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Firenze University Press

Iustitita, lex, consuetudo:

per un vocabolario della giustizia

nei capitolari italici

Estratto da Reti Medievali Rivista, VI - 2005/1 (gennaio-giugno)

<http://www.dssg.unifi .it/_RM/rivista/saggi/Balossino.htm>

RM

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<http://www.dssg.unifi .it/_RM/rivista/saggi/Balossino.htm> ISSN 1593-2214 © 2005 Firenze University Press

RM

Reti Medievali

Iustitita, lex, consuetudo:

per un vocabolario della giustizia

nei capitolari italici

di Simone Balossino

1.1. I capitolari: defi nizioni e precisazioni.

Lo studio sui capitolari pubblicato verso la metà del secolo scorso a opera di François-Louis Ganshof, ancora oggi una delle opere di riferimento per chi si accosta a tali documenti, offre una chiara defi nizione dei capitolari, anche se implica una gran quantità di precisazioni e specifi cazioni ulteriori. I capito-lari sarebbero “atti del potere” che i sovrani carolingi adottavano per rendere valide le diverse misure di ordine legislativo o amministrativo il cui testo è generalmente diviso in articoli1.

Così defi niti, i capitolari indicano essenzialmente i documenti promulgati dai sovrani e dagli imperatori carolingi nel corso dei placiti, cioè le assemblee che vedevano riuniti con il sovrano i grandi dell’impero, laici ed ecclesiastici2.

Durante le sedute al sovrano erano sottoposti problemi di natura e di carattere molto diverso per i quali si aspettava una pronta risoluzione. Al termine del placito l’imperatore procedeva alla promulgazione della legge, che avveniva

per verbum regis, atto considerato come l’attributo necessario per una

rego-lare accettazione della legge: tale adnuntiatio rappresenta, però, con buona probabilità, solo una breve sintesi fi nale di tutte le disposizioni prese durante il placito. Le leggi, nella loro forma completa, subivano infatti una redazione

per capitula da un’apposita commissione di esperti. Questi articoli erano poi

affi dati a missi e a comites affi nché si preoccupassero della loro diffusione nei territori del regno3.

Questo lavoro ha come obiettivo lo studio del vocabolario della giustizia nei capitolari italici, i testi legislativi prodotti in Italia durante la dominazione carolingia tra la fi ne del secolo VIII e l’intero secolo IX4. Le analisi svolte

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approccio che osserva il lessico cercando di restituirgli la sua specifi ca dimen-sione temporale5.

L’esame di queste fonti normative presenta tuttavia delle diffi coltà dovute soprattutto allo stato ancora imperfetto degli studi relativi alla loro tradizio-ne6. I capitolari soffrono di una notevole disomogeneità dovuta non solo al

fatto che essi non costituiscono un’opera letteraria prodotta da un singolo autore ma anche perché non rappresentano un testo normativo consolidato e trasmesso a partire da una redazione uffi ciale. Essi ci sono giunti, in base alle considerazioni già esposte, sotto una pluralità di redazioni, risultati dall’opera di più di scribi che raccoglievano per iscritto quanto sentivano pronunciare

per verba7.

Si noterà tuttavia, in modo particolare rifl ettendo sulle formule ricorrenti usate nei vari testi normativi, che, seppure con le dovute cautele imposte dal numero esiguo di testi a nostra disposizione8, i tratti unifi canti nello stile e

nelle forme delle diverse redazioni sono notevoli. Il vocabolario comune usato per la composizione delle norme tende a rimanere omogeneo col passare del tempo. Esso potrebbe dunque essere concepito essenzialmente come un pro-dotto dell’ambiente culturale e giuridico che lo ha determinato e propro-dotto: i suoi mutamenti e le sue variazioni sembrano dovuti soprattutto alla generale e naturale evoluzione linguistica piuttosto che all’eterogeneità dei diversi re-dattori.

Un altro limite dell’analisi presentata in questa sede è rappresentato dal ristretto numero di termini scelti all’interno di quel vasto complesso defi nibile come “vocabolario della giustizia”, tra cui spiccano iustitia, lemma base della ricerca, lex e consuetudo. Le differenti particolarità d’uso di questi vocaboli concorrono tuttavia a delineare più chiaramente alcuni tratti del sistema giuridico dei secoli VIII e IX. La parziale indeterminatezza sulla trasmissione dei capitolari e sul loro confl uire nelle diverse raccolte rende forse relativo il valore statistico dei risultati, che rimane coerente comunque con l’insieme attualmente accreditato dagli studiosi e qui preso in considerazione.

L’analisi, inoltre, si basa unicamente sullo studio dei capitolari italici sen-za tenere in considerazione altre importanti fonti con cui potevano attuarsi interferenze a livello lessicale: prima di tutto i placiti, ma in generale i diplomi. Il confronto con i risultati di un’indagine estesa ad altri tipi di fonti e condotta con un simile approccio – che tiene conto dell’aspetto sia quantitativo sia qua-litativo delle occorrenze e considera i diversi termini nella loro globalità, in ri-ferimento a un quadro storico, sociale e politico completo – fornirebbe infatti l’ideale completamento e il perfezionamento adeguato di questa ricerca.

1.1. I capitolari italici.

Com’è noto, quando nel 774 Carlo Magno abbatté la dominazione longo-barda, il regnum Langobardorum non fu cancellato, ma subì solo un cam-biamento di dinastia. Pur mantenendo una certa autonomia, fu inglobato nel grande regno franco: ebbe un proprio sovrano, una propria amministrazione e fu dotato soprattutto di leggi proprie. Trovarono applicazione nella penisola

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sia disposizioni generali, che erano valide anche per gli altri territori del do-minio franco, sia disposizioni particolari, emanate dai sovrani esclusivamente per l’Italia9. L’applicazione in Italia delle disposizioni generali, con buona

probabilità volte in una forma longobardica più adatta alla realtà italica, non era però scontata come si potrebbe pensare10. L’aristocrazia del regno tendeva

infatti a opporsi ai provvedimenti adottati nel corso delle diete franche, se prima non era effettuata una loro esplicita accettazione da apposite assemblee italiche. Per questo motivo molte disposizioni generali rimasero inascoltate in Italia, come evidenzia lo stesso Carlo Magno in una lettera inviata al fi glio Pipino alcuni anni dopo l’incoronazione a imperatore11.

Nell’832 Lotario I fece procedere a una revisione dei capitoli provenienti dagli editti di Carlo Magno e di Ludovico il Pio, per stabilire quali di questi potevano essere validi per il regno italico. La raccolta che fu prodotta prese il nome di Capitulare Papiense e divenne, in seguito, il punto di partenza per una nuova compilazione che fu intrapresa negli ultimi anni del secolo IX, con ogni probabilità a Pavia, e che fu chiamata Capitulare Italicum, una sorta di anticipazione di quelli che adesso sono defi niti “capitolari italici”. Il

Capitulare Italicum fu aggiunto agli editti dei sovrani longobardi e concepito

come naturale prosecuzione della loro legislazione. Nel secolo X prese il nome di Liber Papiensis, che rimase in vigore fi no al secolo XI, quando fu soppian-tato da una nuova sistematica raccolta di testi, detta Lombarda12. Occorre

dunque essere ben consapevoli questo intenso lavoro di risistemazione. 1.2. Oralità e scrittura.

La questione del rapporto tra la trasmissione orale dei capitolari e la loro tradizione scritta è stata ampiamente dibattuta13. Vi è unanimità nel rilevare

come non sia possibile stabilire una precisa gerarchia tra queste due forme della produzione legislativa senza incorrere in uno schematismo che si rivele-rebbe eccessivo: in realtà non si tratterivele-rebbe di ambiti contrapposti, ma facenti parte di un medesimo sistema, nel quale possono coesistere e succedersi con organicità14.

Lo studio di Ganshof sui capitolari pone l’accento sull’importanza primor-diale della promulgazione orale, giudicata come base costitutiva del diritto. La legge annunciata per verbum regis costituisce la condizione principale senza la quale rischiava di non essere uffi cialmente riconosciuta a livello sia generale sia locale 15. Si riferisce del resto proprio al contesto italico la lettera di Carlo

al fi glio Pipino, in cui con tono irritato l’imperatore biasimava i suoi uffi ciali che rifi utavano di obbedire alle disposizioni rese pubbliche nell’803, perché non vi era stata un’effettiva adnuntiatio imperiale delle stesse16. Lasciamo

un momento da parte le ragioni politiche insite nell’atteggiamento assunto dai funzionari italici, sul quale si ritornerà in seguito: è adesso importante rilevare che esistevano effettivamente letture pubbliche dei testi, quasi si-curamente accompagnate da traduzioni in una lingua più accessibile alla totalità degli astanti. La voce e la parola, soprattutto se emesse da un sovrano universale, rivestivano grande importanza perché possedevano quei caratteri

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di infallibilità e autorità, considerati condizioni necessarie dell’accettazione uffi ciale della lex.

