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Le lotte operaie e sindacali degli anni della conflittualità (1969-1980)

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Stefano Musso, Le lotte operaie e sindacali del 1969-1974 in Italia. Una rivisitazione

A quasi mezzo secolo dall’autunno caldo del 1969, è utile una riflessione storiografica meno segnata dalle sensibilità politiche che ne hanno proposto, e ne propongono, ora visioni demonizzanti da calata degli Hyksos, ora esaltanti affermazioni della spontanea capacità di mobilitazione della classe operaia. I giudizi sugli anni settanta sono per lo più caratterizzati da un duplice pessimismo, uno di destra, uno di sinistra: a destra si lamentano i danni all’economia e alla società causati dall’iperconflittualità, a sinistra si rimpiange l’occasione perduta sulla strada della costruzione di nuovi equilibri politico-sociali e si legge tutto il periodo nella prospettiva della sconfitta finale. Il pessimismo dell’una e dell’altra parte può essere superato, o quantomeno mitigato, tenendo conto di una serie di effetti di medio e lungo periodo prodotti dal tentativo di valorizzare il lavoro messo in atto da quelle mobilitazioni.

La dimensione internazionale

La portata delle lotte operaie fu altrettanto internazionale quanto il movimento studentesco del 1968, non a caso paragonato, nella sua dimensione mondiale, al 1848. Si trattò di una rivolta contro il lavoro dequalificato, monotono, ripetitivo, dalle scarse opportunità di carriera e rigidamente disciplinato, che scoppiò all’apice dello sviluppo internazionale del fordismo e che si propagò con effetti imitativi coinvolgendo anche in paese sottoposti a regimi dittatoriale a partito unico quali la Spagna franchista e i paesi del “socialismo reale” dell’Est europeo Il Sessantanove operaio non può essere considerato disgiunto dal Sessantotto studentesco e tuttavia, nel caso italiano, è riscontrabile uno speciale peso della mobilitazione del mondo operaio, tale da prolungare l’alta conflittualità dell’autunno caldo per oltre un decennio, ben più a lungo di quanto accadde negli altri paesi occidentali.

La differenza italiana è riconducibile ad alcuni fattori: le tradizioni politiche e organizzative del movimento operaio, in particolare la presenza del più grande partito comunista d’occidente; il modello storico di relazioni industriali caratterizzato dall’assenza di regole, dal dominio dei rapporti di forza, dalla pressoché nulla tradizione partecipativa, anche a causa del conservatorismo della cultura imprenditoriale dominante; infine, ma non secondario, il fatto che i principali protagonisti della protesta operaia, gli operai della catena di montaggio, erano in Italia cittadini a pieno titolo e non, come nei paesi occidentali più avanzati, Gastarbeiter, ovvero lavoratori ospiti, immigrati privi dei pieni diritti di cittadinanza e dunque socialmente più isolati e dotati di minor forza contrattuale.

Considerando i modelli di relazioni industriali dei vari paesi europei, nell’ambito dell’International Labour Office è stata recentemente proposta una classificazione secondo la quale il caso italiano è emblematico del modello della conflittualità latina, contrapposto al corporatismo nordico, al partenariato sociale tedesco, al pluralismo di mercato anglosassone. In questa classificazione, l’Italia si trova in compagnia di Francia, Spagna, Grecia e Portogallo.

Da qui lo speciale interesse di un confronto tra Italia, Francia e Spagna. Certo all’epoca la Spagna rappresentava un caso a parte, caratterizzato dal regime dittatoriale e dalla presenza ufficiale del solo sindacato verticale franchista; tuttavia il contesto repressivo non riuscì a sconfiggere la crescente mobilitazione dal basso di forze sociali - mosse dall’evoluzione delle aspettative e degli stili di vita sotto l’influenza delle democrazie europee – che furono in grado di erompere sulla scena politico-sindacale grazie a un movimento operaio di opposizione intelligentemente

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capace di intercettare i bisogni dei lavoratori, di trasformarli in rivendicazioni e di sfruttare, con tattiche “entriste”, gli spazi legali aperti dalle contraddizioni del sindacato di regime, che per svolgere il suo stesso ruolo di strumento di consenso non poteva sottrarsi a un qualche livello di difesa degli interessi operai.

L’esperienza francese appare caratterizzata dalla virulenza dello scoppio delle agitazioni tra il maggio e il giugno del 1968 e dalla sua relativamente breve durata, connessa alle divisioni sindacali e alle difficoltà di tenere insieme le esigenze dei lavoratori immigrati non qualificati con quelle dei qualificati francesi. Resta aperta la domanda se nel rapido depotenziamento della carica conflittuale del Sessantotto in Francia abbia giocato un ruolo anche l’esistenza di strumenti partecipativi quali la gestione congiunta degli enti previdenziali e i comités d’établissement, incaricati della gestione dei servizi sociali aziendali, istituiti per legge nel 1945 mentre in Italia le corrispondenti proposte di legge per i consigli di gestione finirono nel nulla.

