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Psicopatologia e funzionamento familiare: una ricerca su pazienti e familiari durante il ricovero ospedaliero

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Academic year: 2021

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INDICE

Abstract ... 1

Introduzione ... 2

I DISTURBI MENTALI ... 4

1.1 Psicopatologia dei disturbi mentali ... 4

1.2 I Disturbi depressivi e bipolari: aspetti clinici ... 8

1.2.1 Eziologia e cenni di trattamento ... 12

1.3 I disturbi dello spettro della schizofrenia: aspetti clinici ... 15

1.3.1 Eziologia e cenni di trattamento ... 18

1.4 Disturbi da dipendenza e correlati all’uso di sostanze: aspetti clinici ... 20

1.4.1 Eziologia e cenni di trattamento ... 23

FAMIGLIE E PSICOPATOLOGIA ... 27

2.1 Modelli di funzionamento familiare ... 27

2.2 Famiglia e psicopatologia ... 36

2.2.1 Funzionamento familiare nei disturbi depressivi e bipolari ... 42

2.2.2 Funzionamento familiare nei disturbi dello spettro della schizofrenia ... 45

2.2.3 Funzionamento familiare nei disturbi correlati all’uso di sostanze ... 47

2.3 Il carico assistenziale nelle famiglie e le reti sociali ... 51

LA RICERCA ... 57 3.1 Obiettivi e ipotesi ... 57 3.2 Materiali e metodi ... 58 3.3 Risultati ... 64 3.4 Discussione ... 74 3.5 Conclusioni ... 77 Bibliografia ... 79

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A

bstract

La letteratura sul funzionamento familiare nei disturbi mentali si è concentrata sull’influenza delle relazioni familiari nella psicopatologia o sull’impatto dei disturbi mentali sulla vita familiare e sul carico assistenziale. Queste due prospettive non sono incompatibili, ma esiste un’influenza reciproca tra il funzionamento familiare e la psicopatologia. Comprendere queste associazioni tra il funzionamento familiare e le differenti percezioni in relazione alla psicopatologia, è un punto di partenza importante per strutturare un intervento psicoeducativo.

Questa ricerca ha l’obiettivo di valutare, attraverso l’ultima versione del questionario FACES IV, la percezione del funzionamento familiare da parte di pazienti con disturbi mentali e i loro caregiver. A tal fine sono stati reclutati due campioni: il primo composto da 26 pazienti afferenti all’Unità Funzionale del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Azienda U.S.L. 5 di Pisa; il secondo è composto dai rispettivi

caregiver di cui solo 20 hanno accettato di partecipare al presente lavoro. Il

funzionamento familiare è percepito dalla maggior parte dei soggetti di entrambi i campioni come orientato verso la salute; tuttavia, i pazienti percepiscono un maggiore disimpegno nel funzionamento familiare rispetto ai caregiver. Inoltre, sono state valutate le associazioni tra sintomatologia, supporto sociale e funzionamento familiare, e tra funzionamento familiare e carico assistenziale percepito dal caregiver. I risultati mostrano una correlazione tra queste variabili: il carico assistenziale aumenta quando la coesione e la flessibilità familiare diminuiscono e si associa a ridotta soddisfazione familiare. Allo stesso modo il supporto sociale percepito sia dai pazienti che dai familiari varia in base alle dimensioni della coesione e della flessibilità e in base agli stili familiari adottati.

Parole chiave: disturbi mentali, sintomi, funzionamento familiare, carico assistenziale,

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Introduzione

I disturbi mentali, a causa del loro esordio spesso precoce, e della loro prevalenza e cronicità, hanno un’incidenza sempre maggiore nella società; il rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) indica che sono in costante aumento e che risulteranno essere nei prossimi decenni tra le prime cause di disabilità nel mondo (Bale et al., 2010).

La malattia mentale ha un forte impatto non solo sulla salute della persona che ne è affetta, ma anche sulla famiglia, la quale deve riorganizzare le proprie dinamiche di relazione in funzione della patologia. È importante, da un lato, capire la natura precisa delle esperienze stressanti che vivono i membri della famiglia del paziente, e dall’altro osservare come le famiglie stesse contribuiscono alla gestione della malattia (Cowan & Cowan, 2006). Valutare gli stili familiari adottati, identificare le variabili del funzionamento della famiglia potenzialmente adattive o maladattive, ottimizzare le reti di supporto sociale e analizzare il carico assistenziale percepito, consente di fornire alla famiglia un sostegno adeguato, il quale influisce positivamente sul percorso di cura del paziente (Meis et al., 2013; Cuijpers & Stam, 2000).

