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Contrasto alla violenza di genere: strumenti e misure attuative nella regione Toscana.

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Pisa

Facoltà di Scienze Politiche

Corso di Laurea in Sociologia e Politiche Sociali

Anno Accademico 2018-2019

Tesi di Laurea

CONTRASTO ALLA VIOLENZA DI GENERE:

STRUMENTI E MISURE ATTUATIVE NELLA REGIONE

TOSCANA

Candidata: Relatrice

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Indice

Introduzione ... 4

CAPITOLO I : VIOLENZA CONTRO LE DONNE: EVOLUZIONE DEL CONCETTO E DEFINIZIONI... 7

1.1 La violenza maschile contro le donne: trasformazioni delle relazioni di genere. ... 7

1.2 Il concetto di genere e gli stereotipi nelle relazioni di coppia... 9

1.3 Violenza di genere ... 18

1.4 Definire la violenza contro le donne. ... 19

1.5 Le tipologie di violenza... 23

1.5.1 Violenza fisica... 23

1.5.2 Violenza psicologica ... 24

1.5.3 Violenza sessuale ... 24

1.5.4 Violenza economica... 25

1.5.5 Comportamento persecutorio (stalking)... 26

1.5.6 Violenza a matrice religiosa... 27

1.6 Violenza Assistita. ... 27

1.6.1 Le conseguenze trans-generazionali... 30

CAPITOLO II: DINAMICHE DELLA RELAZIONE VIOLENTA... 32

2.1 Conflitto e maltrattamento ... 32

2.2 Il ciclo della violenza ... 34

2.2.1 Fase 1 : la crescita della tensione. ... 38

2.2.2 Fase 2: l’ esplosione della violenza (o escalation) ... 39

2.2.3 Fase 3: la falsa riappacificazione ... 39

2.3 Riconoscere la violenza... 42

2.4 Le conseguenze della violenza... 43

2.4.1 Le conseguenze sulla salute delle donne... 44

CAPITOLO III I DATI DEL FENOMENO: UNA ANALISI COMPARATIVA. ... 49

3.1 Conoscere la violenza per prevenirla ... 49

3.2 La violenza contro le donne nel mondo ... 51

3.3 Uno sguardo allo scenario Europeo ... 52

3.4 Analisi del fenomeno della violenza attraverso i dati dell’indagine sulla sicurezza delle donne in Italia... 54

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3.4.1 Indagini ISTAT dati 2006 e 2014 ... 54

3.4.2 Indagini ISTAT comparazione dati 2006 e 2014 ... 57

3.5 Alcune riflessioni sui dati ISTAT ... 60

3.6 L’Osservatorio Regionale Toscano... 62

3.6.1 Il femminicidio... 63

3.6.2 Centri Antiviolenza e case rifugio... 64

3.6.3 Atri nodi della rete ... 65

Capitolo IV: Aspetti giuridici e normativa di riferimento... 68

4.1 La normativa internazionale e ruolo dell’ONU... 68

4.2 La normativa internazionale e il ruolo della Comunità Europea... 72

4.3 Il ruolo della donna nella normativa italiana... 73

4.4 Piano straordinario antiviolenza... 79

4.5 Un nuovo percorso ospedaliero per le vittime di violenza... 80

4.6 Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020... 81

4.7 Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio ... 81

4.8 Quadro normativo della Regione Toscana... 82

4.9 Programmazione della Regione Toscana ... 95

4.9.1 I percorsi di autonomia abitativa... 96

4.9.2 I percorsi per l’occupabilità e l’inserimento lavorativo ... 97

CAPITOLO V: GLI INTERVENTI E LE AZIONI DI PREVENZIONE NELLA REGIONE TOSCANA... 100

5.1 Procedure della rete territoriale per il contrasto alla violenza di genere... 100

5.2 Primo intervento: l’accoglienza. ... 102

5.3 I Fattori di rischio, la Rilevazione e la Valutazione... 107

5.4 La valutazione dei livelli di rischio e condivisione del percorso di uscita dalla violenza con la donna... 110

5.5 Punti di forza e debolezza del percorso di fuoriuscita dalla violenza e di autonomia. ... 113 Conclusioni ... 117 Bibliografia ... 120 Articoli ... 121 Sitografia... 122 APPENDICE... 124

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Introduzione

Le ricerche compiute negli ultimi anni dimostrano che la violenza contro le donne è un fenomeno che ha origini antiche, è un problema complesso e universale perché si presenta in tutte le culture ed è trasversale perché coinvolge donne di ogni classe sociale, di ogni livello di reddito e di istruzione.

E’ una delle violazioni dei diritti umani più diffuse, che nega alle donne il diritto all’uguaglianza, alla sicurezza, alla dignità, all’autostima e il loro diritto di godere delle libertà fondamentali.

Attualmente le conoscenze in merito mettono in luce l’intreccio problematico tra violenza contro le donne e altri fenomeni che toccano oggi la società italiana: la ricostruzione dell’identità personale e sociale in uno scenario di ruoli sessuali in mutamento; la reazione violenta che si manifesta nel vuoto di identità di modelli di riferimento o comunque in collegamento con le trasformazioni di genere; i modelli sociali della violenza cioè i diversi profili socio-culturali degli aggressori e delle vittime. La violenza contro le donne spesso assume il carattere dell’invisibilità perché si consuma all’interno del privato dei rapporti familiari e affettivi,perché non sempre se ne riconoscono i contorni e i contenuti, invisibile anche perché la comunicazione e l’informazione mediatica generano spesso ambiguità, pregiudizi, stereotipi che danno luogo a percezioni distorte e a sovrapposizioni di significato. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, almeno una donna su cinque ha subito abusi fisici o sessuali da parte di un uomo nel corso della sua vita.

Non sempre le donne trovavano il coraggio e la forza per denunciare la situazione che stavano vivendo, al punto che il 91,6% dei casi di violenza non erano nemmeno segnalati (Istat, 2007).

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Nella maggior parte dei casi, il percorso, attraverso il quale le donne vittime di violenza si recavano ai servizi per chiedere aiuto, era spesso frutto di tentativi ed errori, e poteva essere ostacolato o incentivato in base al tipo di risposta ricevuta. Lavorando all’interno del Servizio Sociale da diversi anni ho infatti rilevato come, inizialmente, questi non si occupavano della condizione di violenza della donna con progetti specifici, ma lo si analizzava solo nell’ambito degli interventi al nucleo familiare o in particolari situazioni di esclusione sociale. L’esperienza sperimentale del Codice Rosa nella Regione Toscana ha infatti messo in luce come, nelle quotidiane pratiche di lavoro, mancasse, fra le diverse culture istituzionali degli enti coinvolti nel trattamento dei casi di violenza, prima ancora che un linguaggio comune, almeno una comune accezione di cosa si intendesse per “violenza di genere”, dei modi nei quali si manifesta e come la si riconosce. Mancavano inoltre conoscenze adeguate sulle possibilità operative dei servizi,né erano stabilite procedure che facilitassero il passaggio da uno a un altro ente, da uno ad altro servizio; mancavano o erano insufficienti momenti di formazione comune allargata a diversi soggetti così come insufficienti e disomogenei (o del tutto assenti) i sistemi di raccolta dati per conoscere l’entità del fenomeno e il suo evolversi all’interno del territorio. Ciascun ente operava in modo pressoché autonomo, per lo più scollegato dagli altri e quindi in maniera frammentata, era necessario strutturare rapporti continui e percorsi certi fra enti distanti per cultura e pratiche organizzative.

L’esperienza del Codice Rosa nella Regione Toscana ha permesso l’avvio di interventi formativi da cui sono scaturiti linguaggi e obiettivi comuni che hanno permesso poi la costruzione di una rete territoriale contro la violenza.

Come più volte rilevato, la violenza contro le donne è un fenomeno multidimensionale e necessita, per un’adeguata presa in carico, di una formazione specializzata, che implica l’assunzione di un approccio di genere. ma, soprattutto, una modalità organizzativa che metta in primo piano il lavoro di rete e la sua specifica modalità di intervento.

