Riassunto
La sindrome fibromialgica (FM) è una forma di dolore muscolo-scheletrico, non articolare, cronico, diffuso, in assenza di alterazioni significative all’esame obiettivo e ai controlli laboratoristici e radiologici. Dall'analisi della letteratura emerge che nei soggetti affetti da fibromialgia è presente una certa tendenza alla catastrofizzazione del dolore e che questa, a sua volta, è associata sia al rimuginio sul dolore stesso sia al distress psicologico. Il presente studio è stato condotto su un gruppo sperimentale composto tra 30 soggetti affetti da fibromialgia e un gruppo di controllo, composto da 30 soggetti sani appartenenti alla popolazione generale, appaiati per sesso e età al gruppo sperimentale, con lo scopo di valutare il coinvolgimento di alcuni processi psicologici che potrebbero essere implicati nell’insorgenza e nell’evoluzione della fibromialgia, quali appunto la metacognizione e la catastrofizzazione del dolore.
Ai soggetti, previa sottoscrizione di consenso informato, sono stati somministrati i seguenti test: la Pain Catastrophizing Scale che misura la tendenza a catastrofizzare il dolore, e il Metacognition Questionnaire 30, che indaga il ruolo rivestito dalle credenze in merito al rimuginio.
Dai risultati è emerso che non sono presenti differenze statisticamente significative tra i due gruppi, sia per quanto riguarda le credenze metacognitive, che la catastrofizzazione, tuttavia, nel contesto del gruppo sperimentale, sono state rilevate interessanti correlazioni statisticamente significative tra i due strumenti di valutazione utilizzati. In particolare, è stato osservato come sia le credenze metacognitive positive che quelle negative, correlino positivamente con tutte le sottoscale della Pain Catastrophizing Scale e col suo totale.
Al fine di meglio comprendere come la metacognizione e la catastrofizzazione del dolore possano influire sul mantenimento della fibromialgia si rendono comunque necessarie ulteriori e più approfondite indagini future, con la prospettiva di ridurre i limiti derivati dalla ristrettezza campionaria, che può aver in parte contribuito alla scarsa significatività statistica riscontrata.
Parole chiave: fibromialgia, catastrofizzazione, metacognizione, meta-credenze, dolore cronico.
INDICE
Parte I: Introduzione
1. LA FIBROMIALGIA
……….……51.1 Epidemiologia
………61.2 Criteri diagnostici
……….……81.3 Sintomatologia
……….111.4 Diagnosi Differenziale
………..141.5 Eziologia e Patogenesi
………..151.6 Il modello biopsicosociale della Fibromialgia
………..…181.7 Aspetti psichiatrici e psicologici della fibromialgia
………201.7.1 La catastrofizzazione del dolore nella fibromialgia
….……242. LA METACOGNIZIONE
……….…..292.1 Il modello dell’Autoregolazione delle Funzioni Esecutive
…..…322.2 Il modello del Disturbo d’Ansia Generalizzato (DAG)
………….352.3 Gli studi riguardanti l’associazione tra credenze metacognitive e
catastrofizzazione del dolore
………..….372.4 Gli studi riguardanti la metacognizione e il dolore cronico
….…38Parte II: Sezione sperimentale
1. OBIETTIVI E IPOTESI
………412. METODO
……….……432.1 Partecipanti
……….432.2 Misure
……….………..………442.3 Analisi statistiche
……….……….………462. RISULTATI
……….…474. DISCUSSIONE E CONCLUSIONI
………514.1 Limiti dello studio e prospettive future
………53Parte I.
1. LA FIBROMIALGIA
La sindrome fibromialgica (FM) è una forma di dolore muscolo-scheletrico, non articolare, cronico, diffuso, in assenza di alterazioni significative all’esame obiettivo e ai controlli laboratoristici e radiologici. Le parti più interessate sono i muscoli e le loro inserzioni tendinee, i legamenti e i tessuti periarticolari.
Tale sintomatologia dolorosa si accompagna, all’esame obiettivo, alla presenza di aree di elettiva dolorabilità alla digitopressione, definite “tender points” (TPs), localizzate in corrispondenza di alcune inserzioni tendinee o nei ventri muscolari stessi.
In passato, veniva definita “fibrosite”, termine risalente al 1904, in cui il suffisso “ite” si riferisce appunto alla presenza di un processo infiammatorio tale da poter giustificare dolore e rigidità (Gowers, 1904).
È solo alla fine degli anni ’40 che venne esclusa la presenza di “infiammazione”, portando la maggior parte degli studiosi del tempo a ritenere che la genesi “psicologica” fosse la più probabile causa della malattia (Hudson e Pope, 1989). Recentemente si è affermato il concetto di fibromialgia come “sindrome da dolore centrale”, caratterizzata dalla disfunzione dei neurocircuiti preposti alla percezione, trasmissione e processazione delle afferenze nocicettive, con prevalente estrinsecazione del dolore a livello dell’apparato muscoloscheletrico. Oltre al dolore possono essere presenti molteplici sintomi di accompagnamento (astenia, disturbi del sonno, dolori addominali…) comuni ad altre sindromi da sensibilizzazione centrale (Cazzola et al., 2008).
1.1 Epidemiologia
Studiare l’epidemiologia della fibromialgia è molto importante per comprendere l’impatto che questa sindrome ha sulle persone, sulle famiglie e sulla società. La recente modificazione dei criteri di classificazione introdotta nel 2010 dall’American College of Rheumatology (ACR) (Wolfe et al., 2010) ha fatto sì che potessero essere svolte indagini più ampie, a livello nazionale, in tutto il mondo. La prevalenza globale della fibromialgia in 26 studi mondiali è del 2,7%. (Queiroz, 2013)
Molti studi hanno mostrato che la prevalenza della fibromialgia è alta sia nella fascia di età dai 30 ai 50 anni (Senna et al., 2004; Mas et al, 2008; Cobankara et al., 2011) sia oltre i 50 anni (Ablin et al., 2012; McNally, Matheson e Bakowsky, 2006; Wolfe et al., 1995; Mäkelä e Heliövaara, 1991; Branco et al., 2010; Wolfe et al., 2013; Lindell et al., 2000; Turhanoglu et al., 2008; Topbas et al., 2005). White e collaboratori (1999) hanno riportato un picco di prevalenza negli uomini di mezza età; nelle donne la prevalenza aumenta, invece, con l’età. Lo studio di Vincent e collaboratori (2013) è l’unico che contrasta, evidenziando un maggiore tasso di prevalenza in età giovanile tra i 21 e i 39 anni.
La maggior parte degli studi presenti in letteratura evidenziano una più alta prevalenza della fibromialgia in pazienti con scarso livello di scolarizzazione. (White et al., 1999; Bannwarth et al., 2009; Mäkelä e Heliövaara, 1991; Mas et al., 2008; Topbas et al., 2005). Lo stesso pattern è stato osservato in relazione allo stato socioeconomico: più basso è il reddito delle famiglie, maggiore è il tasso di prevalenza. (White et al., 1999; McNally, Matheson e Bakowsky, 2006; Mas et al., 2008; Topbas et al., 2005; Cobankara et al., 2011). Riguardo allo stato civile non vi è consenso in letteratura: Topbas e collaboratori (2005), infatti, hanno riscontrato una maggiore frequenza della fibromialgia nelle pazienti vedove; Cobankara et al. (2011) nelle persone sposate e White et al. (1999) in quelle divorziate. È presente, inoltre, una discrepanza tra le aree rurali e quelle urbane: McNally et al. (2006) in
Canada, Mas et al. in Spagna (2008) e Hag et al. (2005) in Bangladesh, hanno tutti riportato un più alto tasso di fibromialgia nelle aree rurali, mentre Turhanoglu et al. (2008) in Turchia, hanno registrato una più alta prevalenza nella popolazione urbana. L’associazione tra fibromialgia e peso corporeo è stata menzionata solo da McNally et al. (2006), che ha riscontrato una maggior prevalenza nelle donne obese. L’incidenza della fibromialgia è stata stimata in due studi. Forseth et al. (1997) hanno trovato un’incidenza nelle femmine con età 20-49 anni, che vivono in Arendal, in Norveglia di 5,83 nuovi casi su 1000 persone all’ anno. Weir et al (2006) hanno riportato un tasso di incidenza di 6,88 nuovi casi su 1000 persone all’anno per i maschi e 11,28 nuovi casi per 1000 persone all’anno per le femmine. Wolfe, Michaud e Katz (2010) negli USA hanno riportato una significativa associazione della FM ad alcune patologie quali: ipertensione, altre condizioni cardiovascolari, depressione, diabete, malattie polmonari, asma, malattie del fegato, disturbi neurologici, malattie della tiroide, severe allergie e disturbi genito-urinari. I pazienti con fibromialgia mostrano, inoltre, una maggiore comordibità con queste patologie rispetto ai pazienti con artride reumatoide.