Un ciclo più lungo

Anche in Italia, il periodo più aspro e convulso dei rapporti di lavoro nell’età dell’industria prese avvio nel 1968, con una mobilitazione generale sul sistema pensionistico e varie agitazioni aziendali, che prepararono l’autunno del 1969 reso caldo dalle vertenze per il rinnovo del contratto nazionale non solo dei metalmeccanici ma di una quarantina di categorie. Tuttavia, a ben vedere, l’inizio del ciclo alto della conflittualità sindacale in Italia va anticipato di un decennio rispetto all’Autunno caldo, con la ripresa delle agitazioni che si ebbe al culmine del miracolo economico, nel 1960, a partire dalla vertenza al Cotonificio Valle Susa e dallo sciopero degli elettromeccanici milanesi con il Natale in Piazza Duomo, per ampliarsi di lì a poco alle vertenze dei metalmeccanici e dei chimici. Dopo la divisione e la sconfitta sindacale degli anni cinquanta, maturata nel clima della guerra fredda, si crearono allora le condizioni per un cambiamento dei rapporti di forza: alla fine degli anni cinquanta si registrò per la prima volta, nella storia della società industriale italiana, un mercato del lavoro non più squilibrato a favore della domanda, con la riduzione della disoccupazione al Nord a livelli puramente frizionali. Sul piano sindacale, la sostanziale sordità degli imprenditori alle proposte di relazioni sindacali collaborative avanzate dalla Cisl - incentrate sulla produttività, la compatibilità economica dell’azione sindacale, il pieno riconoscimento del ruolo del sindacato e la regolazione contrattuale - finì per spingere la confederazione nata dalla corrente sindacale cristiana ma apertasi all’influenza della cultura sindacale anglosassone, o meglio, non l’intera confederazione ma le sue categorie dell’industria, all’unità d’azione con la Cgil; quest’ultima, dal canto suo, nel 1960 abbandonò il centralismo a favore dell’articolazione della contrattazione anche a livello aziendale. Fu così che, pur permanendo divergenze tra le due culture sindacali su punti nodali – in particolare il peso e il ruolo da assegnare alla legge e al contratto - Cgil e Cisl trovarono un punto di coagulo intorno a due obiettivi comuni, l’ingresso del sindacato in fabbrica e la contrattazione aziendale. Quest’ultima fu introdotta, limitatamente ai premi di produzione aziendali, in occasione del rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici del 1963. Il primo obiettivo si concretizzò, nei fatti, solo con le lotte dell’autunno 1969, prima della sua sanzione legislativa con lo Statuto dei lavoratori del 1970.

Verso il Sessantanove

Gli aumenti salariali strappati nei primi anni sessanta incrinarono uno dei pilastri del miracolo economico, vale a dire la crescita salariale inferiore a quella della produttività del lavoro. Ne derivarono tensioni inflazionistiche e un deficit della bilancia dei pagamenti cui le autorità monetarie reagirono con la stretta creditizia che innescò la congiuntura negativa del 1964-65. La frenata imposta all’economia ebbe un breve ma pesante riflesso negativo sui livelli occupazionali e frenò le mobilitazioni di inizio decennio. Svuotò anche il nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici del 1966, che comportò costi salariali ridotti per le imprese, per la

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prudenza delle posizioni sindacali dopo la crisi. Il rinnovo del 1966 mise il freno al nuovo istituto della contrattazione aziendale e rappresentò un’occasione perduta per il rinnovo delle rappresentanze interne. Le resistenze degli industriali e il conservatorismo della Confindustria impedirono così di cogliere l’irrequietezza sociale che stava montando e di approntare rimedi efficaci.

La ripresa economica nell’ultimo scorcio degli anni sessanta fu nuovamente impetuosa, ripresero i flussi migratori da sud a nord e si determinò un accumulo di tensioni tra pesantezza delle condizioni di lavoro nelle fabbriche taylorizzate e carenza di case e servizi nei centri industriali del Nord investiti dalla rapidissima crescita della popolazione. Ne nacque una miscela esplosiva. L’ Autunno caldo del 1969 fu preceduto, nel 1968, dalla contestazione studentesca nelle università, che si sarebbe di lì a poco riversata davanti ai cancelli delle fabbriche: l’antiautoritarismo agitato contro l’organizzazione baronale degli atenei si poteva facilmente traslare contro la rigida disciplina produttiva imposta in stabilimenti governati con gerarchie militaresche. La contestazione di un sistema che non accompagnava la democrazia economica alla democrazia politica si inquadrò in un clima infuocato dagli squilibri dello sviluppo: migrazioni e problemi sociali connessi; distorsione dei consumi per la crescita degli acquisti di elettrodomestici e autoveicoli a fronte della persistente carenza di beni basilari quali l’abitazione, la sanità, i consumi culturali; insufficienza dei servizi pubblici e inadeguatezza del welfare; un primo affacciarsi di fenomeni di disoccupazione intellettuale.

Agli squilibri e contraddizioni dello sviluppo si può ascrivere anche un fattore dello scoppio conflittuale del 1968-69 troppo spesso sottaciuto: nuovi immigrati e vecchi strati operai, a loro volta immigrati in un passato più o meno recente, erano mossi dal desiderio, acquisitivo, di superare senza ulteriori ritardi la loro condizione di esclusione dai nuovi standard del consumo di massa. Lo sviluppo li aveva portati sulla soglia del pieno accesso alla società del benessere, i cui richiami erano da anni propagati dai messaggi pubblicitari, ma su quella soglia erano trattenuti dalle irrisolte diseguaglianze sociali. Da qui l’accento fortemente posto dalle prime mobilitazioni sugli aumenti salariali

Infine, le rivendicazioni operaie degli anni sessanta godettero, in un primo tempo almeno, di una opinione pubblica in ampia parte favorevole, per la diffusa convinzione che i lavoratori avessero ricevuto meno del contributo da essi offerto allo sviluppo economico del paese.

