

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con il rigorismo morale e l’austerità di Dossetti che uscivano scon-fitte dalle urne (mentre il PCI e il sindaco Dozza non avranno poi problemi a metabolizzare una parte delle proposte tecniche di rin-novamento del sistema amministrativo, pur guardandosi bene dal riprendere l’anima rigorista che aveva ispirato la proposta di quelle politiche).

Insomma, l’età austera della ricostruzione attraverso i sacrifici era finita per sempre e la difesa del benessere come conquista irre-versibile diveniva il tema politico portante. Se ne rese conto il lea-der della DC Fanfani che nel 1958 impostò la campagna elettorale del suo partito sullo slogan «progresso senza avventure» (che ri-prendeva in una certa misura quello della CDU tedesca l’anno pri-ma: Keine Experimente! – non si fanno esperimenti): ormai la dife-sa dello sviluppo e del benessere diventavano elementi prioritari per raccogliere il consenso. Il successo che gli arrise a chiusura del-le urne, il 25 maggio 1958, fu notevodel-le: la DC aveva raccolto ben il 42,4% dei voti con un incremento di 2,3 punti rispetto alla consultazione precedente

Fanfani, che da tempo preparava la sua grande occasione politi-ca, aveva fatto varare dalla DC un programma in 19 punti a forti tinte programmatiche, facendo scrivere al settimanale del partito «La Discussione» che esso era premessa per un governo «di svilup-po e apertura sociale». Quando il 9 luglio Fanfani si presentò al Senato col programma del suo nuovo governo, elencò con punti-glio i settori in cui intendeva intervenire: oltre a quelli tradizionali degli interventi sociali in agricoltura, nella scuola e nella politica edilizia, oltre all’annuncio di progetti di legge che portassero a compimento il dettato costituzionale (legge sul sindacato, sulle re-gioni, sul referendum), il presidente incaricato annunciava un raf-forzamento dell’intervento dello Stato nell’economia. Con un an-nuncio che avrebbe fatto discutere (e aperto un’epoca) informava di voler creare «un apposito ente di tutte le partecipazioni statali nel settore di ricerca, produzione e distribuzione di energia di qualsiasi specie, in modo da affidare a esso con successo un inter-vento sistematico, diretto a integrare le manifeste insufficienze del-l’iniziativa privata e da sostenere con efficacia una doverosa politi-ca regolarizzatrice della distribuzione dei prezzi e dell’energia, spe-cie secondo le esigenze dello sviluppo del Sud e delle aree depres-se»9. In un editoriale della rivista «Il Mulino» dedicato a

commen-tare il nuovo governo, i giovani intellettuali bolognesi segnalavano significativamente a suo merito il riferimento al «moderno

pensie-9 Il discorso di Fanfani al Senato è riportato integralmente su “La Discussione”,

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ro economico anglosassone, accolto con profitto nelle scuole cat-toliche»10.

Tuttavia non era solo una fucina di giovani intellettuali a regi-strare l’impatto di questo cambiamento. Gli esempi che si potreb-bero citare sono numerosi, ma mi limiterò qui a ricordare il giudi-zio di un personaggio diverso per generagiudi-zione, percorso formativo e collocazione politica. Vittorio Foa scriveva agli inizi del 1960 che era finita la secolare diversità e inferiorità dei consumi e dei modi di vita degli operai, sicché «i lavoratori rivendicano apertamente il loro diritto ad accedere ai consumi di tipo superiore e avvertono sempre più acutamente il contrasto tra le loro aspirazioni e le loro concrete possibilità»11.

Se lo sviluppo fosse realizzabile o meno senza la partecipazione di forze legate al progetto socialista, sia pure emendato dalla con-nessione con l’esperienza del comunismo storico, sarebbe stata la grande questione del dibattito politico italiano dopo che, a metà degli anni Cinquanta, si era ormai prospettata come stabile quella svolta a cui venne dato il nome di “miracolo economico”. Proprio il fallimento della ambizione di Fanfani nel 1958 di poter realizza-re un programma di tipo espansivo e “modernizzatorealizza-re” senza l’ap-porto del partito socialista, la cui entrata nell’area della legittima-zione governativa era avversata sia da ambienti economici che da settori delle gerarchie cattoliche, avrebbe inevitabilmente rilancia-to il problema dei cosiddetti “equilibri più avanzati”.

La storia che aveva portato a questa svolta è complessa e in parte non piccola ancora da scrivere. Come vedremo più in dettaglio in seguito, lo sblocco reale dell’impasse politico si ebbe col governo Tambroni e la crisi del luglio 1960, eventi che convinsero le forze politiche, religiose ed economiche contrarie all’apertura a sinistra che un’alternativa stabilizzatrice sulla destra non esisteva a meno di accettare i pericoli della deriva di una rinascita dello scontro ideo-logico sulle radici della sistemazione costituzionale post-bellica. Qui però va messo piuttosto in luce il lato “culturale” della svolta del ’62-’63, che registrava il crescente spazio che avevano guada-gnato le “nuove scienze” della politica (politologia, sociologia, eco-nomia keynesiana) rispetto a quelle tradizionali che ruotavano at-torno ai paradigmi forgiati dalle facoltà di giurisprudenza (para-digmi che erano qualcosa di più e di diverso dal semplice tecnici-smo giuridico), cioè quella cultura che aveva in gran parte forgiato la base “materiale” della carta costituzionale del 1948. Laboratori

