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Sindrome di Alzheimer: passato, presente e futuro?

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di farmacia

Corso di laurea Specialistica in Farmacia

Tesi di Laurea

“SINDROME DI ALZHEIMER: PASSATO,

PRESENTE E FUTURO”

Relatore

:

Candidata

:

Dott.ssa Simona Rapposelli

Ilenia Borsellino

(2)

2

INDICE

1. La malattia di Alzheimer

1.1 Epidemiologia

6

1.2 Scoperta e caratteristiche

7

1.3 Caratteristiche morfologiche dell’AD

9

1.4 Principali cause neuropatologiche della malattia

10

1.4.1 Ipotesi β-amiloide

11

 Meccanismi attraverso i quali la β-amiloide produce 13

danni neuronali e funzionali

1.4.2 Grovigli neurofibrillari (NFTs)

13

1.4.3 Ipotesi dello stress ossidativo

15

1.4.4 Ipotesi colinergica

17

2. Nuova strategia terapeutica: l’autofagia

2.1 Meccanismo terapeutico

19

2.2 Pathways autofagici

20

2.2.1 Sistema Ubiquitina-Proteasoma

20

2.2.2 Sistema lisosomiale dell’autofagia

22

(3)

3

2.4 Autofagia e autofagosoma

22

2.5 L’autofagia nei neuroni e nel sistema nervoso centrale

25

e la sua implicazione nell’Alzheimer

2.6 Meccaniche, geni e proteine che legano l’autofagia

28

all’AD

2.6.1 Pathway del bersaglio della rapamicina (mTOR)

28

2.6.2 ATG7 proteina associata all’autofagia

29

2.6.3 Preseniline come modulatori autofagici

30

2.6.4 Ubiquilina 1: la sua sovraespressione allevia

31

i deficit cognitivi e motori dell’AD

2.6.5 Beclin 1 (BECN1): regola l’autofagia e

32

l’apoptosi

3. Strategie terapeutiche per il trattamento dell’AD

3.1 Farmaci attualmente utilizzati in terapia

34

3.1.1 Inibitori dell’acetilcolinesterasi

34

 Tacrina

36

 Donepezil

36

 Rivastigmina

36

(4)

4

3.1.2 Antagonisti dei recettori NMDA

38

3.2 Conseguenze terapeutiche dell’interazione tra

39

l’Alzheimer e l’autofagia

3.2.1

Memit, profarmaco della memantina,

39

nuovo agente progettato per l’AD

3.2.2 Rapamicina, autofagia e malattia di Alzheimer

40

3.2.3

Carbamazepina, GTM-1 e rapamicina

41

e loro efficacia sull’autofagia e l’AD

3.3 Polifenoli e loro effetti neuroprotettivi

43

3.3.1 Proprietà chimiche e biodisponibilità

44

dei fenoli

3.3.2 Regolazione dell’autofagia tramite polifenoli

45

 Resveratrolo

45

 Oleuropeina aglicone

46

 Curcumina

48

Conclusioni

49

(5)

5

“A mamma e papà,

per avermi sostenuta

e per aver sempre creduto in me

e ad uno zio speciale

volato via nel cielo troppo presto”

(6)

6

PRIMO CAPITOLO

1.LA MALATTIA DI ALZHEIMER

La malattia di Alzheimer (AD) è una patologia caratterizzata da una progressiva degenerazione del SNC e rappresenta una delle principali cause di morte al mondo tra gli anziani. Il disturbo ha visto un aumento nel tasso di mortalità globale raggiungendo ad oggi il 66%. (1) L’insorgenza di questa malattia è subdola e il decorso progressivamente ingravescente porta alla perdita delle facoltà intellettive e alla modificazione dell’assetto della personalità. Ciò che si verifica in pazienti affetti da Alzheimer è inizialmente un cambiamento dello stile di vita quotidiana che consiste in variazioni del tono dell’umore e in una diminuita efficienza intellettiva con precoce perdita della cosiddetta “memoria a breve termine” spesso accompagnata da confabulazioni. Nello stadio più avanzato della malattia compare la “Sindrome alogica di Reich”, caratterizzata da disturbi della memoria, afasia (difficoltà nella parola), aprassia (difficoltà nel compiere movimenti) e agnosia (disturbi della percezione caratterizzati dal mancato riconoscimento di oggetti persone luoghi e suoni).

1.1 EPIDEMIOLOGIA

Il Rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riporta stime di crescita allarmanti della demenza: 35,6 milioni di casi nel 2010 che raddoppieranno nel 2030 e triplicheranno nel 2050 con 7,7 milioni di nuovi casi all’anno (uno ogni 4 secondi) e il cui impatto economico sui sistemi sanitari sarà di circa 604 miliardi di dollari l’anno, con incremento progressivo.

In Italia, il numero totale dei pazienti con demenza è stimato in oltre un milione (di cui circa 600 mila con demenza di Alzheimer) e circa 3 milioni sono le persone direttamente o indirettamente coinvolte nell’assistenza dei loro cari. Numeri che fanno riflettere, soprattutto in occasione della Giornata mondiale dell’Alzheimer, evento che ricorre ogni anno il 21 settembre come iniziativa promossa dalla federazione internazionale Alzheimer’s Disease International (Adi).

I principali fattori di rischio sono l’età (nei Paesi industrializzati la prevalenza è circa del 8% negli ultra 65enni e sale a oltre il 20% dopo gli ottanta anni) e il genere (le donne sono un gruppo a maggior rischio per l'insorgenza della demenza di Alzheimer, la forma più frequente di tutte le demenze (circa il 60%). Esistono poi altri fattori di rischio legati allo stile di vita e

(7)

7

pertanto potenzialmente modificabili quali il diabete, l’ipertensione, l’obesità, l’inattività fisica, la depressione, il fumo e un basso livello di istruzione.

1.2 SCOPERTA E CARATTERISTICHE

La malattia di Alzheimer fu identificata più di 100 anni fa ma le ricerche riguardanti sintomi, cause, fattori di rischio e trattamenti farmacologici hanno subito una rapida crescita solo negli ultimi trent'anni.

La malattia prende il nome da colui che la scoprì, ovvero il neuropsichiatra tedesco Aloise Alzheimer che nel 1906 durante la convenzione psichiatrica di Tubigen descrisse il quadro clinico di una donna di 51 anni Auguste D. affetta da grave deterioramento delle funzioni cognitive accompagnate da episodi allucinatori.

Da un’attenta analisi al microscopio, esaminando il cervello di questa donna, notò una spiccata atrofia della corteccia cerebrale e anche dei depositi anomali nel tessuto nervoso che ancora oggi vengono identificati nella diagnosi definita della malattia, questi sono le placche amiloidi e i grovigli neurofibrillari.

A seguito di questa scoperta riguardante l’Alzheimer si iniziò a pensare che la difficoltà di apprendimento il deficit della memoria non sono parte del normale processo di invecchiamento ma sono dovuti ad uno specifico processo patologico.

I neuroni colpiti da modifiche sia istologiche che funzionali sono localizzati in varie aree del cervello tra le quali:

-corteccia cerebrale (dove si formano il pensiero ed il linguaggio)

-gangli della base (molti neuroni contengono l'acetilcolina una sostanza importante per l'apprendimento e la memoria)

-ippocampo (essenziale per la conservazione della memoria)

L’Alzheimer rappresenta un vero problema sociale e a tal proposito è possibile fare una

classificazione delle diverse forme in base al periodo di insorgenza:

- Le forme sporadiche ad insorgenza tardiva: sono le forme più comuni, e sono rappresentate dal 75% dei casi e non hanno cause ben definite e possono colpire un solo membro di una famiglia. La durata media della malattia, dall'insorgenza dei sintomi alla morte, è compresa tra i 7 e i 10 anni. Tra gli eventi eziologici indicati per queste forme ci sono virus, traumi cranici e

(8)

8

insufficienze circolatorie croniche, anche se il fattore di rischio più rilevante sembra essere l'invecchiamento.

- Le forme familiari a loro volta distinte in: (a) forme familiari ad insorgenza precoce (b) forme familiari ad insorgenza tardiva

- La forma associata alla sindrome di down: il gene della proteina amiloide (APP), localizzato nel cromosoma 21 risulta alterato nella forma AD1. Questo tipo di mutazioni sono rare e causano una malattia ad esordio precoce (30-50 anni).

Sono state individuate quattro diverse fasi in cui poter suddividere il decorso dell’AD, nonostante siano diverse per ogni paziente, in cui si verificherà un progressivo deterioramento cognitivo e funzionale.

