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BRUNO - l'eretico eccitato da Dio

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GIORDANO BRUNO

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Vita e opere

Filippo Bruno nasce a Nola, vicino a Napoli, nel 1548. A Quindici anni entra nell’ordine domenicano e cambia nome assumendo quello di Giordano. Egli si distingue subito nel convento come un ragazzo prodigio per la sua eccezionale memoria e per le sue qualità intellettuali. Tuttavia fin dal diciottesimo anno di età il suo carattere impetuoso e ribelle si manifesta anche nel pensiero che esce dal seminato della tradizionale dottrina cattolica e genera il sospetto di eresia. Infatti della sua cultura entrano a far parte l’ermetismo magico, diffuso nel Rinascimento, l’atomismo epicureo, assunto attraverso la lettura di Lucrezio del quale era appena (1417) stato scoperto il capolavoro (Il De rerum natura) e la nuova astronomia copernicana. Tutti elementi, questi, che lo conducono sempre più lontano dalla scolastica tommasiana, che si afferma nel contempo come filosofia ufficiale della Chiesa.

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Vita e opere 2

A diciott’anni, tuttavia, si manifestano solamente

alcune tendenze eterodosse contro le immagini dei

santi, prendono piede nella sua mente dubbi sulla

Trinità e sull’Incarnazione, cioè posizioni squisitamente

teologiche e non ancora saldate ad un complessivo

sistema filosofico e, nondimeno, più che sufficienti a

suscitare la reazione ecclesiale che determina nel 1576

l’abbandono dell’abito domenicano e l’inizio delle sue

peregrinazioni in tutta Europa.

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Vita e opere 3

Dopo essere passato dall’Italia settentrionale si reca a

Ginevra, patria del calvinismo, dove crede di trovare un

ambiente religioso più confacente al suo spirito. Presto però

rimarrà deluso dal rigido dogmatismo calvinista. Di qui allora

passa prima a Tolosa, dove diventa magister artium e può

insegnare alla locale università, e poi a Parigi dove ottiene il

favore di Enrico III per la dedica al re di una delle sue prime

opere, il De umbris idearum (1582), cui seguono altre opere di

mnemotecnica (il Cantus circaeus, 1582) e la commedia in

italiano, il Candelaio (1582).

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Vita e opere 4

L’insegnamento come lettore straordinario all’università genera subito polemiche anche a Parigi. È questo il motivo per cui Enrico III decide di inviarlo nell’Inghilterra elisabettiana come gentiluomo addetto all’ambasciatore di Francia. Bruno viene introdotto subito nell’ambiente di corte e in quello universitario (Oxford). In questo periodo compone i dialoghi italiani: La cena delle ceneri (1584); De

la causa principio e uno (1584); De l’infinito universo e mondi

(1584); De gli eroici furori (1585) e Lo spaccio della bestia trionfante (1585). Tornato a Parigi nel 1586, è ancora coinvolto in una burrascosa polemica universitaria, che lo convince a spostarsi in

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Vita e opere 5

In Germania dalla metà del 1586, insegna a Marburgo, Wittenberg e Francoforte, componendo gli scritti latini come De triplici minimo

et mensura; De monade, numero et figura; De immenso et innumerabilibus (tutti nel 1591). Dall’incontro con i librai veneziani

che viaggiavano a Francoforte, nasce l’invito del patrizio della città lagunare Giovanni Mocenigo a recarsi da lui per istruirlo nelle pratiche magiche e nella mnemotecnica. Insoddisfatto del suo insegnamento, il nobile lo denuncia al Sant’Uffizio nel 1592. La mitezza dei prelati veneti non può però impedire che, dopo trattative intense con il senato veneziano, l’organo centrale dell’inquisizione romana ottenga la sua estradizione nell’Urbe.

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Vita e opere 6

Dal febbraio del 1593 al 17 febbraio del 1600, data della sua morte, Bruno è in carcere a Roma. Egli mantiene un atteggiamento oscillante, ma alla precisa contestazione di alcune proposizioni tratte dalle sue opere, fattagli dal cardinale Bellarmino che le indicava come eretiche, Bruno risponde di non dover ritrattare nulla perché le ritiene perfettamente ortodosse. A questo punto papa Clemente VIII rompe gli indugi, lo scomunica come eretico e lo consegna al governatore di Roma per farlo bruciare. Cosa che accade in Campo dei Fiori, luogo dove al filosofo nolano è stato eretto un monumento che, malgrado le speculazioni anticlericali dalle quali è sorta l’iniziativa, ricorda un gravissimo errore di mancanza di misericordia da parte delle autorità ecclesiastiche del tempo, di cui, non tanto i fumosi ideali di libertà di pensiero, ma il Vangelo da esse custodito rimarrà sempre criterio di critica radicale e ineludibile.