Infine Weir et al. (2006) affermano che pazienti con FM hanno una probabilità dalle 2 alle 7 volte maggiore di avere una o più delle seguenti condizioni in comorbidità: mal di testa, lupus sistemico eritematoso e artride reumatoide, altri disturbi definiti “funzionali” come depressione, ansia, attacchi di panico, disturbo post traumatico da stress, sindrome da fatica cronica e sindrome del colon irritabile (Schur et al., 2007).
1.2 Criteri diagnostici
La diagnosi di fibromialgia è una delle più controverse in campo reumatologico: non da tutti, infatti, è accettata la sua esistenza come entità autonoma.
Nel 1976 Smyte e Moldofsky introdussero il termine di “sindrome fibrositica” (Smythe e Moldofsky, 1977) affermando che, oltre alla sintomatologia dolorosa diffusa e ai tender points, rivestivano una fondamentale importanza anche sintomi generali come stanchezza, disturbi del sonno, ansia e depressione.
Nel 1981 la sindrome fibrositica di Smyte fu denominata da Yunus “sindrome fibromialgica” (Yunus, Masi e Calabro; 1981), un termine introdotto inizialmente da Hench nel 1976. In questa nuova concettualizzazione, oltre ai sintomi classici, grande rilievo venne attribuito ai sintomi viscerali (cefalea, colon irritabile) e ai vari fattori che interferiscono con la modulazione del dolore (clima, stress, attività fisica, rumori).
Nel 1990 sono stati poi pubblicati i criteri dell’American College of Rheumatology (ACR) per la classificazione della fibromialgia (Wolfe et al., 1990). Questi prevedevano:
1. Anamnesi di dolore cronico muscoloscheletrico diffuso: presente consecutivamente da almeno tre mesi e riferito ad entrambi gli emisomi, al di sopra ed al di sotto della vita, ed assiale, a carico di almeno uno dei tre segmenti cervicale, dorsale e lombare del rachide.
2. Dolorabilità alla digitopressione in aree corporee specifiche: indotta da una pressione di 4kg/cm2 in almeno 11 TPs sui 18 considerati
La classificazione dell’ARC presentava tuttavia dei limiti:
• La percezione del dolore non subisce variazioni solo a livello dei TPs, ma vi sono alterazioni in tutte le aree corporee con ridotta o alterata soglia agli stimoli esterocettivi e pressori (Granges e Littlejohn, 2002)
• Nell’arco di una stessa giornata il paziente può presentare variazioni della soglia nocicettiva; il momento della giornata in cui viene esaminato risulta, quindi, essere determinante per il numero dei TPs riscontrati. Inoltre, quest’ultimi, come affermato da Staud, non esembrano essere in correlazione con l’intensità del dolore spontaneo che il paziente percepisce (Staud, 2002)
• I criteri proposti dall’ARC non prendono in considerazione i sintomi costituzionali della fibromialgia, come ad esempio le parestesie, l’astenia e i disturbi cognitivi (Crofford e Clauw, 2002)
• Con l’esame obiettivo vi è una possibilità 11 volte maggiore nelle donne di riscontrare 11 o più TPs rispetto agli uomini. La prevalenza della FM, quindi, quando diagnosticata mediante l’utilizzo dei criteri ACR 90, risulta essere 10 volte maggiore nel sesso femminile rispetto a quello maschile. Tuttavia, non è possibile escludere che negli uomini non vi siano le stesse alterazioni fisiopatologiche, nonostante non vengano soddisfatti i criteri ACR 90.
• Fattori psicologici possono comunque influenzare il numero dei TPs riscontrati. Wolfe ha definito i TPs come la “velocità di eritrosedimentazione del distress” , concetto usato per descrivere la combinazione di sintomi somatici e psichici (soprattuto ansia e depressione) (Wolfe, 1997). Un maggior grado di distress sembrerebbe, infatti, associato alla presenza di un maggior numero di TPs. I soggetti particolarmente ansiosi sarebbero, perciò, portati a riferire precocemente la sensazione dolorosa in risposta all’applicazione della pressione crescente (fino a 4Kg/cm2) utilizzata per la ricerca dei TPs.
• Infine, è richiesto all’esaminatore un certo grado di manualità per la ricerca dei TPs, al fine di non incorrere in errori diagnostici, dovuti all’errata identificazione delle aree in cui applicare la pressione o all’applicazione di una forza eccessiva. Può accadere, inoltre, che i TPs vengano confusi con i “trigger points” (TrPs) che caratterizzano le sindromi miofasciali. Non è insolito, infatti, che a pazienti fibromialgici venga diagnosticata una sindrome miofasciale e viceversa (Wolfe et al., 1992).
Nel 2010 l’ACR ha proposto nuovi criteri diagnostici per la fibromialgia, che includono, oltre al dolore, sintomi comuni come la fatica, i disturbi del sonno e i problemi cognitivi. La ricerca dei TPs è stata sostituita con la rilevazione di un indice di dolore diffuso e un questionario sulla severità dei sintomi (SS). La valutazione dei tender point non è più richiesta, nonostante sia comunque sempre raccomandato un completo esame fisico e altri test diagnostici al fine di escludere altre patologie, che possano spiegare i sintomi accusati dal paziente. Una parte del punteggio richiesto per poter porre diagnosi di fibromialgia si ottiene mediante la Widespread Pain Index (WPI): al paziente viene chiesto di identificare 19 regioni del corpo in cui ha provato dolore nelle precedenti settimane. È assegnato un punto per ogni area, il punteggio totale pertanto, va da 0 a 19. La seconda parte del punteggio riguarda la valutazione dei sintomi. Il paziente classifica sintomi specifici su una scala da 0 a 3. Questi includono: fatica, sonno non ristoratore, sintomi cognitivi e sintomi somatici in generale (come mal di testa, debolezza, problemi intestinali, nausea, vertigini, indebolimento/formicolio, perdita dei capelli). Le cifre assegnate a ciascun sintomo vengono sommate per un totale che può andare da 0 a 12. Quindi, la diagnosi che si basa sul punteggio ottenuto sia al WPI che al SS può essere formulata in presenza di:
- WPI con punteggio almeno di 7 e SS con punteggio almeno di 5 oppure
- WPI con punteggio da 3 a 6 e SS con punteggio almeno di 9.
Wolfe e collaboratori (2010) e altri ricercatori (Toda, 2011) hanno notato che i nuovi criteri permettono di classificare correttamente 80% dei soggetti a cui non sarebbe stata posta diagnosi di fibromialgia utilizzando i criteri del 1990.
1.3 Sintomatologia
I sintomi della fibromialgia possono essere distinti in sintomi più comuni e tipici, sintomi frequenti ma meno classici, e sintomi aggiuntivi.
Tra i più comuni abbiamo il dolore generalizzato, la fatica e il sonno non ristoratore. Il dolore cronico diffuso che dura da almeno tre mesi è il sintomo principe per definizione. Le sedi in cui il dolore viene più comunemente riscontrato sono il tratto lombare, il collo, le spalle, le braccia, le mani, le ginocchia, le anche, le cosce, le gambe, i piedi (Yunus, Masi e Aldag, 1989) e la zona anteriore del torace (Pellegrino, 1990). La gravità e la localizzazione del dolore possono variare a seconda dei giorni.
Fattori aggravanti il dolore sono il freddo, l’umidità, l’ansia e lo stress, sovraccarico o inattività, sonno disturbato (Leavitt et al., 1986; Campbell et al., 1983) e il rumore (Pellegrino, 1990). Il mattino è il momento peggiore della giornata per un malato di fibromialgia, a cui segue la seconda parte del pomeriggio e la sera (Moldofsky, 1994). Ciò differenzia in maniera sostanziale la fibromialgia dall’artrite, in quanto in quest’ultima patologia, il dolore è più tipicamente notturno e mattutino.
Leavitt et al. (1986), utilizzando una versione adattata di un questionario semantico del dolore, il McGill Pain Questionnaire, hanno constatato che nella fibromialgia il dolore ha un’ampia distribuzione spaziale e i descrittori del dolore impiegati sono molti. I termini più comunemente utilizzati dal malato per descrivere il dolore sono “scottante”, “bruciante”, “vibrante” “battente”, “martellante”, “profondo”, “tagliente”. È frequente anche il riferimento ad una sensazione di “ammaccatura ovunque” (Jain et al., 2003). Il fatto che il paziente riferisca di provare “dolore ovunque” risulta utile nel differenziare la fibromialgia da altre condizioni (Häuser et al., 2008).