10 Cfr. L’avvento di Fanfani, «Il Mulino», 7 (1958), p. 673.

11 Cfr. V. FOA, La rottura del tradizionale muro dei consumi proletari, in L. CAFA

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intellettuali come «Il Mulino», ma anche «Comunità», «Tempo Presente» e alcuni primi nascenti centri di ricerca nelle scienze so-ciali rompevano da un lato il tradizionale monopolio della produ-zione culturale legata ai partiti (a opera di intellettuali più o meno “organici”) e dall’altro fornivano i primi luoghi di incontro in cui si poteva pensare, a torto o a ragione, di lavorare dopo la «fine del-le ideologie»12 e quindi in contesti che consentivano incontri fra

tradizioni politiche tali da non presupporre abbandoni o tradi-menti riguardo alle radici, per la semplice ragione che si dovevano affrontare problemi del tutto nuovi13. Del resto da questo

origina-va la svolta: come scrisse il neo governatore della Banca d’Italia Guido Carli già nella Relazione annuale per il 1960: «I mutamenti in atto nel mercato monetario e finanziario stanno ad attestare il progresso del nostro paese verso ordinamenti più evoluti e più cor-rispondenti alla posizione che esso va assumendo di paese indu-striale in posizione avanzata fra quelli più dinamici; ancorché, sot-to qualche profilo, la nostra economia sia corsa in avanti più celer-mente delle istituzioni nelle quali essa si inquadra»14. Parole

im-portanti per spiegare da dove partiva la svolta.

Quanto alla vicenda materiale invece, si possono fare altre consi-derazioni. In Italia la questione di un “allargamento a sinistra” del-la maggioranza di governo cominciò a essere posta dopo il falli-mento dell’esperifalli-mento di legge elettorale maggioritaria nel 195315. Includere nella maggioranza il partito socialista di Nenni

12 Il termine, come è noto, venne polemicamente lanciato da Raymond Aron

nell’ultimo capitolo del suo libro L’opium des intellectuels (1955), ma il tema fu re-so generale dall’uscita del volume di Daniel Bell, apparre-so nel 1960 (La fine dell’i-deologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi, Milano 1988). Sulla genesi e sul dibattito del libro di Aron, si vedano le pagine, assai interessanti, di R. ARON, Mémoires, Paris 1983, pp. 319-331.

13 Un inquadramento generale del problema, che peraltro, per necessità

editoria-li, non può entrare veramente nel tema, è il saggio di B. BONGIOVANNI, Gli Intel-lettuali, la cultura e i miti del dopoguerra, in Storia d’Italia, V: La Repubblica, Ro-ma-Bari 1997, pp. 440-523. Un assai più vivo ritratto di quei circuiti intellettuali è rinvenibile in G. GALLI, Passato Prossimo. Persone e incontri 1949-1999, Milano 2000, pp. 59-110. Da un punto di vista storico si tratta però ancora di una vicen-da vicen-da ricostruire.

14 Il passo è citato in G. CARLI, Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari 1993,

p. 179, dove viene anche rivelato che in realtà la frase era stata scritta da Federico Caffè. A questo proposito vorrei ricordare, per sottolineare la complessità di que-ste vicende, che Caffè, uno degli introduttori delle teorie keynesiane in Italia, era stato tra i collaboratori della rivista dossettiana “Cronache Sociali” (pur non essen-do egli mai stato connesso in alcun moessen-do al cattolicesimo politico).

15 Che la questione avesse una rilevanza non era sfuggito sin da allora agli analisti

americani del Dipartimento di Stato: cfr. U. GENTILONISILVERI, L’Italia e la Nuo-va Frontiera. Stati Uniti e Centro Sinistra 1958-1965, Bologna 1998, pp. 22-31. Del resto il tema era arrivato sulle pagine delle riviste: in uno scambio polemico

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era però tutt’altro che facile. Da un lato molti esponenti della DC, ma anche di altri partiti centristi, riconoscevano che senza questa apertura la coalizione di governo sarebbe rimasta debole e quindi bisognosa dell’aiuto sottobanco della destra, forza poco adatta a sostenere le dinamiche di sviluppo del sistema16. Dal lato opposto

l’alleanza coi socialisti significava aprirsi a un universo culturale piuttosto lontano da quello della Democrazia Cristiana: quell’uni-verso raggruppava tradizioni laiche, con cospicue venature anticle-ricali e massoniche, e inoltre conteneva scelte internazionali di ti-po pacifista e inclinazione a far blocco coi partiti operai e dunque anche col partito comunista17, cioè con una forza su cui, come già

accennato, pesava la duplice messa al bando della Chiesa Cattolica e degli USA. Specialmente la gerarchia vaticana era decisamente ostile18, per una serie di ragioni che qui non posso approfondire, a

consentire che si affermasse l’indipendenza dalle gerarchie dei laici cattolici in materia politica19: la vera questione sul tappeto era

questa, molto più di quella ufficialmente proclamata dell’impossi-bilità per un cattolico di fare alleanza con un partito che professa-va il marxismo ateo. Se si pone attenzione alla storia interna del movimento cattolico nel suo scontro col potere romano, questo dato risulta più che evidente: qui mi limiterò a citare un docu-mento assai interessante come il diario per il periodo 1946-56 del domenicano francese Yves Congar, il propugnatore della teologia del laicato, che fu perseguitato apparentemente come «eretico po-fra «Terza generazione», «Il Mulino» e «Lo spettatore italiano» si era discusso nella primavera-estate del 1954 proprio di cosa frenasse la possibilità di sviluppo italia-na e si era posto il problema della ricerca di nuovi sistemi di alleanza politica. Cfr. B. COVILI, I contenuti e i caratteri della società democratica negli intellettuali di nuo-va generazione in Italia e Inghilterra nel corso degli anni Cinquanta, tesi di dottora-to di ricerca in “Sdottora-toria Comparata dell’Europa del XIX e XX secolo”, XI ciclo (a.a. 1997-98), pp. 101-105.

16 Esisteva un vivace dibattito su questo tema, su cui fa acutamente il punto P.

SCOPPOLA, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Bologna 1991, pp. 276-290.