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Bruno filosofo del Rinascimento

Vi sono due convinzioni tipicamente rinascimentali da cui la filosofia di Bruno si può dire che scaturisca in tutta la sua complessità e in tutto il suo fascino:

•1) l’idea che il pensiero dei moderni deve abbeverarsi alle fonti

antiche, ad una sapienza originaria ed arcana che i filosofi nella

storia hanno sempre valorizzato, studiato ed analizzato in tutte le epoche, e che si può ritrovare nel nucleo di tutte le grandi filosofie; •2) l’idea che l’uomo deve riconciliarsi con la natura, che per l’umanità è costante punto di riferimento. Una natura che è concepita come essere universale e pulsante da cui scaturisce ogni vita e ogni intelligenza.

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L’ermetismo

Riguardo al primo punto della precedente slide, l’allusione è a

quegli scritti ermetici cui molti intellettuali del Rinascimento

guardano come ad uno scrigno antichissimo di sapienza

religiosa e filosofica. In realtà sin dal sec. XVII si scoprirà

l’origine molto più tarda (II sec. d.C.) dei libri ermetici attribuiti

al misterioso Ermete Trismegisto, a Orfeo, a Pitagora e a

Mosé. Ma nel tempo di Bruno essi svolgono, grazie all’autorità

data loro dall’antichità, un importante ruolo di stimolo per la

(10)

Temi ermetici

L’ermetismo fonde assieme platonismo, neoplatonismo, stoicismo

e aristotelismo in una sintesi che caratterizzerà tutta la filosofia

popolare ellenistica e tardo antica. Lo scopo è quello di dar luogo ad una speculazione soteriologica in cui il tema del divino e delle

modalità della sua conoscenza occupa un posto fondamentale. Dio

è indicato neoplatonicamente come un principio ineffabile e

trascendente, ed è conoscibile solo con una gnosi che porti oltre le

capacità della pura ragione verso una forma di sapere simbolico, allusivo e mistico. Così, salendo i gradi dell’universo fisico e poi metafisico, l’uomo viene progressivamente strappato alla sua corporeità sensibile in un’estasi che lo unisce al divino.

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Sensibilità e sovrasensibile

Benché l’uomo sia un essere sensibile, egli porta con sé una

traccia del principio dal quale egli proviene e da cui si è

allontanato «cadendo» prigioniero del mondo. Ciò fonda la

possibilità del ritorno, anche attraverso i segni, le tracce del

divino presenti nel mondo sensibile che rappresentano

altrettanti gradini approntati per la risalita. Ovviamente un

simile cammino è riservato a pochi eletti, uomini spirituali

che sanno cogliere ciò che la massa ignorante e incolta non

vede né percepisce.

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Gnosticismo cristianizzato

Ciò che consente in epoca rinascimentale di rivalutare la gnosi ermetica sono i punti di contatto con il cristianesimo. La Chiesa infatti, già nella sua iniziale battaglia contro lo gnosticismo, rigettando nel complesso la dottrina gnostica, aveva dovuto

discernere gli aspetti di quest’ultima ritenuti compatibili con la

Rivelazione da quelli, di peso indiscutibilmente maggiore, che non lo erano. Rispetto all’accoglienza «cristianizzante» dei testi ermetici nel Rinascimento, la prospettiva di Bruno è qui però radicalizzata, poiché è la sapienza ermetica ad essere considerata primaria e il cristianesimo ad essere ritenuto accettabile in quanto compatibile con l’ermetismo.

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La natura

Nicola Abbagnano individua nell’amore per la natura uno dei tratti fondamentali della personalità di Bruno, che lo storico della filosofia afferma essere identificabile con un «amore per la vita nella sua potenza dionisiaca, nella sua infinita espansione». Natura è qui infatti l’immensità di tutto l’universo considerato come un

macrocosmo vivente e animato che infinitamente produce dal suo

seno e nel suo seno creature, forme, mondi che non smettono di incantare l’osservatore e il pensatore con la meraviglia della loro varietà, bellezza, armonia. Dioniso è la divinità greca che rappresenta la fecondità della terra e di tutti i viventi, cioè la stessa infinità e rigogliosa produttività della natura.