Date queste premesse, lo scopo del presente lavoro è quello di esaminare le associazioni tra la percezione del funzionamento familiare e variabili quali la sintomatologia psichiatrica, la percezione di supporto sociale e il carico dei familiari maggiormente coinvolti nell’assistenza, nonché di osservare eventuali differenze nelle percezioni relative al funzionamento familiare da parte dei pazienti e dei relativi familiari.

Nella prima parte dell'elaborato viene presentata una rassegna della letteratura sui disturbi mentali, a partire dal significato che assume la psicopatologia, sino agli aspetti clinici dei disturbi e il trattamento. Il secondo capitolo è dedicato al contesto familiare e sociale: si esaminano i principali modelli di funzionamento familiare, il ruolo del funzionamento adattivo o disadattivo nella psicopatologia, il carico assistenziale del caregiver e le reti sociali di supporto. Nel terzo capitolo viene descritta una ricerca effettuata presso l’unità funzionale Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Azienda U.S.L. 5 di Pisa. Lo studio è condotto su un campione di pazienti e relativi

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3 flessibilità familiare in relazione alla psicopatologia e al carico assistenziale dei familiari maggiormente coinvolti nell’assistenza.

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I DISTURBI MENTALI

1.1 Psicopatologia dei disturbi mentali

La nascita della psicopatologia come disciplina scientifica si fa solitamente risalire alla pubblicazione di “Psicopatologia Generale” di Jaspers nel 1913, opera in cui l’Autore si propone di descrivere “l’accadere psichico” attraverso la comprensione, uno dei metodi della conoscenza psicopatologica, così come l’empatia e l’immedesimazione affettiva, per comprendere la struttura delle esperienze vissute dai pazienti come abnormi e incomprensibili (Musalek et al., 2010; Aragona, 2013).

La patologia viene vista come uno dei modi possibili di essere nel mondo: il fulcro dell’indagine psicopatologica diviene allora l’esperienza soggettiva del paziente, quello che prova e quel che è in grado di riferire. Ogni singolo caso ha bisogno di un approccio oggettivo che ne valuti i sintomi e li combini in una diagnosi nosologica, ma questa non può prescindere dai dettagli delle esperienze soggettive del paziente e dalle sue idee riguardo la genesi dei propri sintomi (De Fiore, 2013).

L’analisi del vissuto cosciente del paziente è quindi il prerequisito essenziale per la conoscenza del mondo in cui vive, e del modo in cui egli si pone nei confronti del mondo. Jaspers (1913) ritiene che l’esperienza dell’individuo possa esser spiegata solo a partire dalla sua soggettività e che si dovrebbe sempre mirare a realizzare una relazione profonda tra il mondo del paziente e chi ne ha cura, in modo da far tesoro dei suoi pensieri e sentimenti: “vogliamo sapere cosa provano gli esseri umani nelle loro esperienze e come le vivono, vogliamo conoscere le dimensioni delle realtà psichiche. Vogliamo esaminare non solo l’esperienza vissuta dell’uomo, ma anche quali relazioni ha e i modi con cui si manifesta obiettivamente” (Stanghellini, 2012).

Fin dall’inizio la ricerca psicopatologica è stata modellata dal desiderio di creare costrutti adottando metodi statistici-clinici e descrittivi che vengono raggruppati in sistemi nosografici. Tuttavia, la malattia mentale risulta difficile da definire in modo univoco e scientificamente condivisibile, in quanto presuppone un consenso che ancora