17 Sul PSI si vedano M. DEGLIINNOCENTI, Dal dopoguerra ad oggi, vol. III della

Storia del PSI, Roma-Bari 1993; e, per una vivace rappresentazione di un percorso culturale non del tutto tipico, ma che spiega molte cose, G. TAMBURANO, Pietro Nenni, Roma-Bari 1986.

18 Cf. P. SCOPPOLA, La repubblica dei partiti, cit. pp. 296-302.

19 Fra il resto si tenga conto che il tema dell’incompatibilità fra cristianesimo

po-litico e “socialismo” aveva radici relativamente antiche e che dunque il suo supera-mento, più volte chiesto dalle avanguardie cattoliche, avrebbe comportato per le gerarchie vaticane l’ammissione di una loro “fragilità” (per non dire di più) come analisti storico-politici. La questione andava perciò ben al di là della pura vicenda italiana. Mi permetto su questo di rinviare al mio, ormai datato, studio Socialismo e Cristianesimo (1815-1975), Brescia 1977.

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litico», benché fosse un personaggio assolutamente estraneo a quel tipo di problematiche (cosa che conferma a mio giudizio come la questione vera per i vertici vaticani fosse la lotta contro il principio di indipendenza dei laici nella sfera di loro responsabilità)20.

Per capire la questione specifica dell’apertura a sinistra, bisogna però tenere conto del fatto che qualcosa di speculare esisteva nel PSI. Anche per la cultura di questo partito era arduo giustificare che si facesse un’alleanza con una forza a cui in molti ancora guar-davano come «oscurantista e reazionaria»21. Questo aveva portato

a un’impasse da cui nessuna delle due forze sarebbe stata in grado di cavarsi da sola. I democristiani chiedevano al PSI di fare abiura pubblica della sua cultura, identificandola nella rinuncia pubblica a mantenere un legame con l’universo comunista22. I socialisti

chiedevano alla DC un’abiura della sua natura di partito a tutela degli interessi della piccola borghesia e guardiano degli spazi cultu-rali delle organizzazioni cattoliche. Ciascuno dei due era tenuto

20 Cf. Y. CONGAR, Journal d’un théologien 1946-1956, Edité et présenté par

Etienne Fouillox, Paris 2000.

21 Il giudizio negativo sulla tradizione politica cattolica risale in Italia a uno

sche-ma ideologico che ha radici molto lontane, addirittura nel Risorgimento, e che poi inevitabilmente si è inasprito nelle vicende dell’Italia liberale, seguendo del re-sto un trend europeo. Era molto difficile per le classi dirigenti socialiste, che erano quasi integralmente espressione di quella cultura, rompere in breve con queste tra-dizioni. Non sono però a conoscenza di studi che abbiano affrontato in maniera adeguata questo tema, notissimo a tutti coloro che hanno fatto esperienza diretta di questi rapporti.

22 Aldo Moro, che conosceva bene oltre che gli umori la cultura profonda dei

vertici vaticani, fu particolarmente attivo nel promuovere in pubblico, nei con-gressi e nelle istanze di partito, questa domanda di “rottura” rivolta al PSI. Gioca-va qui anche il problema di mantenere visibile l’iniziatiGioca-va e la “credibilità” politica del gruppo dirigente riformista democristiano, che l’area socialista in senso lato non riconosceva come vero motore dell’esperimento, credendo alla versione che il centro-sinistra fosse stato imposto alla DC dalla necessità di trovare al suo esterno quella forza innovatrice e quella cultura di governo dello sviluppo che le mancava-no. Materiali in questa direzione, anch’essa tutta da esplorare, in G. BAGETBOZ -ZO, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra. La DC di Fanfani e di Moro, Firenze 1977; G. BAGETBOZZO- G. TASSANI, Aldo Moro. Il politico nella crisi 1962-1973, Firenze 1973. Del resto questa linea di opposizione di Moro all’idea che la “svolta a sinistra”, che pure egli riconobbe costantemente sino alla sua morte, comportas-se una “egemonia” delle forze politiche della sinistra (prima il PSI e poi il PCI), derivava dalla sua convinzione che la svolta a sinistra fosse legata a quel che negli anni Trenta e Quaranta era stato definito come “crisi di civiltà” e che su questo punto la tradizione intellettuale del cattolicesimo politico potesse porsi assoluta-mente alla pari con il pensiero “laico”. Il punto è stato colto più volte, e con finez-za (anche se con il suo consueto disordine espositivo e frammentazione di inter-venti), da Roberto Ruffilli: si veda il volume III della raccolta dei suoi scritti (Isti-tuzioni, Società, Stato): Le trasformazioni della democrazia: dalla Costituente alla progettazione delle riforme istituzionali, a cura di M. S. PIRETTI, Bologna 1991.

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nell’angolo della sua posizione da forze esterne: la gerarchia vatica-na per quel che riguarda la DC; i gruppi dirigenti legati all’univer-so dell’insediamento all’univer-sociale della sinistra (cooperative, sindacati, etc., tutti con compartecipazione comunista e socialista) per quel che riguardava il PSI23.