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La causa e il principio di tutto

Ora il filosofo cerca la causa e il principio di

tutto ciò che suscita la sua meraviglia.

Causa

dell’immenso

e

meraviglioso

universo non può che essere Dio. Ma

come vanno pensati i concetti di causa e di

principio? E come va pensato Dio?

(15)

Causa

La causa è ciò che produce l’effetto rimanendo

distinto dall’effetto stesso. L’effetto sembra

fuoriuscire infatti dalla causa come, per fare un

esempio non bruniano, in un parto il figlio fuoriesce

dal grembo della madre. Ma, sempre utilizzando

l’esempio del parto, la madre non è solo causa del

figlio, bensì lascia al figlio qualcosa di sé (oggi

diremmo il suo patrimonio genetico).

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Principio

In questo senso essa è anche principio. Il principio si

definisce infatti come ciò che intrinsecamente concorre

alla costituzione di una cosa e rimane nell’effetto. A tale

proposito bisogna pensare all’arché dei presocratici, che

era l’inizio della realtà, ma anche la sua componente

essenziale, l’aspetto della realtà che era presente in tutti

gli altri, in tutte le cose, in tutti gli enti in generale

(pensiamo a titolo di esempio rammemorante all’acqua di

Talete o all’aria di Anassimene).

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Dio

Orbene, Dio è causa e principio di tutta la realtà,

quindi al tempo stesso separato e presente in ogni fibra

di essa.

Per questo al tempo stesso Bruno può dire che Egli è

una

mens

super

ominia

(mente-sopra-tutto),

attribuendogli i caratteri neoplatonici ed ermetici di

unità infinità, ineffabilità; e una mens insita omnibus

(mente-dentro-tutto) che pervade con la sua essenza

tutte le cose.

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Panteismo

Via via Bruno andrà sempre più insistendo sul fatto che Dio è

interno alla natura, fino a coincidere con essa. La natura,

peraltro va pensata, essendo il prodotto di un essere infinito,

come infinita nello spazio e nel tempo. Essa è unitaria

(l’universo nel suo complesso è uno come Uno è il suo sommo

principio) ma internamente molteplice, secondo la duplice

prospettiva neoplatonica dell’Uno e dei molti in cui i molti

sensibili però non sono che infinite manifestazioni dello

stesso unico principio divino e universale. Questa visione può

(19)

Dove è Dio

Dio, come unica causa e principio (De la causa principio et uno, 1584) della natura, è nella materia e nella forma, perché il principio d’ordine delle cose, ciò che le plasma e dà loro l’identità che hanno, è dentro la materia e tutta la pervade, è una forza seminale: ogni cosa scaturisce da un seme che è posto dentro di essa e con essa si identifica. La forma in particolare è la neoplatonica anima del mondo, un intelletto universale e ordinatore che agisce dall’interno della materia e genera gli esseri naturali con la stessa forza con cui da un seme si genera la radice e dal tronco i rami di un albero. Tale forza è causa efficiente delle cose, ed è al tempo stesso lo scopo in vista del quale le cose sono. Le cose si formano a partire dalla forza intellettiva e animatrice di Dio (intelletto e anima sono modi di essere e di agire di Dio) per «costruire» quel Dio che è la natura stessa nelle sue infinite forme. Le quattro cause aristoteliche sono dunque ridotte all’unica causalità divina al tempo

(20)

Infinità nel tempo

Il processo di autogenerazione di Dio, per il quale continuamente

Dio, cioè il tutto o la natura, genera nel suo seno e dal suo seno i

suoi infiniti componenti, è tale da sempre. Dunque Dio è causa e

principio, ma non creatore in senso cristiano. Non vi è stato un

momento in cui l’universo non esisteva e un momento

successivo in cui è stato creato. La creazione, o autoproduzione

di Dio è continua ed eterna, è propriamente “creatività”

continua del principio-causa e non atto singolo e irripetibile,

come nel racconto biblico. Se è così, ad un infinità nello spazio,

bisogna associare nella dottrina bruniana l’idea di un’infinità nel

tempo del Dio-natura, al tempo stesso creatore e creatura,

generante e generato.