Un altro tratto caratteristico che accompagnava l’adnuntiatio dei docu-menti è sicuramente quello della ritualità che traspariva nel corso delle pro-clamazioni, spesso rafforzata da gesti o azioni che sono rimaste impresse nelle numerose illustrazioni delle collezioni legislative a noi pervenute, prodotte nei secoli successivi17. Infi ne, l’importanza della promulgazione orale è quasi

scontata se si considera il raro impiego che la scrittura aveva nella società dei secoli VIII e IX, anche se la tradizione scritta in Italia rimane più forte che nei territori d’oltralpe18.

Oltre però all’indubbia preesistenza della promulgazione orale rispetto alla tradizione scritta, è fondamentale notare come essa fosse anche il miglior veicolo di diffusione delle disposizioni legislative in tutte le regioni del regno. È in questo caso che l’oralità assume un valore importante, proprio grazie alla sua capacità non solo di giungere quasi in ogni luogo, avendo la parola stessa per sua natura pochi ostacoli naturali da superare per espandersi, ma anche di essere conosciuta da tutti coloro che non erano in grado di leggere. A con-ferma di questa afcon-fermazione potrebbero essere citati i molti esempi in cui emergono ripetizioni non solo di singoli termini, ma anche di intere formule con evidente funzione mnemonica19.

Sarei propenso a credere, tuttavia, che la piena validità della legge, quanto meno in Italia, risiedesse nella tradizione scritta dei testi legislativi. Nell’analisi dei capitolari italici sembra che sia lo scritto a rendere vincolante la legge e che solo dalla sua redazione uffi ciale dipenda la piena legittimità. Questa impor-tante formalizzazione della procedura giuridica italica si rivolgeva soprattutto ai molti giudici che si trovavano spesso a deliberare le sentenze per arbitrium, cioè senza una precisa applicazione delle norme uffi ciali. L’azione di Carlo Magno provocò un cambiamento di tendenza nella tradizione scritta dei docu-menti, segnando di fatto il passaggio dalla fase “primitiva” dell’oralità a quella più evoluta della scrittura, “a garanzia della certezza del diritto”20.

Questa prassi spinse altri sovrani italici ad ammonire tutti coloro che si occupavano in maniera non adeguata dell’amministrazione giudiziaria con-sigliando loro una diligentissima examinatione secundum scriptam legem21,

cioè invitando al rispetto per la legge depositata presso le cancellerie o conser-vata nelle differenti raccolte; anche se poi l’idea di un’archiviazione sistema-tica e regolare dei documenti può non sempre rivelarsi conforme alla realtà dei fatti22. Raccolte di testi giuridici sicuramente esistevano e dovevano essere

incoraggiate dal potere centrale, anche se risultano inferiori per numero alle nostre aspettative.

L’età carolingia si confi gura dunque come età di sviluppo della tradizione scritta dei documenti. È grazie a questa tradizione scritta che la riorganizza-zione amministrativa carolingia, avviata non solo in Italia, poté esprimersi nel modo più alto e completo, non solo in virtù della costruzione di un grande ap-parato legislativo, ma anche perché consentì un più saldo legame tra il potere centrale e tutti gli organismi periferici23.

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1.3. Periodizzazione.

Per rendere l’analisi lessicale dei capitolari italici più agevole e calibrata è necessario operare una suddivisione cronologica all’interno del complesso dei testi a noi pervenuti. Questo criterio, che non è immune da semplifi cazioni e schematizzazioni, permette di osservare con maggiore facilità i cambiamenti e le analogie presenti all’interno dei differenti blocchi documentari.

La suddivisione che probabilmente più rispetta l’equilibrio esistente al-l’interno dei documenti è quella che prende come base di partenza il sovrano promulgante24. Grazie a questa partizione è possibile individuare quattro

ma-cro-periodi all’interno dell’esperienza carolingia in Italia, ognuno dei quali ca-ratterizzato da una differente qualità dell’autorità centrale e da una personale visione dell’ordinamento giuridico.

Primo gruppo: capitolari di Carlo Magno e di Pipino. Il primo gruppo è

formato dai capitolari promulgati durante i regni di Carlo Magno, di Pipino e di Bernardo. All’interno di questo grande insieme, composto da 19 testi redatti nell’arco di circa 37 anni, si assiste alla progressiva formazione del sistema amministrativo franco per la penisola italica25. Con più precisione, all’interno

di questa sezione, i documenti legislativi sembrano delineare essenzialmente due diversi orientamenti politici adottati dai primi sovrani perché da un lato dimostrano con chiarezza il loro impegno per una veloce riorganizzazione amministrativa del Regnum Langobardorum, indebolito dalla recente guer-ra, dall’altro cercano di rinsaldare la conquista con l’introduzione di alcuni provvedimenti tesi a uniformare gradualmente l’amministrazione longobarda a quella franca26.

I capitolari che datano tra il 776 e il 787-788 sono infatti caratterizzati da una forte volontà di riordinamento complessivo, soprattutto dal punto di vista amministrativo, come appare evidente nel capitolare di Carlo del 776 indirizzato alla gens italica. Questo testo è redatto per arginare la crisi sorta in seguito alla guerra combattuta contro i Longobardi27 e mira alla cancellazione

degli abusi e delle illegalità, tutelando le chiese, gli esponenti del clero e tutti i

minus potentes presenti sul territorio, per ristabilire la pace sociale

scoraggia-ta soprattutto dalle spinte autonomistiche dei duchi longobardi, che tenscoraggia-tano di esercitare un controllo più saldo sulle aree meridionali della penisola28. Da

questo provvedimento, e anche da quelli immediatamente successivi, emerge però con chiarezza la volontà di attivare un ordinamento periferico all’interno del quale i funzionari del regno, tra le loro principali competenze, avessero quella di garantire un completo ristabilimento della giustizia: questa indica-zione è da intendere sia in senso ideologico, con un evidente intento propa-gandistico, sia in senso pratico, riferendosi così a un intervento concreto di riassetto amministrativo e di redistribuzione del potere. La giustizia diviene perciò, fi n dalla primissima dominazione carolingia sul suolo italico, il princi-pale fi lo conduttore del programma politico franco.

Questo capitolare, tuttavia, proprio perché presenta tutti i caratteri di un testo redatto in una situazione eccezionale, non può chiarire in modo assoluto

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e univoco la reale politica franca. Esso precisa solo gli aspetti iniziali grazie ai quali il consolidamento del potere politico in Italia può avere luogo29. La

lettera circolare del 779-780 e il capitolare mantovano del 78130 sono i primi

veri documenti legislativi che evidenziano il desiderio di ristabilire l’ordine nel

Regnum Langobardorum tramite l’estensione all’Italia dei principi

ammini-strativi franchi presentati nel capitolare di Hérstal del 77931. Non si assiste

perciò a una costruzione originale e ben pianifi cata dell’apparato legislativo, ma a un innesto graduale delle normative franche su quelle longobarde già esi-stenti, in modo da indebolire i gruppi sociali longobardi politicamente ancora attivi. La successione carolingia in Italia, infatti, si attua con ritmi diversifi cati e progressivi, dominati in questo primo periodo da esigenze sia militari, sia politiche32. Anche la presenza del sovrano sul suolo italico, che diverrà più

stabile solo nel corso del secolo IX, tende a confermare la gradualità con cui si attuò la conquista. Gli altri capitolari presenti in questo primo macroperiodo sono attribuiti al fi glio di Carlo, Pipino, il quale nel giorno di Pasqua del 781 fu consacrato rex Langobardorum. La sua autorità, nonostante la formale auto-nomia, non risultò mai veramente indipendente, come dimostra la presenza di un buon numero di uomini di fi ducia dell’imperatore all’interno del regno e al suo fi anco33.

Sono i capitolari promulgati dall’801 all’813 i testi all’interno dei quali si assiste al vero tentativo di costruzione di un apparato legislativo franco per il territorio italico: il più eloquente in questo senso è sicuramente il cosiddetto

capitulare Italicum emanato da Carlo una volta divenuto imperatore34. Qui,

pur ammettendo una continuità e una prosecuzione legislativa improntata al modello longobardo, spicca tutta l’individualità del Regnum che rimarrà, an-che in seguito, una delle sue caratteristian-che principali. Il Regno Italico assume una posizione particolare all’interno dell’impero perché mantiene una relativa autonomia grazie a un “saldo e permanente nucleo gestionale dell’autorità re-gia” al suo interno35.