L’evento che dall’esterno ruppe quest’incantesimo fu abbastanza casuale, ma decisivo. Debbo chiedere la pazienza di ripercorrerlo, perché stabilisce una svolta e un paradigma di legittimazione che avranno la loro importanza nella vicenda degli anni Settanta. Nel 1960 fu formato un ennesimo governo di transizione, che doveva fare un po’ di ordinaria amministrazione in attesa che succedesse qualcosa di adatto per chiarire l’orizzonte politico. Alla sua guida fu posto un politico di secondo piano, Ferdinando Tambroni, che però stava godendo di un suo momento fortunato e che poteva contare sull’appoggio del presidente della Repubblica in carica, Giovanni Gronchi, alla cui corrente apparteneva24. Tambroni non

riuscì a governare se non accettando il sostegno dei voti dell’estre-ma destra: un fatto non nuovo nella vicenda dei governi democstiani. Naturalmente ora la cosa turbava di più, perché questo ri-corso al sostegno esterno delle destre stava diventando frequente e dunque era un po’ pericoloso; in più il partito neofascista, l’MSI, che peraltro stava attraversando una fase molto “borghese” e il cui segretario Michelini puntava a farsi accettare nella normale

dialet-23 L’azione di “contenimento” della svolta a sinistra da parte del PCI comincia

a essere investigata. In una prima fase Togliatti non era stato negativo sul fatto che si potesse accettare, come pegno di una svolta riformista, l’ingresso del PSI nel governo in un certo senso come “avanguardia” di tutta la sinistra. Aveva, com’era inevitabile, cambiato opinione quando si era reso conto che l’operazio-ne era intesa a isolare e sterilizzare il suo partito. Da quel momento in poi (au-tunno 1962) il PCI avrebbe non solo attaccato sistematicamente il centro-sini-stra come pura operazione “trasformistica”, ma avrebbe prima messo in guardia e poi scomunicato il PSI come partito che svendeva le sue tradizioni e la sua stessa natura di partito operaio. La questione della partecipazione socialista ai governi locali e alla rete di insediamento sociale della sinistra, specialmente nel-le “regioni rosse”, era ovviamente una questione tutt’altro che marginanel-le. Per una ricostruzione parziale di questa vicenda movendo dall’ottica culturale degli studiosi organici al PCI, si veda Y. VOULGARIS, L’Italia del centro-sinistra 1960-1968, Roma 1998.

24 Sulla crisi del luglio 1960 la rivista «Ricerche di Storia Politica» ha organizzato

un seminario di testimoni. Nell’introduzione a questo forum, curata da Guido Formigoni, vi è un bilancio della storiografia sulla vicenda e una linea di lettura stimolante: cfr. Tambroni e la crisi del luglio 1960, in «Ricerche di Storia Politica» n.s. 4 (2001), pp. 361-386. Per il rapporto tra Tambroni e Gronchi, si veda in particolare, G. CAVERA, Il Ministero Tambroni primo governo del presidente. La crisi del luglio 1960 nelle carte Gronchi, in «Nuova Storia Contemporanea» 2 (1999), pp. 85-105.

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tica politica lasciando da parte il reducismo, cominciava a far in-tendere che si offriva per una presenza organica nelle coalizioni25.

Questo ovviamente diede modo alle sinistre, dunque sia al PSI che al PCI, di attaccare la pretesa della DC di rappresentare legit-timamente quel passato antifascista da cui era nata nel 1946 la re-pubblica italiana e di conseguenza di provare a sfidare la sua legit-timazione a governare. In quest’ottica fu pesantemente strumenta-lizzata la decisione dell’MSI di tenere il proprio congresso nazio-nale a Genova, gridando allo scandalo per l’affronto che così si sa-rebbe portato a una città medaglia d’oro della resistenza. In verità lo scandalo era credibile solo fino a un certo punto: non solo Ge-nova aveva una giunta municipale retta da una coalizione a guida democristiana che si manteneva grazie all’appoggio esterno dei 3 consiglieri comunali del MSI senza che ciò avesse causato traumi particolari, mentre nel 1956 il congresso MSI si era tenuto a Mila-no, città non meno titolata di Genova sul piano della resistenza, senza che questo suscitasse problemi o reazioni di un certo signifi-cato26. Da questo momento in avanti la spirale degli avvenimenti

travolse tutti: il PCI e le sinistre che videro nella questione di Ge-nova un banco di prova per saggiare quanto alta fosse la loro presa popolare se avessero potuto riprendere nelle loro mani il vecchio vessillo dell’antifascismo (un’impresa in precedenza resa difficile dalla memoria degli avvenimenti ungheresi del 1956); il presiden-te del consiglio Tambroni che ingenuamenpresiden-te si illuse di popresiden-tersi consolidare al potere come “uomo forte” difensore della democra-zia contro la sovversione e che quindi spinse a un uso irrazionale della polizia; lo spirito popolare che ritrovò nelle semplici parole d’ordine dell’antifascismo contro il rinascere del fascismo una val-vola di sfogo per il ritorno alla partecipazione politica attiva.

Qui non posso ripercorrere gli eventi, né è nostro interesse farlo. A me importa solo attirare l’attenzione sul fatto che questa minac-cia di guerra civile sciolse il dilemma dei cosiddetti equilibri più avanzati. Infatti di fronte alla minaccia del “ritorno dei fascisti” i socialisti si sentirono legittimati al sacrificio di unirsi al governo della DC senza porre altre vere pregiudiziali. Di fronte al compro-vato fallimento di aperture a destra27 che avevano dei costi che

ri-25 Sulla strategia politica e le vicende dell’MSI, cfr. P. IGNAZI, Il Polo escluso,

Bo-logna 1989. Spunti anche sul nostro periodo nel volume di M. TARCHI, Dal MSI ad AN, Bologna 1997, che pure riguarda una fase molto successiva.

26 Cfr. la testimonianza di Giano Accame, in Tambroni e la crisi del 1960, cit.,

pp. 379-380. È invece significativa la lotta politica interna al MSI del periodo che viene qui richiamata.