(21)

La struttura dell’universo naturale:

il minimo

Se noi, nel conoscere l’universo naturale, partiamo dalla

molteplicità degli enti esistenti, notiamo che ogni cosa, per

essere quello che è non può essere concepita come

divisibile infinitamente. Insomma vi deve essere un

componente essenziale delle realtà naturali che ce ne

restituisca il nucleo vivente e le caratterizzi nella loro

identità. Questo è il minimo: in ogni ente sotto i nostri

occhi vi deve essere un minimo al di sotto del quale

l’elemento sfuma nell’indeterminabile e in una sorta di

impossibile non essere.

(22)

Minimo come atomo qualitativo

In

Bruno si fondono suggestioni democritee e platoniche. Infatti

il minimo ha tutte le sembianze degli atomi di Democrito, le

minuscole e indivisibili componenti di ogni corpo. Tuttavia in

Democrito gli atomi sono diversi solo per la forma fisica che

posseggono ma sono qualitativamente uguali. In Bruno invece

sembra che vi sia un minimo per ogni genere di cosa, e che

dunque i minimi abbiano qualità intrinseche (siano dotate di

una loro forma, in senso aristotelico-platonico), dalle quali

emergono le qualità dei corpi che, aggregandosi, vanno a

costituire (il minimo dell’uomo unendosi con altri minimi umani

(23)

Tra Democrito, Aristotele e Platone

Ora, secondo Bruno gli enti si caratterizzano per l’aggregazione di minimi, qualitativamente diversi gli uni dagli altri a seconda del genere di cose (uomo, animale, pianta etc.), non dell’individui, che vanno a formare. Ogni cosa, nel suo genere, tende a conservare il suo minimo, cioè la sua qualità fondamentale data dall’aggregazione di minimi di un dato tipo. Il problema è che se ogni genere di ente ha il suo minimo e vi possono essere enti che vanno a costituire altri enti, la dottrina del minimo democriteo non appare compatibile con quella della forma aristotelico platonica (per esempio un uomo che è costituito dai suoi diversi organi è fatto dai minimi di ciascuno organo o dai minimi dell’uomo?). Tale aporia è lasciata irrisolta da Bruno, per in quale, in ogni caso, il reale è il risultato di un’architettura di minimi che interagiscono fra loro aggregandosi e disaggregandosi mentre in tutti è presente la forza generatrice dell’intelletto divino universale.

(24)

La struttura dell’universo: la

monade

Se partiamo, nella nostra conoscenza, dalla considerazione dell’unità del tutto, possiamo apprezzare la presenza dell’Uno-Dio in tutte le cose. È dalla forza generatrice del medesimo Dio, presente ovunque che emergono i minimi qualitativamente differenziati e le dinamiche della loro aggregazione in enti sempre più complessi.

Quindi dal minimo viene la monade universale (la natura-Dio-Uno), che è la totalità degli infiniti minimi che costituiscono il reale; mentre dalla monade, diremmo «per autodiffusione», viene il

minimo in cui la monade esplica in modo «seminale» la sua forza

(25)

La conoscenza

La nostra facoltà conoscitiva, che pure è in grado

di sviluppare una teoria raffinata del tutto, non

ha accesso alla conoscenza diretta e totale

dell’infinito in sé, nei suoi paradigmi ideali. Dio

in questo senso si conferma come mens super

omnia. La conoscenza dell’infinito si attua

attraverso l’ombra delle idee (De umbris

(26)

Dall’immagine a Dio

Bruno ritiene che queste ombre delle idee siano

immagini, figure attraverso le quali Dio stesso si esprime

nell’infinita varietà della natura: un Dio che in sé è

totalità infinita, e che però si manifesta nelle infinite

immagini finite corrispondenti ai vari aspetti della natura

stessa che noi possiamo indagare con le nostre facoltà e la

nostra intelligenza. Dunque guardando alle ombre (in

senso negativo) che però sono anche immagini (in senso

positivo), l’uomo può

ricostruire una “visione”

dell’universo che restituisce a lui, essere finito, un quadro

limitato ma apprezzabile di che cosa sia il Dio-natura

(27)

L’etica bruniana: indiarsi

Malgrado i difetti della nostra conoscenza, ci è

dato di raggiungere un unione intima con il

Dio-natura praticamente, ossia attraverso la prassi,

nel nostro concreto comportamento. Tale via

porta l’uomo a «indiarsi», ovvero ad

identificarsi con Dio. Il processo è esemplificato

dal mito di Atteone, così come viene esposto ne

«Gli eroici furori».