Le caratteristiche delle agitazioni

Nelle vertenze del 1969, mentre il clima politico e sociale diventava sempre più teso, specie dopo l’avvio della “strategia della tensione” con le bombe di Piazza Fontana del 12 dicembre, le lotte operaie assunsero contenuti e modalità in larga parte nuovi, che ne accrebbero la dimensione contestativa oltre il tradizionale conflitto economico per investire la disciplina e gli equilibri di potere nelle fabbriche. La stagione contrattuale in cui sfociò l'Autunno caldo accolse in buona parte le piattaforme sindacali: consistenti aumenti salariali, riduzione dell’orario, vincoli agli straordinari; segnò in particolare la fine delle “gabbie salariali”, vale a dire le differenze retributive per area geografica fissate con la contrattazione centralizzata dell’immediato dopoguerra. Forti furono le pressioni dell’allora Ministro del lavoro Carlo Donat Cattin sulle delegazioni imprenditoriali perché accettassero mediazioni che accoglievano sostanzialmente i principali obiettivi sindacali. Le Partecipazioni statali, il cui distacco da Confindustria era stato fortemente voluto dalla Cisl alla metà degli anni cinquanta per poter sperimentare quei nuovi modelli di relazioni industriali nei confronti dei quali aveva dovuto registrare la sordità degli industriali privati, furono indotte alla firma anticipata del contratto, come era già avvenuto nel 1962. Le notevoli conquiste, tuttavia, non placarono le rivendicazioni; il movimento aveva rotto gli argini e travolgeva anche il clima sindacale nelle aziende dell’Intersind e dell’Asap (organi di rappresentanza e coordinamento sindacale delle imprese facenti capo rispettivamente all’Iri e all’Eni), clima che pure esprimeva ancora potenzialità regolative consensuali: era impossibile che le tensioni originate nel settore privato, e

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tali da scatenare una conflittualità largamente spontanea, non ne travalicassero i confini investendo l’intero mondo del lavoro, compreso quello del settore pubblico, tanto più in presenza di un fenomeno internazionale, frutto di una rivolta, anche generazionale, e di crogioli di conflittualità politica e culturale che trascendevano la dimensione della fabbrica.

Sono note le caratteristiche delle agitazioni operaie dei primi anni settanta: spontaneità delle fermate, sfida alla gerarchia, contestazione dell’organizzazione del lavoro e “autolimitazione della produzione”, controllo dei ritmi di lavoro attraverso la contrattazione a lato linea, rifiuto della “monetizzazione della salute”, egualitarismo delle rivendicazioni salariali.

Le organizzazioni sindacali, che operavano ora unitariamente, dovendo fare i conti con il nuovo attivismo di base e con la competizione dei gruppi studenteschi e operai che le contestavano da sinistra, introdussero forme di consultazione di massa per la definizione delle piattaforme e cercarono di estendere la propria influenza attraverso l’allargamento delle rappresentanze interne con la costituzione dei consigli di fabbrica, allo scopo di radicarsi capillarmente nei reparti dei grandi stabilimenti e riprendere contatto con una realtà e con comportamenti sociali che rischiavano di sfuggire al loro controllo. L’asfitticità delle vecchie commissioni interne era stata infatti una delle cause dello scoppio della conflittualità spontanea, in quanto era venuto meno, dato il numero ridotto dei rappresentanti in rapporto alla crescita occupazionale, il loro ruolo di strumenti di conoscenza, di espressione e mediazione dei problemi e delle tensioni che si creavano nei reparti.

La mobilitazione operaia costrinse le aziende ad accettare la contrattazione articolata a tutti i livelli e senza limitazioni. Le richieste riguardavano i poteri d’intervento sindacale, l’organizzazione del lavoro, i ritmi, i passaggi di qualifica e la formazione professionale, l’ambiente di lavoro, l’orario, i turni, le pause, i trasferimenti e l’utilizzo del personale. Le imprese furono indotte a perseguire la via negoziale nel tentativo di riportare le relazioni di lavoro a un qualche sistema di regole concordate. Anche il sindacato puntò alla contrattazione come sistema di governo della fabbrica per ricondurre a una dimensione normativa la conflittualità spontanea. Tuttavia, mentre le imprese cercavano di limitare gli scossoni, il sindacato finiva per avallare l’estrema articolazione e la capillarità dell’azione rivendicativa, allo scopo di radicarsi a più stretto contatto con i lavoratori, guadagnando seguito e consenso. L’élite conflittuale dei delegati perseguiva l’“applicazione dinamica” degli accordi, considerandoli non conquiste da stabilizzare, ma punti di partenza per nuovi obiettivi. Le organizzazioni sindacali faticavano a seguire il succedersi delle rivendicazioni, che venivano spesso avanzate con fermate immediate. La sostanziale acquiescenza sindacale verso l’azione dei delegati operai era dovuta anche al tentativo di “cavalcare la tigre” e alla necessità di sottrarre spazio all’iniziativa dei gruppi di estrema sinistra.

Contro il taylorfordismo

Le richieste sindacali puntavano a ottenere regolamentazioni formali e dettagliate al fine di limitare il potere del management sull’organizzazione e i carichi di lavoro. All’organizzazione taylorista e fordista rigida e predeterminata si contrapponevano regole a tutela dei lavoratori altrettanto rigide, che impedivano l’uso flessibile della forza lavoro, attraverso limitazioni del lavoro straordinario, dei turni, degli spostamenti interni e dei trasferimenti tra stabilimenti. Poiché la tecnologia produttiva era rigida, l’unica possibilità per le imprese di rispondere con una certa rapidità alle richieste del mercato stava negli spostamenti di manodopera tra un reparto e l’altro, tra una linea e l’altra. Ma gli operai contestavano i trasferimenti. Con il passare degli anni e con il progressivo aumento dell’instabilità dei mercati, questa questione sarebbe diventata una delle più aspre fonti di contrasto, determinando un ulteriore peggioramento delle relazioni sindacali. Alla conflittualità e rigidità nell’utilizzo della forza lavoro le maggiori imprese reagirono con il decentramento produttivo.