Con il capitulare Italicum di Pipino risalente all’806-10, la lettera di Carlo indirizzata al fi glio sempre nello stesso periodo e i due capitolari mantovani dell’813 i sovrani cercarono di spostare sempre più l’ordinamento pubblico del regno verso il modello franco36. A tal fi ne fu attuata anche una decisa

politi-ca contro l’élite longobarda ancora potente e politi-capace di indebolire l’autorità del re, benché formalmente legittimata nell’806 con la nota divisio Imperii37.

Secondo gruppo: capitolari di Lotario I. I 13 capitolari promulgati tra

l’822-23 e l’847 sono il prodotto legislativo del regno di Lotario I, re d’Italia dall’823 e imperatore dall’840 fi no all’855. Lotario salì al trono dopo la morte di Bernardo, inaugurando una stagione del tutto nuova nella produzione e nella concezione della lex scripta. Secondo François Bougard è solo grazie a questo sovrano che la produzione legislativa italica si fa realmente abbondan-te e inabbondan-tensa38: negli anni 822-25, periodo che può essere considerato come

il più produttivo del suo regno, la cancelleria regia produce ben sette docu-menti. Tra questi sono da evidenziare, per importanza, i capitolari emanati a

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Corteolona, nei quali il contenuto tende a specializzarsi. Possiamo distinguere il testo dell’822-23 redatto a Corteolona dedicato esclusivamente ai conti, dal capitolare olonnese dell’825, nel quale si prendono decisioni su temi ecclesia-stici39. Altri capitolari sono promulgati con motivazioni ben precise e a volte

pressati, come avviene per un capitolare di diffi cile datazione e indirizzato ai monasteri da ispezionare, per il testo dell’825 riguardante la spedizione in Corsica e soprattutto per il capitolare dell’847, redatto in vista dell’imminente spedizione contro i Saraceni che opprimevano con razzie e rapine i territori centro-meridionali della penisola40. Il potenziamento della normativa militare

rappresenta, infatti, uno dei cardini della dominazione carolingia41,

continua-mente tesa verso la ricerca di nuove forme di reclutamento in caso di guerra. Nonostante questa produzione risulti specializzata e particolarmente abbondante, la presenza di Lotario sul suolo italico negli anni del suo regno non è costante. Mentre alcuni hanno evidenziato il fatto che il titolo imperiale procura direttamente un indiscutibile “interesse” verso gli aspetti relativi alla legislazione42, quella dignità provoca soprattutto un progressivo

allontana-mento “fi sico” dal Regnum Langobardorum. Da Lotario in poi quasi tutti i re d’Italia sono anche imperatori: questo determina un mutamento nella forma stessa del potere che diviene sempre meno presente e in forte contrasto con le crescenti clientele dei potentes43. Le continue assenze di Lotario, unite alla

sporadica presenza dei missi dominici negli anni del suo regno, rallentano l’amministrazione giudiziaria. La situazione emerge in tutta la sua gravità nelle disposizioni straordinarie emanate durante le visite nella penisola tese, soprattutto, a risanare sia la crisi istituzionale ed economica del regno, sia la decadenza culturale e morale del clero44. Ciò è ravvisabile nella constitutio Romana emanata nell’824 come pure nelle disposizioni redatte a Corteolona

nell’anno successivo45.

A partire dall’anno 834 l’autorità regia sembra però avere una consistenza più salda, anche se la fi gura del sovrano ha assunto una fi sionomia più au-tonoma già dopo l’823, quando il re soggiorna per la prima volta in Italia46:

la stessa titolazione del regno muta nei documenti prodotti dalla cancelleria regia durante il governo di Lotario, da Regnum Langobardorum a Regnum

Italiae, come è defi nito dopo l’834.

Terzo gruppo: capitolari di Ludovico II. Il terzo gruppo di capitolari

risul-ta composto dai documenti redatti durante il regno di Ludovico II, re d’Irisul-talia dall’844 e imperatore dall’855. La pur abbondante documentazione, prodotta dalle frequenti assemblee convocate negli anni di regno di questo sovrano, risulta, dal punto di vista più strettamente legislativo, limitata rispetto a quel-la di altri periodi47. La precaria situazione delineatasi già durante il regno di

Lotario resta preoccupante anche durante il governo di Ludovico a causa del-l’autonomia acquisita dai grandi del regno48, delle incursioni saracene e della

politica sempre più autonoma della Chiesa. Al pari dei capitolari redatti du-rante il regno di Lotario I, anche i documenti legislativi di Ludovico II risen-tono di una marcata specializzazione e di una diversifi cazione. Soprattutto le

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problematiche di carattere ecclesiastico sembrano interessare e preoccupare i potentes del regno, come traspare nel testo della sinodo di Pavia nell’850, in cui i problemi più urgenti sofferti dal clero – decadenza morale, soprusi com-messi da vescovi, disobbedienza ai canoni – emergono in tutta la loro dram-maticità49. Le deliberazioni dei vescovi riuniti a Pavia pongono l’accento su un

elemento caratterizzante la politica carolingia: l’appoggio offerto al sovrano dai vertici sociali, sia laici, sia ecclesiastici, che alimentavano una base politica stabile attorno al sovrano50.

Il processo di rafforzamento del potere regio, già iniziato sotto Lotario, è proseguito da Ludovico grazie anche alla sua continua presenza in Italia51.

Gli sforzi compiuti da Ludovico per arginare una situazione di crisi, apertasi già con la morte di Carlo, tendono però all’insuccesso. Pier Paolo Bonacini ha percepito nell’eccessiva frammentazione del regno, causata dalla crescita continua di poteri a base locale, il problema più grave manifestatosi duran-te la dominazione carolingia52. La produzione legislativa durante il regno di

Ludovico, infatti, fu condizionata prevalentemente da motivazioni di politica “interna”, come appare dal capitolare redatto per la spedizione beneventana dell’866. L’azione dell’imperatore nel territorio meridionale, tesa a rinsalda-re la sua autorità in un’arinsalda-rea di forte tradizione longobarda, fu al centro degli ultimi anni di regno, quando la produzione legislativa di Ludovico si arresta defi nitivamente, anche a causa degli insuccessi militari53.

Quarto gruppo: capitolari di Carlo II e dei successivi re d’Italia. Si è

visto dunque che la produzione di testi legislativi si dirada già a partire dal regno di Ludovico II. Dalla seconda metà del secolo IX in poi si assiste a un pressoché totale abbandono di questo “moyen de gouvernement”, così come è stato defi nito da Bougard54. Dopo la morte di Ludovico II, il papa Giovanni

VIII e i grandi del regno propendono per la scelta di Carlo il Calvo, già a capo dei Franchi occidentali, come successore. Secondo un copione già osservato, la notte di Natale dell’875 Carlo il Calvo è unto imperatore dal papa e dopo po-che settimane consacrato re d’Italia a Pavia. Le tensioni accumulatesi durante gli anni di regno di Ludovico, intimamente legate alla struttura istituzionale del regno, affi orano con tutta la loro violenza negli anni successivi55. Il primo

documento del nuovo imperatore è il capitolare emanato l’indomani della sua incoronazione, nel febbraio dell’876 a Pavia56. Con questo atto egli si inserisce

in una prassi ormai divenuta abituale secondo la quale ogni cambiamento di dignità oppure ogni esordio di un nuovo governo è sancito dall’emissione di un testo legislativo57.

A parte il documento di Carlo II, nel quarto gruppo sono molti i testi che non presentano gli elementi distintivi propri dei capitolari, perché cresce la sfi ducia in questo strumento legislativo, che perde progressivamente l’effi ca-cia che si presume avesse in precedenza58. I riferimenti al passato sono molti,

ravvisabili soprattutto nei continui richiami a precedenti disposizioni. Dopo Carlo II solo Guido e Lamberto di Spoleto producono ancora qualche testo de-gno di essere inserito nelle raccolte legislativesuccessive 59. Il Regnum si avvia

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dunque verso una situazione di dissesto, istituzionale e politico a causa delle continue lotte tra i potentes locali e oltralpini che si contendevano il titolo di re d’Italia60. Questa situazione lasciò la possibilità ad altre forze, principalmente

ai Bizantini, di emergere e consolidare la loro autorità politica e territoriale, perlopiù in un meridione devastato da continue incursioni saracene61.