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5 non è stato del tutto raggiunto per quanto riguarda il concetto di anormalità mentale (Musalek et al., 2010). Per comprendere l’evoluzione dinamica della malattia mentale è possibile riferirsi al concetto di devianza, intesa come comportamento che si allontana in modo più o meno pronunciato dai modelli sociali dominanti (Galimberti, 2006). Secondo Robertson (1997) ogni società definisce, in base al particolare momento storico ed alla propria cultura dominante, i valori cui i propri membri devono uniformarsi, tollerando entro certi limiti l’allontanamento, devianza, da essi, e prevedendo la possibilità di reprimere e controllare gli individui. La comprensione dei disturbi mentali si snoda attraverso il concetto di affordance culturale che propone un approccio pluralistico comprendendo cause organiche, psicogene, ambientali e culturali. Secondo il concetto di affordance culturale i comportamenti collettivi sono un prodotto che si tramanda: quando la cultura locale raggiunge un equilibrio, stabilisce i comportamenti adattivi che il soggetto dovrà adottare, i quali verranno interiorizzati dalle persone come “carattere etnico”. Se l’affordance culturale non viene rispettato si diviene stigmatizzati ed etichettati (Kanba, 2014).

Il concetto di disturbo mentale negli anni ha subito un’evoluzione notevole; il cambiamento più rilevante appare nel DSM III, in cui per la prima volta i precedenti termini “sindrome” o “malattia”, legati alla teoria biologica organicista, vengono sostituiti dal più generale termine “disordine mentale”, il quale si pone in armonia con l’approccio multifattoriale e multidisciplinare alla malattia, considerando le patologie mentali conformi a quelle mediche (Aragona, 2009).

Nella quarta edizione del manuale invece compare la dizione “disturbi mentali” che implica una distinzione tra disturbi mentali e fisici e rappresenta un riduttivo anacronismo riguardante il dualismo mente/corpo. Un’ampia letteratura documenta che c’è molto di fisico nei disturbi mentali e molto di mentale nei disturbi fisici (APA, 2001). Il termine “disturbo” continua ad apparire anche nella nuova edizione, talvolta sostituito dalla dicitura “disturbo mentale/psichiatrico”. Tuttavia esistono dei cambiamenti nei criteri di definizione nel DSM V. Una delle modifiche che si riscontra è la definizione di disfunzione come psicobiologica, tale accezione testimonia la crescente consapevolezza che cambiamenti biologici, psicologici e comportamentali sono in realtà interdipendenti e intercorrelati (Stanghellini, 2012).

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6 I disturbi mentali sono invece classificati dall'Organizzazione Mondiale della Sanità nell'ICD-10 (International Statistical Classification of Diseases and Related Health

Problems) come “Disturbi psichici e comportamentali” (Settore V; F00-F99).

Con l'espressione disturbo mentale, si fa riferimento ad una “sindrome caratterizzata da un’alterazione clinicamente significativa della sfera cognitiva, della regolazione delle emozioni o del comportamento di un individuo, che riflette una disfunzione nei processi psicologici, biologici o evolutivi che sottendono il funzionamento mentale. Sono solitamente associati a un livello significativo di disagio o disabilità in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti” (APA, 2013). Mentre con l'espressione salute mentale, secondo la definizione dell' Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si fa riferimento ad “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o di infermità” (OMS, 1948). E’ uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l'individuo è in grado di esercitare la propria funzione all'interno della società, rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno, stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, partecipare costruttivamente ai mutamenti dell'ambiente, adattarsi alle condizioni esterne e ai conflitti interni (Cicognani, 2005).

Una tale definizione supera la visione organicistica della salute intesa come assenza di malattia e ingloba in sé importanti dimensioni quali quelle psicologiche e sociali della persona malata. Questa definizione multidimensionale di salute fa riferimento al modello bio-psico-sociale sviluppato da Engel (1977) alla fine degli anni Settanta, che pone il paziente al centro di un sistema influenzato da numerose variabili, dove il sistema curante non deve occuparsi esclusivamente della malattia, ma deve rivolgere l’attenzione anche agli aspetti psicologici, sociali, familiari dell’individuo, che sono fra loro interagenti e in grado di influenzare l’evoluzione della malattia.

Per realizzare quindi quest’approccio bio-psico-sociale dovrebbe esser messa a disposizione del paziente un’équipe multiprofessionale in grado di informare, sensibilizzare, sostenere a livello psicologico oltre che medico, nonché promuovere comportamenti sani e orientati al benessere. L’obiettivo dell’équipe multidisciplinare per i pazienti con disturbi mentali è quello di aiutare le persone a vivere al meglio la loro vita, nonostante i limiti imposti dalla malattia, organizzando un piano integrato di cura e assistenza alla persona (Becchi & Carulli, 2009).