Alla luce di tale cornice teorico-pratica il presente lavoro ha analizzato in particolare: - nel primo capitolo il fenomeno maschile della violenza contro le donne attraverso le categorie di genere e principali stereotipi, individuando le diverse tipologie;

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- il secondo capitolo ,dedicato alle dinamiche della relazione violenta, descrive il ciclo della violenza così come illustrato in letteratura ;

- nel terzo capitolo si procede ad un’analisi statistica a livello internazionale, nazionale e regionale, costatandone la diffusione rilevante del problema; - nel quarto capitolo sono stati descritti i principali passaggi legislativi che

hanno condotto al riconoscimento giuridico della violenza contro le donne con particolare riferimento alla programmazione della Regione Toscana sulla violenza di genere;

- nel quinto capitolo, dopo aver esaminato le risposte della Regione Toscana con il Codice Rosa , l’attenzione è rivolta all’esperienza della rete dei servizi e a possibili percorsi di uscita dalla violenza.

In conclusione, ritengo che anche se molto sia stato fatto per sviluppare un lavoro di rete per le diverse fasi della presa in carico della donna che subisce violenza, lavorare in un’ottica di rete presuppone mantenere costantemente viva la rete, curare i nodi e mantenersi aggiornati con la formazione.

E’ necessario sottolineare l’importanza di non agire solo sul versante della presa in carico e dell’inclusione, ma continuare a programmare interventi e potenziare le iniziative e le azioni di prevenzione e contrasto,aspirando alla riduzione del numero di potenziali vittime e potenziali autori.

In particolare non si può non sottolineare l’importanza del lavoro nelle scuole, con i giovani, per educarli a rapporti fra generi corretti, ad un’affettività e una sessualità matura e consapevole, ad una accettazione di sé completa, verso un cambiamento culturale effettivo.

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CAPITOLO I : VIOLENZA CONTRO LE DONNE:

EVOLUZIONE DEL CONCETTO E DEFINIZIONI.

1.1 La violenza maschile contro le donne: trasformazioni delle

relazioni di genere.

La ricerca sociale ha iniziato ad occuparsi di violenza contro le donne più di quaranta anni fa, da allora questo tema si è sviluppato in maniera progressiva.

Straus1 ha affermato che nessun altro sotto insieme della sociologia ha avuto tra gli anni ‘70 e ‘80 uno sviluppo così cospicuo e veloce mettendo in evidenza che l'interesse non corrisponde ad un aumento della violenza familiare.

L'interesse secondo lui deriva dal fatto che il tema è intrecciato con altri come le strutture familiari, gli abusi sui minori, l'emancipazione femminile, la devianza, la criminalità e tanti altri.

L'evoluzione degli studi di Staus segue i mutamenti della società americana e della struttura familiare.: fino agli anni settanta la letteratura si interessa di “battered women” successivamente fino agli anni novanta di “domestic violence” più di recente di “intimate partener violence” il quale sottolinea sia il mutamento delle relazioni tra i sessi, dove il legame di intimità si sostituisce al vincolo coniugale, ma anche la consapevolezza che la violenza accade tra partner dello stesso sesso.

In Italia gli studi sulla violenza contro le donne prendono l’avvio verso la metà degli anni settanta in collegamento con il movimento femminista, che ha prodotto un gran numero di riflessioni ed interventi, senza far seguito però a ricerche scientifiche. Solo più tardi la ricerca scientifica è stata sviluppata da autrici che hanno lavorato da anni in associazioni di aiuto alle vittime di violenza in molte regioni d’Italia.

1 Staus M. (1992) Sociological Research and social policy. The Case of Family Violence,

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Nella letteratura scientifica italiana sono molto diverse le teorie della violenza contro le donne, alcune di queste si sovrappongono ad altre almeno in parte.

Una delle prime teorie scientifiche a circolare nella letteratura è quella clinica nella sua versione psicopatologica, di derivazione freudiana; la violenza domestica è attribuita alle caratteristiche di personalità dell’uomo violento e della donna maltrattata: il comportamento maschile è frutto di ansie e frustrazioni profonde; spesso sono le donne, a provocarlo con i loro atteggiamenti; esse ne traggono inoltre una soddisfazione «masochista», il che spiega perché non sempre interrompono tali relazioni (Gelles 1972 ).Questa teoria è stata poi superata perché si basava sul presupposto che la ipotetica devianza maschile venga stimolata da una determinata diversità femminile. Inoltre è stata abbandonata l’idea che la violenza maschile sia una forma di devianza.

Altra teoria è quella della cosiddetta “vulnerabilità acquisita”: fin da piccole alle donne viene trasmessa un'immagine di sé come persona debole e modesta, esse imparano a sentirsi indifese e non reagiscono alla violenza di coppia. Di contro agli uomini viene insegnato che il ricorso alla forza fisica è un modo per risolvere i problemi o di controllare il comportamento della partner ai propri fini (Walker 1983 e 2006; Baldry 2006).

La precedente teoria si integra con quella della socializzazione di uomini e donne in ruoli sessuali di tipo tradizionale: fin da piccole le donne sono educate alla passività e all'accettazione del dominio da parte del marito/ partner quindi da adulte sono portate a percepire una situazione di dominazione maschile come inevitabile.

Altra teoria riguarda le risorse personali: la donna supera il compagno per posizione sociale ed economica oppure si producono mutamenti nella relazione di coppia che portano la donna a voler rinegoziare le norme della relazione. lui reagisce con violenza a questo squilibrio per riaffermare la supremazia (O’Brien 1971; Favretto 1993).

Ed infine la teoria del controllo/scambio sociale: gli uomini sono violenti perché se lo possono permettere fino al punto in cui il costo delle azioni cioè la punizione o la sanzione diventa più elevato della ricompensa cioè la riaffermazione del proprio controllo sulla donna (Gelles 1983). Il rafforzamento delle sanzioni, maggior

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sensibilità dell'opinione pubblica, leggi più severe porta ad una diminuzione della violenza.

Nonostante le teorie sopracitate le spiegazioni tradizionali della violenza contro le donne fanno riferimento a due temi principali: il patriarcato ed il genere.

La teoria del genere/patriarcato si basa sul fatto che storicamente le società umane sono domiate dagli uomini e costruite a loro immagine (Basaglia 2006). La violenza contro le donne è funzionale a questa diseguale ed ingiusta distribuzione de ruoli . L’approccio sociologico ha tradizionalmente considerato la famiglia patriarcale come un sistema funzionale ai bisogni umani; la violenza è vista come un segno di cattiva comunicazione tra i suoi componenti. Qui l’oggetto di studio è la «violenza in famiglia» più che la «violenza maschile contro le donne, o le mogli»2.

La nozione di patriarcato spiega il fenomeno attraverso l’equazione potere-violenza: poiché gli uomini detengono il potere nella società essi usano la violenza come espressione di potere.

La teoria del genere/potere invece pone l’attenzione sulla diseguale distribuzione del potere, sulle diversità di genere, che produce violenza contro le donne per mantenere tale potere (Finkelhor 1983,Bimbi 2003).

1.2 Il concetto di genere e gli stereotipi nelle relazioni di coppia.

Il termine genere è nato all’interno del linguaggio scientifico intorno al 1955 attraverso il lavoro di Jon Mone. La parola vuole indicare la costituzione di un’identità sessuale (gender) che contraddice il sesso corporeo (sex).

Gender non ha solo creato quello spazio riempito dalla cultura tra il nascere femmina o maschio e il diventare donna o uomo,ma ha allargato tale spazio fino a cancellare il sessuale maschile e femminile a vantaggio di una completa costruzione sociale gendered o transgendered3.

Il genere viene creato dalla società nel momento in cui la sessualità biologica viene trasformata in prodotto dell’attività umana e inglobata all’interno del sex-gender system, ovvero in quell’insieme di processi, adattamenti, modalità di comportamento

2 Patrizia Romito“Dalla padella alla brace. Donne maltrattate, violenza privata e complicità

pubbliche”Polis, 2 agosto 1999, pp. 235-254

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e di rapporti, sulla base dei quali si organizza la divisione dei compiti tra gli uomini e le donne. Il genere classifica gli esseri umani in due tipi e segnala questa duplice presenza all’interno della società: è importante sottolineare il carattere binario di questo temine, perché il suo utilizzo improprio, come sostituto della vecchia dizione “condizione femminile”, si è protratto fino ai nostri giorni, nell’espressione tuttora molto attuale di “questione di genere”.