2. Iustitia.

Il termine dal quale questa ricerca ha inizio è iustitia. Dai capitolari emer-ge una nozione di giustizia molto concreta, quasi materiale, proprio grazie al fatto che a essa sono riferiti elementi distintivi che sarebbero normalmente propri di una qualsiasi realtà oggettiva. L’incapacità di pensare alla giustizia come un qualcosa di assoluto e la propensione a vederla realizzata material-mente e presente nel mondo, con diverse sfumature, è una caratteristica che ben esemplifi ca quello che è stato defi nito da Paolo Grossi “naturalismo” giu-ridico, cioè “un diritto incapace di distaccarsi dai fatti, realizzante una forma elementare che su quei fatti si adagia, si modella, si fonda”62.

La diffi coltà di astrazione si dimostra un tratto caratteristico di questo sistema legislativo, che palesa così un’estrema diversità da quello romano, in grado di enunciare nitidamente dei principi assoluti. L’idea altomedievale del diritto, che dagli storici del diritto è stata defi nita “primitiva”, diventava così la migliore possibile per la società dell’epoca perché richiedeva e procurava il minor numero di astrazioni, rendendo lo ius accessibile a un numero maggio-re di persone: la maggio-res, più del concetto stesso, assume così centralità nell’intero sistema altomedievale63. Con il termine primitivo, che troppo sovente è

consi-derato solo nella sua accezione negativa, non si vuole però caratterizzare que-sti sistemi giuridici in modo esclusivamente negativo, e giudicarli – adottando un’ottica comparativa – meno evoluti rispetto a quello romano. Essi sono e restano funzionali a gruppi umani con diverse strutture sociali e identità cul-turali che non possono sicuramente essere assimilate. Il confronto con altri sistemi giuridici si rivela utile solo come punto di confronto per evidenziare le eventuali difformità strutturali.

2.1. Concretezza della giustizia nei capitolari italici.

Nei capitolari italici il termine giustizia è impiegato nella maggior parte dei casi in unione con verbi transitivi oppure è seguito da aggettivi o pronomi possessivi. Tra i verbi più ricorrenti spiccano facere e habere ed è singolare il fatto che proprio questi verbi, così “elementari” nella loro forma, ci possono rivelare caratteristiche tipiche del vocabolario giuridico del tempo.

Ma la nozione di una giustizia “concreta” risiede, spesso in modo ancora più chiaro, anche in altri importanti fattori. L’uso di aggettivi e pronomi pos-sessivi, direttamente o indirettamente legati a iustitia, ci mostra come esistes-sero diverse concezioni di giustizia a seconda del soggetto al quale era riferita. Noteremo dunque che la giustizia poteva essere assimilata a una proprietà personale, specifi ca di ogni soggetto giuridico, e il suo possesso poteva essere

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rivendicato, con caratteristiche dissimili, anche dalle istituzioni laiche ed ec-clesiastiche che ne erano le garanti. Questa particolarità è messa in risalto an-che dal frequente utilizzo della forma plurale: erano dunque avvertite notevoli diversifi cazioni nella concezione della giustizia tanto da spingere i legislatori a ricorrere al plurale del termine.

Nel corso dell’analisi vedremo come i capitolari di Carlo e Pipino anteriori all’801 presentino caratteristiche originali rispetto agli altri che seguono, e proprio per questo motivo essi meritano considerazioni differenti. Si assisterà in questo primo gruppo alla progressiva affermazione di una nozione di giu-stizia defi nibile “concreta”, mentre nei restanti provvedimenti se ne vedrà il consolidamento, anche se piuttosto modesto, e successivamente il progressivo declino.

2.2. Concretezza della giustizia nei capitolari di Carlo Magno e Pipino

anteriori all’801.

L’idea che a ognuno appartenga una sua propria giustizia, personale e concreta, determinata grazie all’unione di iustitia con un verbo, un prono-me o un aggettivo che esprima un possesso, eprono-merge chiaraprono-mente nel primo gruppo di capitolari, e cioè in quelli di Carlo Magno e di suo fi glio Pipino an-teriori all’801. Si è già evidenziato come dopo la guerra contro i Longobardi e il passaggio di gran parte della penisola sotto il dominio carolingio la prima preoccupazione di Carlo sembra essere il ristabilimento completo della giu-stizia, soprattutto in favore dei gruppi sociali più deboli tra i quali spiccano i poveri, le vedove, gli orfani e le stesse chiese, come constatiamo già nei primi capitolari ricchi di provvedimenti volti alla loro tutela64. Nel capitolare del 781,

emanato da Mantova, è stabilito che de iustitiis ecclesiarum Dei, viduarum,

orfanorum, minus potentium volumus atque omnimodis precipimus ut om-nes episcopi et abbates et comites secundum legem pleniter iustitiam faciant et recipiant65. Questo ammonimento volto al rispetto dei minus potentes è

replicato nel capitolare di Pipino, già re d’Italia, composto probabilmente nel 78266, in cui si prescrive che viduas et orfanos tutorem habeant iusta illorum legem qui illos defensent et adiuvent, et per malorum hominum oppressio-nes suam iustitiam non perdant67. Nel capitolare di poco successivo del 787,

il riferimento è rivolto, in questo caso, alle donne che, sposate con uomini longobardi condotti da Carlo come ostaggi in Francia, sono rimaste nel Regno italico senza alcuna protezione68. In questi provvedimenti, che scaturiscono

da evidenti necessità propagandistiche,è leggibile la volontà di ripristinare la pace, dopo le guerre continue della tarda età longobarda. Nei primi anni della dominazione carolingia in Italia, la gestione e la regolamentazione dei confl itti sembrava essere legata proprio alla tutela e al mantenimento di una giustizia sociale che diviene così il tema centrale del programma ideologico e politico da attuare nel Regnum Langobardorum69. È per questo, appunto, che i richiami

al ristabilimento della giustizia risultano più numerosi in questo primo grup-po di documenti rispetto a quanto si constata negli altri gruppi. Non si deve dimenticare inoltre il fatto che in questa prima fase si avverte nella fi gura del

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sovrano una forte commistione di caratteri politici e religiosi, a differenza di quanto accade in altri periodi. Con la morte di Carlo e in seguito con quella di Pipino, che era stato fatto re dal padre stesso e dunque ne era il diretto succes-sore, si affi evolisce gradualmente l’immagine del sovrano-sommo sacerdote, difensore dei deboli e garante dell’ordine voluto da Dio che era stata utilizzata da Alcuino per delineare il modello del sovrano carolingio70.

Se analizziamo la concentrazione di iustitia in tutti i capitolari prodotti per il Regnum Langobardorum vediamo il termine ricorrere:

- 39 volte nel primo gruppo composto dai 19 capitolari di Carlo e Pipino, redatti in un intervallo di circa 24 anni;

- 31 volte nel terzo e nel quarto gruppo, composti da 27 capitolari prodotti da Lotario I e da Ludovico II, che abbracciano un periodo di circa 43 anni;

- 2 volte solamente nel quarto gruppo che comprende gli ultimi 9 capito-lari.

L’uso massiccio del termine iustitia aveva molto probabilmente un’im-portante funzione, sia psicologica sia propagandistica, e poteva così creare un’aspettativa più intensa, in tutti i ceti sociali italici, rispettto all’attuazione del programma politico carolingio. Non è però da sottovalutare il fatto che, con il passare del tempo, il vocabolario dei capitolari italici assume caratteri più originali grazie all’introduzione di un lessico giuridico diverso, più specifi -co e calibrato a se-conda delle esigenze.

Habere dunque è uno dei verbi che mostra più chiaramente una

nozio-ne di giustizia così diversa da quella moderna. Il verbo ricorre molto spesso nei primi capitolari, per poi diventare sempre più raro, fi no a scomparire del tutto negli ultimi testi a nostra disposizione. Il suo utilizzo quasi martellante è il primo elemento che induce a credere che la giustizia sia concepita come qualcosa di molto concreto, detenibile alla stregua di un bene personale e di cui si può rivendicare una precedente proprietà: è considerata quasi come un qualsiasi altro bene e come tale è reclamata. Sono costanti gli appelli al ristabilimento pieno e completo della giustizia, con continue esortazioni ai conti e agli avvocati in modo che prestino aiuto ai più deboli per evitare che

de illorum iustitias nulla neglegentia habeat, come è prescritto nel capitolare

mantovano del 781 redatto – lo si è già ricordato – in occasione di un placito generale71. Il successivo capitolare di Pipino, del 782 circa, ordina che

ciascu-no iustitiam habeat ad requirendum, e che questa sia amministrata soprat-tutto nei confronti di colui che iustitiam habere non potuerit72, così come si

riscontra anche in altri capitoli73. Infi ne, qualche anno dopo, ancora Pipino

nel suo capitolare pavese prescriverà ai missi di indagare nel regno che tutti

iustitias sic pleniter habeant74.