FASE DI PRE-DEMENZA

I primi sintomi sono spesso erroneamente attribuiti all'invecchiamento o allo stress. I test neuropsicologici dettagliati possono rivelare difficoltà cognitive lievi fino a otto anni prima che una persona soddisfi i criteri clinici per la diagnosi di AD (2). Uno dei sintomi più evidenti è la difficoltà a ricordare i fatti appresi di recente e l'incapacità di acquisire nuove informazioni. Piccoli problemi di attenzione, difficoltà nel pianificare azioni, di pensiero astratto, o problemi con la memoria semantica possono essere identificati come i sintomi più comuni che caratterizzano le prime fasi dell'Alzheimer. L'apatia, che si osserva in questa fase, è il sintomo neuropsichiatrico più persistente che permane per tutto il decorso della malattia. I sintomi depressivi, l’irritabilità e la scarsa consapevolezza delle difficoltà di memoria sono molto comuni. La fase preclinica della malattia è stata chiamata "mild cognitive impairment" (MCI). La MCI è una fase di transizione tra l'invecchiamento normale e la demenza; può presentarsi con una varietà di sintomi, e quando la perdita di memoria è il sintomo predominante è chiamato "MCI amnesico" ed è spesso visto come una fase prodromica della malattia di Alzheimer.

FASE INIZIALE

In questa fase iniziale della malattia si presentano le prime difficoltà legate al linguaggio, nell’eseguire azioni quotidiane, nel compiere movimenti complessi e difficoltà di percezione. I diversi tipi di memoria, nell’AD, non vengono colpiti allo stesso modo. Inizialmente vecchi ricordi della vita personale (memoria episodica), le nozioni apprese (memoria semantica) e la memoria implicita (la memoria del corpo su come fare le cose, come l’utilizzo di una forchetta

(9)

9

per mangiare) sono colpiti in misura minore rispetto alle nozioni imparate di recente. I problemi linguistici sono caratterizzati principalmente da un impoverimento del vocabolario e da una diminuzione nella scioltezza linguistica, che portano ad un depauperamento generale del linguaggio orale e scritto. Può essere presente una certa difficoltà d'esecuzione in attività come la scrittura, il disegno o il vestirsi.

FASE INTERMEDIA

Il progredire dell'AD ostacola l'indipendenza nei soggetti, i quali lentamente non sono più in grado di svolgere le attività quotidiane. Le difficoltà linguistiche diventano evidenti per via dell'afasia che porta frequentemente a sostituire parole con altre errate (parafrasie). Le sequenze motorie complesse diventano meno coordinate con il passare del tempo e aumenta il rischio di cadute. In questa fase, i problemi di memoria peggiorano, e la persona può non riconoscere i parenti stretti. La memoria a lungo termine, che in precedenza era intatta, può compromettersi in questa fase. Si può passare rapidamente dall'irritabilità al pianto e non sono rari gli impeti di rabbia.

FASE FINALE

Durante le fasi finali il linguaggio è ridotto a semplici frasi o parole, anche singole, portando infine alla completa perdita della parola. Nonostante la perdita delle abilità linguistiche verbali, alcune persone spesso possono ancora comprendere e restituire segnali emotivi. Anche se l'aggressività può ancora essere presente, l'apatia e la stanchezza sono i sintomi più comuni. Le persone con malattia di Alzheimer, alla fine non saranno in grado di eseguire neanche i compiti più semplici in modo indipendente; infatti la massa muscolare e la mobilità si deteriorano al punto che esse in cui sono costretti a letto e incapaci anche di nutrirsi. La causa della morte è di solito un fattore esterno, come un'infezione o una polmonite.

1.3 CARATTERISTICHE MORFOLOGICHE DELL'AD

A livello macroscopico la caratteristica più evidente nel cervello di un soggetto affetto da Alzheimer è la marcata atrofia che determina un aumento dell’ampiezza dei solchi cerebrali e l’incremento del volume ventricolare (Fig. 1). Questa sintomatologia è riconducibile alla distruzione dell’attività funzionale dei neuroni della corteccia cerebrale, al lobo temporale, alle aree associative corticali, all’ippocampo ed al giro para-ippocampale, con conseguente alterazione delle sinapsi colinergiche nel sistema nervoso centrale (SNC).

(10)

10

Fig. 1: Differenze tra encefalo normale ed encefalo affetto da AD

Le prime due principali caratteristiche neuropatologiche descritte furono le placche senili localizzate specificamente nell'ippocampo, a livello della corteccia entorinale e nelle aree associate, costituite da aggregati di proteina β-amiloide (Aβ), ed i grovigli neurofibrillari (NFTs) intracellulari, formati da aggregati intracellulari di proteina tau, associati all’esordio della malattia prima ed al suo sviluppo dopo, con progressiva perdita neuronale (Fig. 2).

Fig. 2 Placche neuritiche e grovigli neurofibrillari

1.4 PRINCIPALI CAUSE NEUROPATOLOGICHE DELLA MALATTIA

L’Alzheimer è un disturbo neurologico multifattoriale le cui cause sono ancora oggi sconosciute a causa della sua complessità, si pensa che ci siano diversi fattori che abbiano un ruolo importante nell’insorgenza e nell’avanzamento della malattia che sono appunto i fattori genetici in combinazione con fattori ambientali.

(11)

11

Le ipotesi fino ad oggi formulate riguardano ai fattori responsabili dell’insorgenza della malattia, sono elencate qui di seguito.

1.4.1 IPOTESI β-AMILOIDE

L’ipotesi beta-amiloide è nata in seguito all’osservazione di placche senili. Alla base della formazione delle placche amiloidi c’è un’alterazione dell’espressione della proteina APP (precursore della proteina β amiloide) e una serie di cambiamenti nella solubilità dell’amiloide β che, di conseguenza, forma degli agglomerati insolubili neurotossici. L’accumulo di Aβ dà il via ad una serie di eventi a cascata che includono processi infiammatori, formazione di grovigli neurofibrillari e perdita di neurotrasmettitori. Le placche senili sono nuclei proteici densi che contengono come principale componente il peptide β-amiloide (Aβ) e sono circondati da neuroni danneggiati e morti. Contengono inoltre cellule gliali reattive, diverse componenti proteiche, che includono l'apolipoproteina E (APO E) e un componente non β-amiloide (NAC) che è un frammento di alfa-sinucleina, ed elementi della cascata del complemento (3). La funzione fisiologica della APP è ancora in gran parte indeterminata, ma è stato ipotizzato che potrebbe avere un ruolo importante nella crescita dei neuriti, nella sinaptogenesi, nel traffico assonale delle proteine neuronali e nella trasduzione del segnale transmembranale. Una parte della APP viene internalizzata e degradata nei lisosomi (4), mentre un’altra piccola frazione raggiunge la membrana plasmatica e viene sottoposta a taglio proteolitico da parte di enzimi con attività secretasica.

La beta-amiloide svolge importanti funzioni patologiche durante lo sviluppo e la progressione delle malattie neurodegenerative. Da esperimenti in vitro è stato osservato che gli aggregati di beta-amiloide hanno effetti tossici sulle cellule, e che questo effetto deleterio è dovuto alla capacità di questo peptide di auto-aggregarsi e formare oligomeri, che a loro volta si possono unire in filamenti intermedi. La beta-amiloide (Aβ) è un peptide di 4-kDa, ha una struttura beta, e deriva dalla proteolisi della proteina precursore APP (Amyloid Precursor Protein), una proteina transmembranale codificata in un gene sul cromosoma 21. La proteina APP è espressa su diversi tipi di cellule (in particolare quelle del cervello, del cuore, della milza e dei reni) e pone l’estremità N-terminale rivolta verso il dominio extracellulare, mentre l’estremità C-terminale è localizzata nel dominio citoplasmatico della cellula (5). Il processo di degradazione proteolitica dell’APP è effettuato da 3 enzimi: l’α-, la β- e la γ-secretasi.

(12)

12

Per ragioni non ancora del tutto chiare, nei soggetti malati gli ultimi due sono gli enzimi che danno il via al cosiddetto pathway amiloidogenico, un processo degradativo costituito da due fasi:

- Inizialmente, le β-secretasi (BACE) effettuano un taglio all’estremità C-terminale della proteina APP producendo un frammento di 12kDa;

- In un secondo momento, le γ-secretasi intervengono sempre sull’estremità C-terminale, per portare alla formazione della proteina Aβ(1-40) o della variante Aβ(1-42), le quali non presentano le caratteristiche biologiche delle forme naturali. Il peptide Aβ(1-42) rappresenta la forma più tossica a livello neuronale, ed è in grado di costituire gli aggregati amiloidogenici extracellulari localizzati sulla membrana dei neuroni, caratteristici delle placche senili (5) (Fig. 3).

Nei soggetti sani, la reazione proteolitica della APP è catalizzata principalmente dalla α-secretasi, che conduce alla formazione di un peptide innocuo chiamato p3, rappresentando il cosiddetto pathway non amiloidogenico.