27 Non si deve dimenticare che le destre avevano sempre tentato di inserirsi nella

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cen-schiavano di sfiorare la guerra civile, la DC si sentì legittimata ad avviare l’alleanza coi socialisti senza pretendere più di tanto delle abiure e rinfacciando di fatto ai vertici vaticani ostili all’operazione che una diversa scelta portava solo al caos (il che dava lo spazio per emergere a quella parte delle gerarchie vaticane che non aveva mai creduto all’utilità per la Chiesa di un coinvolgimento nella lotta di-retta fra i partiti28). Con questo si ristabiliva sia una priorità della

legittimazione antifascista, che sino ad allora si sarebbe anche potu-ta immaginare messa tra parentesi, ma anche si disvelava una so-stanziale viscosità della situazione politica che avrebbe consentito a chiunque di riprovare a giocare allo sfascio. Si pensi che in seguito si vide abbastanza chiaramente che i rischi per queste politiche bloccarde, quale che fosse la parte da cui provenivano, erano piut-tosto limitati. Significativamente ora la radice antifascista della re-pubblica italiana veniva vista anche come una scelta a favore dello sviluppo che era il vero contenuto progressivo della svolta del 1945.

Sarebbe tuttavia errato limitarsi all’euforia che il cosiddetto boom dei consumi aveva indotto nella politica europea. Gli squili-bri sociali non erano affatto scomparsi, così come la cieca fede nel-le virtù taumaturgiche dello sviluppo, parola d’ordine magica che riposava sul semplice incremento dei vari indici di produzione e consumo, cominciava a vacillare sotto i colpi di critiche e di messe in guardia non sempre interessate.

Andrà anzitutto detto qualcosa del tentativo di delegittimazione, peraltro fallito, che il pensiero comunista e socialista più radicale sviluppò contro quello che venne definito come il neocapitalismo (intendendosi con questo ribadire che il benessere diffuso era solo un nuovo mascheramento della verità dell’analisi marxista sull’im-possibilità per il capitalismo di distribuire in modo equo ed equili-brato le risorse prodotte). Chiaramente dietro questa posizione vi tro-destra, secondo una linea che aveva trovato sensibili apprezzamenti in Vatica-no (a partire dalla famosa “operazione Sturzo” del 1952): cfr. S. MAGISTER, La po-litica vaticana e l’Italia 1943-1978, Roma 1979; P. SCOPPOLA, La repubblica dei partiti, cit.

28 Ovviamente l’entrata nel vivo della preparazione del Concilio Vaticano II, che

era stato annunciato da tempo (il primo accenno pubblico di Giovanni XIII è del 25 gennaio 1959), spostava l’attenzione delle forze cattoliche e dei vertici vaticani e le assorbiva appieno: nel maggio 1962 era iniziati i lavori per trasformare la basi-lica di San Pietro in aula conciliare e ormai si profilava quella battaglia fra progres-sisti e conservatori che non avrebbe più avuto a oggetto il modesto orizzonte della politica italiana, ma la trasformazione della Chiesa Cattolica. Su questa fase si ve-da Storia del Concilio Vaticano II, diretta ve-da Giuseppe Alberigo, vol. I., Il cattolice-simo verso una nuova stagione. L’annuncio e la preparazione. Gennaio 1959-settem-bre 1962, Bologna 1995 (ma ovviamente tutta l’opera va tenuta presente per la storia della svolta degli anni Sessanta).

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erano sia ragioni di polemica politica che retaggi legati a un certo tipo di cultura che metteva insieme il rigorismo della formazione dei rivoluzionari di professione e la tradizione dell’ascetica sociali-sta contro la corruzione della ricchezza.

Ovviamente un topos polemico tipico del nostro periodo riguar-dava la capacità dell’URSS di essere produttrice di benessere per il suo popolo. Se l’ambasciatore italiano a Mosca, Manlio Brosio, annotava nei suoi diari già nel settembre 1947 la difficoltà in cui si trovavano le delegazioni parlamentari italiane al vedere la miseria della popolazione russa29, più di una decina di anni dopo il

diplo-matico americano George Kennan, l’inventore della teoria del «containement», dichiarava alla rivista italiana «Tempo presente» che ormai anche l’URSS era da considerarsi avviata ad avere come primo obiettivo la conquista di un «sistema di welfare» (il che do-veva renderla potenzialmente meno aggressiva)30. Del resto fra le

ragioni che avevano spinto gli USA al varo del piano Marshall vi era anche la convinzione che un’Europa in miseria sarebbe stata fa-cile preda del comunismo, mentre lo sviluppo economico avrebbe spostato le masse operaie a riconciliarsi con la democrazia liberale.

Certo su questo punto si manifestò, proprio in Italia, un feno-meno di grande interesse, su cui invano si sarebbero affannati per anni sociologi e politologi europei e americani: il felice esodo dalla miseria della stragrande maggioranza delle classi popolari31non

portò a un ripudio della loro fedeltà politica al comunismo o al socialismo marxista. Ma qui naturalmente la questione è piuttosto complessa: quelle classi ritenevano che la conquista del benessere fosse esattamente un frutto del loro essere «comunisti» (era la lotta di classe che aveva costretto i padroni a concedere una parziale di-stribuzione delle ricchezze), e ritenevano, per molti aspetti non a

29 Cfr. M. BROSIO, Diari di Mosca. 1947/1951, Bologna 1986, pp. 120-121.

L’autore si sofferma particolarmente sull’on. Francesco Ferrari, «un simpatico e in-telligente socialista nenniano [che] attraversa una specie di crisi di coscienza» e su Luigi Gui, «democristiano, professore di filosofia, amico di Dossetti, [che] cerca di conciliare il più possibile ciò che vede e ciò che pensa, ma è interdetto».

30 Cfr. M. J. LASKI, Civiltà russa e civiltà americana. Intervista con George Kennan,

in «Tempo Presente», 5 (febbraio-marzo 1960), pp. 86-100. Ringrazio la dr. Mar-zia Maccaferri del nostro dottorato di ricerca in Storia Politica Contemporanea che mi ha fatto conoscere questo documento nell’ambito del suo lavoro. Del resto la sostanza di questa tesi era largamente condivisa. Per esempio Raymond Aron, con cui Kennan polemizzava, pensava che il fine ultimo del sistema sovietico fosse sem-plicemente quello di realizzare una tirannia totalitaria, ma lo vedeva comunque muovere da una promessa di realizzare la «abbondanza» insieme alla liberazione.