I capitolari or ora citati sono stati redatti nel corso di assemblee generali e placiti, con la partecipazione di esponenti dell’aristocrazia laica ed ecclesiastica e alla presenza del sovrano. Questo fatto ci indica come gli argomenti trattati rivestissero un’importanza tutt’altro che relativa e come le formule usate, con le implicazioni sociali e politiche che da esse si possono trarre, rispecchiassero

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fedelmente il modo di pensare dei grandi del Regnum Langobardorum. Il capitolare del 781, infatti, è il risultato di un placito generale tenuto a Mantova (De singulis capitulis, qualiter Mantua ad placitum generale omnibus notum

fecimus) e convocato con la fi nalità di estendere anche al Regno italico le

di-sposizioni del capitolare di Hérstal75. Anche il capitolare di Pipino redatto nel

782, già più volte citato, è promulgato durante una dieta mista cui era presen-te Pipino excellentissimo regi gentis Langobardorum, cum adessent nobis

cum singulis episcopis, abbatibus et comitibus seu et reliqui fi deles nostros Francos et Langobardos qui nobiscum sunt vel in Italia commorantur76. Nel

capitolare successivo, redatto nel 787 e attribuito a Pipino, si possono inoltre notare alcuni elementi che fanno propendere per una stesura operata con l’aiuto dei potentes del regno. Innanzi tutto occorre considerare che questo documento è emanato direttamente da Pavia, luogo fulcro della politica itali-ca77. In secondo luogo nei codici conservati a Gotha, Modena, Ivrea e Monaco

il titolo del capitolare è incipit capitulare quem Pippinus rex instituit cum suis

iudicibus in Papia e ciò non contrasta con i provvedimenti esposti nel

capito-lare che, se da un lato risentono del peso dell’autorità di Carlo Magno78,

dall’al-tro fanno emergere il prestigio sempre maggiore della classe degli iudices. Concretezza e materialità come elementi qualifi canti la giustizia risultano ancor più evidenti grazie ai riferimenti ai soggetti che ne rivendicano il posses-so. Sono numerosi i casi in cui accanto al sostantivo iustitia è posto un prono-me o un aggettivo possessivo. La giustizia diviene così un possesso personale non soltanto di soggetti giuridici qualsiasi, ma anche di istituzioni laiche ed ecclesiastiche: l’Impero, nella maggior parte dei casi rappresentato dal sovra-no stesso, e la Sancta Dei aecclesia. Non è reperibile in tutto il complesso dei capitolari accenno alcuno a una giustizia concepita come qualcosa di unico e immutabile, come principio supremo e assoluto: essa è accolta invece come una nozione “molteplice” che sembra mutare a seconda del soggetto al quale si riferisce. Emergerebbero, in questo modo, essenzialmente due tipi di pos-sesso della giustizia: semplifi cando molto la casistica presente nei documenti, si possono distinguere i titolari passivi di “giustizie”, intese come diritti, dai titolari attivi di “giustizie”, individuabili in coloro che si adoperano affi nché questi diritti siano giustamente rispettati.

Sono molti gli esempi che si possono citare a conferma di quanto si è detto poc’anzi. Nel capitolare mantovano del 781 troviamo le espressioni hoc ipse

comis aut eius advocatus per sacramentum fi rmare possit, quod de illorum iustitias nulla neglegentia habeat e de vassis regalis, de iustitiis illorum, ut ante comitem suum recipiant et redant79. Nel capitolare di Pipino del 782 in

due capitoli appare il termine iustitia accompagnato entrambe le volte dal pronome possessivo suam: si legge et per malorum hominum oppressiones

suam iustitiam non perdant e simul et per nostram praeceptionem unusqui-sque iustitia sua accipiat nella parte fi nale del testo80. Per quanto riguarda gli

altri soggetti cui la giustizia è riferita, l’occorrenza più interessante può essere indicata nel capitolare deciso in accordo con i vescovi longobardi. Vi si tratta della iustitiam dominorum nostrorum regum a cui le chiese, i monasteri e

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gli xenodochi che ricadono sotto il mundio del signore devono accordarsi81.

Il riferimento a una “giustizia dei sovrani”, piuttosto che a una legge con va-lenza territoriale, rende esplicito come esistessero più determinazioni per la nozione di iustitia. Questo aspetto introduce un’altra caratteristica peculiare nell’utilizzo del termine, che ne accentua la concretezza fi n qui dimostrata.

Come si è anticipato, il sostantivo iustitia appare frequentemente al plu-rale. Il signifi cato rimane però il più delle volte invariato: si parla, in questo caso, indifferentemente di “giustizia” o di “giustizie” senza che sia avvertita una distinzione tra le due forme. Il termine può assumere, tuttavia, valori e signifi cati diversi. L’utilizzo del plurale del sostantivo iustitia è più frequente nei primi capitolari e con più precisione esso è presente:

- 18 volte nel primo gruppo82;

- 1 volta nel terzo gruppo83;

- 2 volte nel terzo gruppo84

- nessuna volta nel quarto gruppo.

Questo avvicendamento tra iustitia e iustitiae, almeno a livello lessicale, è constatabile nel capitolare del 782, più volte ricordato, in cui si può nota-re come la forma singolanota-re e quella plurale risultino essenota-re perfettamente interscambiabili, senza che il signifi cato di base risulti alterato: Et si ipse

pontifi ce, Francus aut Langobardus, distulerit iustitiam faciendum, tunc, iuxta ut ipsi episcopi eligerunt, ubi consuetudo fuerit pignerandi a longo tempore, ut et inantea in eo modo sit pro ipsas iustitias faciendas. Et hoc constitutio: ubicumque pontifex substantiam habuerit, advocatum abeat in ipsu comitatu, qui absque tarditate iustitias faciat et suscipiat85. Si può

osser-vare come la forma distulerit iustitiam faciendum utilizzata in inizio frase sia mutata, alla fi ne della stessa, in pro ipsas iustitias faciendas.

Il capitolare pavese di Pipino del 787 esordisce con l’espressione: In

no-mine Domini. Incipit capitula de diversas iustitias secundum sceda domni Caroli genitoris nostri86, con impiego dell’espressione diversas iustitias per

indicare i casi giudiziari che saranno trattati nei capitoli successivi. Nel pri-mo capitolo del medesipri-mo capitolare si ritrova poi un’espressione analoga:

Placuit nobis atque convenit, ut omnes iustitiae pleniter factae esse debeant infra regnum nostrum absque ulla dilatione. Per defi nire i “casi giudiziari” si

ricorre così di nuovo alla forma plurale87.

Il plurale di giustizia assume anche i signifi cati di norme giuridiche e di diritti. L’accezione “diritti” può essere colta nel capitolare mantovano in cui si esprime interesse per i diritti delle chiese di Dio, delle vedove, degli orfani e dei deboli (De iustitiis ecclesiarum Dei, viduarum, orfanorum, minus potentium

volumus atque omnimodis precipimus ut omnes episcopi et abbates et comites secundum legem pleniter iustitiam faciant et recipiant) e dei diritti dei vassalli

del re (De vassis regalis, de iustitiis illorum, ut ante comitem suum recipiant et

reddant)88. Un caso interessante è rappresentato da un’altra norma del

medesi-mo capitolare, in cui è usato due volte il termine giustizia al plurale con l’acce-zione in entrambi i casi di procedure giudiziarie, che devono qui essere conside-rate come le sentenze disposte in seguito ai processi presieduti dai conti89.

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Resta adesso da considerare se anche nei capitolari degli altri gruppi pos-siamo riscontrare una simile e concretissima nozione di giustizia e, in caso affermativo, se essa permanga nel tempo.

2.3. Concretezza della giustizia nei capitolari del secolo IX.

Anche nei capitolari posteriori all’anno 801 si ritrova la medesima in-terpretazione del termine iustitia, benché in un numero di occorrenze e di accezioni minore. Abbiamo già notato come alcune caratteristiche presenti nei primi capitolari tendano a scomparire o ad affi evolirsi col tempo: questo è soprattutto imputabile al fatto che lo stesso termine iustitia è utilizzato con minore frequenza. Prima di procedere all’analisi è tuttavia necessario fare alcune precisazioni.