Come caratteristiche del dolore nella fibromialgia abbiamo, inoltre, allodinia, iperalgesia, dolore persistente, effetti di sommazione, l’iperpatia cutanea e dolorabilità alla vista (Jain et al., 2003).
La fatica moderata o severa (che va attentamente differenziata dalla sonnolenza), presente dal 75% al 90% dei pazienti (Lessard e Russel, 1989; Russel, 1992), è un altro dei sintomi più comuni. Generalmente peggiore al mattino (risultato di un sonno inadeguato), i pazienti riferiscono di sentirsi già stanchi al risveglio o addirittura più stanchi di quando sono andati a letto. La faticabilità che insorge al mattino rappresenta un parametro che consente di indicare la gravità della malattia: quanto più questa è precoce, tanto maggiore è la severità della fibromialgia.
La facile affaticabilità conseguente ad un esercizio fisico, ad uno stress psicologico e ad uno sforzo mentale è, poi, di comune riscontro nel paziente fibromialgico. È possibile distinguere una fatica muscolare, e nel 30% dei pazienti fibromialgici una fatica “motivazionale”, che solitamente si associa alla depressione (Jain et al., 2003), una fatica di origine strutturale, dipendente da anormalità dello scheletro, e infine una fatica metabolica o da carenza di ossigenazione tissutale.
La fatica risulta inoltre essere in diretta correlazione con dolore, severità di malattia e disabilità funzionale (Yunus et al., 2000).
Il terzo dei sintomi cardine della fibromialgia è il sonno non ristoratore. Sono circa il 75% i pazienti che riferiscono la presenza di disturbi del sonno (come ipersonnia, insonnia precoce, media o tardiva, risvegli frequenti, sonno leggero o irregolare riposo diurno o inversioni del ritmo sonno-veglia). Ciò che può verificarsi è l’instaurarsi di un circolo vizioso, in cui il sonno non adeguato aggrava il dolore e quest’ultimo, a sua volta, contribuisce a disturbare il sonno. I disturbi del sonno sono inoltre implicati nella genesi dei punti tender (Moldofsky et al., 1975). Il sonno disturbato può essere in parte dovuto anche alla presenza della sindrome delle gambe senza risposo, riscontrata nel 30% dei pazienti con fibromialgia (Yunus e Aldag, 1996). Altri disturbi che possono inficiare la qualità del sonno nel paziente fibromialgico sono il disturbo da movimenti periodici dell’arto (Coleman, Pollak e Weitzman, 1980), la sindrome delle apnee notturne e altre disfunzioni del respiro (De Backer, 1995; Germanowicz et al., 2006; Gold et al., 2004) .
Altri sintomi e sintomi aggiuntivi
Altri sintomi di possibile riscontro nella fibromialgia sono la mialgia diffusa e le disfunzioni muscolari, la rigidità (non solo articolare, ma anche generalizzata), la sensazione di gonfiore ai tessuti molli e le parestesie.
Possono, poi, manifestarsi sintomi aggiuntivi di tipo neurologico, quali disturbi percettivi, instabilità spaziale e temporale, fenomeni da sovraccarico sensoriale, cefalea, disfunzioni dell’articolazione temporo-mandibolare.
I disturbi cognitivi solitamente presenti sono la facile distrazione, la difficoltà di concentrazione, rallentamento nei gesti, deficit della memoria a lungo termine e della memoria di lavoro (Park et al., 2001). Può verificarsi anche un peggioramento delle performance linguistiche, come la dislessia quando il paziente è affaticato, difficoltà nella scrittura e nella lettura, nel ripetere i vocaboli e nel parlare (Jain et al., 2003).
La presenza di ansia, disturbi del sonno, depressione, disfunzioni del sistema endocrino e il dolore stesso possono contribuire ad esacerbare i sintomi cognitivi (Glass, 2008).
Le manifestazioni neuroendocrine e autonomiche, che possono presentarsi in corso di fibromialgia comprendono aritmia, ipotensione, stordimento, senso di testa vuota, vertigini, instabilità vasomotoria, sindrome sicca, instabilità della temperatura, intolleranza a caldo o freddo, disturbi respiratori, disturbi della motilità intestinale o vescicale, dismenorrea, perdita di adattabilità e tolleranza allo stress, appiattimento emozionale, depressione reattiva (Jain et al., 2003).
Infine, nella valutazione del paziente devono essere considerate anche alcuni sintomi e condizioni associate, quali la cefalea cronica, il colon e la vescica irritabile, la sindrome uretrale femminile, la dismenorrea primaria, la sindrome delle gambe senza riposo, la sindrome sicca e altre. Alcune malattie funzionali associate sono, infatti, più comuni nei pazienti fibromialgici rispetto alla popolazione generale (Yunus, 2008).
1.4 Diagnosi differenziale
La diagnosi differenziale tra fibromialgia e altre cause di dolore cronico è di fondamentale importanza, in quanto molti dei sintomi scheletrici ed extra scheletrici caratteristici della fibromialgia possono essere riscontrati in numerose altre malattie. La fibromialgia, inoltre, può essere trovata in associazione con patologie diverse reumatiche e non, aumentando il rischio di commettere errori diagnostici.
In uno studio condotto da Fitzcharles e Boulos (2003) è stata evidenziata una sostanziale inaccuratezza diagnostica in una coorte di pazienti, a cui era stata diagnosticata la fibromialgia, inviati per un consulto reumatologico. La FM è stata confermata solo nel 34% dei pazienti, che lamentavano dolore muscoloscheletrico, con una percentuale d’errore del 66%. L’astenia e la presenza dei TPs sono stati i fattori discriminanti tra pazienti fibromialgici e non fibromialgici, mentre una prolungata rigidità mattutina, sebbene riferita da un quarto dei pazienti con FM, è risultata essere una caratteristica clinica più frequentemente riportata dai pazienti affetti da altre patologie. Data l’elevata percentuale di errori diagnostici, gli autori sostengono che nell’algoritmo diagnostico differenziale della FM, dovrebbero essere incluse numerose patologie caratterizzate, tra le altre cose, da una sintomatologia dolorosa a carico dell’apparato muscoloscheletrico. Numerose malattie reumatiche autoimmuni, come la sindrome di Sjrögren (SS), il lupus eritematoso sistemico (LES), altre connettiviti sistemiche (CTD), l’artride reumatoide (AR), le spondiloartriti e malattie non reumatologiche quali l’ipotiroidismo, l’anemia, la malattia di Lyme, l’infezione da virus dell’epatite C, la sindrome da fatica cronica e le neoplasie occulte, sono possibili cause di astenia intensa e di algie a carico dell’apparato muscoloscheletrico (Schneider, Brady e Perle, 2006).
Un approccio semplice e razionale per valutare questi pazienti dovrebbe includere l’esecuzione, in prima istanza, di alcuni esami di laboratorio, oltre ad una raccolta anamnestica accurata e un esame obiettivo completo. Nel caso in cui quest’ultimo
evidenzi segni clinici compatibili con una malattia infiammatoria articolare sarebbe opportuno effettuare ulteriori indagini sierologiche.
1.5 Eziologia e Patogenesi
L’eziologia e la patogenesi della fibromialgia non sono state ancora pienamente comprese. Diverse cause possono essere prese in considerazione, come disfunzioni del sistema nervoso centrale e autonomo, oltre ad altre alterazioni che coinvolgono i neurotrasmettitori e gli ormoni.
Sistema nervoso centrale
La sensibilizzazione centrale è considerato il principale meccanismo implicato nella fibromialgia (Yunus, 1992); questa determina una riduzione della soglia individuale del dolore, mediante il coinvolgimento delle strutture percettive dolorose a livello delle corna dorsali del midollo spinale e delle aree specializzate alle percezioni dolorose sottocorticali e corticali del cervello.
Un importante fenomeno coinvolto è il wind-up, che riflette l’incrementata eccitabilità dei neuroni del midollo spinale: dopo uno stimolo doloroso, gli stimoli successivi della stessa portata sono percepiti con maggiore intensità (Li, Simone & Larson, 1999). Questo accade normalmente in ciascuno di noi (Mendell & Wall, 1965), ma nei pazienti fibromialgici si verifica in maniera eccessiva (Staud et al., 2001). Tali fenomeni sono espressione della neuroplasticità e sono principalmente mediati dai recettori N-Metil-D-Aspartato (NMDA), localizzati nella membrana
post sinaptica del corno dorsale del midollo spinale (Staud & Domingo, 2001; Dickenson, 1990).