31 Si trattò in verità di un processo lento. Ancora nel 1953 veniva pubblicata una

grande inchiesta del Parlamento italiano sulla povertà, inchiesta che fece scalpore per il quadro devastante che fotografava.

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torto, che se avessero abbandonato la forza della loro organizzazio-ne di classe, quelle conquiste sarebbero state riassorbite e cancella-te in poco cancella-tempo. Non si dimentichi che questo era in buona par-te già avvenuto col fascismo, un’esperienza che rappresentava il vissuto di una quota più che significativa delle classi popolari.

Al di là però della questione dell’atteggiamento del PCI verso lo sviluppo, dobbiamo ricordare che a partire da metà degli anni Sessanta crebbero le voci che prendevano le distanze dall’ottimi-smo della visione keynesiana dell’equilibrio e del trend di svilup-po economico. L’interesse andrà dunque ssvilup-postato in un’altra dire-zione, cioè a indagare la formazione di quell’intellettualità «post-fascista», per riprendere il termine coniato dal gruppo più impor-tante, quello riunito attorno alla rivista «Il Mulino», che avrebbe trovato nelle scienze sociali anglosassoni il nuovo Verbo per rap-portarsi a una società in pieno sviluppo economico, ma proprio per questo bisognosa di un «governo» che non la facesse cadere vittima degli squilibri e delle improvvisazioni32. Le ambiguità del

benessere non sfuggirono agli ambienti più avvertiti: proprio il fatto che esso fosse divenuto la condizione per ottenere il consen-so e la legittimazione dei sistemi politici accresceva la necessità di avere conoscenze “scientifiche” che evitassero gli effetti perversi e distruttivi di fenomeni di crescita economica cui non sempre cor-rispondeva un armonico sviluppo del quadro sociale, culturale e istituzionale.

Accanto agli entusiasti sostenitori delle virtù del nuovo ciclo espansivo, non mancarono mai i critici di quanto accadeva. Inizia-mo con un esempio che riguarda la Francia: fin dal 1961 la rivista francese «Arguments» aveva ad esempio dedicato un numero spe-ciale alle «difficoltà del benessere»33e già nel 1965 comparve,

sem-pre per rimanere in quel contesto, il libro La France pauvre di Paul Marie de la Gorce. In Italia, il filosofo cattolico Augusto Del Noce attaccò nel Convegno di studio promosso dalla Democrazia Cri-stiana a Lucca nell’aprile del 1967 «la cosiddetta società del benes-sere o, come suol dirsi, società opulenta», che aveva innalzato l’ho-mo faber contro l’hol’ho-mo sapiens. Era una posizione l’ho-molto tradizio-nalista che vedeva nella presunta resa del cristianesimo alla scienza moderna il portato del pensiero del teologo Teilhard de Chardin,

32 Questa vicenda, che ormai rientra a pieno titolo per la sua fase iniziale nella

«storia politica» dell’Italia repubblicana non è stata ancora adeguatamente studia-ta. Per la fase fino al 1958 esiste una prima interessante ricostruzione realizzata da B. COVILI, I contenuti e i caratteri della società democratica negli intellettuali di nuo-va generazione, cit.

33 Cfr. «Arguments», n. 22, II trimestre 1961, numero speciale: Les difficultés du

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ma che soprattutto rifiutava «l’idea del benessere come valore asso-luto o anche soltanto come valore primario dell’ordine politico»34.

Si era all’interno di una diatriba importante nel mondo cattoli-co, poiché l’ultimo grande documento approvato dal Concilio Va-ticano II nel 1965, la costituzione pastorale Gaudium et Spes su rapporti tra Chiesa e mondo moderno, era risultato oggetto di un forte dibattito all’interno della stessa maggioranza conciliare aperta al rinnovamento dottrinale, essendo in questione se il rapporto col mondo moderno dovesse essere all’insegna di una valutazione otti-mistica del progresso umano o dovesse ispirarsi alle dottrine teolo-giche che mettevano l’accento sull’alterità del cristiano rispetto al mondo e sulla inestirpabile presenza del peccato35.

Ho richiamato questo fatto legato alla storia religiosa solo come esempio eclatante di un tornante storico: il Concilio Vaticano II, specialmente nella sua conclusione, testimoniava tanto l’assunzio-ne di un’ottica positiva verso i risultati raggiunti dall’evoluziol’assunzio-ne politica contemporanea da parte di una delle istituzioni che erano state, a dir poco, molto critiche nei suoi confronti, quanto la rina-scita di una presa di distanza da quel sistema culturale che l’aveva sostenuta e promossa nell’ultima fase. A ciò contribuì (e mi si per-donerà se ne tratto solo per accenni) la ripresa della questione sul «pericolo atomico» che, dopo l’impennata dei primi anni Cin-quanta, era tornata sulla scena col riaccendersi delle tensioni mon-diali che avrebbero avuto il loro catalizzatore nella guerra del Viet-nam. La fede nel progresso, che nel marzo del 1957 aveva fatto in-serire all’articolo 2 del Trattato di fondazione della Comunità Eco-nomica Europea il «miglioramento sempre più rapido del tenore di vita» fra gli scopi della nuova istituzione, cominciava a vacillare, in buona parte per la constatazione della difficoltà di estendere il modello a quel «Terzo Mondo» che si voleva considerare «in via di sviluppo», ma che rimaneva a livelli di arretratezza notevoli.

Una questione di fondo era, a mio avviso, quella che riguardava la legittimazione a gestire il nuovo equilibrio del benessere. Che esso esistesse poteva considerarsi un dato abbastanza pacifico, an-che se non lo si percepiva come stabile e strutturale: il ricordo

del-34 Cfr. A. DELNOCE, Il problema politico dei cattolici, Roma 1968, cit., pp. 15 e

21.