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7 Alla luce delle conoscenze attuali, un numero sempre maggiore di esperti ritiene che l’insorgere di una patologia mentale sia dovuto ad una interazione complessa tra l’individuo e l’ambiente. A partire dagli anni ’70, al fine di spiegare l’insorgenza della psicopatologia in età adulta, è stato proposto il modello diatesi-stress, secondo il quale è l’interazione tra una vulnerabilità o predisposizione genetica e l’ambiente, inclusi gli eventi avversi che si verificano nella vita dell’individuo, a indurre determinati comportamenti o disturbi psicologici (Lasalvia & Tansella, 2009).

La genesi dei disturbi psichiatrici dipende parzialmente da alterazioni genetiche, la cui influenza varia però da disturbo a disturbo. Anche le esperienze sono tradotte in segnali biologici funzionali che influenzano l’attività cerebrale e il successivo comportamento; in particolare ciò può avvenire principalmente in due modi. Il primo riguarda i cambiamenti di espressione proteica indotti dall’ambiente che si manifestano nella riorganizzazione dei circuiti cerebrali e delle loro risposte funzionali, attraverso l’apprendimento. L’altro meccanismo fondamentale che regola la traduzione di esperienza in cambiamenti biologici e comportamentali è l’epigenetica (Hyde et al., 2011). Questo termine fa riferimento alle modificazioni ereditabili che variano l’espressione genica pur non alterando la sequenza del DNA, ma ne coinvolgono i meccanismi di metilazione. Numerose evidenze dimostrano che il sistema nervoso è sottoposto al continuo rimodellamento della cromatina sia in età evolutiva che in età adulta. Questo indica che i comportamenti prenatali, post natali, gli eventi stressanti e la dieta materna, così come le esperienze di vita, possono predisporre alla patologia (Bale et al., 2010). L’alterazione dell'espressione genica è inoltre influenzata da esperienze sociali e psicologiche che producono cambiamenti nei modelli di connessioni neuronali e sinaptiche. Questi cambiamenti non solo contribuiscono alle basi biologiche dell’ individualità, ma giocano anche un ruolo preminente nel promuovere e mantenere le anomalie comportamentali indotte dalle esperienze sociali e psicologiche (Cicchetti & Toth, 2009).

Circa il 20-25% della popolazione in età superiore ai 18 anni, soffre di almeno un disturbo mentale clinicamente significativo. I tassi rilevati in Italia sono però tra i più bassi rispetto a quelli degli altri Paesi europei (Costa et al., 2014).

Dalla letteratura emerge anche una differenza significativa nella frequenza dei disturbi nelle varie fasce d’età, con tassi solitamente più elevati nelle fasce d’età più

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8 giovani; allo stesso modo, sono stati spesso riscontrati tassi più elevati tra le persone con più bassa scolarità (Gigantesco et al., 2012). Infatti, recenti studi attestano l’insorgenza del 75% dei disturbi psichiatrici gravi prima dei 24 anni, evidenziando, nel gruppo di età compreso tra 18 e 29 anni, un tasso di prevalenza del 15,4% per il disturbo depressivo maggiore, del 30,2% per i disturbi d’ansia e del 5,9% per i disturbi bipolari (Fiori Nastro et al., 2013).

L’incidenza appare pressoché uguale nei due sessi, ma emergono importanti differenze di genere se si considerano le singole patologie; inoltre si può considerare il sesso e l’età come fattore di rischio per la prevalenza lifetime (Pedersen et al., 2014). Sono riportate differenze di genere significative nella distribuzione dei vari tipi di disturbi tra uomini e donne. Negli uomini sono molto più frequenti, specie nelle prime decadi della vita, i disturbi da abuso di sostanze e di alcool, così come il disturbo di personalità antisociale. Tra le donne i disturbi risultano più frequenti nella classe di età 25-44 anni e i disturbi depressivi, quelli d’ansia, i disturbi di somatizzazione ed i disturbi del comportamento alimentare si manifestano con frequenza doppia o tripla rispetto agli uomini (Tansella & de Girolamo, 2001). Infatti gli studi dimostrato che le donne hanno un rischio di 2,8 volte maggiore rispetto agli uomini di soffrire dei disturbi descritti sopra, mentre per i soli disturbi ansiosi questo rischio sale a 3,8 volte. Tra le persone senza occupazione la prevalenza di disturbi affettivi è 2,1 volte maggiore rispetto agli occupati (Costa et al., 2014).