Un altro meccanismo presumibilmente coinvolto interessa le vie discendenti inibitorie del dolore, che modulano le risposte del midollo spinale (MS) agli stimoli dolorosi. Queste sembrano essere alterate nei pazienti con fibromialgia, contribuendo così ad esacerbare la sensibilizzazione centrale (Staud & Smitherman, 2002; Staud et al., 2003; Kosek & Hansson, 1997). A parte i meccanismi neuronali aumentati, anche l’attivazione delle cellule gliali sembra giocare un ruolo importante nella patogenesi della FM: queste cellule, infatti, contribuiscono a modulare la trasmissione del dolore nel MS e, attivate da vari stimoli dolorosi, rilasciano citochine proinfiammatorie, ossido nitrico, prostaglandine e specie reattive dell’ossigeno, che stimolano e prolungano l’ipereccitabilità del MS (Watkins, Milligan & Maier, 2001; Watkins & Maier, 2005).
Anche vari neurotrasmettitori sembrano essere coinvolti nella sensibilizzazione centrale. La serotonina (5-HT) ha un ruolo significativo nella modulazione del dolore (Dubner & Hargreaves, 1989) e numerosi studi sono stati condotti al fine di ricercare alterazioni nei livelli di questa molecola, nel siero e nel fluido cerebrospinale. Anche il precursore del 5HT, il triptofano e i suoi metaboliti sono stati misurati nel sangue, nel fluido cerebrospinale e nell’urina, con risultati contrastanti. In alcuni studi la serotonina è stata trovata in bassi livelli sia nel siero (Wolfe et al., 1997; Hrycaj et al., 1993) che nel fluido cerebrospinale (Houvenagel et al., 1990), mentre altri autori non hanno rilevato differenze statisticamente significative (Wolfe et al., 1997; Russel et al., 1992).
La serotonina è, inoltre, coinvolta nella regolazione del sonno e dell’umore (Ressler & Nemeroff, 2000; Juhl, 1998) e questo potrebbe spiegare l’associazione tra fibromialgia, disturbi del sonno e disturbi psichiatrici.
Anche altri neurotrasmettitori sembrano essere coinvolti, come norepinefrina (Russel et al., 1992), dopamina (Wood, 2004; Malt et al., 2003), sostanza P (i cui livelli sono tipicamente alti in caso di fibromialgia e la cui sintesi è inibita dalla
serotonina) (Russel et al., 1994; Vaeroy et al., 1988), endorfine e metencefaline (Harris et al., 2007; Baraniuk et al., 2004). Questi peptidi nel sistema oppioide endogeno dei pazienti fibromialgici, sembrano essere iperattivi ma per qualche motivo non sono in grado di modularne il dolore. Ciò potrebbe spiegare la ridotta efficacia degli oppioidi esogeni in questa popolazione (Stisi et al., 2008).
Sistema neuroendocrino e sistema nervoso autonomo
Dato che la fibromialgia è considerato un disturbo stress-correlato, è facilmente intuibile il coinvolgimento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) (Crofford, 2002). Differenti studi mostrano elevati livelli di cortisolo, soprattutto la sera, associato con un’alterazione del ritmo circadiano (Ferraccioli et al., 1990; McCain & Tilbe, 1989). In aggiunta, questi pazienti mostrano alti valori di ormone adrenocorticotropo (ACTH) sia basale (Neeck, 2000; Geenen, Jacobs & Bijlsma, 2002), sia in risposta allo stress, più probabilmente come conseguenza di una cronica iposecrezione dell’ormone di rilascio della corticotropina (CRH) (Griep, Boersma & Kloet, 1993). Tali alterazioni sono probabilmente correlate ai bassi livelli di 5-HT osservati in caso di fibromialgia, in quanto le fibre serotoninergiche regolano la funzionalità dell’asse HPA (Neeck, 2000).
I livelli di ormone della crescita (GH) tendono ad essere normali durante la giornata, per poi ridursi durante il sonno. È probabile che la spiegazione sia duplice: in primis, il GH è principalmente secreto durante la fase 4 del sonno e questa fase è disturbata nei pazienti affetti da FM. In secundis, gli stessi presentano alti livelli di somatostatina, un inibitore del GH, stimolato da ACTH, i cui livelli, come già detto, sono elevati (Jones et al., 2007).
I livelli degli ormoni tiroidei sono solitamente normali, anche se le pazienti spesso mostrano sintomi di ipotiroidismo e ci sono alcune evidenze che suggeriscono un’associazione con un anormale test di stimolazione dell’ormone di rilascio della
tireotropina (TRH) (Garrison & Breeding, 2003). Le secrezioni di gonadotropina e steroidi gonadici sono solitamente normali (Korszun et al., 2000; Maghraoui et al., 2006), apparentemente senza che ci sia nessuna correlazione con l’alta incidenza di fibromialgia nei pazienti di sesso femminile. Diversi studi, infine, sembrano confermare che nella FM il sistema nervoso simpatico sia persistentemente sia iperattivo che iporeattivo allo stress (Cohen et al., 2001; Kooh et al., 2003; Furlan et al., 2005). Ciò potrebbe spiegare alcuni sintomi clinici come stanchezza, rigidità mattutina, disturbi del sonno, ansia, fenomeni Pseudo Raynoud’s, sintomi sicca e irritabilità intestinale (Stisi et al., 2008).
Alti livelli nel siero di neuropeptide Y (NPY), che è normalmente secreto in associazione con la norepinefrina, possono inoltre essere considerati un segno di questo stato disautonomico (Anderberg et al., 1999).
1.6 Il modello biopsicosociale della fibromialgia
Nonostante l’esatta eziologia e patogenesi della fibromialgia sia attualmente sconosciuta, si ritiene che i fattori psicosociali possano giocare un ruolo importante e, in un’ottica biopsicosociale, si suppone appunto, che la fibromialgia sia causata dall’interazione di molteplici variabili.
Nel 1977, Engel definisce il modello medico dominante in quel periodo, ossia quello biomedico, non più adeguato alle nuove scoperte scientifiche, e propone un nuovo modello definito, per l’appunto, biopsicosociale. Assunto del modello è che ogni condizione di salute o di malattia sia la conseguenza dell’interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali.
Quartilho e collaboratori (2004) affermano che i fattori psicosociali nella fibromialgia potrebbero essere classificati come predisponenti, scatenanti e perpetuanti. Più specificatamente, i fattori predisponenti includono la presenza di
eventi avversi durante il corso della vita, i cui effetti psicosociali duraturi contribuiscono alla vulnerabilità individuale. Questi fattori non sono necessariamente causali e includono eventi avversi precoci, in generale, e traumi fisici ed emozionali, in particolare. Queste condizioni possono contribuire a ulteriori manifestazioni di bassa autostima, bassa autoefficacia e affettività negativa, che incrementano il rischio di sviluppare uno stile di vita disfunzionale e relazioni insoddisfacenti (Eich et al., 2000; Van Houdenhouve & Egle, 2004). Dal lato opposto, i fattori scatenanti sono quelli che precedono l’insorgenza del dolore e che lo causano direttamente (Eich et al., 2000), come perdita di significato nelle relazioni, cambiamenti critici nelle condizioni di vita e disturbi fisici severi. Sebbene i fattori scatenanti siano solitamente ben descritti in termini di specifici tempi e situazioni, questi possono anche comprendere situazioni multiple, che riflettono un esteso periodo di stress fisico e psicosociale. (Van Houdenhove & Egle, 2004). Infine, i fattori perpetuanti possono aiutare a spiegare il mantenimento della fibromialgia, una volta insorta; tali fattori possono impedire la remissione naturale del disturbo e portare ad uno stato cronico di malattia, incrementando la frequenza o l’intensità dei sintomi. Possibili fattori perpetuanti la fibromialgia possono essere la depressione, l’ansia, il rimuginio, il pensiero catastrofico e comportamenti di ricerca di assistenza sanitaria disfunzionali. Così, la fibromialgia viene concettualizzata come lo stadio finale di un’accumulazione nel tempo di fattori di vulnerabilità biologici e psicosociali.
Il modello biopsicosociale della fibromialgia è basato su evidenze e studi sperimentali che dimostrano che i pazienti fibromialgici sono ipervigili rispetto al dolore e in generale alle sensazioni somatiche (McDermid, Rollman, McCain, 1996). Anche il ruolo fondamentale della paura in tali soggetti è comprovato da studi che dimostrano un’associazione tra la paura, l’aumento dell’attenzione alle sensazioni somatiche (McCracken, 2003), una più elevata sensibilità al dolore (de Gier, Peters, Vlaeyen, 2003) e una maggiore disabilità e depressione (Turk, Robinson, Burwinkle, 2004).