Se il primo gruppo di capitolari abbraccia un periodo di soli 27 anni, i capi-tolari di Carlo e Pipino posteriori all’801, quelli di Lotario, di Ludovico e quelli misti del quarto gruppo comprendono un periodo molto più esteso. Questi testi sono stati scritti nell’intervallo di quasi un secolo, all’interno del quale si possono distinguere fasi differenti. La produzione legislativa, consideran-do anche eventuali perdite, diminuisce, sia a livello quantitativo sia a livello qualitativo, come negli anni compresi tra l’813 e l’822, oppure alla fi ne del regno di Lotario I, negli anni che vanno dall’832 all’847. Al contrario, in altri periodi diventa più cospicua e interessante dal punto di vista contenutistico, come si constata durante i regni di Pipino (781-810), di Lotario I (822-25) e di Ludovico II (844-75). È perciò necessario, in primo luogo, relativizzare il materiale a nostra disposizione ed essere ben consapevoli di un dato solo ap-parentemente ovvio, vale a dire che in un intervallo più esteso possono inter-venire più cambiamenti rispetto al breve periodo, sia nell’impiego del lessico, sia nell’elaborazione dei contenuti.

In secondo luogo si deve tenere presente che i capitolari fi nora analizzati sono stati emanati da due soli sovrani, oltretutto con una netta predominanza di Carlo rispetto a Pipino per ciò che riguarda l’indirizzo politico generale. Gli altri documenti, invece, sono promulgati da un maggior numero di sovrani, fatto che rende ancora più eterogeneo il complesso legislativo. Si potrebbe aggiungere che in questo secolo di produzione legislativa italica si compie la lenta parabola discendente della dinastia carolingia90, che perde non solo

potere a vantaggio delle aristocrazie laiche ed ecclesiastiche, ma anche cre-dibilità in quanto auctoritas nel campo del diritto: è in questo periodo che si riscontra la maggior parte delle falsifi cazioni di testi normativi, prodotte nella maggioranza dei casi da una Chiesa conscia dell’incapacità della monarchia a difenderla dallo strapotere della nobiltà91. Tende così a spegnersi la fi ducia

nell’opera riformatrice del re e si ha la netta sensazione che i capitolari siano sempre più voce dei potentes del regno piuttosto che del sovrano.

In unione con il verbo habere il termine iustitia è usato solo due volte, e anzi nel capitolare di Carlo indirizzato ai missi italici leggiamo un’espres-sione non reperita in precedenza: de illis qui necessitatem paciuntur, ut

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di riparazione e quasi di conforto che il rispetto della giustizia procura. La seconda occorrenza si può leggere nel capitulare Italicum di Pipino, databile tra l’806 e l’810, di cui proprio l’amministrazione giudiziaria ne costituisce il leitmotiv. Il vocabolo iustitia è usato 8 volte e gli appelli alla sua ammini-strazione sine ulla dilatione sono ripetuti nei capitoli 4, 10, 13, e 15 (indiret-tamente anche in altri). Che i vassalli e gli austaldi del sovrano honorem et

plenam iustitiam habeant si può leggere nel capitolo 10 in cui vediamo posti

sullo stesso piano l’onore della carica pubblica e la giustizia “completa”, cioè amministrata nel modo più corretto93. L’espressione habeant plenam iusti-tiam è già presente nei precedenti capitolari94, e ciò non stupisce, vista la

vi-cinanza temporale e la continua ricorrenza di formule fi ssate in precedenza, di cui si è già parlato.

Neppure il secondo aspetto indicato, cioè l’utilizzo di iustitia al plurale, presenta particolari modifi cazioni formali, salvo il fatto che si dirada col tem-po. È da notare solamente come per la maggior parte delle volte si accompagni al verbo facere, mentre il plurale si riscontra due volte nel secondo capitolare mantovano dell’81395. Nel capitolare di Lotario indirizzato ai comites del re

a Corteolona nell’822-23 si ritrova la formula pleniter iustitiam faciant che ricorre frequentemente in più documenti, e di cui si parlerà in seguito. Nel capitolare di Ludovico II consegnato ai vescovi a Pavia, in una data compresa tra l’845 e l’850, troviamo il plurale di iustitia legato a un verbo che ne sot-tolinea ancor più l’aspetto concreto e materiale: volumus, ut post haec illas

quaeratis et ad nostram notitiam reducatis, sicut est de comitibus et eorum ministris, si iustitias neglegunt aut ipsas vendunt96. Il verbo vendere unito al

termine iustitia è usato nei capitolari italici in quest’unica occasione, ma sono frequenti i richiami rivolti a quei funzionari che la amministrano violando il giusto dettato delle disposizioni legislative. Il riferimento alla venalità della giustizia, o con più precisione delle giustizie, evidenzia un tratto caratteristico del diritto di derivazione germanica e cioè l’incapacità all’astrazione, a riprova di quanto è stato defi nito “reicentrismo” medievale97.

Per quanto riguarda il terzo fattore qualifi cante, cioè l’utilizzo di pro-nomi personali e di attributi per caratterizzare i soggetti cui la giustizia fa riferimento, gli esempi non mancano anche in questi gruppi di documenti. Il numero delle occorrenze deve essere comunque relativizzato, tenuto conto dell’esiguo numero di casi a nostra disposizione. Nel capitulare Italicum di Pipino dell’806-10 troviamo un’esortazione, che risuona quasi come un mo-nito, all’amministrazione equa e puntuale della giustizia: Ut comites pleniter

iustitiam diligant et iuxta vires expleant et iustitiam sanctae Dei ecclesiae vigilanti cura instent et orfanorum, viduarum, pauperum et omnium qui in eorum ministerio commanent, de quacumque causa ad eos venerit querella, plenissima et iustissima deliberatione diffi nire decertent98. Un altro esempio

si rinviene in un capitolare più tardo, promulgato da Ludovico II nell’865 e in-dirizzato ai missi, nel quale si esorta a indagare e perfezionare la giustizia delle chiese di Dio e si stabilisce di trascriverla fedelmente (fi deliter conscribatur) affi nché il patrimonio delle chiese non sia dilapidato a sacrilegis99.

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La giustizia è ovviamente riferita anche alle autorità laiche: se ne ha un esempio nel capitolare Olonnese di Lotario I indirizzato ai conti: ciascuno di questi nullus negotium suum infra mare exercere presumat, nisi ad portura

legitima, secundum more antiquo, propter iustitiam domni imperatoris et nostram100. Le disposizioni dell’imperatore e del re del Regnum Italicum (in

questo caso la stessa persona) sono qualifi cate come iustitiae, lasciando intui-re così che vi è una totale identità tra la fonte della legge e la giustizia che da esse si ricava.

L’unica eccezione alla nozione di giustizia ispirata alla concretezza è l’im-piego del vocabolo in unione con l’aggettivo divina, come si può notare nel ca-pitolare di Lotario I dell’847, redatto in vista della spedizione contro i Saraceni che infestano le coste della penisola italica101. Vista la situazione di pericolo si

ritiene necessario disporre che omnia, in quibus maxime Deum a nobis

offen-sum esse cognoscimus, ipsius adiuvante misericordia corrigamus, et ut per satisfactionem congruam divinam studeamus placare iusticiam, quatinus, quem iratum sensimus, placatum habere possimus102.

L’interpretazione della giustizia tutta ispirata alla concretezza rimane dunque costante anche nei capitolari di Carlo e Pipino posteriori all’801, di Lotario I e di Ludovico II, benché sbiadisca nei suoi attributi più specifi ci. Proprio per questo motivo non si hanno elementi suffi cienti per constatare una simile concezione anche nel quarto gruppo di capitolari, quelli di Carlo il Calvo e dei successivi re d’Italia. Il termine iustitia è presente due volte soltan-to e senza le caratterizzazioni fi nora rilevate103.

Il ricorso più raro alla parola iustitia, che ha di per sé una forte carica evocativa, è il segnale più chiaro di una più generale trasformazione lessicale, continua e costante. Come è noto, dall’età carolingia il diritto romano comin-cia a ridare segni di vitalità grazie alla ripresa degli studi nel Mezzogiorno italico, terra ricca di tradizioni giustinianee, bizantine e longobarde. Questo “ritorno a Giustiniano”104 non determina soltanto il progressivo affi evolimento

di nozioni e idee proprie del diritto di ispirazione germanica, quali la con-cretezza e la personalità del diritto, ma stimola un generale cambiamento sia nelle strutture linguistiche, sia soprattutto in quelle giuridico-legislative.