Le conseguenze sono molto profonde, investono tutte le aree della vita di un individuo e ne possono condizionare profondamente le realizzazioni in campo familiare, lavorativo, sociale. Molto spesso, inoltre, è stato osservato come un ritardo nella presa in carico dei pazienti, rappresenti un importante fattore prognostico negativo; di conseguenza anche in psichiatria, le idee di prevenzione e di intervento precoce stanno assumendo grande importanza come strumenti efficaci per ridurre la prevalenza e l’incidenza delle malattie (Fiori Nastro et al., 2013).

Di seguito sono descritte le patologie a elevata prevalenza trattate nella pratica quotidiana ai fini dello studio sperimentale.

1.2 I Disturbi depressivi e bipolari: aspetti clinici

La depressione maggiore, secondo i dati riportati dall’OMS, rappresenta la quarta causa principale di disabilità nel mondo e si prevede diventerà la seconda entro il

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9 2020, mentre il disturbo bipolare (DB) costituisce la 12°causa di disabilità nel mondo. (Whiteford et al., 2013; Miller et al., 2014).

In Italia la prevalenza dei sintomi depressivi è del 6,2% con una percentuale più elevata nelle regioni Cenro-Nord, quali Emilia-Romagna (7,9%), Toscana (8,1%), Umbria (8,4%) e Sardegna (8,6%) (Ferrante, 2014). La prevalenza del DB nella popolazione generale è del 2% circa, e sale fino a 6% se vengono considerati anche i sottotipi di bipolarità appartenenti allo spettro bipolare allargato (Maina et al., 2011).

Il genere, l’età e lo stato civile giocano un ruolo importante nell’esordio della depressione. Essa colpisce prevalentemente le donne rispetto agli uomini, in un rapporto di 2:1 (Bromet et al., 2011). La malattia si manifesta in una fascia temporale centrale della vita di un individuo, con esordio tra i 20 e i 30 anni e con un picco medio intorno ai 26. Per quanto concerne i disturbi bipolari l'età tipica di esordio è la tarda adolescenza e la giovane età adulta, tra i 18 e i 30 anni, con un’età media di insorgenza intorno ai 22 anni (Hirschfeld, 2014). Nello specifico l’età media di insorgenza del DB I è di 18,4 anni; 20 anni per il DB II e 22 anni per i DB sottosoglia (Merikangas et al., 2011). In letteratura non sono emerse differenze di genere nella prevalenza del disturbo bipolare, rivelando un rapporto maschi/femmine di 1:1. Si evince però una prevalenza di sintomi depressivi nelle donne: infatti l’assenza di episodi depressivi nel disturbo bipolare è più comune tra gli uomini (38,9%) che tra le donne (4,1%) (Miller et al., 2014).

Nel DSM V (2013) i disturbi depressivi includono: il disturbo da disregolazione dell’umore dirompente, più specifico e sensibile per la diagnosi in infanzia e adolescenza, il disturbo depressivo maggiore, il disturbo depressivo persistente, il disturbo disforico premestruale, il disturbo depressivo indotto da sostanze/farmaci, il disturbo depressivo dovuto ad un’altra condizione medica e il disturbo depressivo con altra specificazione. La caratteristica comune a questi disturbi è la presenza di umore triste, sentimenti di vuoto o irritabilità, accompagnati da modificazioni somatiche e cognitive che incidono in modo significativo sul funzionamento dell’individuo. Le differenze tra le varie categorie diagnostiche consistono nella durata, nella distribuzione temporale e nell’eziologia (APA, 2013).