In realtà questo concetto ingloba e supera quello di condizione femminile, poiché non solo esprime l’esperienza di subordinazione delle donne rispetto agli uomini, ma implica anche che dall’interazione tra i due sessi nascono quelle forme esistenziali con cui uomini e donne costruiscono la propria vita, “creando” la condizione femminile e la condizione maschile.

Nel termine genere viene incorporato il modo in cui uomini e donne costruiscono il loro rapporto con il mondo, ed è per questo che abituarsi ad osservare la realtà sociale in questa doppia accezione con cui si esprimono le concezioni del maschile e del femminile, permette di ampliare e arricchire la prospettiva di analisi.

L’elaborazione del concetto di genere non nasce soltanto dalla presa di coscienza dell’esistenza di una realtà sessuata, ma anche e soprattutto dalla constatazione dell’esistenza di uno squilibrio all’interno di essa, tanto che il concetto di genere richiama quello di potere.

Partendo da tale punto, la prospettiva femminista adotta il concetto di genere per evidenziare e focalizzare la componente di costruzione sociale che è stata “sovrapposta” alla disuguaglianza sessuale strettamente biologica.

Secondo quest’ottica, il termine genere ingloberebbe e perfezionerebbe la classificazione basata sul termine sesso, conferendogli un maggior grado di precisazione; tuttavia, il rapporto tra i concetti di sesso e genere e le modalità secondo le quali il secondo includerebbe in sé il primo, è strettamente correlato alla componente corporea e fisica connessa alla differenza sessuale, oggetto di riflessione delle teoriche femministe, che ne hanno proposto interpretazioni radicalmente diverse, sintetizzate sulla base di quattro prospettive fondamentali essenzialismo o culturalismo, decostruzionismo, pensiero della differenza sessuale, teoria delle differenze locali situate.

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Il riconoscimento delle differenze messo in luce dal pensiero delle differenze sessuali, subisce un’ulteriore evoluzione nella prospettiva delle differenze situate, che vede l’evoluzione femminile proiettata verso una pluralità di differenze.

Il genere non viene più definito come una forma culturale sovrapposta a posteriori accogliendo in sé le differenze preesistenti tra uomini e donne, ma come il modo in cui storicamente e socialmente, in un determinato contesto, si attribuiscono significati a quelle stesse differenze fisiche e rilevanza ai fini della differenziazione sociale. Il concetto di differenza non solo continua ad essere il pensiero cardine, ma subisce un processo di moltiplicazione e un allargamento di prospettiva: alla differenza assoluta di tipo binario, su cui si fonda la definizione di genere, si aggiungono differenze multiple, allargando una prospettiva che, pur prendendo avvio dalle donne, non esclude gli uomini. Questa prospettiva si evolve verso l’accettazione di punti di vista diversi, anche in contrasto tra di loro, che nasce dall’apertura del femminismo occidentale rispetto alle nuove identità nazionali, nate dalla spinta all’autonomia messa in moto da gruppi femminili di religioni e nazionalità non occidentali nei paesi islamici, arabi, sudafricani, indiani. Questo lavoro di auto riflessione ed autocritica ha individuato nell’esaltazione delle differenze il punto di partenza di un femminismo, secondo cui il punto di osservazione varia sulla base di un percorso che va dal primo al terzo mondo, ma anche in senso inverso. Percorrendo questa traiettoria di studio ed approfondimento, il femminismo postmoderno giunge all’acquisizione di una categoria di genere dal carattere mobile e dinamico, che investe sia il soggetto donna che il soggetto uomo, e i rapporti esistenti tra loro. Il genere e il soggetto non sono più riconoscibili sulla base delle caratteristiche intrinseche di cui sono portatori, ma sulla base della posizione che occupano di volta in volta nella società e che si riflette sulla loro identità. Questo allargamento di prospettiva è possibile nel momento in cui ci si appropria di quel punto di vista , che mette al centro della propria prospettiva di analisi l’accettazione della complessità sociale, dell’esistenza di soggetti multipli, della pluralità dei riferimenti di valore.

Il genere viene a rappresentare sia il punto di partenza che il punto di arrivo di un processo di costruzione sociale, in quanto da una parte permette alle donne di prendere coscienza dell’asimmetria esistente, dall’altra le mette in condizione di

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fruire della possibilità di agire e intervenire sulle differenze rilevate dal genere stesso.

L’acquisizione della consapevolezza di poter intervenire su un’asimmetria che si è evoluta storicamente secondo lo stereotipo del carattere dominante maschile e di quello subordinato femminile, è andata consolidandosi parallelamente al crollo degli elementi di stabilità, fiducia e significato su cui si reggevano le certezze in epoche pre moderne. Il contrasto fra tradizione e modernità investe la definizione delle identità di genere, ridisegnandone ruoli e confini: mentre la vita della donna è sottoposta ai grandi cambiamenti conseguenti alla crescita dell’istruzione e dell’occupazione, alla possibilità di controllo della fecondità, all’acquisizione di un’autonomia economica e decisionale, ridisegnando i confini delle identità di genere, la vita dell’uomo è sottoposta a una ridefinizione dei propri confini d’azione, sia rispetto alla sfera lavorativa che a quella emotiva e relazionale.

Nella società contemporanea, il concetto tradizionale di mascolinità ha subito dei cambiamenti in base al ridimensionamento dell’autorità in campo domestico, all’aumento della concorrenza femminile nel mercato del lavoro e alla perdita di stabilità del matrimonio. Ciò ha comportato una graduale modificazione del carattere maschile che si è evoluto parallelamente alla trasformazione del genere femminile: negli uomini, la tendenza a manifestare una maggiore vulnerabilità psicosociale in una situazione di crisi e maggiori difficoltà manifestate nel mantenimento di relazioni di intimità e responsabilità in un contesto di incertezza e fluidità delle appartenenza.

Il processo di ridefinizione dell’identità sia femminile sia maschile, investe le modalità di organizzazione sociale che vengono rimodellate dall’affermarsi dei nuovi modelli culturali emergenti: uno degli ambiti che più degli altri risente di questo duplice processo di trasformazione, è la famiglia, sia dal punto di vista della struttura che dell’organizzazione della vita quotidiana.

In questa situazione di transizione, entrambi i generi sono impegnati in una continua sfida per la ridefinizione della propria identità, ciascuno con diversi punti di partenza e finalità: mentre la donna moglie, madre e manager vede moltiplicarsi i propri impegni sui diversi versanti della vita sociale oltre che familiare, l’uomo vive una vera e propria crisi di ruolo, a cui risponde con atteggiamenti che vanno dalla messa

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in discussione della propria figura, all’impiego di comportamenti violenti con cui cerca di difendersi dalla paura di perdere il proprio potere sulla donna.

Avviene quello che si potrebbe definire lo smarrimento dei maschi. A tal riguardo si può ricondurre il pensiero di Pitch, il quale propone una lettura delle violenza maschile come crisi del patriarcato: “la violenza maschile contro le donne è un indizio non del patriarcato, ma della sua crisi. È adesso, infatti, che la si riconosce come violenza, che la si chiama così, piuttosto che giusto controllo, correzione adeguata, legittimo uso di mezzi di disciplina. […] La storia sembra antica, e certo lo è, ma solo in parte, perché proprio quando, come adesso, le identità, le comunità, si rivelano illusorie, le famiglie inesorabilmente plurali e diversificate, i legami costitutivamente fragili, il controllo diventa violenza esplicita, segno di impotenza e frustrazione, piuttosto che di un senso di autorità legittima4”.