2.4. Particolarità nell’uso del termine iustitia.

L’unione del termine iustitia con verbi quasi mai usati nei primi docu-menti offre ai redattori formule espressive originali e più effi caci. Si è già no-tato come anche su questo processo abbiano infl uito le vicende che spostano il fulcro dell’attività legislativa dal sovrano alle diete, che da luoghi di sem-plice promulgazione diventano assemblee di vera approvazione delle norme. Soprattutto durante il regno di Carlo il Calvo la contrapposizione sovrano-ari-stocrazia ebbe molta incidenza sui contenuti delle disposizioni. Anche il

con-sensus populi tanto evocato durante il regno di Carlo Magno, che inviava i suoi missi a interrogare il popolo (in realtà solo alcuni personaggi più

rappresen-tativi) per confermare i testi mediante la manufi rmatio, appare ormai total-mente sostituito dalle assemblee dei potenti. Grazie a queste si affi ancarono ai

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tecnici del diritto personalità nuove che contribuirono, con la loro conoscenza delle leggi nazionali e delle consuetudini ancora vigenti, al rinnovamento del-l’apparato linguistico usato per la realizzazione dei testi nomativi105. A tutto

ciò si deve aggiungere il progressivo abbandono dei capitolari come strumenti di governo. Questo aspetto risente, in modo particolare, della mancanza di un potere centrale che stabilisca chiari e univoci orientamenti in grado di ispirare la produzione legislativa106. Fissate queste premesse è possibile esaminare in

quale modo evolva il vocabolario della giustizia nei capitolari e se questi cam-biamenti confermino la visione qui esposta.

Si è già messo in evidenza come nei primi capitolari il termine iustitia sia accostato la maggior parte delle volte ad habere. Con il tempo, tuttavia,

ha-bere tende a scomparire, cedendo il posto ad altri verbi che ne sostituiscono

in parte il signifi cato. La “richiesta della giustizia” è un tema molto ricorrente: nella maggior parte dei casi è espressa con il verbo quaerere, ma non di rado sono utilizzate perifrasi ed espressioni più immediate e semplici. Nel capitola-re di Pipino del 782 si pcapitola-rescrive che de universali quidem populo quis, ubique

iustitias quaesierit, suscipiat tam a comitibus suis quam etiam a castaldehis seu ab sculdaissihis velloci positis iuxta ipsorum legem absque tarditate107, e

ancora nello stesso capitolo si ordina, con riferimento a questi funzionari, qui

iustitias quesierit, non fecerit, componat sicut lex ipsorum est (si noti come

l’espressione iustitias quaesierit/quesierit rimanga invariata lungo il testo). L’altro esempio a nostra disposizione è leggibile nella concessione generale di Lotario I dell’823 in cui riguardo alle persone che si sono commendate al sovrano è stabilito che si quid ab eis quaeritur, primum senioribus eorum

moneatur ut iustitiam suam quaerentibus faciant; et si ipsi facere noluerint, tunc legaliter distringantur108. Si ordina dunque di rendere giustizia a coloro

che la richiedono, usando un’espressione, iustitiam suam quaerentibus, più complessa rispetto a quella analizzata precedentemente. Alte espressioni, come pro dilatanda iustitia, pro conculcanda iustitia, oppure pro nulla

dila-tione iustitiae individuabili nei capitoli pavesi di Ludovico II scritti nell’855109,

rappresentano novità lessicali. In particolare il verbo conculcare, che sottoli-nea l’atto materiale del “calpestare”, ben testimonia la preferenza accordata a una forma più immediata e semplice per esprimere un concetto più comples-so, qual è in questo caso l’inosservanza delle regole.

Occorre segnalare poi altri verbi collegati a iustitia che rivelano miglio-ri capacità espressive: neglegere e vendere sono utilizzati nel capitolare di Ludovico II rivolto nella città di Pavia ai vescovi110, a cui sono fornite

indica-zioni riguardo alla condotta degli ecclesiastici e alle modalità di risoluzione delle cause minori. Il verbo dilatare si ritrova due volte, una delle quali è già stata rilevata in precedenza111. Il secondo esempio è nel capitulare Italicum di

Pipino, in cui è denunciato una volta di più il ritardo con cui spesso la giustizia era amministrata112. Un’altra espressione, usata per indicare il

rallentamen-to forzoso che il decorso della giustizia subisce, è leggibile nel capirallentamen-tolare di Lotario I, indirizzato ai laici, in cui si accusano coloro che consegnano ad altri beni già pignorati propter iusticiam alterius differendam113. Anche il verbo

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recipere è presente due sole volte: la prima nel secondo capitolare mantovano

di Pipino dell’813 riguardante i processi di ecclesiastici e la seconda nel capi-tolare redatto a Corteolona per i laici durante il regno di Lotario I114.

Ad altri verbi si ricorre una sola volta, soprattutto in capitolari più tardi, a riprova di come, proprio in quest’ultima fase, siano vivi i fermenti di una trasformazione lessicale. Troviamo così pervertere nel capitolare di Lotario I inviato ai missi nell’832 e mirante a ridare nuovo vigore all’autorità regia115, conservare nel decreto dell’elezione di Carlo II del febbraio 876, che

sosti-tuisce il precedente habere per esprimere il possesso pieno e duraturo della giustizia116, diligere nel capitolare italico di Pipino117 e conari nell’intitulatio

dei capitoli di Ludovico II emanati a Pavia nel quale si accusano i pravi

ho-mini che ostacolano l’ottenimento della giustizia al quale tutti devono avere

diritto118.

Va segnalata infi ne anche l’espressione contra iustitiam, usata due volte. La prima occorrenza è rilevabile nella lettera di Carlo Magno al fi glio Pipino scritta per sollecitare la ricezione di alcune norme da aggiungere all’appara-to legislativo del Regnum Langobardorum: Pervenit ad aures clementiae

nostrae, quod aliqui duces […] mansionaticos et parvaredos accipiant, non solum super liberos homines sed etiam in ecclesias Dei […] et insuper homines atque servientes aecclesiarum Dei in eorum opera, id est in vineis et campis seu pratis necnon et in eorum aedifi ciis illos faciant operare et ca-maticos et vinum contra omnem iustitiam ab eis exactari non cessant119. In

questo caso l’espressione “contro ogni giustizia” sta a signifi care “contro ogni legge”, con un’interessante sovrapposizione di signifi cato tra iustitia e lex. La seconda occorrenza, rintracciabile nel capitolare pavese di Lotario I, pur non presentando particolari sottolineature, si riferisce a coloro i quali opprimo-no i più deboli con le seguenti parole: De oppressione pauperum liberorum

hominum, ut non fi ant a potentioribus per aliquod malum ingenium contra iustitiam oppressi, ita ut coacti res eorum vendant aut tradant120. Si può così

parlare di una crescente specializzazione del vocabolario giuridico che espri-me in maniera sempre più precisa concetti in precedenza formulati in maniera più generica.

2.5. Iustitia in unione con il verbo facere.

Una valutazione a parte richiede il verbo facere, sia per la sua considere-vole presenza in espressioni che hanno per oggetto la giustizia, sia perché con-valida quanto si è già detto in precedenza a proposito del “primitivismo” nel vocabolario dei capitolari italici. Il suo massiccio utilizzo tende a cristallizzare molte espressioni che poi ritroviamo frequentemente, con buona probabilità in funzione mnemonica. L’esempio più appariscente è dato dalla locuzione

pleniter iustitia faciat/faciant, presente soprattutto nei primi capitolari, ma

riscontrabile anche in quelli più tardi. L’uso di espedienti linguistici, come le continue allitterazioni, le formule ripetute e l’impiego di parole simili derivan-ti dalla stessa radice fanno infatderivan-ti sì che le leggi possano essere ricordate in maniera più agevole e non solo dai tecnici del diritto.

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La locuzione pleniter iustitiam faciant ricorre nel capitolare mantova-no del 781, in cui si ordina ai conti e agli abati di far rispettare la giustizia dei più deboli121, nel capitolare di Pipino del 787, emanato da Pavia, in cui

si esorta a non procrastinare l’amministrazione giudiziaria122, e si ritrova

poi nel capitulare Italicum di Pipino, in cui si chiede ai conti che plenam

iustitiam de latronibus faciant123. Riguardo agli ecclesiastici è indicato nel

capitolare di Lotario I, emesso a Corteolona nel 822-23, che essi debbano “rendere giustizia” davanti al loro conte, pur avendo avvocati personali124;

l’ultimo caso è nel capitolare che raccoglie le norme di Ludovico II emesse a Pavia nell’855125.

È opportuno inoltre notare, riguardo all’utilizzo del solo verbo facere, come nei capitolari che datano a partire dal regno di Lotario I l’espressione

iustitiam facere sia sostituita, buona parte delle volte, con verbi più ricercati e

raramente usati nei testi precedenti. I verbi adesso usati sono per esempio

per-cipere nel capitolare che raccoglie i capitoli di Ludovico II redatti nell’855126, procurare nel capitolare dell’850127; neglegere all’interno del commonitorium

di Ludovico ai vescovi128; recipere nel secondo capitolare mantovano129 e in

quello emanato a Corteolona130. Il generale innalzamento dello stile, che non

interessa solo quest’aspetto, riguarda più in generale l’intero apparato lessica-le di questi testi lessica-legislativi.