Il disturbo depressivo maggiore noto anche come depressione unipolare, o depressione ricorrente, nel caso di ripetuti episodi, è una patologia caratterizzata da episodi di umore depresso accompagnati da una bassa autostima e perdita di interesse o

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10 piacere nelle attività normalmente gradevoli. Il disturbo depressivo maggiore è una malattia invalidante che si ripercuote sulla vita familiare e lavorativa della persona colpita, sulle abitudini riguardo al sonno, all’alimentazione e sulla salute generale.

L’episodio depressivo ha un esordio improvviso, ma a volte è preceduto per alcuni giorni o settimane da prodromi come la labilità emotiva, riduzione degli interessi, tensione, astenia, inappetenza, cefalea accompagnata da mancanza di concentrazione e insonnia. Nel periodo di stato depressivo vero e proprio si verifica una flessione dell’umore associato a malessere fisico, anedonia e in alcuni casi ad un senso di irritabilità, agitazione e ansia. L’attività motoria è rallentata, in particolare la mimica e la gestualità e, nei casi più estremi subentra uno stato di arresto in cui il soggetto non reagisce a stimoli esterni. L’agitazione motoria è invece più frequente nelle donne e si presenta con movimenti stereotipati e afinalizzati (Cassano, 2006). Anche le funzioni cognitive sono alterate nella fase depressiva: è presente un’attività di pensiero rallentata con mancanza di concentrazione, labilità attentiva e dismnesie. Per quanto riguarda il contenuto del pensiero caratteristica è la triade cognitiva, in cui il paziente presenta una visione negativa di sé, del mondo e del futuro, con difficoltà a proiettarsi nel futuro, fare progetti, programmare il proprio avvenire, provando inoltre sentimenti di inferiorità e autosvalutazione. Beck (1975) sosteneva che la depressione venisse mantenuta dalla triade cognitiva, ma distingueva i pazienti depressi che riuscivano a mantenere la speranza che la loro condizione potesse migliorare, da quelli in cui la speranza svaniva, comportando un notevole deterioramento del funzionamento psicosociale e diventando vulnerabili al suicidio (Willis, 2012). L’ideazione suicidaria è presente in circa il 60% e si stima che i casi di suicidio causati dalla depressione siano circa il 15% (Goldston et al., 2006).

In alcuni casi, successivamente al periodo di stato depressivo, si instaura una sintomatologia residua con manifestazioni di labilità emotiva, irritabilità, pessimismo, ridotta stima di sé, facile faticabilità, tendenza all’isolamento, rigidità, ostilità, eccessiva preoccupazione rispetto alle aspettative e ai giudizi degli altri. Questi sintomi seppur attenuati rispetto alla fase precedente possono compromettere il funzionamento sociale, lavorativo, familiare, la qualità di vita e il benessere psicologico (Ruini et al. 2002). La sintomatologia residua è un affidabile indicatore clinico di frequenti recidive di episodi depressivi, concorre a cronicizzare il disturbo e rende il decorso molto più grave (Judd

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11 et al., 2000). Si stima che la depressione diviene cronica nel 20% circa dei pazienti, con una durata media di circa 20 anni (Hölzel et al., 2011). I pazienti affetti da depressione cronica presentano maggiori difficoltà nell’identificazione e descrizione dell’emozioni; infatti gli studi in letteratura mostrano un’alta correlazione tra la depressione cronica e alessitimia, ipotizzando che sia proprio quest’ultima a mantenere il disturbo (van Randenborgh et al., 2012).

Nel DSM V il disturbo bipolare è collocato come ponte tra la classe diagnostica dei disturbi psicotici e quella dei disturbi depressivi (APA, 2013).

Nel disturbo bipolare I, definito in precedenza come disturbo maniaco-depressivo, gli individui sperimentano alterazioni dell’umore caratterizzati da stati d'animo all’insegna dell’euforia e della mania, che compromettono la loro capacità di giudizio e ragionamento. Questi stati d'animo includono sentimenti di grandiosità, fuga delle idee, facile distraibilità, della durata di almeno una settimana (Ostler & Ackerson, 2008). L’umore maniacale è però instabile; queste persone infatti possono oscillare da uno stato euforico ad esplosioni di rabbia, aggressività e intolleranza verso gli altri. Durante la fase maniacale anche l’attività motoria è aumentata: essa presenta infatti un aumento dell’attività finalizzata, soprattutto nelle fasi iniziali, e agitazione psicomotoria con movimenti afinalizzati e ridotto bisogno di sonno. Le funzioni cognitive sono alterate nella forma e nel contenuto, in quanto il soggetto è facilmente distraibile e non riesce a mantenere a lungo l’attenzione su un compito. Il corso del pensiero è accelerato e il paziente esperisce una fuga di idee e nei casi più gravi una perdita dei nessi associativi (Cassano, 2006).