Tale lettura della violenza ha due accezioni distinte: una riguarda il fatto che comportamenti tradizionalmente accettati come espressione di un’autorità riconosciuta vengano al giorno d’oggi percepiti come illegittime violazioni della libertà ed autonomia delle donne; l’altra, invece, si può rimandare alla violenza come espressione di una paura maschile al cambiamento caratterizzato da una perdita di ruolo di dominio. La presenza di questa incapacità da parte degli uomini di accettare ed accogliere l’autonomia e la libertà ormai ampiamente acquisite e praticate dalle donne, si può riscontrare anche nelle parole di Stefano Ciccone, presidente dell’Associazione e Rete nazionale Maschile Plurale:“la stessa costruzione del potere maschile, potere sociale, potere simbolico, potere nelle relazioni si è incrinata sia nel senso che sono entrate in crisi istituzioni maschili che riproducevano privilegio, controllo, autorità ma anche che si è andata esaurendo la loro capacità di conferire identità, di produrre saperi capaci di rispondere alle domande di senso degli stessi uomini5”. In questo contesto di ricerca di nuove identità per molti versi in opposizione a quelle culturalmente e storicamente definite, si configurano dei modelli culturali emergenti che risultano distinti per uomini e donne.

4 In Magaraggia, Cherubini (2013), Uomini contro le donne? Le radici della violenza maschile, Utet, Torino: pag. 41.

5 Ciccone S. (2013) in La differenza maschile come risorsa politica, in Femen, La nuova rivoluzione femminista, a cura di Maria Grazia Turri, Mimesis, Milano, 2013: pag. 67.

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Alla luce delle diverse prospettive che concorrono in modo speculare alla ridefinizione di nuove identità di genere femminili e maschili, si comprendono le ragioni che sono alla base della ricerca di un nuovo modello di interdipendenza tra uomo e donna. Nella contemporaneità, il conflitto interno alla coppia nasce dalla richiesta di un “rapporto simmetrico”, che metta in discussione i ruoli, superandoli e ridefinendoli nel tentativo di far emergere le identità individuali e sociali.

La ricerca di una simmetria all’interno del rapporto di coppia, provoca inevitabilmente una situazione di conflitto, in quanto entrambe le identità competono per essere riconosciute come uniche, e non complementari. Nei casi in cui i due termini del confronto riescono a portare avanti il conflitto in termini costruttivi, è possibile trarne tutti i vantaggi che derivano dal dialogo tra le diversità; nel caso in cui esso venga vissuto in modo competitivo, con l’obiettivo di determinare il detentore del potere all’interno della coppia, il conflitto assume toni distruttivi . Può essere utile porre attenzione sulla persistenza nella nostra società di stereotipi di genere che attribuiscono a donne e uomini aspettative e ruoli tradizionalmente consolidati come caratteristiche innate.

L’etimologia stessa del termine stereotipo è già di per se indicativa delle implicazioni connesse a questo concetto: derivante dal greco stereòs = rigido e tupòs = impronta, il termine stereotipo è usato in tipografia per indicare gli stampi di cartapesta utilizzati per dare forma al piombo fuso.

Il concetto di stereotipo si riferisce a quel sistema di credenze, conoscenze e aspettative che sono espressione del gruppo sociale di appartenenza: queste informazioni contribuiscono a dare forma a una opinione precostituita in contrasto con la rappresentazione esterna reale; in questo senso, lo stereotipo può essere considerato quel determinato insieme coerente e rigido di credenze, che contraddistingue il gruppo che lo condivide, rispetto a un altro gruppo o categorie di persone. Questa rappresentazione schematica della realtà, è spesso corredata da aspetti valutativi e affettivi legati al soggetto delle stereotipo, che evidenziano alla persona che ne è portatrice, quali aspetti siano positivi e quali siano invece irrilevanti o addirittura negativi , rispetto alla realtà stereotipata. Il riconoscimento delle origini culturali dello stereotipo, sottolinea il suo stretto legame con la cultura del gruppo di

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appartenenza, e condiziona le modalità di acquisizione e di utilizzo delle informazioni messe in atto dal soggetto nel processo di comprensione della realtà. L’impiego dello stereotipo, permette quindi di attuare un processo di semplificazione della realtà, secondo modalità stabilite culturalmente che guidano la percezione, evitando che essa avvenga in modo accidentale o sulla base di un’arbitraria percezione individuale; in questo senso, essi possono essere considerati come derivati del processo cognitivo generale della categorizzazione, giacché semplificano e sistematizzano, ai fini di un adattamento cognitivo e comportamentale, l’abbondanza e la complessità dell’informazione che l’organismo umano riceve dall’ambiente in cui è inserito.

Si può parlare di stereotipi sociali nel momento in cui, per mezzo di un processo di diffusione efficace, vengono condivisi da grandi masse di persone , acquisendo omogeneità all’interno del gruppo considerato e una relativa rigidità e resistenza al cambiamento. Questa definizione, sottolinea il significato che lo stereotipo assume rispetto alle dinamiche di incontro tra i gruppi: il processo di categorizzazione implicito nel concetto di stereotipo, permette di mettere in atto un processo di riordino del mondo sociale che, oltre a organizzare e comprendere la realtà, comporta raggruppamenti ed esclusioni che influenzano il processo di conoscenza.

Da quanto detto emerge come il concetto di stereotipo sia strettamente connesso con quello di pregiudizio, generalmente con una connotazione negativa che diventa spesso causa di discriminazione.

L’immagine stereotipata ha effetti sulla formazione delle identità e delle capacità delle persone, a un punto tale che può anche arrivare ad influenzare e a bloccare lo sviluppo delle potenzialità dell’individuo, fino a condizionare lo sviluppo della sua personalità. Il confronto con lo stereotipo entro il quale è stato automaticamente inquadrato dalla società, può provocare il blocco di quella parte dell’individuo che non si conforma alle aspettative, esercitando su di esso una duplice pressione, che consiste nell’incoraggiare la persona ad assumere comportamenti coerenti con lo stereotipo entro il quale è inquadrata, e nel sanzionare i comportamenti che non si confanno con lo stereotipo relativo al gruppo di appartenenza.

La pericolosità degli stereotipi consiste nella loro capacità di persistere nel tempo: infatti, la semplicità di queste immagini semplificate della realtà, fa sì che esse siano

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tramandate di generazione in generazione, mantenendo spesso in vita concetti di per sé già superati dalle leggi e dalla cultura.

L’altro aspetto che ne incentiva la persistenza nel tempo, consiste nel senso di rassicurazione che inducono in coloro che, inconsciamente, li mantengono attivi: dinanzi al confronto con una realtà complessa e mutevole nel tempo, gli stereotipi ne restituiscono una visione parziale e inalterata che, ben lungi dall’essere una visione completa del mondo, ha il vantaggio di far sentire le persone a proprio agio, in quanto le colloca in un ambiente limitato, familiare, in cui potersi comportare secondo certe previsioni.

In particolare, lo stereotipo di genere, essendo basato sulle credenze rispetto agli attributi personali di una determinata categoria sociale, ovvero le donne, implica specifiche aspettative culturali rispetto ai due generi in termini di personalità, apparenza, occupazione, competenze, abilità, interessi: in altre parole, si può affermare che esso funzioni come una sorta di lente deformante, che distorce e reinterpreta la realtà sulla base delle credenze e delle aspettative sulle quali si basa. La maggioranza delle persone subisce i condizionamenti dettati dagli stereotipi, associando determinate attività piuttosto che determinati comportamenti o atteggiamenti all’uomo piuttosto che alla donna. Questa forma di classificazione, viene creata dalla società nel momento in cui la sessualità biologica viene trasformata in prodotto dell’attività umana e inglobata all’interno del sex-gender system, ovvero in quell’insieme di processi, adattamenti, modalità di comportamento e di rapporti, sulla base dei quali si organizza la divisione dei compiti tra gli uomini e le donne .

Il consolidarsi e il persistere degli stereotipi, ha fatto sì che essi venissero riconosciuti come caratteristiche biologiche specifiche dei due generi: le caratteristiche del ruolo prescritto, finiscono così per divenire elementi fondanti delle identità sociale e personale, contribuendo a confermare e a rendere ancora più rigide le identità di genere. Questo meccanismo svuota di significato le persone in quanto tali, e le riconosce solo in relazione alla categoria nella quale rientrano.

Lo stereotipo di genere nasce da una lunga tradizione culturale che ha identificato il genere femminile con una serie di caratteristiche che hanno mantenuto il loro valore

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simbolico, nonostante i processi di modernizzazione abbiano modificato le condizioni degli uomini e delle donne e le strutture del mercato.