Facere è attestato in quasi tutti i gruppi di capitolari: il suo impiego

rima-ne perciò costante, pur con tutte le eccezioni che si possono riscontrare. Unito al sostantivo iustitia, facere ricorre con maggiore frequenza nel primo gruppo di capitolari fi no scomparire del tutto, per le ragioni già esposte, in quelli che formano il quarto gruppo. Con più precisione esso si ritrova:

- 20 volte in 6 capitolari del primo gruppo131;

- 6 volte nei capitolari del secondo gruppo132;

- 5 volte nei capitolari del terzo gruppo133;

- nessuna volta nei capitolari del quarto gruppo.

Se nel primo gruppo di capitolari facere ricorre in misura maggiore, ciò avviene però senza che si carichi di molti signifi cati: lo troviamo, infatti, per lo più in locuzioni ripetute sempre nello stesso modo, come nell’espressione che ormai ci è familiare, pleniter iustitiam faciant, in altre come iustitiam facere

voluisset e distulerit iustitiam faciendum. Una molteplicità di accezioni

appa-re nel secondo gruppo. Il capitulaappa-re Italicum è quello in cui il verbo faceappa-re in unione con il termine iustitia non solo appare il maggior numero delle volte, ma si connota anche di sfumature peculiari come iustitiam de latronibus

faciant: qui, i soggetti giuridici di cui si parla, i latrones, si pongono

esplici-tamente al di fuori dell’ordinamento legislativo stabilito, e perciò il “fare giu-stizia” loro riferito assume il signifi cato di “punire”. Questo capitolare origina, come si è detto, da una lettera inviata dal padre Carlo al re Pipino con precise istruzioni circa l’obbligo di rispettare anche nel Regnum Langobardorum le leggi franche emanate oltralpe, ed è perciò tutto pervaso dalla volontà di rista-bilire pienamente la giustizia134: pleniter iustitiam facere signifi ca anche per

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Nel terzo gruppo di capitolari, più ancora del signifi cato di “amministrare la giustizia” come in molti casi si può verifi care, appare evidente il valore di “riconoscere dei diritti”, e si insiste in modo particolare sulla restituzione di beni materiali variamente persi o sottratti. Questa sfumatura di signifi cato si ritrova, per esempio, nella concessio generalis di Lotario135, nel capitolare

re-datto a Corteolona136, in cui è prescritto che riguardo ai liberis vero hominibus

[...] ut causator eorum eos pignerare non possint, placet nobis ut res eorum

infi scentur, quousque venientes ad audientiam iusticiam faciant, nel breve

capitolo di Ludovico di origine incerta137 e infi ne nei capitoli redatti da questo

sovrano a Pavia nell’855138.

3. Lex.

3.1. La nozione di lex: alcune precisazioni.

Oggi noi concepiamo abitualmente la “legge” come una statuizione espres-sa dagli organismi istituzionali cui è demandata la potestà di emanare precetti giuridici. Essa esprime una regolarità e un’uniformità che si fondano princi-palmente su fatti naturali e comportamenti umani139. Le continue e ricorrenti

variazioni potrebbero minarne la credibilità e ledere in misura maggiore l’isti-tuzione da cui è promulgata che, secondo la concezione moderna, le conferi-sce anche l’autorità per divenire vincolante. La concezione altomedievale della legge divergerebbe da quella moderna proprio per il fatto che poca importanza assume il soggetto produttore della legge, al contrario dei suoi contenuti che sono fondamentali e indispensabili perché assurga a lex vera e propria. I suoi contenuti sarebbero stabiliti da un immutabile “ordine giuridico”, inteso come un complesso di regole e principi che si fondano sulla natura, sulle “cose” e sulle tradizioni140. Con questa immagine non si vuole però intendere il

me-dioevo un periodo in cui il disordine legislativo regna sovrano, o ancora meno, come il mondo di un “diritto senza Stato”, in cui la consuetudine trionfa su tutte le altre forme di ordinamento giuridico141.

Con la disgregazione dell’apparato statuale romano, infatti, una serie di nuovi complessi legislativi sostituiscono in parte quello “uffi ciale”. Il vuoto di potere lascia spazio alla creazione di norme, spesso dettate dai bisogni delle singole comunità, che rispondono in modo più adeguato alle nuove identità sociali e culturali in formazione. Com’è noto, ogni gruppo etnico che forma l’Impero, e in modo particolare ogni popolo germanico, elabora un proprio diritto, spesso allo stadio di consuetudine tramandata oralmente, ma non di rado approda a quello più maturo di legge scritta. Lungi dal rappresentare una forza aggregante, i Franchi, che si propongono quali eredi dell’impero univer-sale, si trovano di fronte a una moltitudine di prassi giuridiche formalizzate, diverse per ciascun gruppo etnico. Come annota Francesco Calasso142,

cancel-lare tutte queste leggi e sostituirle con una unica legge a matrice territoriale per tutto l’Impero sarebbe stato impossibile, benché siano molti i tentativi di avvicinamento tra un diritto e l’altro.

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Grazie a questo pluralismo giuridico tende ad affermarsi il cosiddetto principio della personalità della legge. Questa espressione non va intesa nel senso che a ogni soggetto giuridico appartiene una sua legge personale, ma piuttosto, per usare una chiara defi nizione di Paolo Grossi, che “ogni persona, all’interno dello stesso regime politico, lungi dall’essere soffocata entro un diritto unitario a proiezione territoriale, è portatrice – a seconda delle partico-larità del proprio ceppo etnico – di un diritto specifi co e differenziato”143. Così

la lex diviene, per adoperare un’espressione diventata comune, inhaerens

ossibus, vale a dire indissolubilmente legata alla persona che fa parte di quel

determinato gruppo etnico, di cui la legge è espressione. Questa interpreta-zione del principio della personalità della legge è stata di recente messa in discussione da Stefano Gasparri, che ha insistito piuttosto sul valore territo-riale e locale che essa avrebbe avuto: ai singoli soggetti giuridici non si sarebbe applicata la legge del popolo di appartenenza, bensì la legge della provincia nel quale erano nati144.

Il proposito di trovare rimedio alla complessa situazione giuridico-legi-slativa, resa ancor più disorganica dalle guerre della seconda metà del secolo VIII, esisteva sicuramente. È Carlo stesso che si preoccupa di regolamentare l’utilizzo e di disciplinare la convivenza dei diversi apparati legislativi pre-senti in Italia nell’importante capitolare Italicum, redatto all’indomani della sua incoronazione145. Egli ritiene che negli anni passati le molte questioni

giuridiche discusse al suo cospetto abbiano ricevuto una sentenza adeguata grazie all’impiego delle leges “nazionali”, romana e longobarda: cum Italiam

propter utilitatem sanctae Dei ecclesiae ac provinciarum disponendarum venissemus, et multae atque diversae per urbes singulas ante conspectum nostrum quaestiones tam de ecclesiasticis quam publicis ac privatis rebus discuterentur, pleraque statim recitata ex Romana seu Langobardica lege competenti sententia terminata sunt146. L’utilizzo delle leggi longobarda e

romana per la risoluzione delle questioni giuridiche appare però ineffi cace ad abbracciare tutti i settori del diritto. Dopo queste considerazioni Carlo si pro-pone infatti di redigere i capitoli (che formano il testo in questione) in modo da addere [...] ut necessaria quae legi defuerant supplerentur, et in rebus

dubiis non quorumlibet iudicum arbitrium, set nostrae regiae auctoritatis sanctio praevaleret147.

Ciò nonostante Carlo non arriverà mai a proporre una lex commune al posto delle leges in uso, ma si limiterà ad aggiungere alcune disposizioni per i casi che presentano le diffi coltà più evidenti. L’unico riferimento a una lex

commune è presente nel capitolare che raccoglie alcuni capitoli attribuiti a

Carlo, verosimilmente compilata da un anonimo giudice italico148. Dopo avere

ricordato che, a proposito delle controversie intervenute tra un Romano e un Longobardo relative a eredità e giuramenti, ognuno deve seguire la propria “legge”, si precisa che de ceteris vero causis communi lege vivamus, quam

domnus excellentissimus Karolus rex Francorum atque Longobardorum in edicto adiunxit149. I capitularia legibus addenda redatti da Carlo per il Regnum Langobardorum sono concepiti soprattutto come aggiunte alle leggi

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