Fig. 3: Rappresentazione schematica del processo di degradazione dell’APP e suoi metaboliti

È stato dimostrato, che mutazioni patologiche all’interno della sequenza che codifica per la proteina Aβ nel gene 21 della APP, possono provocare un aumento della produzione della variante Aβ neurotossica e un aumento della sua auto-aggregazione e deposizione nella placca (5). In modelli transgenici di topo è stato visto che la sovra-espressione di APP determina la comparsa di placche e deficit di apprendimento e memoria simili a quelle presenti nei malati di AD (6). In studi in vivo condotti su ratti adulti è stata osservata la comparsa di disfunzioni cerebrali, deficit di memoria ed alterazioni neuronali dopo l’infusione della β-amiloide 1-42 nei ventricoli laterali di questi animali; dalle analisi istologiche dei loro cervelli è stata evidenziata

(13)

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atrofia del tessuto, espansione dei ventricoli e danno neuronale nell’area CA1 dell’ippocampo (7).

Meccanismi attraverso i quali la β-amiloide produce danni neuronali e funzionali

La forma fibrillare di Aβ è quella maggiormente studiata, in quanto considerata responsabile dei principali effetti citotossici osservati nelle condizioni sperimentali, mentre quelle monomeriche sono risultate prive di tossicità (8). Secondo l’ipotesi della cascata della beta-amiloide l’accumulo di Aβ in forma fibrillare a livello delle placche, danneggia i neuroni attraverso due differenti meccanismi: un meccanismo diretto ed un meccanismo indiretto. 1-Nel meccanismo diretto, Aβ interagisce con i componenti della membrana cellulare e danneggia direttamente i neuroni e/o aumenta la suscettibilità dei neuroni ad una varietà di fattori di danno, come l’eccitotossicità, l’ipoglicemia o il danno perossidativo

2- Nel meccanismo indiretto, Aβ danneggia i neuroni indirettamente tramite l’attivazione della microglia e degli astrociti a produrre mediatori tossici ed infiammatori, come ad esempio l’ossido nitrico (NO), le citochine e gli intermedi reattivi dell’ossigeno, che causano la morte dei neuroni per apoptosi o per necrosi.

1.4.2 GROVIGLI NEUROFIBRILLARI (NFTs)

La neuroinfiammazione è implicata nella malattia di Alzheimer. In tale patologia neurodegenerativa l’accumulo della proteina β-amiloide e l’iperfosforilazione della proteina tau formano, rispettivamente, placche senili ed ammassi neurofibrillari. Il sistema immunitario identifica queste alterazioni come “minaccia” e provoca una reazione infiammatoria per neutralizzarle. In questo contesto, le cellule della microglia, deputate alla “sorveglianza immunitaria”, assumono una duplice valenza. Inizialmente svolgono un ruolo protettivo che contrasta l’amiloidosi e rimodella le connessioni sinaptiche. Infatti, per effetto di meccanismi di fagocitosi e di citotossicità, l’attivazione microgliale distrugge le placche e i detriti cellulari. Tuttavia, se protratta, l’infiammazione favorisce la progressione della malattia. Un eccessivo rilascio di fattori citotossici colpisce indistintamente anche i neuroni sani, sortendo effetti neurotossici e neurodegenerativi. Uno dei marker patologici che caratterizza l’AD è la presenza dei grovigli neurofibrillari (NFTs) intracellulari che contengono, come loro prima componente, aggregati della proteina tau (τ) in uno stato iperfosforilato (9). In particolare, gli NFTs sono costituiti da fasci di filamenti elicoidali localizzati principalmente nei neuroni corticali e

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neuroni dell’ippocampo, dell’amigdala e della porzione basale dell’encefalo anteriore. La proteina tau è una proteina filamentosa associata a microtubuli, e a cellule neuronali sane, in seguito a processi enzimatici consecutivi e reversibili di fosforilazione e defosforilazione, e ha il compito di assemblare e stabilizzare i microtubuli e di determinarne il legame con altri componenti del citoscheletro (5); in condizioni patologiche però, è stato notato che l’eccessiva iperfosforilazione di questa proteina da parte di specifiche chinasi e fosfatasi sembra condurre a dei cambiamenti conformazionali della proteina stessa, che impedisce non solo la stabilizzazione dei microtubuli, ma comporta anche la formazione di aggregati intraplasmatici insolubili (NFTs), che avvolgono il nucleo stesso della cellula neuronale. In tal modo, questa proteina perde la sua attività biologica e polimerizza in grovigli tossici per i neuroni, causando morte neuronale e demenza cognitiva.

Un funzionamento ottimale di questa proteina dipende da un meccanismo dinamico di fosforilazione/defosforilazione in siti specifici, soprattutto ad opera di chinasi come GSK-3β e Cdk-5 e fosfatasi. Nell’Uomo, il gene codificante tale proteina è espressa sul braccio lungo del cromosoma 17 (10) nella regione 17q21 e contiene 16 esoni. L'esone 1 fa parte del promotore ed è trascritto ma non tradotto; mentre gli esoni 1,4,5,7,9,11,12 e 13 sono costitutivi gli esoni 2,3 e 10 sono soggetti a splicing alternativo e da questo splicing si ottengono sei isoforme della proteina TAU che sono espresse in maniera diversa nello sviluppo del cervello (11) e differiscono per il fatto che contengono 3 (3R) o 4 (4R) domini di legame per la tubulina. Nella malattia di Alzheimer la proteina tau risulta essere iperfosforilata e in questa forma non è più in grado di svolgere correttamente la sua funzione. All’iperfosforilazione segue la dissociazione della proteina dai microtubuli e la conseguente destabilizzazione e interruzione dell'assemblaggio di questo importante sistema di trasporto intracellulare (12) (Fig. 4), portando alla morte neuronale. Recenti studi hanno dimostrato come l’iperfosforilazione della proteina tau avvenuta in regioni della catena peptidica ricche di prolina, in corrispondenza dell’estremità C-terminale e nei siti di legame dei microtubuli, promuova marcatamente la sua autoaggregazione (13).

(15)

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Fig. 4 Formazione grovigli neurofibrillari

1.4.3 IPOTESI DELLO STRESS OSSIDATIVO

Tra i principali meccanismi patogeni dell’AD è inserita l’ipotesi dello stress ossidativo (14) che può dipendere da diversi fattori, come l’esposizione a determinate sostanze (fumo, radiazioni) o alla luce UV, a processi infiammatori in corso o alterazione del metabolismo mitocondriale da parte di fattori endogeni. Questo processo si verifica quando la produzione di prodotti ossidanti a livello endogeno è in concentrazione maggiore rispetto a sostanze antiossidanti sia di natura non enzimatica (come glutatione, vitamina E, ascorbato) che enzimatica (come superossido dismutasi e catalasi), conducendo al danneggiamento ossidativo del tessuto. Tutte le forme di vita conservano, all’interno delle loro cellule, un ambiente riducente che viene preservato da enzimi che mantengono lo stato ridotto attraverso un costante apporto di energia metabolica. Le maggiori fonti di ROS nel Sistema Nervoso Centrale (SNC) sono: i mitocondri, i metalli pesanti (Fe, Cu), la microglia e gli astrociti, l’amiloide beta, i prodotti terminali della glicazione (AGEs) ed i proteosomi. Lo squilibrio del normale stato ossido-riduttivo provoca effetti tossici attraverso la produzione di specie chimiche reattive che danneggiano le componenti della cellula incluse proteine, lipidi e acidi nucleici. Uno sbilanciamento tra la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) e l’efficacia del sistema di difesa antiossidante può portare alla condizione di stress ossidativo per cui si possono instaurare danni all’interno della cellula, in grado di condurre la stessa ad apoptosi.

Diversi studi hanno evidenziato che lo stress ossidativo e il danno indotto da accumulo di radicali liberi sono implicati nella patogenesi e nell’eziologia dell’AD (15). La prima evidenza che ha avuto un ruolo determinante è il coinvolgimento degli ioni metallici nella patologia

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dell’AD e in particolare alcuni studi hanno indicato un sensibile aumento di ioni metallici quali ferro (Fe), rame (Cu) e zinco (Zn). Alcuni studiosi hanno evidenziato l’esistenza di una sostanziale differenza dei livelli di Fe3+ a livello di alcune regioni cerebrali di soggetti affetti

da AD rispetto ai soggetti sani. In particolare, è stato osservato che la distribuzione del Fe rispecchia la distribuzione delle placche senili degli ammassi neurofibrillari, i due elementi chiave della malattia.

I peptidi Aβ, una volta aggregati tra loro, tendono a reagire con metalli di transizione, come Zinco (Zn) e Rame (Cu), i quali inducono una rapida precipitazione di Aβ. Infatti, analisi effettuate su cervelli affetti da AD hanno rivelato Cu e Zn accumulati in placche amiloidi extracellulari (16). Il sequestro di Cu da parte di Aβ porta alla generazione di specie reattive dell’ossigeno mentre quello dello Zn priva i neuroni e le sinapsi di uno ione metallico la cui omeostasi sinaptica è essenziale per la corretta funzione cerebrale (Fig. 5).