35 Su questo tema che, al di là dei problemi propriamente teologici, è la spia di

un tornante nella storia della cultura politica contemporanea, si vedano G. TUR -BANTI, Un concilio per il mondo moderno. La redazione della costituzione pastorale “Gaudium et spes” del Concilio Vaticano II, Bologna 2000, e, soprattutto, J. A. KO -MANCHAK, Le valutazioni sulla Gaudium et Spes: Chenu, Dossetti, Ratzinger, in J. DORÉ- A. MELLONI(edd), Volti di fine Concilio. Studi di storia e teologia sulla con-clusione del Vaticano II, Bologna 2000, pp. 115-153.

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le “crisi del capitalismo” era ancora vivo e non mancavano coloro che ritenevano che quella “sovrapproduzione” che le aveva causate un tempo fosse in sostanza ciò che ora si cercava di fronteggiare consentendo sconsideratamente l’espansione senza freno dei con-sumi36. Il problema era dunque come il sistema statale di

regola-zione dell’economia, ovvero la peculiare versione della pianifica-zione economica che era stata introdotta dal trionfo del keynesi-smo nella dottrina economica, potesse agire in modo da evitare le crisi e preservare i tassi di sviluppo, laddove cominciavano a levarsi critiche contro la massificazione consumistica: non si dimentichi che il famoso libro di Marcuse, che diverrà un mito nelle rivolte studentesche del 1968, viene pubblicato nel 196437.

Senza prestare attenzione a questo punto diventa difficile com-prendere il ricambio di classe politica che si ebbe agli inizi degli an-ni Sessanta. Se infatti tutta la questione avesse potuto essere ridotta alla promozione del benessere, la vecchia classe dirigente avrebbe avuto le carte in regola per rimanere al potere. Come ho già accen-nato, i vari miracoli economici del dopoguerra si erano realizzati sot-to l’egida di equilibri politici che potremmo in buona sostanza de-finire come equilibri di centro-destra. Nessun governo aveva real-mente messo in atto quel “capitalismo selvaggio” di cui favoleggia-vano le forze dell’estrema sinistra e la sua azione non si era limitata a mantenere quello standard di servizi sociali cui peraltro avevano mirato già le grandi dittature fasciste. Le politiche di tassazione era-no state abbastanza contenute e la difesa del nuovo potere d’acqui-sto dei salari non era mai stata trascurata da nessuno.

Perché allora i “conservatori” avevano perso credibilità? Perché in Europa si andava diffondendo sempre più l’idea che fossero ne-cessari quegli “equilibri più avanzati” di cui abbiamo detto in Ita-lia? Il fatto è che nel torno di anni che stiamo esaminando divenne evidente in modo inconfutabile che lo sviluppo aveva una ricaduta sul rimodellamento della società, cioè una ricaduta su un delicato terreno che preoccupava molto i conservatori. Non si trattava in-fatti semplicemente di distribuire con maggior senso sociale e in maniera più allargata i dividendi dello sviluppo, ma si trattava ben più radicalmente di cambiare mentalità e di accettare che fosse la “mobilità” il nuovo motore dello sviluppo. Ora, non occorre essere

36 L’atteggiamento dei comunisti di fronte a questa svolta è complesso e va

anco-ra analizzato in profondità. Per prime tanco-racce di lettuanco-ra rinvio a N. AJELLO, Il lungo addio. Intellettuali e PCI dal 1958 al 1991, Roma-Bari 1997, pp. 20-47; L. PAGGI - M. D’ANGELILLO, I comunisti italiani e il riformismo, Torino 1986; L. CAFAGNA, C’era una volta…(riflessioni sul comunismo italiano), Venezia 1991.

37 Cfr. H. MARCUSE, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale

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dei grandissimi studiosi di storia per sapere che è proprio la mobi-lità quel che preoccupa un’ideologia conservatrice: senza la garan-zia della stabilità dei punti di riferimento diventa difficile governa-re lo sviluppo in una digoverna-rezione che sia orientata a non mettegoverna-re in discussione il famoso status quo ante38.

Il dibattito sul modello politico era stato piuttosto vivace in Europa nell’immediato dopoguerra e aveva ruotato quasi ovun-que intorno a un problema che definirei «del socialismo necessa-rio»39, cioè l’inevitabilità di sistemi di socializzazione e

centraliz-zazione del controllo sulle risorse da distribuire al fine di dispor-re di una ricostruzione socialmente accettabile e sufficientemente equa. L’incubo dei guasti indotti da una condotta “allegra” della ricostruzione, come era stata quella seguita alla prima guerra mondiale, era intuibile in molti protagonisti. Se di una radicale cancellazione del capitalismo nel 1945 non parlavano che poche componenti di estrema sinistra, la sensazione che fosse impossi-bile una semplice restaurazione dell’economia di mercato era as-sai diffusa. I tedeschi che avevano deciso di puntare invece pro-prio su questa strategia restauratrice dell’economia di mercato dovettero combattere duramente con i dirigenti americani e bri-tannici delle forze di occupazione che erano contrari e che avreb-bero preferito forme di economia pianificata (e in ogni caso un lungo periodo in cui mantenere un’economia controllata da un potere centrale)40.

Come abbiamo visto il passaggio da questa prospettiva a quella della società dell’affluenza era stato, tanto in Italia quanto nel resto d’Europa, la vera svolta del secondo dopoguerra. Non il governo dell’equa distribuzione della scarsità era stato il modello legitti-mante (quello che, tanto per dire, aveva ispirato l’austerity di Standford Cripps), ma il governo che creava sviluppo e con questo un allargamento pressoché infinito delle opportunità di crescita per tutti.

38 Su queste peculiarità dell’ideologia conservatrice cfr. M. FREEDEN, Ideologie e

teoria politica, Bologna 2000, pp. 407-529.