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Fino ai primi anni settanta la rigidità nell’utilizzo della manodopera si collegò a un atteggiamento operaio di rifiuto di ogni forma di coinvolgimento negli obiettivi aziendali. Del resto l’organizzazione tayloristica richiedeva una collaborazione puramente passiva, inadatta a stimolare motivazioni positive.

Un certo cambiamento di indirizzo nel sindacato cominciò a profilarsi nel 1971-1972 in relazione alla elaborazione della rivendicazione dell’ “inquadramento unico” di operai e impiegati, introdotto dapprima all’Italsider e in alcune imprese pubbliche nel corso del 1971 e successivamente esteso dal contratto nazionale dei metalmeccanici del 1973, cui si aggiunsero i permessi retribuiti per la frequenza di corsi di studio (le cosiddette “150 ore”). A una strategia prevalentemente incentrata sugli aumenti salariali egualitari, che risolveva il problema degli avanzamenti di classificazione sulla base della sola anzianità di servizio, si sostituì, o meglio si affiancò, un’azione che intendeva porre la questione del cambiamento dell’organizzazione del lavoro in direzione dell’arricchimento delle mansioni e della crescita della professionalità alla quale correlare i passaggi di qualifica. L’inquadramento unico, nell’impostazione sindacale, rappresentava lo strumento per attuare un mutamento degli assetti sociali e gerarchici fissati dalle classificazioni: la professionalità andava valutata non in base alle caratteristiche delle mansioni svolte ma delle potenzialità del lavoratore, potenzialità che si intendeva promuovere attraverso la possibilità di superare almeno in parte lo svantaggio educativo e professionale prodotto dall’ineguaglianza sociale. Da qui il definitivo abbandono della job evaluation, che era stata introdotta nell’ambito delle Partecipazioni statali nei primi anni sessanta - con lo stabilimento di Cornigliano a far da battistrada- nonostante la tradizionale opposizione della Cgil ma con il sofferto accordo della Fiom, dovuto al fatto che la regolazione contrattuale del nuovo sistema introduceva una sorta di controllo sindacale sul salario, che comportava il superamento della tanto spesso praticata quanto invisa discrezionalità padronale sugli aumenti di merito.

Le riforme

L’inquadramento unico si collegava a un più ampio progetto riformatore. Da tempo i sindacati, puntando alla costruzione dello stato sociale, avevano iniziato a contrattare con il governo una serie di riforme, dalle pensioni alla casa, dai trasporti all’assistenza sanitaria, all’istruzione, con un’azione che venne definita di “supplenza sindacale”, in quanto il sindacato si assumeva compiti tipici dei partiti. La stessa unità d’azione, divenuta quasi organica nel 1972 per metalmeccanici e chimici con le federazioni Flm e Fulc, presupponeva una crescente autonomia dei sindacati dai partiti di riferimento, tanto che i militanti della Cgil più impegnati su questa linea si guadagnarono accuse di “pansindacalismo” da parte del Partito comunista. La stagione della “cinghia di trasmissione” - se mai la Cgil avesse davvero in passato accettato il ruolo - era completamente tramontata, a partire dalla decisione di rendere incompatibili gli incarichi sindacali e partitici, come premessa all’unità sindacale. Peraltro, con l’apertura del fronte di contrattazione diretta con il governo, i vertici confederali avevano avviato un terreno di rivendicazioni sottratto al protagonismo del radicalismo di base. L’iniziativa per le riforme si traduceva, nei confronti delle maggiori imprese, nella richiesta di contrattare gli investimenti a difesa dell’occupazione, in particolare riallocandoli verso il Mezzogiorno, e di reindirizzarli verso i consumi collettivi. Le forze della sinistra, sindacale e politica, sostenevano la linea delle “riforme di struttura” che avrebbero comportato un “nuovo modello di sviluppo”: il movimento operaio puntava a incidere su cosa produrre (beni collettivi), dove produrre (nel Sud e nelle aree depresse) e come produrre (la “deverticalizzazione organizzativa” nella siderurgia pubblica, la ricomposizione delle mansioni e il “nuovo modo di fare l’automobile”).

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L’estensione dell’intervento sindacale ai temi dell’organizzazione tecnica delle lavorazioni e delle qualifiche operaie fu potenziata dagli effetti depressivi del primo shock petrolifero del 1973-74, che spostarono l’attenzione sui problemi occupazionali. Il nuovo fenomeno della stagnazione con inflazione (stagflazione) non era certo dovuto al solo aumento dei salari e alla rincorsa tra prezzi e salari, poiché le cause maggiori erano di origine internazionale (l’inconvertibilità del dollaro del 1971 e, per l’appunto, il primo shock petrolifero). Tuttavia, prese allora un primo, timido avvio una riflessione critica sull’idea del salario come “variabile indipendente”, idea già affacciatasi a metà anni sessanta, al momento del rifiuto da parte della Cgil della politica del redditi proposta nell’ambito delle speranze programmatorie del centro sinistra, e successivamente fatta propria dal leader della Cisl Luigi Macario nel pieno dell’autunno caldo. Il 1974 rappresentò da questo punto di vista un cambiamento del clima, con la cosiddetta “austerità”, la recrudescenza del terrorismo, i timori per la tenuta democratica dopo gli avvenimenti cileni che spinsero Enrico Berlinguer ad avanzare la proposta del “compromesso storico”. Si avviò qui una riflessione che ebbe la sua conclusione, in campo sindacale, alla “svolta dell’Eur” del febbraio 1978, quando l’assemblea dei consigli generali e dei quadri di Cgil, Cisl e Uil si concluse con l’approvazione della linea di rigore e moderazione sostenuta dal segretario della Cgil Luciano Lama.