1.7 Aspetti psichiatrici e psicologici della fibromialgia
Contrariamente alle aspettative, soltanto una minoranza di pazienti affetti da fibromialgia, circa il 30-40%, presenta un disturbo psicologico significativo (Rachlin e Rachlin, 2002).
Tuttavia, anche prendendo in considerazione le percentuali più basse, la presenza di disturbi psichiatrici è sicuramente maggiore nei pazienti fibromialgici rispetto alla popolazione generale (7%) (Murray e Lopez, 1996).
Le variabili di personalità associate alla vulnerabilità psicologica come scarsa autostima, dipendenza, passività, vittimizzazione, catastrofizzazione, irritabilità, evitamento, risposta maladattiva alla perdita, sono frequenti in pazienti con fibromialgia (Alfici, Sigal e Landau, 1989; Bradley, 2005). Questi processi di pensiero negativi e le scarse capacità di coping sono state considerate come parte intrinseca della psicopatogenesi della sindrome (Wolfe et al., 1997).
Pazienti con fibromialgia, confrontati con pazienti con dolore psicogeno e controlli sani, mostrano un rapporto ridotto con la realtà, vuoti emozionali nelle relazioni e aggressività quali caratteristiche di personalità (Egle et al, 1989). In alcuni studi è stato visto che l’alessitimia e la rabbia verso se stessi sono significativamente alti nei pazienti con FM rispetto ai controlli o ai pazienti con artride reumatoide (RA) (Brisschot e Aarsse, 2001; Sayar, Gulec e Topbas, 2004), tuttavia in letteratura sono presenti studi contrastanti (Malt et al., 2002)
Comparati ai bambini con RA e soggetti di controllo, quelli affetti da fibromialgia giovanile hanno mostrato di avere significativamente più problemi comportamentali, una maggiore instabilità temperamentale, irregolarità nelle abitudini quotidiane, alta distraibilità, alti livelli di anedonia, umore negativo, anaffettività, bassa autostima, oltre ad incrementati livelli di ansia e depressione (Conte, Walco e Kimura, 2003). Sulla base del Minnesota Multiphasic Personality Inventory, uno studio ha mostrato che pazienti adulti con fibromialgia comparati con soggetti con RA, presentano un aumento statisticamente significativo nei
punteggi delle scale di ipocondria, isteria, paranoia e schizofrenia (Payne et al., 1982), mentre, un altro studio ha dimostrato un incremento di punteggio nelle scale di devianza psicopatica, psicastenia e paranoia (Wolfe et al., 1984).
Inoltre un punteggio significativamente più alto nella scala “ipocondria” della Basic Personality Inventory è stato trovato nei pazienti fibromialgici rispetto ai pazienti con artride reumatoide e controlli sani (Scudds et al., 1987).
Tuttavia studi basati su altri strumenti di assessment non hanno mostrato differenze significative nei patterns di personalità di pazienti con FM comparati a pazienti con RA o a pazienti afferenti agli ambulatori di medicina generale (Clark et al., 1985; Goldenberg, 1986).
Sulla base della Structured Clinical Interview per il DSM-IV, i disturbi di personalità sono stati diagnosticati nell’8,7% dei casi in un ampio gruppo di soggetti fibromialgici: 5,25% presentavano un disturbo borderline di personalità e l’1,75% mostrava un disturbo evitante di personalità o un disturbo dipendente di personalità. In generale, comunque, nei pazienti fibromialgici è stata riscontrata una frequenza leggermente inferiore dei disturbi di personalità rispetto alla popolazione generale (10%) (Thieme, Turk e Flor, 2004).
Caratteristiche di “predisposizione al dolore” o “ipervigilanza“ possono essere comunemente riscontrate in pazienti FM, cosa che spiegherebbe gli elevati livelli di stress osservati in questi soggetti (Keel, 2998; Davis, Zautra e Reich, 2001).
È stato suggerito che un elevato livello di distress psicologico sia intrinsecamente collegato alla sindrome (Wolfe et al., 1995) oltre a costituire un fattore prognostico (McBeth e Silman, 2001). Il distress psicologico risulta, infatti, più frequente e severo in pazienti con fibromialgia rispetto ai controlli con dolore muscoloscheletrico molto diffuso o di altre origini (White et al., 2002) o pazienti con RA (Dailey et al., 1990).
Un’alta frequenza di disturbi psicoaffettivi è stata riscontrata nella fibromialgia (Hudson et al., 1985) e la sindrome per questo è stata inclusa nello “spettro dei disturbi affettivi” (Hudson e Pope, 1989)
I pazienti FM sono caratterizzati da livelli significativamente più bassi di affettività positiva e estroversione rispetto ai controlli che soffrono di dolore cronico e questa disfunzione nella regolazione affettiva è considerata essere una caratteristica fondamentale della FM (Zautra et al., 2005).
Tra pazienti FM adulti, i disturbi d’ansia e depressivi sono le più frequenti comorbidità psichiatriche, mentre i disturbi alimentari non sono molto comuni (Thieme, Turk e Flor, 2004; Arnold et al., 2006; Hudson et al., 1992). Il range di frequenza dei disturbi d’ansia varia dal 13% al 63,8% (Walker et al., 1997; Thieme, Turk e Flor, 2004; Hudson et al.,1985; Hudson e Pope, 1989; Martinez et al., 1995; Epstein et al., 1999; Raphael et al., 2006) e quello della depressione dal 20% all’80% (Walker et al., 1997; Goldenberg, 1986; Thieme, Turk e Flor, 2004; Hudson et al., 1985; Hudson e Pope, 1989; Martinez et al., 1995; Epstein et al., 1999; Nordahl e Stiles, 2007). Nel contesto dei disturbi d’ansia, il disturbo di panico è stato riscontrato nel corso della vita dei soggetti fibromialgici con una percentuale che varia dal 17 al 27% e come diagnosi corrente dal 9 al 18%. (Malt et al., 2000; Epstein et al., 1999).
Oltre che per la frequenza elevata, l’evidenza di un’associazione tra FM e depressione maggiore è particolarmente forte, anche sulla base di una sintomatologia sovrapposta, simili pattern di comorbidità, e per gli alti tassi di disturbo depressivo maggiore riscontrati tra i familiari dei pazienti con fibromialgia (Hudson et al., 1992; Hudson e Pope, 1996).
I fattori patofisiologici in comune tra fibromialgia e depressione potrebbero essere rappresentati da un’alterazione del sistema neurotrasmettitoriale (Fietta, 2004; Buskila, Neumann & Press, 2005; Kalia, 2005); in particolare, polimorfismi nei geni relativi al sistema dopaminergico (Serretti et al., 1998; Malt et al., 2003) e serotoninergico (Offenbaecher et al., 1999; Cohen et al., 2002) potrebbero giocare un ruolo nella patogenesi di entrambi i disturbi. Una più alta frequenza del genotipo short/short (S/S) nella regione del promotore del gene del trasportatore della serotonina (5-HTT) è stata riscontrata in pazienti FM confrontati con controlli sani
(Offenbaecher et al., 1999) e questo sottogruppo mostra livelli medi più elevati di depressione, distress psicologico (Offenbaecher et al., 1999) e ansia (Cohen et al., 2002). In uno studio epidemiologico, individui adulti portatori di uno o due copie dell’allele S del polimorfismo del promotore 5-HTT, mostravano più sintomi depressivi, depressione diagnosticabile e tendenza al suicidio, rispetto a soggetti omozigoti per l’allele lungo (Caspi et al., 2003). Inoltre, è stato osservato che i portatori del genotipo S/S avevano due o più parenti di primo grado con una storia di depressione (Joiner et al., 2003); una maggiore frequenza del genotipo S/S e dell’allele S, poi, è stata riscontrata anche in bambini con disturbo depressivo maggiore (Nobile et al., 2004).
Nonostante la prevalenza della depressione sia alta, lo stile di personalità “depressotipica” non è stato trovato essere necessariamente parte della sindrome fibromialgica (Nordahl e Stiles, 2007).
Per quanto riguarda il disturbo post traumatico da stress, i pazienti fibromialgici esibiscono un tasso notevolmente aumentato del disturbo rispetto alla popolazione generale (6%) (Staud, 2004).
Infine, il rischio di sviluppare nel corso della vita un disturbo ossessivo compulsivo (DOC) o un disturbo post traumatico da stress (PTSD) è stato stimato essere cinque volte superiore tra le donne con FM rispetto a quelle che non presentano la sindrome (Raphael et al., 2006).