(28)

Diana e Atteone

Atteone, mitico cacciatore, giunge a contemplare

Diana, dea della caccia, nella sua nudità, e per

questo viene dalla dea trasformato in cervo. Così il

cacciatore diviene preda e può bene rappresentare

l’anima umana in cerca dei segreti della natura. Una

volta conosciutili, egli diviene preda dell’oggetto

(la natura) che stava cercando e si può così

pienamente identificare con essa.

(29)

Identificarsi con la natura e con il

suo potere creativo

Ma che cosa vuol dire identificarsi con la natura?

Vuol dire diventare tutt’uno con il suo potere

creativo e produttivo per animare dall’interno tutte

le cose e continuamente trasformarle e farle

proprie. Questo è esattamente ciò che Bruno pensa

sia il dovere ultimo dell’uomo: assumere come

propria un’etica del lavoro e dell’operosità,

attraverso la quale appunto l’uomo si assimila a Dio

(s’ «india»).

(30)

L’uomo: la sua mano

Non a caso ciò che distingue l’uomo dagli altri esseri

naturali non è il possesso di un’anima, cosa che è

propria di tutti gli enti, bensì il possesso, nella sua

conformazione corporea, della mano. È la mano lo

strumento tipicamente umano con il quale egli

trasforma le cose, lavorandole, e se ne appropria.

L’intelligenza è sì importante, ma è un’intelligenza nella

materia, al servizio della materia, che trasforma la

materia creando il mondo umano così come lo

conosciamo.

(31)

La magia al servizio dell’agire

Così la conoscenza delle segrete armonie del cosmo

vivente conduce l’uomo ad agire efficacemente dentro di

esso. E tale conoscenza ha un carattere magico, cioè è al

tempo stesso rispettosa del cosmo vivente, ma indirizzata

ad evocarne le forze per meglio dominarlo, per

guadagnare a sé quella potenza che rende il lavoro

umano efficace sul mondo. Così l’uomo, cioè una parte

del cosmo, si specchia nel cosmo stesso conoscendolo e

può riprodurre in sé veramente la forza cosmica che

agisce entro ogni vivente, realizzando compiutamente se

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Gli eroici furori

L’uomo nella sua vita ha di fronte tre strade:

•Quella della sapienza contemplativa, che è consapevole

dell’unità dell’uomo con il tutto e ne trae tranquillamente le

conseguenze, rifuggendo dagli estremi dell’esaltazione e

dell’abbattimento.

•Quello del furore (basso) che, difettando di conoscenza si

abbandona alle passioni.

•Quella del furore eroico, in cui passione amorosa per la verità

ed esercizio dell’intelligenza si fondono e la contemplazione

della natura diventa attiva riproduzione in sé della sua infinità

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Amore bruniano

Così per Bruno «l’eroico furore è la traduzione naturalistica

del concetto platonico di amore» (Abbagnano, La filosofia,

2a p. 71). Infatti come in Platone l’amore è una dimensione

della vita che conduce l’uomo all’assoluto trascendente,

così in Bruno esso conduce all’assoluto immanente. Qui,

non venendo meno il libero volere, che Bruno mai

negherebbe all’uomo, quest’ultimo arriva ad identificarsi

con una suprema necessità, quella del Tutto divino naturale

in cui ogni fibra si muove secondo la razionalità della mens

(34)

Il destino dell’uomo

L’uomo è come il frammento di un grande specchio (la natura-Dio) che si è infranto in infinite parti. Queste parti si trasformano continuamente, nascono e muoiono e morendo tornano al Tutto, al grande specchio da cui provengono, rinascendo poi in altri frammenti dello stesso specchio. Ciò significa che l’anima che si trova ogni nell’uomo, domani, morta la creatura cui dava forma e persa la sua individualità, si potrebbe ritrovare in un altro uomo, o in un’altra creatura animale, vegetale o minerale, secondo quell’antica visione orientale e misterica che, accolta da alcuni intellettuali greci come Pitagora o Platone, è stata indicata col nome di “metempsicosi” (della quale si riprende anche il modello “retributivo”, secondo il quale ad una vita degna corrisponde una reincarnazione umana, mentre ad una vita non degna una animale o peggio). L’anima è dunque immortale, come parte del grande vivente che è la natura, ma non

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La cosmologia bruniana

La lettura di Copernico è decisiva per il nostro filosofo. La sua

immagine

dell’universo

parte

infatti

da

un’intuizione

squisitamente filosofica: il mondo è infinito, giacché infinita per

definizione non può che essere la sua causa e principio, cioè Dio.