Alla base di questa concezione si colloca un’idea di differenza, tra uomo e donna vista come mancanza, minorità ed imperfezione della donna ed in quanto tale regolata da una normativa giuridica espressione di una distribuzione diseguale del potere.

La duplice valenza generale degli stereotipi, dotati allo stesso tempo di funzione sia descrittiva che normativa, risulta evidente nel caso particolare degli stereotipi di genere: essi infatti non solo definiscono ciò che è una persona, ma anche ciò che dovrebbe essere, assumendo in questo modo funzione normativa in quanto, sulla base delle aspettative legate ai comportamenti maschili e femminili, indica un certo comportamento come idoneo ad un genere piuttosto che a un altro.

Le caratteristiche relative a razionalità ed emotività continuano ad essere rispettivamente associati all’uomo e alla donna: controllo, capacità d’azione, efficacia, efficienza, competenza, forza, autostima intellettuale, autoaffermazione, ambizione sono considerati attributi maschili; capacità comunicativa, affettività, preoccupazione per gli altri, irrazionalità, volubilità sono attribuiti alla figura femminile.La forza fisica è considerata indice di virilità ed è associata a sicurezza, coraggio, decisione, mentre la femminilità è legata a sentimenti e atteggiamenti quali delicatezza, dolcezza, tenerezza, soavità, armonia nelle forme e nei comportamenti. Nell’uomo i processi di costruzione dell’identità si basano sulla sua capacità di concentrare la propria emotività su di sé; nella donna, la definizione di sé avviene nella relazione nella connessione emotiva con gli altri. L’autonomia di pensiero, la capacità di prendere decisioni, il controllo delle situazioni, sono associate all’individuo adulto uomo; al contrario, la necessità di protezione viene ascritta alla donna, che da questo punto di vista è associata al bambino, anche se adulta.

Alla donna viene assegnata la gestione della sfera relazionale intima, mentre riserva all’uomo la sfera relazionale pubblica;

Il retaggio di una cultura patriarcale legata all’idea del possesso rispetto alla donna, troppo spesso riconosciuta solo in quanto oggetto dei desideri e dei bisogni dell’uomo, è ancora oggi alla base di quella cultura generale, che associa all’uomo l’attività dell’ingegnere piuttosto che alla donna, e che fa ritenere come ovvia e

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scontata la dedizione della donna alla casa e alla famiglia, nonostante i cambiamenti sociali abbiano aumentato la percentuale di interscambio tra le funzioni precedentemente ritenute appannaggio esclusivo di lei piuttosto che di lui.

La resistenza al cambiamento mostrata dagli stereotipi si verifica in quanto, una volta prodotti nell’ambito di una determinata società, essi tendono ad essere mantenuti e alimentati, anche quando cambiano le condizioni culturali e sociali che ne hanno determinato l’affermazione.

1.3 Violenza di genere

Nel paragrafo precedente abbiamo visto come, la facilità delle categorizzazioni e delle semplificazioni connesse agli stereotipi di femminilità e mascolinità, sono radicati nella cultura, in quanto hanno radici antiche e sono ampiamente condivise dalla società e dalle agenzie di socializzazione (tra le quali, un ruolo di primo piano, oltre che dalla famiglia, è svolto dalla scuola e dai mass-media ): a partire dal momento della nascita, il sesso inizia a condizionare la funzione e la posizione dell’individuo nei confronti della società.

Il modello di discriminazione della donna è strettamente collegato ad una cultura di genere asimmetrica, che si manifesta nella quotidianità della vita della donna assumendo diverse forme, sia a livello psicologico che fisico. Le radici di questo modello affondano nelle dinamiche relative alla divisione dei ruoli e ai riferimenti di valore ad essi collegati, oltre che a quelle relative alla strutturazione dei medesimi. Una delle manifestazioni più evidenti di questo modello di discriminazione sociale è costituito dalla violenza di genere, “le cui origini affondano in quel sistema di valori, abitudini e tradizioni connesse alla cultura del predomino maschile e quindi ad una presunta superiorità di un sesso sull’altro e sul sistema di disuguaglianze di genere da esso derivate “(Preambolo Dichiarazione sull’Eliminazione della Violenza, 1993). A causa della stretta relazione con l’organizzazione strutturale basata sui ruoli femminile/maschile, le diverse forme della violenza di genere, si inseriscono facilmente nella quotidianità della vittima, che in molti casi rischia di non riconoscerla come tale, facendo sì che essa si sedimenti all’interno delle dinamiche di vita quotidiane. A causa infatti della stretta connessione con la dimensione valoriale e culturale basata sulla differenza di potere tra i due sessi e dal persistere di un

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retaggio patriarcale, accade spesso che la violenza di genere venga riconosciuta e ammessa con molta difficoltà sia dall’autore che dalla vittima. Questa sorta di ritrosia fa sì che in molti casi la vittima tenda a non dichiarare il disagio subito, rendendo ancora più difficile qualsiasi forma di intervento diretto ad eliminare il fenomeno. La connessione tra questo fenomeno e il modello di discriminazione che ha guidato l’evoluzione del rapporto tra i sessi nel corso della storia, emerge in tutta la sua gravità se si osserva che la violenza contro le donne ha attraversato l’evoluzione della società, adattandosi e modellandosi rispetto al contesto storico e riproponendosi continuamente sotto forme diverse.

Nonostante i processi di modernizzazione, il cammino di emancipazione sociale, l’aumento del benessere economico e i meccanismi di difesa e salvaguardia dei diritti umani messi in campo a livello globale, ancora oggi la violenza di genere continua a manifestarsi non meno di ieri.

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1.4 Definire la violenza contro le donne.

La violenza contro le donne è un fenomeno che ha origini antiche, è un problema complesso e universale perché si presenta in tutte le culture ed è trasversale perché coinvolge donne di ogni classe sociale, di ogni livello di reddito e di istruzione. E’ una delle violazioni dei diritti umani più diffuse, che nega alle donne il diritto all’uguaglianza, alla sicurezza, alla dignità, all’autostima e al loro diritto di godere delle libertà fondamentali.

Parlare della violenza sulle donne è difficile per diverse ragioni. Prima di tutto, non esiste una definizione universalmente accettata di cosa intendiamo con il termine “violenza contro le donne”. E’ importante esaminare le diverse definizioni che si sono susseguite per delineare il fenomeno della violenza, poiché nel corso del tempo vi sono state delle modifiche dettate dal contesto storico, dalla percezione del problema e dagli studi di settore.

Infatti, sebbene sia relativamente facile definire cosa sia la violenza, non lo è altrettanto trovare una definizione univoca che riguardi, nello specifico, la violenza agita contro le donne.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la violenza nel 1996 come “l’utilizzo intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se

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stessi, un’altra persona, o contro un gruppo o una comunità, che determini o che abbia un elevato grado di probabilità di determinare lesioni, morte, danno psicologico, cattivo sviluppo o privazione”.

In tutte le sue forme, la violenza appare come una manifestazione di un esercizio di potere che si esprime attraverso l’uso della forza che può essere fisica, psicologica, economica o politica e implica l’esistenza di un “autore” e di una “vittima” che adottano abitualmente la forma di ruoli complementari come quella di padre-figlio, uomo-donna, etc.

Il primo organismo internazionale che si è occupato di stilare una prima definizione sulla violenza contro le donne è stata l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1993.Nell’art. 1 della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne nomina la violenza per indicare «ogni atto di violenza fondato sul genere che comporti o possa comportare per la donna danno o sofferenza fisica, psicologica o sessuale, includendo la minaccia di questi atti, la coercizioni o privazioni arbitrarie della libertà, che avvengono nel corso della vita pubblica o privata1».Questa definizione rappresenta un punto di riferimento fondamentale per il fenomeno in questione, non solo perché per la prima volta un ente internazionale è intervenuto nel riconoscere la gravità e l’emergenza del problema riguardante la violenza sulle donne come una violazione dei diritti e delle libertà fondamentali, ma perché da questa definizione si è sviluppato in seguito il dibattito sulle cause di tale violenza e su quali siano le strategie di intervento più efficaci.