1.7.1 La catastrofizzazione del dolore nella Fibromialgia
Il modello biopsicosociale della fibromialgia afferma che uno degli elementi maggiormente coinvolti nella cronicizzazione del dolore è un atteggiamento cognitivo definito catastrofismo.
La catastrofizzazione causa un’esagerata amplificazione degli aspetti emozionali a cui si accompagna una visione pessimistica riguardo a se stesso, agli altri e al futuro. Il dolore, in quest’ottica, viene considerato un’esperienza intollerabile e devastante. Il catastrofismo correla positivamente con la disabilità e con la gravità del dolore (Burton et al., 1995) e influenza negativamente gli esiti dei trattamenti (Martin et al., 1996). Il soggetto “catastrofizzatore” si focalizza sul problema e non è in grado di distogliere l’attenzione dagli stimoli dolorosi o minacciosi, attribuendo anche a stimoli di solito non dolorosi più importanza del dovuto (Geisser et al., 2003).
I soggetti possono inoltre presentare atteggiamenti di ipervigilanza rispetto all’insorgenza del dolore e di evitamento di tutto ciò che potrebbe causarlo (de Gier, Peters, Vlaeyen, 2003).
Il termine “catastrofizzazione” è stato introdotto da Albert Ellis (1962) e successivamente adottato da Aaron Beck (Beck et al., 1979) per descrivere uno stile cognitivo maladattivo assunto dai pazienti con disturbi d’ansia e depressione.
Il “core” della loro definizione di catastrofismo era il concetto di un’irrazionale e negativa previsione degli eventi futuri. Allo stesso modo, il catastrofismo collegato al dolore era concepito come un esagerato insieme di schemi cognitivi e emozionali negativi, messi in atto durante la stimolazione dolorosa o in modo anticipatorio. Nei primi studi Chaves e Brown (1987) hanno definito il catastrofismo come la tendenza a ingigantire o esagerare la pericolosità o la gravità della sensazione dolorosa e Spanos e colleghi (1979) hanno enfatizzato la paura e la preoccupazione (worry) associata all’incapacità di deviare l’attenzione dal dolore. Un’importante limitazione di questi primi studi è stata, tuttavia, l’utilizzo di metodi di intervista
non standardizzati per identificare la castrofizzazione del dolore e ciò ha rappresentato un grave ostacolo per la misurazione.
Oggi, l’assessment del catastrofismo è in genere ottenuto utilizzando i 6 items della sottoscala “catastrofismo” del Coping Strategies Questionnaire (Rosenstiel e Keefe, 1983) o con la Pain Catastrophizing Scale (Sullivan, Bishop e Pivik, 1995), ideata da Sullivan, il quale ha ampliato la sottoscala della CSQ, introducendo altri 7 items. Sebbene gli individui possano essere dicotomizzati come “catastrofizzatori” e “non catastrofizzatori” la maggior parte della ricerche tratta il catastrofismo come una variabile continua, normalmente distribuita (Sullivan et al., 2001). Il catastrofismo è presente anche nelle persone in salute prive di dolore, come un continuum (Edwards et al., 2004), ed è stato osservato come alti livelli di catastrofismo valutati in adulti senza dolore possano predire il futuro sviluppo di dolore cronico e l’utilizzo dei servizi sanitari relativi al dolore (Picavet, Vlaeyen e Schouten, 2002; Severeijns et al., 2004).
Un ampio dibattito è centrato su come sia meglio concepire il catastrofismo, se, cioè, come un tratto stabile e duraturo, ossia come una dimensione della personalità, o come una caratteristica modificabile (Sullivan et al., 2001; Turner e Aaron, 2001). Ci sono evidenze che supportano entrambe le posizioni. Diversi studi hanno riportato un’elevata stabilità test-retest del catastrofismo misurato in un lasso di tempo di un anno in pazienti con artride reumatoide e in altri campioni (Sullivan, Bishop e Pivik, 1995; Keefe et al., 1989).
In contrasto, il catastrofismo spesso diminuisce quando i pazienti si sottopongono ad una terapia di tipo cognitivo comportamentale (Jensen, Turner e Romano, 2001; Burns et al., 2003), cosa che indica che il catastrofismo può venire alterato dai trattamenti.
Sullivan e colleghi (2001) hanno, infine, proposto di interpretare la catastrofizzazione come una strategia utilizzata dai pazienti per affrontare il distress provocato dal dolore. In questo senso, il catastrofismo viene interpretato come una forma di coping, impiegata nel tentativo di raccogliere il sostegno sociale da parte
di altri. I catastrofizzatori possono impegnarsi in espressioni esagerate di dolore al fine di sollecitare negli altri comportamenti assistenziali o risposte empatiche. Per ottenere ciò, i catastrofizzatori potrebbero, però, inavvertitamente rendere la loro esperienza dolorosa più avversa, incrementando l’attenzione nei confronti del dolore. Si ritene che questo stile di coping possa essere considerato maladattivo in presenza di dolore cronico, poichè produce risposte da parte dell’ambiente sociale del soggetto sempre più negative e incrementa i conflitti interpersonali, il rifiuto sociale e la depressione (Thorn et al., 2003; Cano, 2004)
A tal proposito, in uno studio di Martin e colleghi (1996), mediante l’utilizzo della CSQ è stato visto come la catastrofizzazione del dolore sia una delle strategie di coping più impiegate dai pazienti fibromialgici e come questa correli positivamente con un alto livello di disabilità.
Nei soggetti fibromialgici, alti livelli di catastrofismo sono associati con forme di dolore più gravi e diffuse e con una maggiore frequenza di disturbi emozionali (Gracely et al., 2004; Viane et al., 2003; Hassett et al., 2000; Schochat e Raspe, 2003). In genere, queste associazioni persistono anche dopo aver statisticamente controllato depressione, ansia e nevroticismo (Keefe et al., 2000; Affleck et al., 1992). Il catastrofismo, inoltre, mostra un’associazione positiva con il numero dei tender points riscontrato in campioni clinici di pazienti con fibromialgia (Schochat e Raspe, 2003; Giesecke et al., 2003; Gracely, Grant e Giesecke, 2003).
È stato ipotizzato un collegamento tra l’iperalgesia (maggiore capacità di risposta agli stimoli dolorosi) riscontrata nei pazienti fibromialgici (McDermid, Rollman e McCain, 1996) e il catastrofismo, il quale, in donne affette da fibromialgia, risulta, infatti, essere associato con una diminuita soglia del dolore e una diminuita tolleranza al calore (Geisser at al., 2003). Alcune evidenze suggeriscono, inoltre, che un più alto livello di catastrofismo sia collegato con una maggiore sensibilizzazione del sistema nervoso centrale in presenza di dolore prolungato (Edwards et al., 2004) e ciò potrebbe spiegare la consistente relazione positiva tra catastrofismo e sensibilità al dolore.
In genere, il catastrofismo è fortemente correlato con misure di affettività negativa (Sullivan et al., 2001). Molte ricerche hanno documentato un’associazione positiva tra catastrofismo e sintomi depressivi nella fibromialgia (Gracely et al., 2004; Hasset et al., 2000; Geisser et al., 2003) e studi prospettici hanno inoltre suggerito come nel contesto del dolore cronico, il catastrofismo possa contribuire alla depressione dell’umore sia a breve (Keefe et al., 2004) che a lungo termine (Covic et al., 2003).
Alcune ricerche hanno anche esaminato l’ipotesi che il catastrofismo potesse accrescere la percezione dell’esperienza dolorosa attraverso i suoi effetti sui processi attentivi. Alti livelli di catastrofismo possono, infatti, portare gli individui a partecipare intensamente e in modo selettivo agli stimoli dolorosi. I soggetti che catastrofizzano presentano più difficoltà a controllare o sopprimere i pensieri relativi al dolore rispetto ai non catastrofizzatori, rimuginano di più e le loro performance cognitive e fisiche sono maggiormente perturbate da pensieri anticipatori riguardanti il dolore (Goubert et al., 2004; Crombez et al; 1998; Van Damme, Crombez e Eccleston, 2002; 2004).
In pazienti fibromialgici, in particolare, il catastrofismo risulta essere fortemente associato ad un’aumentata attenzione al dolore (Roelofs et al., 2003) e alle sensazioni corporee (McDermin, Rollman e McCain, 1996; Peters, Vlaeyen e van Drunen, 2000).
Sembra che il catastrofismo influenzi, inoltre, l’esperienza dolorosa, interferendo con i meccanismi preposti all’inibizione del dolore nel sistema nervoso centrale (SNC) (Sullivan et al., 2001; Gracely et al., 2004; Geisser et al., 2003; Edwards et al., 2004).