Le strategie sindacali iniziarono allora a mutare, anche se con lentezza e contraddizioni, come mostrano i due importanti accordi interconfederali del gennaio 1975 sulla cassa integrazione e sulla contingenza, successivamente recepiti da leggi. Il primo accordo doveva consentire alle aziende di avviare i processi di riconversione in condizioni di relativa tranquillità sociale, scaricando le tensioni occupazionali su un ammortizzatore sociale che, potenziato dalla sua prorogabilità senza limiti per decreto ministeriale, era finalizzato alla “garanzia del salario” per i lavoratori coinvolti non solo da sospensioni temporanee dell’attività produttiva ma anche da crisi aziendali e dunque altrimenti soggetti a licenziamenti collettivi, in quanto i loro posti di lavoro non esistevano più: la lunga permanenza in cassa integrazione doveva dar tempo di trovare altre occupazioni.

Il secondo accordo potenziò notevolmente il meccanismo di adeguamento automatico dei salari al costo della vita. La Confindustria, sotto la guida di Giovanni Agnelli, firmò nella speranza di limitare per tal via la conflittualità connessa alla rincorsa salariale dell’inflazione. Una qualche riduzione della frequenza degli scioperi fu ottenuta, ma il nuovo sistema divenne esso stesso fattore di inflazione. L’unificazione del valore del punto di contingenza al parametro più elevato, in luogo delle precedenti differenziazioni per categoria, impresse un’ulteriore, formidabile spinta alla restrizione dei ventagli salariali, già in corso con le rivendicazioni salariali uguali per tutti.

L’egualitarismo

In una delle più complete ricostruzioni della storia sindacale degli anni settanta e ottanta è stato sostenuto che l’egualitarismo era stato sino all’Autunno caldo estraneo alla cultura del sindacalismo italiano e che, se per tutta un prima fase, esso aveva trainato la capacità di mobilitazione sindacale venendo incontro alla massa degli operai dequalificati, in seguito sarebbe stato uno dei fattori di divisione tra i lavoratori e di debolezza del sindacato, segnandone la parabola. Questa interpretazione richiede alcune precisazioni. La presunta estraneità dell’egualitarismo all’esperienza storica del sindacato non tiene conto di rilevanti precedenti, riscontrabili negli anni delle due guerre mondiali e dei due dopoguerra, il primo in special modo.L’egualitarismo aveva trovato origine nelle difficili condizioni di vita, per cui appariva prioritario garantire a tutti un minimo vitale; ma era soprattutto connaturato alle fasi di forte mobilitazione: derivava solo in parte dal protagonismo dei nuovi strati operai meno qualificati, in quanto operavano anche profonde spinte solidaristiche che si nutrivano della messianica attesa di grandi trasformazioni sociali, nel cui clima i bisogni e il loro soddisfacimento tendevano a prevalere sul criterio della professionalità; infine, l’egualitarismo operaio del Sessantanove aveva un

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corrispettivo nella polemica del movimento studentesco contro la meritocrazia. E’ plausibile invece che sul finire degli anni settanta, in una fase ormai calante della spinta conflittuale, l’egualitarismo dei militanti abbia iniziato a essere inviso alle componenti qualificate del mondo della lavoro, con il risultato di minare la forza del sindacato. Nella seconda metà degli anni settanta, inoltre, crebbero gli attriti di carattere generazionale tra i lavoratori, solo in parte sovrapposti a quelli inerenti alla professionalità e all’origine geografica. In particolare, mentre i vecchi operai difendevano la pratica tradizionale di segnare il passo nella produzione per non dare adito al taglio dei tempi di lavorazione, l’irruenza dei giovani li spingeva a ultimare in fretta la produzione per liberare tempo di lavoro a favore della socialità dentro la fabbrica: le chiacchiere alla macchinetta del caffè, la partita a carte. I conflitti intorno all’egualitarismo sembra invece siano emersi nella cosiddetta “marcia dei quarantamila”, di protesta contro il blocco sindacale dei cancelli alla Fiat nell’autunno 1980, che evidenziò divisioni nella compagine operaia seconda linee di demarcazione professionali che ancora si sovrapponevano alle demarcazioni etniche conseguenti alla grande migrazione degli anni del miracolo economico e all’assunzione di numerosi giovani meridionali nei lavori meno qualificati.

Tuttavia, la fine degli anni dell’alta conflittualità, più che al logoramento delle strategie sindacali, va messa in relazione al successo della nuova scelta imprenditoriale di ferma reazione, sostenuta dai governi successivi alla breve fase della solidarietà nazionale, a fronte di due eventi del 1979: l’ulteriore spinta inflativa derivante dal secondo shock petrolifero e, soprattutto, l’ingresso della lira nel sistema monetario europeo che, pur nella cosiddetta “banda larga” di oscillazione dei cambi, metteva fine alla possibilità di ricorrere alle svalutazioni competitive mediante le quali, negli anni precedenti, si era salvaguardata la capacità concorrenziale delle imprese italiane sui mercati esteri nonostante i differenziali di inflazione a sfavore del nostro Paese.