Inoltre, nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’Eliminazione della Violenza contro le donne veniva anche dichiarato che “tale violenza è una delle relazioni di potere storicamente diseguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne”. Tale dichiarazione continua inoltre affermando che “la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini6”.

La definizione sopra riportata fa riferimento al genere con il termine in lingua originale “gender-based violence” con il quale ci si riferisce a quell’insieme di violenze agite dagli uomini sulle donne in quanto donne cioè madri, mogli,

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compagne, figlie e sorelle. La violenza trova origine in sistemi sociali e culturali fortemente segnati da rappresentazioni e percezioni del femminile come subalterno e/o antagonista e dalla fruibilità, cioè dalla legittimazione sociale, per gli uomini dell’uso della violenza come risorsa per affrontare conflitti e disagi personali7.

A livello globale, il problema della violenza maschile più diffuso per le donne sono le violenze che si verificano nelle relazioni di intimità.

Con “violenza maschile contro le donne nelle relazioni di intimità” si intendono le violenze che avvengono ad opera di partner o ex partner, quindi all’interno di una relazione amorosa/sessuale qualunque ne sia il livello di intensità e a prescindere dalla convivenza8. Nella definizione dell’ONU elaborata nel 1993 è evidente il collegamento esistente tra la violenza e il genere, dove il termine genere non indica solo l’appartenenza biologica di un autore di sesso maschile nei confronti di una vittima di sesso femminile, ma vede nella differenza di potere tra i generi una causa fondamentale del fenomeno e una conseguenza dello stesso. Per questo collegamento tra violenza e genere e per l’utilizzo il termine “gender-based violence”, la definizione dell’ONU viene spesso cambiata da “violenza sulle donne” a “violenza di genere”.

La Dichiarazione oltre a definire entra in merito alle varie forme e tipologie di violenza sulle donne affermando all’art. 2 che “la violenza dovrà comprendere, ma non limitarsi, a quanto segue:

a) La violenza fisica, sessuale,e psicologica che avviene in famiglia, incluse le percosse, l’abuso sessuale delle bambine nel luogo domestico, la violenza legata alla dote, lo stupro da parte del marito, le mutilazioni genitali femminili e altre pratiche tradizionali dannose per le donne,la violenza non maritale e la violenza legata allo sfruttamento;

b) La violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene all’interno della comunità nel suo complesso, incluso lo stupro, l’abuso sessuale, la molestia sessuale e l’intimidazione sul posto di lavoro, negli istituti educativi e altrove, il traffico delle donne e la prostituzione forzata;

7 Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla Eliminazione della Violenza contro le Donne, Risoluzione dell’Assemblea Generale, dicembre 1993.

8 Creazzo G., Bianchi L., (2009), Uomini che maltrattano le donne: che fare? Sviluppare.strategie di intervento con uomini che usano violenza nelle relazioni di intimità, Carocci editore, Roma, p. 17

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c) La violenza fisica, sessuale e psicologica perpetrata o condotta dallo stato, ovunque essa accada.”

Alcuni anni più tardi nel 1996 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) prova a delineare una delle prime definizioni di violenza domestica intesa come “ogni forma di violenza fisica, psicologica, o sessuale che riguarda tanto soggetti che hanno, hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima di coppia, quanto soggetti che all’interno di un nucleo familiare più o meno allargato hanno relazioni di carattere parentale o affettivo”.

Successivamente nel 2002, l’OMS ha pubblicato il primo rapporto mondiale denominato “Violenza e Salute”9.

In questo documento identifica i vari tipi di violenza in base alle caratteristiche del soggetto agente, individuando fondamentalmente tre tipi di violenza: la violenza auto inflitta, la violenza interpersonale e la violenza collettiva. La violenza interpersonale, che maggiormente ci interessa in questa sede, si suddivide a sua volta in due sottocategorie: la violenza familiare e del partner e la violenza nella comunità. Per violenza familiare e del partner s’intendono tutti gli atti di violenza compiuti tra membri della famiglia e tra partner, solitamente anche se non esclusivamente tra le mura domestiche, in questa categoria collochiamo forme di violenza quali l’abuso nei bambini, la violenza da parte del partner e l’abuso sugli anziani. Il Rapporto dell’OMS del 2002 offre una definizione specifica di violenza da parte del partner ,con la quale “si intende qualsiasi comportamento all’interno della relazione di coppia che provochi danno fisico, psicologico o sessuale ai soggetti della relazione. Tali comportamenti comprendono:

a) Atti di aggressione fisica: schiaffi, pugni, calci e percosse;

b) Abuso psicologico: intimidazione, svalutazione e umiliazioni costanti; c) Rapporti sessuali forzati e altre forme di coercizione sessuale;

Diversi atteggiamenti di controllo: isolare la persona dalla sua famiglia di origine e dagli amici, controllarne i movimenti e limitare le sue possibilità di accesso a informazioni o assistenza.

Quando l’abuso viene ripetutamente perpetrato nell’ambito della stessa relazione, si parla di maltrattamento”.

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Anche l’Unione Europea all’interno delle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa10 parla della violenza contro le donne specificando che la violenza domestica rappresenta la forma più diffusa tra le varie violenze agite contro le donne e che la lotta alla stessa rappresenta una priorità per l’Unione Europea. Negli ultimi anni, una serie di normative europee, garantiscono protezione contro il fenomeno della violenza contro le donne. In particolare, la Direttiva dell’UE sulle vittime11, adottata nel 2012, stabilisce quali siano gli standard minimi in materia di diritti, protezione e assistenza delle vittime di reati nell’UE e si riferisce nello specifico alle vittime di violenza di genere.

Inoltre, la Convenzione di Istanbul12, adottata nel 2011, è il primo strumento giuridicamente vincolante ad affrontare dettagliatamente le diverse forme di violenza contro le donne, come la violenza psicologica, i comportamenti persecutori (stalking), la violenza fisica, la violenza sessuale e le molestie sessuali.

1.5 Le tipologie di violenza

La violenza sulle donne si manifesta spesso con varie modalità, sebbene la violenza fisica sia la più facile da riconoscere, la violenza si presenta anche sotto altre forme che diventano spesso plurime ed intrecciate tra di loro.

1.5.1 Violenza fisica

E’ la violenza “sporca”, con la quale il violento lascia sul corpo della donna il marchio del proprio dominio. Comprende l'uso di qualsiasi azione finalizzata a far male e spaventare. Si va dall'aggressione fisica grave, che causa ferite che richiedono cure mediche di emergenza, ad ogni contatto fisico che miri a spaventare e controllare la vittima.

Si parla di violenza fisica anche quando ci riferiamo a quegli atti utilizzati dall’uomo con lo scopo di terrorizzare la donna e perciò di tenerla sotto controllo. Alcuni

10 Liz Kelly, (2008) Combating violence against women: minimum standards for support services, Strasbourg, Concil of Europe on line https://www.coe.int/t/dg2/equality/domesticviolencecampaign/Source/EG-VAWCONF(2007)Study%20rev.en.pdf;

11 Direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI;

12 Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica è stata adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011 ed è stata aperta alla firma l’11 maggio 2011, in occasione della 121ª Sessione del Comitato dei Ministri a Istanbul.

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esempi sono urla, aggressioni verbali, intimidazioni, minacce, rottura di oggetti, spintonare, tirare i capelli, esibire un’arma o un coltello, tenere la donna chiusa in una stanza o dentro un’auto.

La violenza fisica può configurare, oltre ai casi più gravi di omicidio, che può essere volontario (art. 575 c.p. e 577 c.p. per aggravante del rapporto di coniugio), preterintenzionale (art.584 c.p.) o colposo (art.585 c.p.). Può manifestarsi con il reato di lesioni gravissime, gravi e lievi (art.582 c.p. e 583 c.p.), percosse (art.581 c.p.), maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.).

1.5.2 Violenza psicologica

Può manifestarsi da sola, ma è sempre presente anche in tutte le altre forme di violenza. E’ la prima ad apparire e senza di essa non sarebbe possibile l’implementazione delle altre forme di violenza. E’ la violenza “pulita”, invisibile agli occhi inesperti e spesso anche a quelli della vittima che finisce per guardarsi con gli occhi del partner violento. Comprende abusi psicologici come intimidazioni, umiliazioni pubbliche o private, continue svalutazioni, ricatti, controllo delle scelte individuali e delle relazioni sociali fino al completo isolamento, violenze contro gli animali domestici o verso oggetti personali di valore affettivo per la donna.