Lo studio condotto da Bandura et al (1988) suggerisce che la riduzione del catastrofismo comporti l’attivazione del sistema discendente oppioide endogeno che inibisce la nocicezione. Uno studio condotto con risonanza magnetica funzionale su pazienti fibromialgici ha evidenziato, poi, che durante un’esperienza di dolore acuto, un alto livello di catastrofismo correla con un’accresciuta attività nelle
regioni corticali coinvolte nella processazione affettiva del dolore, come la corteccia cingolata anteriore e la corteccia insulare. (Gracely et al., 2004).
Recenti dati suggeriscono, infine, che il catastrofismo potrebbe essere direttamente associato a i processi facilitatori del dolore nel midollo spinale (Edwards et al., 2006). Complessivamente, evidenze preliminari indicano come il catastrofismo possa influenzare la processazione del dolore a diversi livelli nel SNC; in particolare, alcune ricerche affermano l’esistenza di una relazione bidirezionale tra catastrofismo e processazione nocicettiva e ciò potrebbe contribuire alla cronicità di molte condizioni dolorose (Sullivan et al., 2001).
2. LA METACOGNIZIONE
La metacognizione, nell’ottica della terapia metacognitiva (MCT) riveste un’importanza fondamentale per comprendere come la cognizione opera e come questa produca l’esperienza cosciente che abbiamo di noi e della realtà che ci circonda. Responsabile di ciò a cui prestiamo attenzione e di ciò che giunge alla nostra coscienza, la metacognizione dà inoltre, forma alle nostre valutazioni e determina le strategie utilizzate per regolare pensieri e emozioni (Wells, 2009) La comparsa di pensieri e credenze negative per la maggior parte di noi crea un disagio solo transitorio. Secondo l’approccio cognitivo, però, alcune persone, possono rimanere intrappolate all’interno della loro sofferenza emotiva, perchè la loro metacognizione contribuisce a creare un particolare modello di risposta, che costituisce un rinforzo per emozioni e idee negative. Questo pattern prende il nome di “sindrome cognitivo attentiva” (CAS) e comprende fenomeni di ruminazione, preoccupazione, focalizzazione dell’attenzione e l’uso di strategie di coping e /o di autoregolazione disfunzionali (Wells, 2009).
Secondo la terapia cognitivo comportamentale classica (TCC), specifici bias cognitivi possono causare l’insorgenza dei disturbi psicologici e un ruolo centrale è giocato dai pensieri disfunzionali.
Per quanto, in linea generale, la MCT sia in accordo con questi presupposti, in parte se ne discosta, attribuendo le cause dei disturbi a particolari tipi di credenze e stili cognitivi non adeguatamente approfonditi dalle TCC tradizionali.
La terapia metacognitiva non centra la sua attenzione sulle distorsioni cognitive, quanto piuttosto sul CAS, caratterizzato da un indugiare spropositato su pensieri di tipo verbale sotto forma di rimuginii o ruminazioni. A ciò si accompagna un bias attentivo specifico, che focalizza l’attenzione del paziente sulla minaccia. (Wells e Matthews, 1994)
Nella MCT si attribuisce maggiore importanza alle credenze metacognitive, cioè, quelle riguardanti il pensiero stesso. La principale difficoltà che riscontrano i
pazienti ha a che vedere con il modo di pensare, inflessibile e ricorrente, che compare quando sono presenti emozioni, credenze, pensieri e sensazioni negative. Ciò di cui si occupa quindi la MCT riguarda i fattori che comportano la ripetitività del pensiero e la cattiva gestione delle proprie strategie di coping. Ad essere oggetto di trattamento saranno quei processi soggiacenti sia al modo di pensare comune che alle credenze negative stabili, ossia i pattern di pensiero disfunzionali e la metacognizione.
La metacognizione riguarda diversi fattori, i quali interagiscono tra loro e svolgono un ruolo nel monitorare, interpretare e controllare la cognizione, agendo in sinergia all’interno dei disturbi psicologici. Tali fattori possono essere suddivisi in credenze, esperienze e strategie (Flavell, 1979; Nelson et al., 1999; Wells, 1995).
Le credenze metacognitive
Per “credenze metacognitive” si intendono “ le idee e le teorie che ognuno di noi ha in merito al contenuto dei propri pensieri, all’efficienza della propria memoria e alla propria capacità di concentrazione” (Wells, 2009, p. 5)
La terapia metacognitiva dei disturbi psicologici afferma che le credenze metacognitive sono di due tipi (Wells e Matthews, 1994; Wells, 2000): credenze esplicite (dichiarative) e credenze implicite (procedurali).
La credenza esplicita può essere espressa verbalmente (“se mi focalizzo sul pericolo riuscirò ad evitare il danno”), mentre la credenza implicita rappresenta lo “stile di pensiero” che hanno le persone. Questo tipo di credenza può essere indagata a livello verbale mediante l’utilizzo di determinate strategie di assessment, come il profiling metacognitivo (Wells e Matthews, 1994).
Secondo il modello MCT le credenze possono assumere anche diversi orientamenti, ossia positivo e negativo.
Le credenze metacognitive positive riguardano il beneficio delle strategie cognitive, attenzionali e comportamentali (rimuginio e focus sul sintomo). Possibili esempi
includono concetti del tipo “ se mi preoccupo del futuro riuscirò a evitare il pericolo “è utile focalizzare l’attenzione sulla minaccia”.
Le credenze metacognitive negative riguardano, invece, “l’incontrollabilita, il significato, l’importanza e la pericolosità dei pensieri e delle esperienze negative” (Wells, 2009, p. 6).
Esempio di ciò sono “ non ho il controllo sui miei pensieri” o “ la preoccupazione danneggerà la mia mente”.
Nell’approccio MCT si afferma che il modo in cui le persone si rapportano ai propri pensieri, credenze, sintomi e emozioni negative sia fortemente influenzato dalle credenze metacognitive; queste, infatti, rappresentano la “forza motrice” alla base di uno stile di pensiero “tossico” che comporta una sofferenza emotiva protratta nel tempo.
Per testare la teoria metacognitiva dei disturbi psicologici e il ruolo rivestito dalle credenze in merito al rimuginio sono stati sviluppati il Metacognition Questionnaire e la sua forma ridotta, l’MCQ-30. Entrambi hanno trovato impiego in un ampio numero di studi, il cui scopo era quello di indagare l’esistenza di relazioni tra le metacognizioni, i sintomi dei disturbi emotivi e i problemi psicologici. In particolare, le meta credenze disfunzionali sono state riscontrate in associazione con emozioni di tratto (Cartwright-Hutton e Wells, 1997), depressione (Papageorgiou e Wells, 2001a, 2001b), ansia e disturbi correlati (Wells e Carter, 2001), abuso di alcolici (Spada e Wells, 2005, 2006; Spada, Zandvoort e Wells, 2007), sintomi e disturbi psicotici (Morrison, Wells e Nothard, 2002; Stirling, Barkus e Lewis, 2007) e stress connesso alle condizioni mediche (Allott, Wells, Morrison e Walker, 2005). In generale, questi studi provano l’esistenza di relazioni positive coerenti tra le credenze metacognitive, sia negative che positive, la vulnerabilità emozionale e un’ampio range di disturbi psicologici. In accordo col modello metacognitivo troviamo sia la presenza di meta-credenze positive che negative, tuttavia, quelle più rilevanti sembrano essere le credenze in merito all’incontrollabilità e alla pericolosità dei pensieri.
Le esperienze metacognitive
Quando parliamo di esperienze metacognitive ci riferiamo al modo in cui “le persone valutano le situazioni e le sensazioni riguardo alla propria condizione mentale” (Wells, 2009, p. 6)
La MCT afferma che una valutazione negativa dei propri pensieri e sentimenti comporti una percezione esagerata della minaccia, il che è collegato agli sforzi successivi messi in atto per monitorare il proprio pensiero.
Le strategie metacognitive
Le strategie metacognitive, infine, sono lo strumento con cui le persone cercano di modificare e controllare i propri pensieri, al fine di raggiungere un’autoregolazione cognitiva ed emotiva. Mediante l’utilizzo di queste strategie, l’attività cognitiva può essere intensificata, bloccata o modificata; alterare alcuni aspetti della cognizione comporta, infatti, una riduzione dei pensieri negativi e dell’intensità delle emozioni negative.