Il fallimento di un’alternativa

Nel gennaio 1968, mentre a livello nazionale si stava preparando la vertenza per le pensioni che rappresentò il primo segnale della spinta rivendicativa che di lì a poco sarebbe montata, all’Italsider fu firmato un accordo per la regolamentazione consensuale del conflitto che garantiva il preavviso, la continuità d’esercizio degli altiforni e bandiva gli scioperi selvaggi e a scacchiera. Davano dunque ancora frutti le diverse relazioni industriali nelle Partecipazioni statali, animate da manager quali Giuseppe Glisenti e Benedetto De Cesaris, che provenivano dalle fila del cattolicesimo sociale e che avevano operato a stretto contatto con la Cisl. Tuttavia, il clima sarebbe ben presto peggiorato anche nelle industrie pubbliche. Se nella relazione annuale del 1968, in qualità di presidente Intersind, Glisenti aveva dipinto un quadro ancora positivo, il quella del 1969, tenuta a maggio, dunque qualche mese prima dell’autunno, egli affrontò una serie di problemi. Sostenne che le aziende non avevano alcun interesse all’indebolimento del sindacato, o a una sua sconfessione da parte dei lavoratori. Disse di non ignorare l’importanza delle politiche di direzione del personale fatte di attrazione individualistica e rapporto diretto con i lavoratori, in quanto non tutte le relazioni hanno natura contrattuale; tuttavia, per mantenere e accrescere la vitalità delle aziende occorreva conciliare sviluppo economico e sviluppo dei rapporti umani tra i soggetti dell’azienda, e ciò era possibile solo attraverso canali e procedure di relazione appropriati, che non potevano essere che contrattuali. A questa difesa del metodo contrattuale tipico della Cisl Glisenti fece seguire l’affermazione della necessità di accettare il sindacato non solo come interlocutore, ma come interlocutore antagonista, perché se il sindacato non fosse stato antagonista non sarebbe stato in grado di intercettare la “realtà umana” nella vita produttiva, cioè i bisogni e le aspirazioni dei lavoratori. Inoltre, se i lavoratori avessero sconfessato il sindacato, ne sarebbe derivata la sconfessione del rapporto contrattuale, cioè del sistema sociale nel quale operavano le aziende. La critica alle politiche che avevano prevalso, e prevalevano, nelle imprese private era appena velata dal fatto che non venivano espressamente citate: ma Glisenti affermava a chiare lettere che i tentativi di limitare al massimo il ruolo del sindacato a favore del

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rapporto diretto e paternalistico con i dipendenti rischiavano di far saltare il sistema di regolazione della vita aziendale. Il presidente dell’Intersind osservò anche che il conflitto tendeva a spostarsi dal rapporto tra lavoratore e impresa al rapporto tra impresa industriale e società non ancora industriale (sia in termini di arretratezza della società civile sia per la carenza di servizi pubblici): richiamava dunque un conflitto che aveva origini al di fuori dell’impresa, per il quale l’interlocutore diventava il governo. Glisenti sembrava offrire una sponda alla politica sindacale confederale delle riforme, forse nella speranza che le tensioni si spostassero dalla dimensione di fabbrica a quella della modernizzazione sociale. Si trattò di un’illusione. Le critiche alla Confindustria produssero i loro effetti con la svolta rappresentata dalla relazione della Commissione Pirelli, con il suo appello al dialogo tripartito, che arrivò però nel gennaio 1970, fuori tempo massimo, quando ormai la conflittualità aveva rotto gli argini. Il conflitto aggredì entrambe le dimensioni, la fabbrica e la società. Dal velato pessimismo del 1969, nella relazione del 1970 Glisenti passò ai toni amari, lamentando il fatto che il contratto non fosse più concepito come mezzo di regolazione degli interessi in termini di convenienza reciproca, ma si fosse trasformato in uno strumento di contestazione del potere imprenditoriale, essendo considerato dai sindacati niente più che una pausa tra due azioni rivendicative. Le clausole di tregua erano saltate. Nel 1971 Glisenti rassegnò infine le dimissioni in seguito all’intervento, in sede di assemblea dell’Intersind, dell’ancora Ministro del lavoro Donat Cattin, il quale sostenne che le partecipazioni statali dovevano assecondare l’azione delle organizzazioni sindacali volta a modificare il sistema economico, e che la conflittualità permanente non era cosa nuova ma solo una nuova formula per un processo più antico di contestazione del modo con cui per un secolo gli imprenditori avevano governato le aziende.

A Intersind e Asap non restò che adottare una politica di duttile resistenza nei confronti dell’azione sindacale, perseguendo il confronto con il sindacato come una scelta di metodo, anziché come scelta obbligata dai rapporti di forza, come avvenne, per lo più, nelle aziende private.

Una crisi, inevitabile, di crescita

E’ difficile credere che il Sessantanove fosse evitabile. Lo suggerisce la dimensione internazionale del conflitto industriale di quegli anni. Forse la stagione della conflittualità sarebbe stata meno aspra e duratura in Italia qualora il modello di relazioni delle Partecipazioni statali fosse stato fatto proprio per tempo dagli industriali privati. Ma gli elementi di ineluttabilità del ciclo conflittuale epocale apertosi alla fine degli anni sessanta difficilmente sarebbero stati contenuti anche se la linea della produttività e della compatibilità non fosse stata messa in minoranza nella stessa Cisl, con l’avvento alla segreteria di Luigi Macario: anzi, proprio il distacco delle categorie dell’industria cisline dai vecchi insegnamenti di Mario Romani costituisce l’indicatore più eclatante dell’aprirsi di conflitti insanabili, primo fra tutti quello tra gli allettamenti della modernità consumistica e i livelli retributivi, abitativi e di servizi che caratterizzavano la vita dei lavoratori. Quello che fu considerato da Bruno Trentin un secondo biennio rosso, il 1968-69, fu una crisi di crescita, verificatasi all’apice dell’industrializzazione italiana, in una società relativamente arretrata, investita dalle contraddizioni di uno sviluppo e di un mutamento sociale troppo rapidi, e in quanto tale fu più aspra che non nei paesi più avanzati dell’Occidente, dove la crisi, anche qui di crescita al termine della Golden

Age capitalistica, fu attutita da sistemi sociali meno squilibrati e da istituzioni di

regolazione sociale più efficaci.