La violenza psicologica rappresenta l’arma forse più efficace per mantenere il controllo della relazione e della donna stessa. E’ molto difficile da riconoscere sia da parte delle donne stesse che la subiscono ma anche da parte della collettività, poiché certi comportamenti vengono ritenuti “normali” all’interno di qualsiasi coppia. La violenza psicologica può configurare i reati di ingiurie (art. 594 c.p.), di minacce (art.612 c.p.), di violenza privata (art. 610 c.p.), di maltrattamenti contro i familiari quando le vessazioni sono abituali (art.572 c.p.) e nei casi più gravi si può arrivare al reato di sequestro di persona (art. 605 c.p).

1.5.3 Violenza sessuale

L’OMS definisce violenza sessuale:

“Qualsiasi atto sessuale, o tentativo di atto sessuale, commenti o avances sessuali non desiderate, o traffico sessuale, contro una persona con l’uso della coercizione: Questa violenza può essere messa in atto da qualsiasi persona indipendentemente

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dalla relazione che ha con la vittima, in qualsiasi ambito incluso quello familiare e del lavoro. Altre forme di violenza sessuale consistono in:

Matrimoni forzati o coabitazioni, incluso il matrimonio di bambini - Impedire l’uso di contraccettivi per la protezione dalle malattie sessualmente trasmesse - Aborto forzato - Mutilazioni genitali o visite per verificare la verginità- Prostituzione forzata o traffico di persone.

Per coercizione si intende, oltre quella fisica, l’intimidazione, le minacce, o situazioni nelle quali la persona non può dare un consenso perchè, sotto l’effetto di sostanze, oppure per disabilità psicofisica, o in quanto incapace di comprendere la situazione, come nel caso di abuso di minori”.

Il riconoscimento della violenza sessuale all'interno della relazione di coppia risulta difficile a causa di radicate convinzioni circa i “doveri coniugali” ed è opportuno evidenziare che, con lo sviluppo delle tecnologie, la violenza sessuale nell’ambito di una relazione di coppia può assumere nuove sfaccettature (ad esempio la diffusione in rete di immagini intime della donna da parte del partner).

Quando parliamo di violenza sessuale, gran parte delle persone pensa che lo stupro sia compiuto da uno sconosciuto al di fuori dell’ambiente domestico. I dati raccolti però descrivono una realtà diversa: la maggior parte delle violenze sessuali avviene tra le mura domestiche e sono perpetrate non solo da mariti e conviventi ma anche da persone di fiducia della donna.

La violenza sessuale è punita dagli art. 609 del c.p. e seguenti,che sono stati introdotti dalla legge 66/1996 . La legge 119/2013 ha introdotto l’aggravante dello stato di gravidanza della parte offesa, dell’essere o essere stata coniugata o legata da una relazione affettiva, anche senza convivenza, nonché della minore età della vittima quando il colpevole ne sia l’ascendente, il genitore anche adottivo o il tutore.

1.5.4 Violenza economica

E’ difficile da rilevare e ne sono poco consapevoli anche le vittime. Comprende forme di controllo economico come il sottrarre o impedire l'accesso al denaro o ad altre risorse basilari, sabotare il lavoro della vittima, impedire opportunità educative o abitative. Tale forma di violenza riguarda tutto ciò che concorre a far sì che la donna sia costretta in una situazione di dipendenza e/o non abbia i mezzi economici

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per soddisfare i propri bisogni di sussistenza e quelli dei figli. Tali strategie la privano della possibilità di decidere autonomamente e rappresentano uno degli ostacoli maggiori nel momento in cui la donna vuole denunciare la violenza e si sente pronta per uscire dalla situazione di maltrattamento.

La condotta della violenza economica può configurare il reato di violenza degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.), maltrattamenti contro famigliari e conviventi (art.572 c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.).

1.5.5 Comportamento persecutorio (stalking)

Il termine deriva dal verbo inglese to stalk, che nel gergo venatorio indica il comportamento del cacciatore che con il segugio fa la posta alla preda. In italiano viene anche definita “sindrome del molestatore assillante”. E’ un tipo di violenza, solo da pochi anni riconosciuta a livello normativo, che generalmente si manifesta quando la donna decide di interrompere la relazione. Consiste in una serie di comportamenti anomali e fastidiosi, costituiti da comunicazioni intrusive (telefonate continue, SMS, e-mail, invio di fiori o regali, ecc.) e comportamenti volti a controllare la vittima (pedinamenti, appostamenti nei luoghi di vita della donna, minacce, ecc.). E’ un fenomeno che spesso precede l’omicidio o il tentato omicidio della donna stessa.

E’ definibile come “un insieme di comportamenti persecutori, sotto forma di minaccia, molestia, atti lesivi continuati che inducono nella persona che le subisce un disagio psichico e fisico e un ragionevole senso di timore”.. Gli effetti possono essere molti: nella donna viene minato il senso dell’autostima e dell’indipendenza facendola sentire “in trappola”; molte donne riportano disturbi del sonno, difficoltà a concentrarsi fino ad arrivare, nei casi più estremi, a depressioni croniche.

Lo stalking, è divenuto con la Legge n. 38 del 2009 un reato. L’612 bis punisce gli atti persecutori. Altre norme prevedono misure a tutela della vittima, quali il divieto ad avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima o ai suoi familiari e di comunicare con loro.

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1.5.6 Violenza a matrice religiosa.

Si verifica nelle coppie miste e consiste nel ledere la sfera spirituale della donna non permettendole di esercitare le pratiche della sua fede religiosa oppure imponendole le proprie.

1.6 Violenza Assistita.

Il CISMAI13 definisce la violenza assistita come “l’esperire da parte del bambino/a qualsiasi forma di maltrattamento compiuto, attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte o minori. Il bambino può farne esperienza direttamente (quando avviene nel suo campo percettivo) o indirettamente (quando il minore è a conoscenza della violenza) e/o percependone gli effetti. Si include anche l'assistere a: violenze di minori su altri minori e/o su altri membri della famiglia e abbandoni e maltrattamenti di animali domestici”.

Questo tipo di violenza condiziona lo sviluppo psicobiologico dei bambini e delle bambine e mette a serio rischio la loro salute psichica e fisica. La violenza assistita è una forma di maltrattamento che può determinare effetti a breve, medio e lungo termine e può causare la trasmissione della violenza tra le generazioni. Essa, inoltre, aumenta il rischio di violenza diretta sui figli, che è un ulteriore modo per aggredire la madre. Assistere alla violenza in famiglia, tra importanti figure di riferimento, per bambini e ragazzi è un’esperienza che segna profondamente la loro vita, per le forti e traumatizzanti emozioni suscitate. Non solo vedere la violenza, ma anche sentirne i rumori od il solo sapere che determinate cose avvengono hanno effetti devastanti sui bambini. Essi strutturano, per far fronte alla situazione, meccanismi di difesa rigidi spesso causa di evoluzioni disfunzionali o patologiche in età adulta, se non intervengono fattori di protezione capaci di moderare gli effetti dei traumi subiti. Il rapporto adulto-bambino è sempre caratterizzato, inevitabilmente, da una condizione di netta asimmetria.

Tale asimmetria costituisce il più radicale fattore di protezione per il bambino (l’adulto mette a sua disposizione tutte le conoscenze, competenze ed abilità che possiede), ma paradossalmente contiene in sé importanti fattori di rischio. Il

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bambino/a che assiste alla violenza è coinvolto/a in dinamiche complesse che espongono, tanto sul piano relazionale quanto su quello emotivo, a situazioni deleterie per il suo normale sviluppo psicosociale. Le più frequenti sono riassunte nella tabella che segue.