2.1 Il modello dell’Autoregolazione delle Funzioni Esecutive
Il modello dell’Autoregolazione delle Funzioni Esecutive (S-REF) (Wells e Matthews, 1994, 1996; Wells, 2000) descrive come nel controllo e nel mantenimento dei disturbi emotivi siano coinvolti fattori cognitivi e metacognitivi. Il sistema prevede tre livelli di elaborazione, integrati tra loro, dove sono presenti dei processi automatici e riflessivi (elaborazione a livello più profondo), un’elaborazione dei pensieri e dei comportamenti a livello conscio (denominatostile cognitivo) e un sistema di conoscenze o di credenze, di natura metacognitiva, immagazzinate nella memoria a lungo termine.
Il CAS e le sue conseguenze
L’MCT afferma che l’attivazione del CAS governato da credenze metacognitive positive e negative, comporti il manifestarsi di disturbi psicologici (Wells e Matthews, 1994; Wells, 1995, 2000). Il CAS è contraddistinto da uno stile di pensiero perseverante che si esprime sotto forma di rimuginio o ruminazione, focalizzazione dell’attenzione sulla minaccia (componente di “monitoraggio della minaccia”) e comportamenti di coping inefficaci e disfunzionali, quali la soppressione del pensiero, l’evitamento e l’abuso di sostanze.
Tra gli effetti dannosi del CAS abbiamo appunto il rimuginio e la ruminazione. La persona, a causa del rimuginio e della ruminazione, tende a focalizzarsi principalmente sulle informazioni negative in suo possesso con il risultato che avrà un’impressione alterata della realtà e di se stesso. Così, per esempio, da un lato ci si preoccupa di pericoli futuri estremamente difficili a realizzarsi, dall’altro, con la ruminazione, ci si interroga sul “perché è capitato proprio a me”, cosa che, ovviamente, non consente una risposta chiara o univoca e finisce per mantenere e aggravare l’incertezza e la discrepanza tra ciò che la persona sa e quello che vorrebbe sapere. Inoltre, il rimuginio e la ruminazione, innescando e mantenendo attivo il senso di minaccia, determinano un rafforzamento dell’ansia e della depressione che tendono a persistere. Tutti questi processi, consumando risorse attentive, possono sicuramente indebolire il pensiero e la capacità di assumere decisioni chiare e ben ponderate in situazioni stressanti.
Il rimuginio e la ruminazione frequente determinano un incremento ad utilizzare questo tipo di strategie, tanto che la persona non si rende neanche più conto di impiegarle e la forza dell’abitudine e la scarsa consapevolezza possono determinare
una sensazione di perdita di controllo di questi processi mentali e interferire con l’elaborazione delle immagini, necessaria al superamento dei traumi emotivi.
Inoltre, anche la ruminazione su eventi passati e sui propri errori e fallimenti aumenta l’accessibilità di questo materiale nel momento in cui si dovranno formulare dei giudizi su se stessi (Wells, 2009).
La componente di “monitoraggio della minaccia” del CAS comporta che l’attenzione si concentri sulle potenziali fonti di pericolo, contribuendo all’aumento di esperienze mentali intrusive (Wells e Matthews, 1994).
L’elaborazione cognitiva normale tende a favorire il processo di abituazione, poichè comporta l’esposizione ripetuta ai propri pensieri. Risultano essere problematiche, invece, le strategie che vengono attuate per controllare il pensiero, poichè impediscono il realizzarsi di questo processo. La soppressione, come strategia necessaria per controllare il pensiero, non è efficace in questi casi perché non è in grado di bloccare i pensieri negativi e ciò può essere interpretato come una perdita di controllo, visto che rimane attiva la percezione della minaccia.
Altre strategie comportamentali, come quelle di coping, ad esempio l’evitamento e l’abuso di sostanze, non riescono nell’intento di regolare le emozioni e le cognizioni, in quanto non consentono alla persona di appurare che le emozioni non sono da temere e che sarebbe in grado di affrontare le situazioni. Alcuni comportamenti di coping, inoltre, favoriscono il mantenimento in vita di una sensazione di potenziale pericolo, impedendo l’analisi della realtà dei pensieri e delle credenze negative. Ciò comporta, ad esempio, che l’aver evitato un esaurimento nervoso può essere attribuito all’evitamento dello stress piuttosto che alla constatazione che lo stress non è in grado di causarlo (Wells, 2009).
2.2 Il modello del Disturbo d’Ansia Generalizzato (DAG)
Il rimuginio, nel modello metacognitivo dei disturbi psicologici, è considerato una componente centrale del CAS, presente in tutte le patologie: il DAG ne è una manifestazione prototipica. La MCT, prendendo in considerazione meccanismi implicati in questo disturbo, ha concettualizzato un modello per trattare le preoccupazioni incontrollabili anche all’interno di altri disturbi. La preoccupazione che si riscontra nel DAG, contrariamente a quanto sarebbe logico pensare, non ha caratteristiche particolari, ma è molto simile alla normale preoccupazione (Ruscio e Borkovec, 2004). I contenuti e la natura della preoccupazione presenti nel DAG hanno, però, una particolare caratteristica che li contraddistingue, come previsto dal modello metacognitivo: in questo caso, infatti, la preoccupazione viene associata a credenze e pensieri più negativi sulla preoccupazione stessa (Wells e Carter, 2001; Ruscio e Borkovec, 2004).
Il rimuginio è un processo mediante il quale il soggetto contempla potenziali eventi futuri ed eventuali modi per gestirli; il rimuginio, inoltre, si modifica prontamente sulla base di feedback che provengono da fonti interne o esterne. È importante, comunque, effettuare una distinzione tra i pensieri intrusivi, che possono essere maggiormente automatici e involontari e fungere da stimoli interni, che attivano il rimuginio, rispetto a quest’ultimo, che rappresenta una reazione alle intrusioni, vista la sua natura concettuale e ripetitiva. La teoria metacognitiva ipotizza che le persone con DAG utilizzino principalmente il rimuginio per anticipare problemi futuri e sviluppare strategie per fronteggiarli. Di solito, la preoccupazione cronica viene utilizzata come strategia di coping in risposta ad un pensiero intrusivo negativo. La preoccupazione generale in merito agli eventi esterni, alla salute fisica e alle interazione con gli altri viene definita “Preoccupazione di tipo 1”. L’uso della preoccupazione come strategia di coping è legata a credenze metacognitive positive, le quali, nella maggior parte delle persone, sono comunque presenti in qualche misura. Ciò che conduce al DAG è l’attivazione delle credenze metacognitive
negative. Quando in una persona si attivano le credenze negative in merito alla preoccupazione si sviluppa il DAG. Le credenze negative relative alla preoccupazione appartengono a due distinte categorie , ciascuna delle quali riveste un’importanza specifica: quelle in merito all’incontrollabilità e quelle riguardanti la preoccupazione o le conseguenze disastrose della preoccupazione. Di quest’ultima categoria fanno parte le credenze sul fatto che le preoccupazioni avranno un esito catastrofico a livello fisico, psicologico o sociale. Una volta attivate le credenze metacognitive negative la persona sarà portata a valutare negativamente la preoccupazione: sarà cioè preoccupato di essere preoccupato e ciò non farà altro che aumentare l’ansia e la sensazione di non essere in grado di gestire la situazione. La preoccupazione riguardo alla preoccupazione rappresenta un’interpretazione dei processi di pensiero ed è quindi un esempio di valutazione metacognitiva. Per descrivere la valutazione negativa in merito alla preoccupazione e i sintomi ad essa associati si usa il termine “meta-preoccupazione” o “preoccupazione di tipo 2” (Wells, 1994). Alcuni esempi di meta-preoccupazione sono “sto impazzendo” e “sto perdendo il controllo”. Capita spesso che i sintomi d’ansia vengano interpretati erroneamente come segni della dannosità e della pericolosità della preoccupazione e ciò determina un consolidamento delle credenze negative nonchè un incremento immediato dell’ansia stessa.
La preoccupazione di tipo 2 (meta-preoccupazione) implica altri due fattori che contribuiscono al mantenimento del problema: le risposte comportamentali e le strategie di controllo dei pensieri.
Tra i comportamenti di coping maladattivi, utilizzati nel tentativo di controllare i pensieri, abbiamo la ricerca di rassicurazioni e informazioni, evitamenti, distrazioni, uso di alcol, ecc. Questi comportamenti non fanno altro che mantenere in vita la valutazione negativa relativa alla preoccupazione, in quanto impediscono il processo normale di autocontrollo, spostando, quindi, l’attenzione su fattori esterni. Alcune strategie adottate finiscono, inoltre, per ritorcersi contro chi le utilizza, fornendo ulteriori stimoli in grado di innescare la preoccupazione