Resta però da chiedersi se davvero gli anni tra il 1969 e il 1973 siano stati perniciosi, se abbia senso recriminare, come non di rado si fa negli ambienti degli studiosi vicini alla Cisl, per l’abbandono avvenuto in quegli anni della propria cultura tradizionale, un abbandono considerato rovinosa perdita e tradimento dell’identità originaria. Il giudizio in chiave storica su quella stagione non può non essere formulato, al di là di ogni altra considerazione attinente alle appartenenze politico-culturali, anche in relazione a una serie di ricadute positive di lungo periodo.

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Le eredità positive

Sul piano delle dinamiche aziendali, si può affermare che la conflittualità ebbe, come da manuale, effetti propulsivi sull’innovazione tecnologica, e stimolò la ricerca di soluzioni organizzative più avanzate. Su questo secondo piano, si può dubitare che senza il conflitto ci sarebbero stati gli studi, condotti in particolare in ambito Intersind e Asap, sulle possibilità di job enlargement, job rotation e job enrichment, né le isole di montaggio alla Olivetti. Quanto all’innovazione tecnologica, si può osservare il caso più eclatante, quello dell’automobile: introdotta dapprima là dove pesantezza e nocività delle mansioni fomentavano il conflitto, come in lastroferratura e in verniciatura, l’innovazione fu spinta, dopo il ripristino dell’autorità gerarchica, alla ricerca parossistica di soluzioni labour saving, perseguite da una dirigenza che voleva farla finita con l’incubo della fabbrica popolata di operai arrabbiati, fino a dar vita a soluzioni ipertecnologiche dalle quali dovette recedere dopo aver sperimentato i limiti della tecnologia a fronte delle esigenze di aumento dei mix produttivi. Tuttavia, un’esperienza quale il Lam, la lavorazione asincrona motori, mostra che alcuni tentativi furono compiuti, e contrattati, con successo, in direzione del superamento della divisione taylorista del lavoro, nonostante l’automobile fosse un oggetto troppo grande per permettere soluzioni paragonabili a quelle della Olivetti. Furono così percorsi i primi passi verso gli sviluppi successivi dell’organizzazione postfordista, nei quali le tecnologie hanno reso il lavoro meno faticoso, e gli ambienti di lavoro meno sporchi e rumorosi. L’innovazione tecnologica ridusse notevolmente i livelli occupazionali nell’auto, e la cassa integrazione per 23.000 lavoratori imposta dalla Fiat nel 1980 costituì certo un evento drammatico per molti operai colpiti dal provvedimento; ma se si considera il risultato di quella vertenza sul lungo periodo e nel quadro più generale dei mutamenti della distribuzione della popolazione attiva in direzione del terziario, si può concordare con Pio Galli e Giancarlo Pertegato che l’effetto depressivo sul movimento sindacale esercitato dall’autunno 1980 fu in qualche misura aggravato da una non del tutto giustificata “sindrome della sconfitta”. Se a Torino il trauma fu grave, tale da determinare una grave crisi della capacità contrattuale del sindacato, a Milano la cesura dell’ “autunno freddo” del 1980 fu meno netta, e così in altre località non investite direttamente da uno scontro altrettanto aspro di quello del capoluogo subalpino.

Il conflitto ebbe persino un qualche risvolto positivo per la Fiat: spinse infatti, secondo Giuseppe Berta, a rinnovare il management, sostituendo i vecchi dirigenti del personale, conoscitori delle regole ed esperti della loro applicazione ma mediocri e poco efficaci mediatori: il ricambio avrebbe favorito lo sviluppo nei nuovi funzionari di competenze operative in contesti instabili determinati dal conflitto, e gli stessi funzionari sarebbero passati negli anni successivi a posti di responsabilità gestionale, applicando utilmente le capacità acquisite negli anni settanta ai mercati idiosincratici e altalenanti dell’accresciuta competizione internazionale del

postfordismo.

Sul piano delle relazioni industriali, ancora Berta, in un breve intervento del 1987, ha sostenuto che tra il 1968 e il 1970 il movimento operaio conquistò la generalizzazione dei diritti di cittadinanza del lavoro, mancando però il passaggio a un sistema di relazioni industriali fondato sulla certezza normativa della contrattazione collettiva: il sindacato non credette nella regolazione del conflitto e, avendolo lasciato libero di riaprirsi continuamente, pose le premesse per il ridimensionamento del proprio ruolo, alla fine della stagione conflittuale, perché ne risultò la delegittimazione della contrattazione collettiva; tuttavia, secondo Berta ci fu comunque, negli anni settanta, un accumulo di elementi culturali e di stratificazione e contaminazione delle posizioni tra gli attori della contrattazione che lasciava sperare nella possibilità di rilanciare un sistema di relazioni industriali in cui la contrattazione non fosse considerata un gioco a somma zero.