Fig. 5 Conseguenze tra metallo e Aβ

L’aggregazione delle placche Aβ in diverse aree del cervello può indurre lo stress ossidativo in quanto l’accumulo di Aβ media una serie di processi biochimici che portano alla formazione di specie reattive ROS, alla disregolazione del Ca2+e della deplezione di agenti antiossidanti

(17)

17 1.4.5 IPOTESI COLINERGICA

Tra le strategie farmacologiche attualmente in terapia si ritrovano strategie atte a rafforzare il sistema colinergico focalizzando l’attenzione sugli inibitori anticolinesterasici. La perdita della trasmissione colinergica a livello delle cellule colinergiche del prosencefalo è una delle cause più rilevanti dell’Alzheimer che porta inevitabilmente alla diminuzione dei marcatori colinergici, tra cui l’acetilcolina, la noradrenalina, la serotonina, la dopamina e il glutammato. L’ipotesi colinergica sostiene che la riduzione dei processi di apprendimento e mnemonici alla base della malattia, siano causati da bassi livelli di acetilcolina a livello neuronale correlati a loro volta da una insufficiente azione sintetica della colina O-acetiltrasferasi (ChAt) e da un’elevata azione catalitica dell’acetilcolinesterasi (AChE); tutto ciò comporta quindi una perdita della trasmissione colinergica a livello pre-sinaptico (17). L’Acetilcolina è un neurotrasmettitore del SNC e del SNP, e viene sintetizzato generalmente nei neuroni dall’enzima colina O-acetiltransferasi a partire dai substrati colina (derivante principalmente dall’idrolisi dell’acetilcolina) e gruppo acetile dell’Acetil-CoA (prodotto nei mitocondri a partire dal piruvato). La degradazione idrolitica dell’acetilcolina viene effettuata da esterasi che la riconvertono in colina e acido acetico bloccando la trasmissione del segnale colinergico: in particolare agisce in maggior misura l’acetilcolinesterasi (AChE) a livello nervoso, responsabile della gran parte della degradazione dell’acetilcolina.

La butirrilcolinesterasi (BuChE) interviene con un’azione secondaria e in particolare è stato dimostrato che in alcune aree del cervello all’aumento dei livelli di BuChE (18) corrisponde una diminuzione dei livelli di AChE, la quale è maggiormente presente a livello epatico e plasmatico e ha un’affinità nettamente minore per l’acetilcolina rispetto all’AChE. Di conseguenza, entrambi gli enzimi sono bersagli terapeutici utili per il trattamento dell’AD. L’AChE presenta due siti di legame: il sito attivo catalitico (CAS), costituito da tre amminoacidi (Ser200, His440, Glu327) e si trova in una lunga e stretta gola formata a sua volta da 14 amminoacidi, e il sito anionico periferico (PAS) localizzato all’entrata della gola ed è formato da 5 residui amminoacidi (Tyr70, Asp72, Tyr121, Trp279, Tyr334).) entrambi i siti sono connessi da una sezione lunga circa 20°Angstrom.

Diversi studi hanno dimostrato come l’AChE promuove l’attività di pro-aggregazione della proteina Aβ mediante l’interazione con il sito anionico periferico (PAS), questo fenomeno porta alla stabilizzazione del gruppo tossico AChE- Aβ il quale risulta molto più tossico delle singole proteine Aβ. La necessità di prevenire il processo di aggregazione delle placche amiloidi

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18

mediato dall’AChE, ha portato allo sviluppo di inibitori che interagiscono con entrambi i siti CAS e PAS.

Una strategia impiegata negli ultimi anni è quella dei farmaci leganti multitarget (MTDLs), che permettono all’inibitore dell’AChE di legarsi al sito catalitico PAS e sortire una qualsiasi proprietà benefica nel trattamento dell’AD. (19)

(19)

19

SECONDO CAPITOLO

2. NUOVA STRATEGIA TERAPEUTICA: L’AUTOFAGIA

Recentemente è emerso che nella genesi del morbo di Alzheimer ha un ruolo chiave l’autofagia dato il suo coinvolgimento nel metabolismo di Aβ e della proteina tau; negli ultimi anni, la ricerca si è rivolta allo studio dei possibili approcci terapeutici basati sulla regolazione dei processi autofagici che risultano essere alterati nella patologia dell’AD.

2.1 MECCANISMO TERAPEUTICO

Il termine autofagia fu introdotto in biologia nel 1963 dal biochimico Christian de Duve. L’autofagia (dal greco “mangiare sé stessi”) è il più importante meccanismo attraverso il quale le cellule rimuovono una grande quantità di componenti citoplasmatici danneggiati. Durante questo processo i costituenti citoplasmatici danneggiati sono isolati dal resto della cellula all’interno di una vescicola a doppia membrana nota come autofagosoma. La membrana dell’autofagosoma si fonde con quella di un lisosoma ed il contenuto viene degradato e riciclato (20).

I neuroni presentano una spiccata sensibilità all’accumulo di strutture cellulari danneggiate e di aggregati proteici che, se non prontamente rimossi, possono indurre citotossicità e necrosi. Quindi l’autofagia è essenziale per il mantenimento dell’omeostasi funzionale dei neuroni in generale e degli assoni in particolare, infatti una sua alterazione può portare a degenerazione e distrofia assonale. L’aumento della concentrazione di aggregati proteici è principalmente causato da alterazioni del processo autofagico oltre ad essere dovuto ad una risposta cellulare, in cui le proteine mutate vengono tagliate e i peptidi risultanti si associano fra loro. L’accumulo di aggregati proteici e di strutture cellulari è alla base di molte patologie neurodegenerative, come il morbo di Alzheimer, il Parkinson e la corea di Huntington. Studi recenti mostrano che nei cervelli di pazienti affetti da AD sono presenti accumuli di vescicole autofagiche. All’inizio si pensava che questo accumulo fosse dovuto ad un’intensa attività autofagica dei neuroni, ma studi recenti hanno evidenziato che invece è il risultato di un’alterazione nella clearance degli autofagosomi (21). Questa alterazione è la conseguenza di una disfunzione nel processo di maturazione lisosomiale che genera lisosomi non acidificati e perciò incapaci di fondersi con gli autofagosomi.

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20 2.2 PATHWAYS AUTOFAGICI

Le proteine sono il prodotto finale dell’informazione contenuta nella cellula. Ogni cellula sintetizza migliaia di proteine le quali svolgono i processi biologici dopo essere state trasportate negli idonei compartimenti cellulari. Le proteine sono caratterizzate da una vita molto variabile (da pochi minuti a mesi) e la loro presenza è regolata dal giusto equilibrio tra sintesi e degradazione. La degradazione interessa le proteine, danneggiate, denaturate, erroneamente assemblate e le proteine ad attività regolatoria che hanno svolto la loro funzione e devono essere eliminate per bloccarne l’attività. In quest’ultimo caso la degradazione ha una funzione regolatoria mentre negli altri casi impedisce l’accumulo di materiale che può mettere a rischio la sopravvivenza della cellula.

Dal punto di vista molecolare, i pathways di eliminazione autofagici identificati per la rimozione di questi componenti danneggiati sono:

- Sistema ubiquitina-proteasoma (UPS), che rimuove le proteine vaganti nel citoplasma e nel nucleo;

- Sistema lisosomiale dell’autofagia (ALP), che processa le proteine estensive e gli organuli irregolari nel citoplasma;

2.2.1 SISTEMA UBIQUITINA-PROTEASOMA

L’accumulo di proteine è un evento ricorrente in molte malattie neurodegenerative, compresa la malattia di Alzheimer (22). Diversi studi hanno suggerito che tutto ciò può derivare da una disfunzione del sistema ubiquitina-proteasoma (UPS).

Già a partire dagli anni ’70 e ’80 diversi ricercatori cominciarono a studiare il proteasoma che è un pathway di degradazione proteica della cellula. A questi studi si aggiunse la scoperta della proteolisi mediata dall’ubiquitina (per questa ricerca fu riconosciuto il Premio Nobel per la chimica nel 2004 al biologo israeliano Aaron Ciechanover, al biochimico israeliano Avram Hersko e al biologo americano Irwin Rose) e ciò ha permesso di identificare il sistema ubiquitina-proteasoma.

Questo complesso è il principale sistema degradativo e lo si trova nel citoplasma e nel nucleo dove degrada proteine non correttamente sintetizzate, proteine a vita breve e lunga, nonché proteine regolatorie. Risulta quindi evidente che difetti nel funzionamento di questo strumento proteolitico possono condurre a disordini nel funzionamento cellulare e causare gravi disturbi.

L’eliminazione delle proteine da parte del sistema UPS avviene in due fasi sequenziali, si ha per prima la reazione di tagging e poi una conseguente degradazione delle proteine taggate da parte del sistema proteasoma.

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L’ubiquitina è una proteina di 76 aminoacidi (8kDa) espressa in tutte le cellule eucariotiche. Le proteine prima di subire la degradazione vengono marcate dall’ubiquitina.