39 Era questo il tema che aveva attirato l’attenzione della vis polemica di F. A.

VONHAYECK, La via della schiavitù, Milano 1995, molto più che non la questione keynesiana, che del resto nel libro, originariamente comparso nel 1944, non è mai citata, mentre vengono citati i coniugi Webb ed Elie Halévy, che erano stati, da prospettive diverse, proprio i sostenitori di quello che ho chiamato il «socialismo necessario». Ho analizzato questo tema nel dettaglio nel mio saggio La legittima-zione del benessere. Nuovi parametri di legittimalegittima-zione in Europa dopo la seconda guerra mondiale, in P. POMBENI(ed), Crisi, Consenso, legittimazione. Le categorie della transizione politica nel secolo delle ideologie, Bologna 2003.

40 Cfr. A. J. NICHOLLS, Freedom with responsibility. The social market economy in

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Da questo punto di vista il 1968 segna la conclusione di un ci-clo con la rivolta degli studenti, prima vera «generazione del be-nessere» non solo nel senso economico, ma anche e soprattutto nel senso del benessere come accesso generalizzato e a basso costo alle risorse pubbliche di ingresso nell’elite (l’università). Le domande delle rivolte studentesche, col loro mischiare temi economici, che rilanciano analisi superate del capitalismo, e temi sociali che riven-dicano la garanzia del benessere svincolato dalle regole della sua produzione sul piano economico, appaiono oggi sempre più un simbolo di quella trasformazione della sfera politica che ci ha por-tato a elaborare un sistema in cui la più consistente forma di legit-timazione deriva dalla sua capacità di garantire la produzione del benessere collettivo.

Non che tutto sia riducibile a questo aspetto. Indubbiamente non va dimenticato un aspetto della storia culturale: il tentativo di far convivere la secolarizzazione delle ideologie politiche, che aveva alle spalle una storia lunga essendo diventata un tema fin dagli an-ni Cinquanta e dal noto capitolo finale del volume di Aron sul-l’oppio degli intellettuali, con la rinascita dell’utopismo politico, che si presentava come alternativo a quelle che venivano ritenute forme superate di “falsa coscienza”.

Varrebbe forse la pena di chiedersi se a unificare i due apparenti corni di questo dilemma non stesse quell’ingenua fiducia nell’in-genieristica delle scienze sociali che ancor oggi ci portiamo dietro. Fu infatti una certa fiducia nella tecnica e nella scienza, per tacere degli aspetti “tecnocratici” delle politiche economiche e sociali, a caratterizzare gli anni Sessanta e la fase più alta della legittimazio-ne del belegittimazio-nessere e a esorcizzare la paura, abbondantemente soste-nuta da analisi di parte marxista, che la lunga fase di affluenza fos-se frutto solo di una specie di bolla speculativa di gigantesche di-mensioni, di un grande inganno che presto avrebbe dovuto rive-larsi nella sua vera essenza. Fu la teoria del “neocapitalismo” che abbiamo già richiamato.

La fiducia nella scienza, che si alimentava dai progressi raggiunti in vari campi (ricorderemo qui per tutti la tecnologia aerospazia-le), non riusciva del tutto a rimuovere una paura atavica per il suo uso improprio, ancora legato all’angoscia per l’incognita atomica, anche se si trattava di un timore che era stato ridimensionato dalla teoria del cosiddetto «equilibrio del terrore»41. Si trattava insomma

di una sensazione piuttosto ambivalente: da un lato gli anni

Ses-41 Sarebbe importante a questo punto ricordare il quadro della politica

internazio-nale del periodo, per un primo schizzo del quale si rinvia al bel libro di G. FORMI -GONI, Storia internazionale nell’età contemporanea, Bologna 2000, pp. 367-453.

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santa lasciavano in campo una sorta di utopia politica benigna, che era semplicemente il portato romantico della delusione per le difficoltà in cui si batteva il riformismo politico, per lo più di sini-stra, salva l’eccezione gaullista; dal lato opposto alla fine degli anni Sessanta veniva rilanciata l’utopia apocalittica negativa, quella che vedeva la rinascita solo in una “fine del mondo” che facesse uscire dalle secche in cui sembrava impantanarsi la storia (e qui possiamo citare il mito terzomondista, dove si andava dall’America del Sud alla Cina, o le varie facce del movimento pacifista). Persino la Chiesa cattolica, con due icone di pontefici così diversi come Gio-vanni XXIII e Paolo VI, sembrava immersa appieno nella contrad-dizione che abbiamo appena ricordato42.

Nonostante tutto questo il «tenore di vita» come metro per mi-surare la legittimazione di un sistema non sarebbe venuto meno, almeno sino a oggi. A mutare sarebbe stato il «consenso» sui mez-zi idonei a ottenerlo: non si era più sicuri che quelli sino ad allora messi in opera fossero ancora sufficienti e idonei per continuare in quell’opera di integrazione sociale che aveva mutato il panora-ma tradizionale delle stratificazioni di classe, che era ancora co-mune nell’Europa del XIX secolo e che ora si voleva superato una volta per tutte con la nuova società che, avendo espanso in oriz-zontale l’accesso ai consumi un tempo riservati alle elite, non si sarebbe più accettata come ancora ben lontana dall’aver realizzato la mitica eguaglianza a cui guardava la rivoluzione politica dall’il-luminismo in poi.

42 Un esempio molto pregnante di queste contraddizioni è rappresentato dalla

storia del documento sul rapporto tra Chiesa e mondo moderno del Concilio Va-ticano II: cfr. il bello studio di G. TURBANTI, Un Concilio per il mondo moderno, cit.; per una valutazione complessiva G. ALBERIGO, Transizione Epocale, in Storia del Concilio Vaticano II, cit., vol. V, 2001, pp. 577-646.

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