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sarebbe stato possibile senza la densità delle relazioni contrattuali degli anni settanta quando, per l’appunto, si contrattò moltissimo, ancorché la densità fosse imposta per via conflittuale. Del resto, ancor prima, è lecito supporre che l’abbandono del conservatorismo confindustriale con la Commissione Pirelli non avrebbero visto la luce senza la spinta delle mobilitazioni della fine degli anni sessanta. Ancora, la stessa domanda può essere posta in relazione ai primi timidi tentativi di concertazione degli inizi degli anni ottanta (dal protocollo Spadolini del giugno 1981 al lodo Scotti del gennaio 1983), come pure ai titubanti passi in direzione di relazioni aziendali partecipative negli anni novanta. Quello che nel 1987 fu espresso da Berta come un auspicio più che come una constatazione di fatto, avrebbe trovato almeno parziale concretizzazione nella concertazione avviata nei primi anni novanta, a partire dai protocolli tripartiti del 1992 e 1993, di fronte alla crisi incipiente e agli obiettivi posti dal trattato di Maastricht.

Dal punto di vista più generale della storia del Paese, l’effetto più importante e positivo ascrivibile alle lotte degli anni sessanta e settanta riguardò il processo di integrazione delle masse di immigrati dal Mezzogiorno e il superamento degli steccati culturali e dei razzismi interni. Tale processo, senza i protagonismi dei vecchi e dei nuovi operai saldati dall’azione sindacale, non sarebbe stato altrettanto rapido e profondo: l’epopea della migrazione interna, che ebbe dimensioni bibliche e costituì di gran lunga il maggior mutamento sociale vissuto dall’Italia nella seconda metà del Novecento, non potrebbe essere riguardata oggi come una storia di sacrifici in buona misura ripagati e, in ultima analisi, come una storia di sostanziale successo per i migranti e per il Paese.

Sul piano della modernizzazione, senza il Sessantotto e il Sessantanove la straordinaria stagione di riforme degli anni settanta, che ha avvicinato l’Italia alle democrazie occidentali più avanzate per i diritti civili e sociali, non avrebbe preso avvio o non sarebbe stata altrettanto incisiva: molto si potrebbe dire, ma basti qui ricordare il divorzio, la legge sull’interruzione di gravidanza contro le pratiche clandestine, il nuovo diritto di famiglia e la prima – e destinata a restare pressoché unica - prestazione sociale universalistica realizzata con il varo del sistema sanitario nazionale. Quanto alla scuola, come non ricordare le “150 ore”, destinate a diventare il ceppo sul quale sarebbe stata innestata in Italia l’educazione degli adulti prima e la

lifelong learning poi, fattore centrale di valorizzazione e adeguamento delle

competenze del “capitale umano” nel passaggio postfordista “dal lavoro ai lavori”. E che dire del tempo pieno nella scuola dell’obbligo, una novità fondamentale per le donne e per i più alti tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro, ancora oggi uno dei punti critici e dei principali obiettivi per la competitività dell’economia italiana.

Sul piano economico, gli anni settanta rappresentarono bensì un rallentamento dei ritmi della crescita rispetto agli anni del miracolo economico, ma il rallentamento fu in linea con la fine dell’età dell’oro occidentale. Del resto, incrementi medi annui del Pil del 3,5 per cento, quali quelli degli anni settanta, ancorché alimentati dalla svalutazione competitiva, oggi sarebbero accolti con giubilo. Ancora, gli investimenti al Sud presero nuovo impulso grazie alle pressioni sindacali, rese esplicite a Torino sin dal 1967, quando i sindacati locali – incredibile dictu, con gli occhi di oggi – chiedevano di non investire più nell’area del capoluogo piemontese ormai intasata. Nel 1971 erano già in costruzione gli stabilimenti Fiat di Cassino, Termoli, Sulmona, Vasto, Lecce, Nardò: certo la casa automobilistica subalpina puntava agli incentivi statali e ad aree a minor conflittualità e a bassa sindacalizzazione, ma intanto ne beneficiavano l’occupazione e i redditi delle zone interessate. L’industria privata veniva indotta a seguire le orme degli investimenti delle Partecipazioni statali nel Mezzogiorno.

Alle leggi di riforma a livello nazionale vanno aggiunte le battaglie condotte localmente dai sindacati, nei territori, che ampliarono welfare e servizi locali. Le mobilitazioni di quegli anni favorirono l’avvento, in molti capoluoghi, delle giunte di sinistra, che a cavallo tra anni settanta e anni ottanta si dedicarono ad affrontare i problemi sociali – in particolare il degrado delle periferie e la carenza di servizi e di abitazioni - lasciati insoluti dallo sviluppo incontrollato degli anni sessanta, quando le

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amministrazioni dei centri urbani medio-grandi non riuscivano a tenere il passo con l’aumento della popolazione, mentre le imprese, dal canto loro, si cullavano nell’illusione che lo sviluppo avrebbe da sé medesimo allentato le tensioni con la progressiva crescita dei redditi, così che i loro dirigenti, concentrati nello sforzo di potenziare i livelli produttivi per cogliere le opportunità dei mercati in espansione, dedicavano assai poca attenzione alla dimensione sociale della fabbrica. La casa, la scuola, gli asili nido e le scuole materne, la sanità e gli ospedali, i manicomi, i trasporti pubblici, le aree verdi, gli impianti sportivi e ricreativi erano altrettanti temi che facevano il paio con le riduzioni d’orario, il tempo libero e la qualità della vita. Questa strategia partì nel 1969 ed ebbe sviluppi notevoli negli anni settanta, contribuendo a migliorare l’attenzione per la qualità urbana, con effetti duraturi nel tempo e vantaggi per la coesione sociale.

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