Innanzitutto un monomero di ubiquitina viene attivato in una reazione ATP-dipendente dall’enzima ubiquitin-activating (E1). Successivamente l’ubiquitina viene trasferita in un enzima coniugante l’ubiquitina (E2). Nella fase finale l’ubiquitina viene trasferita alla proteina bersaglio tramite l’ubiquitina ligasi (E3). Quest’ultima lega sia la proteina bersaglio sia la E2-ubiquitina e facilita la formazione di un legame covalente. Un singolo processo di marcatura porta all’attivarsi di una catena di poliubiquitina, che si lega al proteasoma per proteolisi (Fig. 6) (23). I monomeri di ubiquitina vengono liberati dopo degradazione del proteasoma o vengono attivamente rimossi dalle idrolasi carbossi-terminali dell’ubiquitina.

Fig. 6 Attivazione del processo ubiquitina-proteasoma

Il coinvolgimento del sistema ubiquitina-proteasoma nella patogenesi dell’AD è supportato da prove che dimostrano che nel cervello di pazienti affetti da AD l’ubiquitina si accumula sia nelle placche amiloidi che nei grovigli neurofibrillari. Questa visione è rafforzata da recenti evidenze genetiche che mostrano un’associazione positiva tra l’AD e il gene UBQLN1 che codifica una proteina simile all’ubiquitina chiamata ubiquilina-1 che è coinvolta nella fusione tra autofagosoma e lisosoma (24).

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Livelli più elevati di ubiquilina-1 nel cervello hanno ridotto la malformazione della molecola APP (Amiloid precursor protein), che svolge un ruolo chiave nell'innescare la malattia di Alzheimer. Al contrario, livelli più bassi di ubiquilina-1 nel cervello sono stati associati ad un aumento della malformazione dell’APP.

2.2.2 SISTEMA LISOSOMIALE DELL’AUTOFAGIA

Il sistema lisosomiale è fondamentale per il mantenimento dell’omeostasi della cellula e per la mediazione della risposta contro differenti fattori di stress.

L’autofagia può essere suddivisa in tre categorie diverse a seconda del processo di formazione e dello scopo finale:

-Micro-autofagia: il materiale citoplasmatico è inglobato dal lisosoma tramite invaginazione diretta della membrana lisosomiale;

-Chaperone-mediata (CMA): facilita la degradazione delle proteine citosoliche indirizzandole direttamente ai lisosomi e al lume lisosomiale

-Macro-autofagia: o più semplicemente autofagia, è ciò di cui tratteremo qui di seguito, richiede la formazione di autofagosomi a doppia membrana che si fondono ulteriormente con lisosoma e rilasciarvi all’interno il contenuto esponendolo alle idrolasi con conseguente degradazione (22);

2.3 LISOSOMA

Il lisosoma è un organulo cellulare dal diametro di 100-1500 nanometri ed è racchiuso da una membrana lipidica a due strati. I lisosomi contengono al loro interno degli enzimi, diverse idrolasi come la proteasi e la lipasi, che hanno la funzione di sistema digerente della cellula ovvero la proteggono dai suoi costituenti che non hanno nessuna azione e/o dagli agenti nocivi. Per svolgere queste funzioni, il lisosoma ha bisogno di un pH acido (pH circa 4.6), e questa caratteristica fornisce protezione contro la digestione incontrollata e patologica dei costituenti della cellula, dato che il pH del citosol è quasi neutro (pH circa 7.2). Il vantaggio è che qualora la membrana lisosomiale si danneggiasse e gli enzimi fuoriuscissero dal citosol, i danni alla cellula si ridurrebbero al minimo.

2.4 AUTOFAGIA E AUTOFAGOSOSMA

Da ricerche effettuate negli ultimi anni è emerso che il processo autofagico svolge un ruolo importante anche nella genesi dell’AD . L’ autofagia è un meccanismo fisiologicoattraverso il quale le cellule degradano e riciclano componenti cellulari quali proteine e organelli

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citoplasmatici. Durante questo processo i costituenti citoplasmatici danneggiati sono isolati dal resto della cellula all’interno di una vescicola a doppia membrana nota come

autofagosoma. La membrana dell’autofagosoma si fonde con quella di un lisosoma che contiene idrolasi acide che inducono la degradazione del contenuto dell’autofagosoma. Questo meccanismo svolge importanti funzioni fisiologiche: come ad esempio la difesa dell’organismo dalle infezioni tramite l’eliminazione di cellule infettate e patogeni e interviene anche nello sviluppo embrionale. Svolge inoltre un ruolo di pulizia prevenendo l’accumulo di aggregati proteici e proteine alterate e mantiene quindi un corretto equilibrio tra sintesi delle proteine e loro degradazione. Questo equilibrio è importante in quanto previene lo sviluppo di numerose patologie come malattie cardiovascolari,diabete di tipo II, tumori e malattia neurodegenerative. Nelle patologie neurodegenerative, e soprattutto nellAD, è stata riscontrata una ridotta attività autofagica responsabile dell’accumulo di aggregati proteici. Questo sembra essere attribuibile ad un alterato processo di maturazione lisosomiale che genera lisosomi non acidificati e quindi incapaci di fondersi con gli autofagosomi che si accumulano tra i neuroni danneggiandoli. Questa mancata acidificazione è dovuta

probabilmente ad una mutazione a carico del gene che codifica per la PS1. L’autofagia è un processo complesso che comprende un numero di fasi sequenziali. La prima fase è

caratterizzata dalla formazione e dall’espansione di strutture a doppia membrana con un successivo inglobamento del componente cellulare specifico, andando a formare una struttura chiamata autofagosoma, che è un vacuolo implicato nell’autofagia in quanto è adibito alla raccolta di organuli danneggiati in modo da permettere la distruzione da parte dei lisosomi, grazie all’uso di particolari enzimi. La seconda fase è rappresentata dall’espansione e dalla maturazione dell’autofagosoma, terza ed ultima fase consiste nel legame e fusione di quest’ultimo con il lisosoma (Fig. 7).

Fig. 7 Rappresentazione schematica della formazione dell’autofagosoma e fusione con il lisosoma

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Già a partire dagli anni ’90 gli esperimenti del biologo cellulare giapponese Yoshinori Ohsumi furono determinanti nella ricerca sull’autofagia. Egli scelse come oggetto dei suoi studi il lievito, che potremmo definire mutato in quanto privo di alcune proteasi vacuolari funzionali. Diversi studi hanno dimostrato che il lievito in queste condizioni sviluppava dei corpi sferici dentro i vacuoli. Questi corpi erano avvolti da una membrana e contenevano costituenti del citosol la cui degradazione non poteva avvenire in assenza di proteasi. Queste strutture sferiche furono denominate “corpi autofagi”.

Nelle successive ricerche Ohsumi espone le cellule di lievito a dei processi chimici che, in modo casuale, provocano mutazioni di determinati geni. Furono così identificati 15 geni (APG-15) essenziali per l’attivazione dell’autofagia. Questi ultimi furono poi rinominati ATG (Autophagy-related genes).

Nel 2016 gli studi sui meccanismi molecolari dell’autofagia e l’identificazione dei geni hanno valso il Premio Nobel per la medicina al biologo cellulare giapponese Ohsumi.

L’attuazione di ciascuno degli stadi sopra citati è garantita da queste proteine codificate dette appunto ATG.

Nei mammiferi l’inizio dell’autofagia è mediato dal complesso formato da due protein-chinasi ULK1e ULK2, dalla proteina RB1CC1 (con funzione strutturale), ATG13 e ATG101.

Il sensore dei nutrienti mTORC1 (complesso 1 della chinasi target della rapamicina nei mammiferi) è uno dei principali target nella regolazione dell’autofagia. In condizioni di disponibilità di nutrienti, mTORC1 mantiene l’autofagia ad un livello basale poiché fosforila ATG13 e ULK1/2, inibendo la capacità di autofosforilazione delle due chinasi. Nel caso invece di scarsità di nutrienti, mTORC1 è completamente rimosso dal complesso della chinasi ULK1 e ciò porta alla defosforilazione delle proteine ULK1/2 e alla loro attivazione.

Per una corretta attivazione la proteina ATG1 deve formare il complesso oltre che con il gene ATG13 anche con l’ATG17, questo è il primo stadio nella genesi dell’autofagosoma.

Il complesso di fosfatidilinositol-3-chinasi (PI3K), che è composto dalle proteine PIK3C3 (VPS34), PIK3R4 (VPS15), BECNI1 e ATG14 (Barkor), produce fosfatidilinositol-3-fosfato (PIP3) che facilita i legami tra ulteriori proteine effettrici e la membrana dell’autofagosoma (Fig. 8) (25).

La proteina beclina1 (BECN1) agisce da adattatore molecolare permettendo l’interazione di diverse proteine ATG con la chinasi PIK3C3 e la sua proteina regolatoria PIK34R, in modo che si possa formare il complesso attivatore. In condizioni di disponibilità di nutrienti l’autofagia è

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inibita, perché il fattore anti-apoptotico BCL2 interagisce con BECN1 impedendogli di associarsi al complesso della PI3K (26).

Fig. 8 Rappresentazione schematica delle principali fasi del processo autofagico

Alla fine degli anni ’90 furono scoperti due sistemi di coniugazione coinvolti nell’espansione dell’autofagosoma (Ohsumi, 2014).