Questa idea viene fatta interagire con la prospettiva copernicana

secondo cui il sole è al centro del sistema dei pianeti. Se è così,

le stelle, che sarebbero secondo l’astronomia classica,

incastonate nell’ultimo cielo, quello delle stelle fisse, potrebbero

benissimo essere nient’altro che ulteriori soli, intorno ai quali

gira, in ciascuno, un sistema di pianeti del tutto analogo al

nostro.

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Le idee rivoluzionarie di Bruno

L’immagine del mondo di Bruno quindi implica che non vi possano

essere confini all’universo (di contro al mondo chiuso e finito di

Aristotele); che i mondi abitabili siano più di uno; che in fondo non

vi sia differenza tra mondo celeste e «sub-lunare» quanto alla loro

composizione materiale. Lo spazio cosmico è dunque il vuoto

infinito in cui hanno sede i corpi celesti (Lucrezio-Democrito,

mentre in Aristotele un luogo vuoto è una contraddizione in termini). L’universo diviene quindi policentrico, molto simile a quell’idea di mondo che già Nicola Cusano aveva elaborato, secondo cui l’universo sarebbe una sfera che ha il centro dappertutto e la circonferenza in nessun luogo.

(37)

Modernità di Bruno

Come si è visto, il filosofo nolano, appare di una

stupefacente modernità. Egli, pur utilizzando concetti del

tutto a-scientifici, ha fornito alla scienza una cornice entro

cui

operare

giustificando

sperimentalmente

e

matematicamente le idee che Bruno aveva elaborato sul

piano filosofico, anche se all’inizio gli stessi ambienti

scientifici (Tyco Brahe, Keplero) rifiutarono le sue teorie o

non le considerarono (Galilei) proprio a motivo del fatto che

anche a loro apparivano troppo estreme e nuove.

(38)

L’eresia

Bruno ebbe un atteggiamento molto duro nei confronti

del cristianesimo, che riteneva fosse religione utile a

tener buone le masse, ma nulla di più (in ciò egli

accomunava cattolici e riformati, gettando i suoi strali,

anzi, preferibilmente contro i secondi). La filosofia, al

contrario della santa asinità promossa da tutte le chiese,

garantiva invece l’accesso alla verità, anche su Dio e sulle

questioni teologiche. Una filosofia che, agli occhi degli

esperti cattolici del tempo apparve decisamente eretica.

(39)

In che cosa consiste l’eresia bruniana: una

teologia del Padre, dello Spirito Santo…

Certamente a prima vista gli esiti panteistici della filosofia bruniana non sono compatibili con il cristianesimo. Ma anche il panteismo di Bruno lasciava comunque spazio, lo abbiamo visto, alla trascendenza. Mens super omnia e mens insita omnibus, a pensarci bene, sono concetti teologicamente riconducibili a Dio padre e

allo Spirito Santo. Come Dio padre è causa del mondo, secondo

l’ormai classica dimostrazione ex causa (che Bruno, in quanto domenicano, doveva conoscere bene), e si mantiene l’unico monarca dell’universo, così la mens super omnia ben può mantenere tali caratteristiche. Come lo Spirito Santo con il suo amore penetra e vivifica il mondo, così fa la mens insita omnibus.

(40)

…ma non del Figlio

Ciò che Bruno non accettava è che il divino risiedesse in maniera

privilegiata in una persona, l’uomo Gesù Cristo. Non in tutta la creazione,

non in ogni singola produzione divina, ma in una persona da considerarsi il mediatore tra cielo e terra: questa idea sembrava a Bruno pura e semplice

idolatria. E’ chiaro, dunque, che se la fede cristiana ha come suo centro il

Cristo morto e risorto, che è il Verbo mediatore, che è Dio, proprio su questo punto non poteva esserci che uno scontro netto e un’inconciliabilità irresolubile. Le autorità ecclesiali, possiamo dire noi a distanza di più di cinque secoli, non sbagliarono nel giudizio teologico,

ma nella prassi che vide lo zelo per l’ortodossia sconfinare fino

all’assunzione di un atteggiamento incompatibile con ciò che Gesù aveva chiesto di fare ai suoi fedeli.

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