Tab. n1-Dinamiche della violenza assistita a livello relazionale ed emotivo

A LIVELLO RELAZIONALE A LIVELLO EMOTIVO

E’ costretto a subire l’irritabilità paterna paura - impotenza perché assiste a scene terrorizzanti

E’ costretto a subire gli effetti dello stress materno

ansia perché preoccupato per la propria sicurezza e per quella degli altri familiari

E’ utilizzato dal padre a scopo di controllo o di maltrattamento

rabbia – segreto e vergogna sia verso chi compie la violenza sia verso chi avrebbe dovuto proteggerlo

E’ utilizzato dalla madre a scopo di auto protezione

RABBIA - tristezza – impotenza - senso di responsabilita’ per gli adulti per aver visto la madre maltrattata E’ educato con pratiche rigide, permissive o

confuse

rabbia, sconforto ed impotenza perché la situazione che vive gli appare senza speranza

E’ trascurato a causa della distrazione dei genitori dai bisogni dei figli

delusione e sfiducia perché tradito da coloro che avrebbero dovuto proteggerlo

E’ costretto in ruoli familiari invertiti (bambino partner della madre, bambino genitore dei genitori o bambino genitore dei fratelli)

vergogna e senso di colpa

perché si ritiene privilegiato rispetto alla madre maltrattata o responsabile del litigio all’origine della violenza Fonte: Confronto ed elaborazione di modelli operativi integrati per intervenire sulla violenza di genere. Corso di Formazione- Associazione Artemisia. Anno 2011

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Nella situazione cosiddetta di normalità, infatti, l’adulto viene percepito dal bambino come la fonte sicura del proprio benessere e del proprio futuro. Quando, al contrario, l’adulto è vissuto come un pericolo, sulla base di esperienze dolorose sia subite che assistite, il bambino cade nella confusione e nello smarrimento, diventando incapace di trovare punti di riferimento su cui contare e a cui affidarsi. Il padre violento diventa fonte di paura, smette di essere un modello o diventa un modello negativo (identificazione con l’aggressore). Anche una madre che non protegge, perché non fa cessare le violenze, provoca sentimenti pesanti nei figli, di rifiuto, delusione e/o di eccessiva responsabilizzazione (sono i figli/e che spesso cercano di impedire le violenze e tentano di proteggere la madre).

Il bambino cresce in un clima di tensioni, pesante e cupo, dove la violenza diventa pervasiva, blocca l’espressione emotiva, trasmette un senso di insicurezza e toglie la possibilità di fidarsi ed affidarsi all’altro.

Le aree di sviluppo più compromesse sono: il legame di attaccamento , l’adattamento e le competenze sociali, il comportamento, le abilità cognitive e il problem solving ed il rendimento scolastico.

L’ entità delle alterazioni, qualsiasi forma assumano, si definisce in rapporto a: il perdurare della violenza nel tempo - la compresenza di più forme di violenza nell’ambito di una sistematica strategia di controllo e isolamento

La violenza crea gravi danni alle persone e alle relazioni familiari, indebolendo fortemente il legame madre (vittima) e bambino (spettatore). Le donne faticano a riconoscere gli effetti che le violenze da loro subite possono avere sui figli e la loro capacità protettiva viene meno, ma ciò non significa necessariamente che siano “cattive madri”. La frequenza con cui alcune manifestazioni sintomatiche ricorrono nella violenza assistita ha permesso di individuare alcuni indicatori, facilmente riconoscibili in ambito scolastico come irregolarità nella frequenza scolastica, problemi alimentari , ostilità nei confronti dell’autorità o eccessiva reattività o al contrario comportamenti compiacenti e passivi, violenza verso i compagni e difficoltà a giocare con loro, passività, sottomissione, ritiro sociale, eccessiva attenzione nel voler essere “bravi bambini/e”, difficoltà di concentrazione, ricerca continua dell’attenzione dell’adulto e adultizzazione precoce.

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Altri indicatori si possono individuare in ritardi nello sviluppo psicomotorio, nel controllo sfinterico, nelle capacità cognitive, autolesionismo, distruttività, apparente incapacità di evitare i pericoli e disturbi del sonno .

Si tratta di manifestazioni aspecifiche riconducibili anche a causalità diverse dalla violenza assistita. Tuttavia, quando si presenta la batteria sintomatica è opportuno indagare sempre per escludere la violenza.

La fenomenica delle alterazioni varia in rapporto all’età in cui il minore si trova esposto alla violenza, comunque possono essere complessivamente riassunte come segue.

Tab. n2-Alterazioni del bambino che assiste alla violenza domestica nell’area emotiva,cognitiva,relazionale, fisica e del comportamento.

AREA ALTERAZIONI

EMOTIVA ansia – depressione – bassa autostima – ritiro emotivo accessi di collera – immaturità

COGNITIVA ritardo dello sviluppo – difficoltà scolastiche deficit dell’attenzione – povertà del linguaggio

RELAZIONALE aggressività – scarsa capacità di empatizzare

ritiro sociale – adultizzazione precoce FISICA inadeguato sviluppo psicomotorio – disturbi del

sonno e dell’alimentazione – somatizzazioni COMPORTAMENTO crudeltà verso gli animali – iperattività – acting out

fughe – delinquenza – uso di alcol e altre sostanze Fonte: Confronto ed elaborazione di modelli operativi integrati per intervenire sulla violenza di genere. Corso di Formazione- Associazione Artemisia.

1.6.1 Le conseguenze trans-generazionali

Le conseguenze che derivano dalla violenza assistita producono effetti anche sulle generazioni successive integrandosi, pertanto, nell’ambito di un modello transgenerazionale. I bambini che assistono alla violenza che il padre usa per esercitare il controllo, per affrontare i problemi e risolvere i conflitti, finiscono per vedere la violenza come una modalità di relazione efficace e, contemporaneamente,

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non hanno l’opportunità di imparare la negoziazione o altri modelli pacifici di risoluzione dei conflitti. Questi bambini, se la situazione violenta perdura, imparano che è normale subire botte o disprezzo nelle relazioni affettive, quindi vengono compromessi nel loro modo di rapportarsi con la vita, i sentimenti e gli altri ed abituati a minimizzare e negare la sofferenza provata. La relazione abusante vissuta come normalità può indurre il bambino ad interpretare la violenza come espressione di virilità e la bambina ad accettare la passiva rassegnazione. Diventati adulti, questi bambini e bambine traumatizzati cronicamente, hanno alte probabilità di non riconoscere come negative relazioni affettive che possano riprodurre il modello relazionale a loro familiare. La violenza subita e/o assistita da piccoli aumenta il rischio che il modello dell’abuso venga riprodotto da adulti, sia nel ruolo del maltrattante che in quello della vittima. Transizioni familiari violente possono produrre sistemi di attaccamento disorganizzati che impediscono un contatto e una gestione funzionale dei propri sentimenti e delle proprie paure con effetti di disregolazione sul piano psicobiologico, che stanno alla base di possibili disagi psichici in età adulta.

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CAPITOLO II: DINAMICHE DELLA RELAZIONE

VIOLENTA

2.1 Conflitto e maltrattamento

L’espressione violenza di genere si riferisce al fenomeno della violenza perpetrata contro le donne tanto a livello interpersonale, nelle relazioni intime o nella comunità, quanto a livello collettivo, con connotazioni politiche, sociali ed economiche.

Per violenza domestica si intende ogni forma di violenza psicologica, fisica, sessuale, economica e di persecuzione attuata, tentata o minacciata, che comporti o meno danno fisico agita all’interno di una relazione intima presente o passata.

Tab. n3-Saper distinguere il maltrattamento Il MALTRATTAMENTO (VD)

E’

Il MALTRATTAMENTO (VD) NON E’

 una asimmetria di potere: il violento è in una posizione stabile di prevaricazione sulla donna che è relegata in posizione subalterna e deve subire la sua volontà;

 un mancato riconoscimento dell’altra: la donna non è riconosciuta nei suoi diritti, bisogni, desideri, idee e progettualità;

 la negazione della reciprocità: il violento decide, sceglie e impone senza alcun confronto o ricerca di condivisione;

 abuso della fiducia riposta nel partner da parte della donna

 una manifestazione di aggressività occasionale non legata ad una posizione di potere asimmetrica cristallizzata;

 un conflitto tra posizioni, opinioni o interessi contrapposti che può dar luogo a contrasti più o meno accesi, ma sempre nel riconoscimento dell’altra come persona

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