Il primo sistema di coniugazione risulta dalla formazione del complesso ATG12-ATG5, attraverso l’azione di ATG7 e di ATG10, questo complesso appena formato si associa ad ATG16 e funge da ligasi nella seconda reazione di coniugazione. Quest’ultima prevede la coniugazione della proteina LC3 con il lipide di membrana fosfatidiletanolammina (PE). Prima di essere coniugata al PE il residuo di arginina al C-terminale LC3 deve essere rimosso, in modo che venga esposto il residuo di glicina necessario per il legame con il fosfolipide. La proteina così modificata viene riconosciuta e processata dall’enzima di attivazione ATG7 e da ATG3. Il legame di PE e LC3 è catalizzato dal complesso ATG12-ATG5-ATG16 prodotto in seguito alla prima reazione di coniugazione.

Il meccanismo di fusione dell’autofagosoma con il lisosoma è mediato dalle proteine ESCRT che sono coinvolte nel trasporto che termina nel lisosoma.

2.5 L’AUTOFAGIA NEI NEURONI E NEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE E LA SUA IMPLICAZIONE NELL’ALZHEIMER

I neuroni sono formati da un corpo cellulare o soma dal quale si estroflettono corti prolungamenti detti dendriti e un lungo prolungamento detto assone. La funzionalità dei neuroni si basa principalmente sull’efficienza del trasporto attivo delle macromolecole dal corpo cellulare agli assoni e ai dendriti, perciò queste cellule sono molto sensibili all’accumulo di

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organelli danneggiati e aggregati citoplasmatici; l’accumulo di tali aggregati è ritenuto infatti responsabile dell’insorgenza di numerose malattie degenerative (27).

Nei neuroni gli autofagosomi si possono formare nelle terminazioni assonali per poi essere trasportati verso il corpo cellulare. Durante questo movimento processivo e unidirezionale gli autofagosomi si fondono con i lisosomi. I meccanismi di regolazione ancora poco chiari fanno sì che l’autofagia nei neuroni sia un processo spazialmente compartimentalizzato, poiché impediscono agli autofagosomi che hanno raggiunto il soma o che si sono formati nel soma di dirigersi nell’assone. Studi recenti hanno dimostrato che l’autofagia nei neuroni è attiva a livello basale e partecipa al mantenimento dell’omeostasi cellulare, quando invece è stimolata in risposta a stress cellulari può determinare morte cellulare. L’aumento della concentrazione di aggregati proteici è principalmente causato da alterazioni del processo autofagico e ciò è alla base di molte patologie neurodegenerative come l’Alzheimer.

Una delle caratteristiche neuropatologiche associate a questa malattia è la perdita diffusa di neuroni causata dall’accumulo a livello extracellulare di placche amiloidi che derivano dal clivaggio della proteina precursore dell’amiloide (APP) e dalla presenza di aggregati neurofibrillari intracellulari composti da isoforme iperfosforilate di proteina tau. La maggior parte dell’APP prodotto viene degradato durante il suo trasporto verso la superficie cellulare ad opera di tre enzimi: l’α-, la β- e la γ-secretasi. Quando la γ-secretasi taglia l’APP insieme all’ α-secretasi genera un peptide innocuo, chiamato p3. Invece, quando γ-secretasi agisce insieme alla β-secretasi porta alla formazione di due peptidi neurotossici Aβ40 e Aβ42. Quest’ultimo considerato il più tossico tra i due poiché tende ad aggregarsi più velocemente a livello extracellulare, formando il componente chiave delle cosiddette placche amiloidi. Diversi studi hanno rivelato che in soggetti sani la degradazione dell’APP è a carico principalmente dell’α-secretasi, mentre in pazienti affetti da AD la proteasi maggiormente attiva è la β-secretasi. Se il peptide Aβ42 non viene prontamente rimosso, si accumula nel neurone e ne induce l’apoptosi. Alla morte del neurone, questi peptidi vengono rilasciati nell’ambiente extracellulare dove tendono ad accumularsi in aggregati neurofibrillari insolubili che divengono sempre più grandi fino ad essere definiti placche amiloidi (28).

Nella genesi dell’AD, l’autofagia ha un ruolo chiave nella generazione e nella clearance dell’Aβ.

I peptidi Aβ vengono prodotti tramite clivaggio della proteina APP negli autofagosomi. Recenti studi hanno dimostrato che nei cervelli dei pazienti affetti da AD la maturazione degli autofagosomi e il loro trasporto retrogrado verso il corpo neuronale vengono ostacolati (29) e ciò contribuisce all’accumulo di vacuoli autofagici nei neuroni. Questa disfunzione è associata

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alla neurodegenerazione e potrebbe influenzare la maturazione dell’autofagosoma impedendo la fusione di quest’ultimo con il sistema endolisosomiale.

La presinilina1 (PS1) è un’aspartato-proteasi molto importante nel pathway autofagico poiché è indirettamente implicata nella maturazione dei lisosomi. Infatti questa proteina regola l’attività della γ-secretasi che, oltre a produrre i peptidi Aβ, facilita la glicosilazione della subunità V0a1 della pompa H+-ATPasi del lisosoma che è necessaria all’acidificazione dell’ambiente intra-vescicolare. Nei pazienti affetti da AD familiare sono state riscontrate mutazioni del gene codificante per la PS1, che quindi promuovono la deposizione delle placche amiloidi sulla superficie cerebrale sia perché causano un aumento dell’attività della γ -secretasi, sia perché portano ad una mancata acidificazione del lisosoma inducendo l’accumulo degli autofagosomi a livello neuronale. Diversi studi eseguiti sul tessuto cerebrale di pazienti affetti da AD hanno riportato una diminuzione dei livelli della beclina1 (BECN1), una proteina importante per la formazione dell’autofagosoma (30). Inoltre è stato osservato che nei topi transgenici la mancanza di questa proteina causa la deposizione dei peptidi Aβ, mentre una sua sovraespressione riduce l’accumulo di tali peptidi. Altri studi invece riportano che l’autofagia modula anche i livelli della proteina tau. Da questi risultati emerge la possibilità che una stimolazione dell’autofagia potrebbe avere effetti positivi sull’ AD andando a diminuire i livelli dei peptidi Aβ e della proteina tau che caratterizzano questa patologia (31).

La funzione biologica della proteina tau è quella di promuovere l’assemblaggio dei microtubuli e mantenere la stabilità, fondamentale per il trasporto assonale. Inoltre l’interazione di tau con diverse proteine strutturali e funzionali gioca un ruolo cruciale anche nella trasduzione del segnale nei neuroni.

Alterazioni nella quantità o nella struttura della proteina tau possono influenzare il suo ruolo come stabilizzatore dei microtubuli e negli altri processi in cui è implicata. E’ noto che la fosforilazione di questa proteina porti ad una diminuzione della sua interazione con i microtubuli, infatti la tau iperfosforilata è la componente principale di diversi aggregati aberranti trovati nei neuroni di pazienti affetti da malattie neurodegenerative. Tuttavia non è ancora chiaro se la fosforilazione di tau possa trasdursi in un guadagno di specifiche funzioni sconosciute o se porti solo ad un’alterazione delle funzioni rispetto alla tau non modificata. La proteina tau viene codificata dal gene MAPT (Microtubule Associated Protein Tau) e alcune mutazioni di questo gene possono essere patogenetiche, poiché alterano lo splicing della proteina oppure diminuiscono l’affinità di legame ai microtubuli. Di conseguenza la tau non legata si accumula e viene fosforilata.

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La fosforilazione di tau è anche modulata dall’isoforma ApoEε4, un fattore di rischio associato allo sviluppo dell’Alzheimer ad esordio tardivo (32).

La tau potrebbe regolare l’autofagia, tramite l’inibizione dell’azione di HDAC. L’autofagia è un pathway principale nella degradazione della tauDeltaC, ovvero una forma della proteina riscontrabile nel cervello dei malati di Alzheimer.

Nel complesso quindi le ricerche effettuate sui meccanismi molecolari dell’autofagia potrebbero fornire un nuovo approccio nella prevenzione e nella cura dell’Alzheimer.

2.6 MECCANICHE, GENI E PROTEINE CHE LEGANO L’AUTOFAGIA ALL’AD Oggi, il ruolo dell’autofagia nella patofisiologia dell’AD attira un grande interesse per via delle scoperte circa i meccanismi molecolari coinvolti.

2.6.1 PATHWAY DEL BERSAGLIO DELLA RAPAMICINA (mTOR)

Il target di segnalazione del bersaglio meccanicistico della rapamicina (mTOR) coordina la crescita e il metabolismo delle cellule eucariotiche con input ambientali tra cui nutrienti e fattori di crescita e regola l’autofagia (33).

La ricerca ha stabilito un ruolo centrale per mTOR nella regolazione di molti processi cellulari fondamentali, dalla sintesi proteica all’autofagia, e una segnalazione deregolata è implicata nella progressione di diverse patologie.

La regolazione dell’autofagia, come si è detto, può essere mediata dal pathway di mTOR, che agisce da segnale inibitorio. La via di mTOR viene inattivata dalla mancanza di nutrienti, da bassi livelli energetici o da segnali di danno al DNA: in tutti questi casi è necessario innescare i meccanismi dell’autofagia.

mTOR è una protein-chinasi serina / treonina che appartiene alla famiglia delle chinasi correlate a PI3K che forma la subunità catalitica di due complessi proteici distinti, noti come mTOR Complex 1 (mTORC1) e 2 (mTORC2). Il complesso mTORC1 promuove anche la crescita cellulare sopprimendo il catabolismo proteico, in particolare l’autofagia. Un primo passo nell’autofagia è l’attivazione di ULK1, una chinasi che forma un complesso che favorisce la formazione degli autofagosomi. In condizioni di pieno nutrimento mTORC1 fosforila ULK1, impedendo così la sua attivazione da parte di AMPK. Pertanto, l’attività relativa di mTORC1 e di AMPK in diversi contesti cellulari determina in larga misura l’estensione dell’induzione dell’autofagia.

La seconda via principale responsabile del turnover proteico è il sistema ubiquitina-proteasoma (UPS), attraverso il quale le proteine sono selettivamente mirate alla degradazione da parte del

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proteasoma 20S a seguito di covalente modifica con ubiquitina. Recenti studi hanno scoperto che l’inibizione da parte di mTORC1 aumenta rapidamente la proteolisi dipendente dal proteasoma attraverso un aumento generale dell’ubiquitinazione proteica o un aumento di chaperoni proteasomali attraverso l’inibizione di Erk5 (34).

E’ stato dimostrato che la segnalazione della mTOR viene inibita nella corteccia e nell’ippocampo dei topi adulti in un modello di AD. Una diminuzione nella segnalazione mTOR porta alla riduzione dei livelli di Aβ e protegge la memoria dei topi da deterioramento (35).

Uno studio condotto da Spilman nel 2010 su un modello animale (topo) di l’AD ha registrato che bloccare la segnalazione mTOR con la rapamicina allevia i deficit cognitivi e riduce la patologia Aβ amiloide, probabilmente attivando l’autofagia a livello delle cellule cerebrali. Studi sulle cellule umane hanno dimostrato che la mTOR regola la distribuzione intra ed extracellulare della proteina tau (36).

In definitiva possiamo dire che il pathway di mTOR è al momento uno degli obiettivi più promettenti delle terapie contro l’AD relazionate all’autofagia.

2.6.2 ATG7 PROTEINA ASSOCIATA ALL’AUTOFAGIA

L’ATG7, come abbiamo affermato in precedenza, è un gene chiave nel regolare i sistemi di coniugazione autofagici. E’ coinvolto nelle funzioni della memoria, come emerge da uno studio in cui un topo con knockout dell’ATG7 specifico per il cervello ha dimostrato deficit nella memoria. Vi è un collegamento tra l’espressione irregolare dell’ATG7 e la patologia di AD. Nella corteccia cerebrale e nell’ippocampo di un modello in vivo (topo) di AD si è verificata una diminuzione di questa proteina.

ATG7 regola il trasporto dei peptidi Aβ verso il corpo multi-vescicolare e la loro secrezione nei neuroni del topo (37). L’inibizione dell’espressione di ATG7 tramite siRNA ha fornito una protezione parziale contro l’aumento della produzione e della secrezione di Aβ40 in vitro. Il gene ATG7 sembra essere coinvolto nella degradazione della proteina tau. Il knockout al prosencefalo dell’ATG7 nei topi ha avuto come esito l’accumulo di proteina tau fosforilata nell’ippocampo e nella corteccia cerebrale, nonché una neurodegenerazione evidente con perdita di neuroni ippocampali e disfunzione della memoria.

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2.6.3 PRESENILINE COME MODULATORI AUTOFAGICI

La presenilina 1 (PS1) e la presenilina 2 (PS2) sono proteine della membrana che fungono da centro catalitico della γ-secretasi che media la scissione intra-membrana di oltre 20 substrati noti, tra cui la proteina precursore dell'amiloide (APP). Queste proteine trans-membrana hanno diversi ruoli biologici nella via di segnalazione, nella regolazione dei canali del calcio, nell'adesione cellulare, nell'apoptosi, nella crescita dei neuriti e nella plasticità sinaptica. Esistono prove del fatto che anche i PS possono svolgere un ruolo nella mediazione dell'autofagia. Il knockdown dei PS mostra una clearance inefficiente di proteine di lunga durata. È stato anche dimostrato che gli inibitori della γ-secretasi non influiscono negativamente sull'autofagia, suggerendo che il ruolo di PS nell'autofagia è indipendente dall'attività della γ-secretasi. Fu scoperto che i lisosomi autofagici aumentano e accumulano selettivamente α- e β-sinucleina nei neuroni PS1, implicando carenze di PS1 nei meccanismi del traffico β-sinucleinico e degradazione che potrebbero svolgere un ruolo nelle lesioni α-sinucleiniche nelle malattie neurodegenerative come l’AD (38). Diversi studi hanno riferito che la perdita di attività della PS1 porta a compromissione della funzione lisosomiale come conseguenza di lisosomi non adeguatamente acidificati, causati dalla mancata maturazione della subunità V0a1 traslocante il protone del vacuolare (H +) - ATPasi e indirizzata al lisosoma (39). Gli stessi ricercatori stanno usando diversi metodi per misurare il pH, eseguire analisi biochimiche dello stato di glicosilazione di V0a1 e localizzazione subcellulare, attraverso l’impiego di fonti cellulari diverse.

Le mutazioni del PSEN1 contribuiscono alla patogenesi del primo stadio dell’AD, e questo effetto potrebbe essere mediato dalla perdita di stabilità e di idrofobicità delle proteine codificate dalle varianti mutate. Nel fluido cerebro spinale dei pazienti affetti da AD, con mutazione del gene PSEN1 è stato riscontrato un livello di Aβ più basso rispetto a quello dei pazienti il cui gene non ha subito modificazioni. Questo potrebbe suggerire che le proteine vengono trattenute nelle cellule cerebrali a causa di un’autofagia irregolare. Tuttavia, nel complesso, l'evidenza indica che i PS svolgono probabilmente un ruolo nella mediazione dei processi degradativi, sebbene siano necessari ulteriori studi per definire chiaramente il ruolo di PS influenzano in questi processi.

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2.6.4 UBIQUILINA 1: LA SUA SOVRAESPRESSIONE ALLEVIA I DEFICIT COGNITIVI E MOTORI DELL’AD

Ubiquilin-1 (UBQLN1) è una proteina simile all'ubiquitina, implicata nella malattia di Alzheimer (AD) (43). Contiene un dominio simile all’ubiquitina N-terminale che media l’interazione con il proteasoma e un dominio associato all’ubiquitina C-terminale per effettuare la degradazione delle proteine in vivo.

UBQLN1 non può essere coniugato covalentemente alle proteine bersaglio. Si ritiene che funzioni come un fattore che favorisce il legame ubiquitina / proteina adattatrice per mediare la degradazione delle proteine attraverso il sistema ubiquitin proteasoma (UPS) e possibilmente anche l'autofagia e per ridurre la neurotossicità indotta dallo stress ossidativo. Diversi studi hanno evidenziato una stretta correlazione tra UBQLN1 e AD. Innanzitutto, UBQLN1 interagisce con PSEN, uno dei principali componenti della γ-secretasi, e regola la degradazione delle proteine e l'attività della γ-secretasi (40). In secondo luogo, regola la maturazione e la degradazione di AβPP. In terzo luogo, modula il traffico, l'elaborazione e la secrezione di AβPP nelle cellule di coltura (41). UBQLN1 è inoltre associato alla patologia del groviglio neurofibrillare e i suoi livelli proteici sono ridotti nel cervello dei pazienti con AD, il che potrebbe contribuire ad aumentare la produzione di Aβ. Infine, i polimorfismi a singolo nucleotide nel gene UBQLN1 possono essere associati con AD. Sebbene queste osservazioni abbiano fatto luce sulla nostra comprensione del possibile ruolo di UBQLN1, la relazione tra UBQLN1 e l'apprendimento e la memoria e se questo modula la patogenesi dell'AD non è stata determinata. Per comprendere meglio la funzione biologica di UBQLN1 in vivo, sono stati effettuati degli studi su topi transgenici UBQLN1 (TG) che sovraesprimono questo gene in più tessuti, incluso il cervello (42).

Per confermare queste ipotesi è stato eseguito il test RAWM (43), utilizzando due diverse tipi di topi: Wildetype (Wt) e transgenici (TG). I risultati hanno mostrato che nei topi TG la sovraespressione di UBQLN1 migliora l’apprendimento e la memoria.

Successivamente è stato valutato se la sovraespressione di UBQLN1 svolge un ruolo nel miglioramento della funzione motoria nei topi AD attraverso il test Rotarod.

Da questo test si sono ottenuti risultati che indicano che il coordinamento motorio peggiora con la progressione della malattia e il gene UBQLN1 sovraespresso è benefico per la funzione motoria nei topi AD.

Alcuni studi hanno riportato un’associazione tra il polimorfismo UBQ-8i del gene UBQLN1 e il rischio della malattia di Alzheimer (22). E’ stata condotta una meta-analisi per studiare la

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relazione tra questi ultimi e una possibile sinergia con lo stato del gene ε4 dell’apolipoproteina E(APOE) (44).

I risultati suggeriscono che il polimorfismo UBQ-8i può contribuire alla suscettibilità all’AD, ma non sinergizza con lo stato di APOEε4 per aumentare il rischio di AD.

L’espressione della proteina UBQLN1 è ridotta nella corteccia temporale e in quella frontale dei pazienti affetti da Alzheimer.

Inoltre, UBQLN1 interagisce con BACE1, proteina chiave nel processare l’APP. La sovraespressione di questo gene causa un aumento della BACE1 nelle co-colture di neuroni della microglia anche se questo effetto non è risultato significativo nei cervelli dei topi esaminati (45).

L’ubiquitina carbossil-terminale idrolasi L1 (UCHL1) è una idrolasi specifica dell’ubiquitina maggiormente presente nel cervello. La disfunzione di UCHL1 è implicata nelle malattie neurodegenerative. Influenza l’autofagia tramite l’interazione con la proteina di membrana associata al lisosoma 2 (LAMP2) che modula la fusione autofagosoma-lisosoma. (46).

UCHL1 svolge un ruolo importante nelle funzioni sinaptiche e nella memoria, e questo effetto potrebbe essere legato all’abilità di questa idrolasi di risanare l’azione di segnalazione del brain-derived neurotrophic factor (BDNF), che viene distrutta dagli Aβ. Test di co-immunoprecipitazione hanno fatto emergere che UCHL1 interagisce con APP, che è soggetta all’ubiquitinazione assistita da UCHL1 seguita da traffico di lisosomi per la degradazione. La sovraespressione dell’idrolasi, indotta dall’iniezione intracraniale, nella regione ippocampale, di un virus (AAV) che esprime UCHL1, fa diminuire la produzione di Aβ, inibisce la formazione di placche neuritiche e protegge i topi modello dell’AD contro danni alla memoria (47).

Questo suggerisce che UCHL1 ritarda la progressione dell’AD a lungo termine e che la terapia genica UCHL1 mediata da rAAV (recombinant adeno-associated virus) per sovraesprimere UCHL1 nel cervello potrebbe essere una strategia di modifica della malattia per la terapia dell’AD.

2.6.5 BECLIN 1 (BECN1): REGOLA L’AUTOFAGIA E L’APOPTOSI

La proteina Beclin1 ha un ruolo centrale nell’autofagia (22), un processo di sopravvivenza cellulare programmato, che viene aumentato durante i periodi di stress cellulare e si estingue durante il ciclo cellulare. BECN1 agisce durante la fase iniziale dell’autofagia, formando la membrana di isolamento, struttura a doppia membrana che avvolge materiale citoplasmatico per formare l’autofagosoma. BECN1 presenta tre domini strutturali uno di questi è BH-3.

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Attraverso questo dominio, in condizioni normali, la proteina anti-apoptotica BCL2 interagisce con BECN1 andando ad inibire l’autofagia.

Il preciso meccanismo con cui Beclin1 inibisce l’apoptosi non è ancora chiaro, ma può essere correlato all’autofagia non regolata come meccanismo adattivo o anti-lesione, eliminando cellule apoptotiche.

Alcune ricerche suggeriscono che la proteina Beclin1 è coinvolta nella patofisiologia dell’AD. La corteccia frontale e la microglia, da risultati post-mortem, di pazienti affetti da AD mostra un contenuto ridotto di BECN1 (48). In maniera simile, è stata riscontrata un’espressione ridotta di BECN1 nella corteccia e nell’ippocampo dei topi adulti, modelli per l’AD, che porta ad un aumento dei livelli Aβ.

La sovraespressione di BCL2 neuronale, nei topi, ha migliorato la memoria, inoltre ha mostrato una diminuzione nel processo di APP e nel numero dei depositi extracellulari di Aβ e influisce anche sulla trasformazione della proteina tau, riducendo il numero di ammassi neurofibrillari (49).

Attraverso l’analisi di Beclin1 sono stati fatti grandi progressi nella comprensione del meccanismo e dei ruoli dell’autofagia nell’omeostasi cellulare, proprio per la sua possibilità di intervenire in ogni fase principale delle vie autofagiche.

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TERZO CAPITOLO

3. STRATEGIE TERAPEUTICHE PER IL TRATTAMENTO DELL’AD

Allo stato delle attuali conoscenze per la terapia farmacologica della malattia di Alzheimer non disponiamo di un trattamento causale (cioè consistente nella rimozione della causa della malattia), ma soltanto di farmaci “sintomatici” (cioè finalizzati all’attenuazione delle manifestazioni cliniche della malattia) che possono in parte migliorare la situazione esistente e rallentare la progressione dell’AD. Tuttavia, è importante sottolineare che:

- questi farmaci sono da utilizzare nella prima fase della malattia, lieve e moderata (non nelle fasi avanzate);

- non funzionano in tutti i casi; ci sono malati che rispondono bene al trattamento, i “responders”, e altri che invece non hanno alcun beneficio, i “non-responders”, purtroppo è impossibile prevedere in anticipo la risposta dei soggetti affetti da AD; - possono avere effetti collaterali anche gravi di conseguenza, la somministrazione di

questi farmaci, necessita della supervisione di un medico specialista.

3.1 FARMACI ATTUALMENTE UTILIZZATI IN TERAPIA

Gli unici farmaci disponibili approvati dal FDA (Food and Drug Administration) sono per il trattamento sintomatico a breve termine della demenza, ma con la progressione della malattia perdono la loro già limitata efficacia. Sono principalmente costituiti da AChEI, come Tacrina, Donepezil, Rivastigmina e Galantamina. L’unico farmaco appartenente ad una classe differente, approvato limitatamente per il trattamento dell’AD nella forma moderata e severa, è l’antagonista non competitivo del recettore dell’acido glutammico NMDA, Memantina. Inoltre, anche la neuroinfiammazione, coinvolta generalmente nelle malattie neurodegenerative, può rappresentare un eccellente bersaglio per farmaci come i FANS, tra cui il Flurbiprofene.

3.1.1 INIBITORI DELL’ACETILCOLINAESTERASI

Nei primi stadi della malattia per evitare un rapido insorgere dei sintomi di demenza si usano inibitori selettivi dell’AChE. Questi farmaci hanno come bersaglio d'azione l'Acetilcolinesterasi, enzima coinvolto nel catabolismo dell'acetilcolina (ACh). Il blocco di questo enzima determina un aumento dei livelli e del tempo di permanenza di ACh nel vallo sinaptico, facilitando, in tal modo, la sua interazione con i recettori colinergici pre e post

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sinaptici. Nei malati di Alzheimer la concentrazione di ACh nelle giunzioni neuronali colinergiche del SNC, coinvolte nelle funzioni cognitive, è molto più bassa se paragonata a quella dei pazienti sani. Questo fenomeno è dovuto a diversi fattori, ma in primo luogo ad una scarsa funzionalità dell’enzima colina acetiltrasferasi. Questo deficit colinergico induce disordini cognitivi accompagnati da primi sintomi di demenza, depressione e incapacità di preoccuparsi di sé stessi. Le colinesterasi (ChE) sono una famiglia di enzimi che vanno ad idrolizzare l'acetilcolina in colina e acido acetico, tale processo risulta essenziale per il ripristino del neurone colinergico. Tutti questi enzimi infatti giocano un ruolo importante nella patologia, sia quelli preposti alla sintesi dell’ACh che quelli deputati alla sua degradazione metabolica. Inoltre diverse ricerche hanno evidenziato il ruolo dell’AChE nell’induzione dell’aggregazione delle fibrille di beta-amiloide attraverso il cosiddetto “sito anionico periferico”. Tale sito è però assente nella Butirrilcolinesterasi (BuChE), un altro enzima appartenente alle colinesterasi che risulta essere coinvolta nella formazione di aggregati neurotossici nel cervello. L’Acetilcolinesterasi si ritrova, per lo più localizzata nel SNC e dopo l’insorgere della malattia di Alzheimer i suoi livelli risultano ridotti; in contrasto la Butirrilcolinesterasi è ubiquitariamente distribuita. Con il progredire della malattia il rapporto BuChE/AChE risulta aumentato inducendo il trasferimento della funzione degradativa dell’Acetilcolinesterasi alla Butirrilcolinesterasi. Attualmente gli inibitori dell'AChE approvati dalla FDA (food and drug administration) per il trattamento sintomatico dell'AD da lieve a moderata sono: Tacrina [1], Donepezil [2], Rivastigmina [3] e Galantamina [4] (Fig. 9)

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