Il disturbo bipolare II richiede l’esperienza di almeno un episodio depressivo maggiore e di un episodio ipomaniacale. I pazienti affetti da disturbo bipolare II sperimentano più spesso uno stato d'animo depresso, che si alterna a stati ipomaniacali. L’episodio ipomaniacale differenzia da quello maniacale per la durata di almeno 4 giorni e non è abbastanza grave da causare compromissione nel funzionamento sociale e lavorativo o da richiedere l’ospedalizzazione. Sia nella mania che nell’ipomania, gli individui manifestano gli stessi sintomi di grandiosità, fuga delle idee, loquacità, diminuito bisogno di sonno, pratica di attività con possibili conseguenze dannose, scarsa consapevolezza e oscillazioni dell’umore da euforico ad agitato e irritabile (Ostler & Ackerson, 2008).

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12 Sebbene l’episodio manicale e quello ipomaniacale siano le caratteristiche tipiche del disturbo bipolare, la depressione è la sua presentazione clinica più frequente. La prevalenza del disturbo depressivo maggiore unipolare è del 16,2%, durante il ciclo di vita, mentre la prevalenza dei disturbi dello spettro bipolare è del 4,5%. La predominanza di depressione rispetto ai sintomi di elevazione dell’umore sono ancora maggiori se si considerano i pazienti con disturbo bipolare di tipo II (Hirschfeld, 2014). Per la maggior parte dei pazienti, i sintomi depressivi sono più pervasivi degli stati maniacali o ipomaniacali, infatti circa il 20% dei pazienti tenta il suicidio durante l’episodio depressivo (Ketter et al., 2014).

La diagnosi di disturbo ciclotimico è invece attribuita agli adulti che esperiscono per almeno due anni periodi sia ipomaniacali sia depressivi senza mai soddisfare i criteri per un episodio di mania, ipomania o depressione maggiore, ma che causano una compromissione del funzionamento sociale e lavorativo (APA, 2013).

Generalmente i pazienti con decorso episodico esperiscono maggiormente stati d’animo euforico e hanno una comorbidità elevata con i disturbi d’ansia e da uso di sostanze; a differenza dei pazienti con decorso cronico che presentano umore irritabile e alti tassi di comorbidità con ADHD, con il disturbo oppositivo provocatorio e il disturbo della condotta (Masi et al., 2006; Maina et al., 2011).

1.2.1 Eziologia e cenni di trattamento

L'eziologia dei disturbi affettivi non è completamente nota, anche se grazie alla ricerca si ipotizza un'eziologia multifattoriale, dovuta all'interazione di fattori genetici, ambientali, biologici e psicologici. E’ corretto perciò affermare che il contributo dei geni alla malattia è parziale, capace solo di determinare un aumento della probabilità d’insorgenza (Kang et al., 2015).

Lo sviluppo dei disturbi dell’umore è significativamente correlato a fattori genetico-familiari, i quali hanno un peso maggiore soprattutto nelle forme bipolari. Gli studi sui gemelli monozigoti e dizigoti e sui soggetti adottati hanno dimostrato una certa ereditabilità dei disturbi dell’umore. I gemelli monozigoti hanno un tasso di concordanza più elevato rispetto ai dizigoti sia per il disturbo depressivo maggiore, sia per i disturbi bipolari (Cassano, 2006). Il peso delle cause genetiche varia da disturbo a

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13 disturbo, con un minimo del 30-40% per la depressione fino a un massimo del 70-80% per il disturbo bipolare (Bertelli, 2014).

L'ereditarietà è comunque meno probabile per le forme di depressione lieve, mentre sembra incidere più fortemente nelle depressioni ad esordio precoce: il 70% dei bambini depressi hanno, infatti, almeno un genitore che presenta un disturbo dell'umore e hanno una probabilità tre volte maggiore di sperimentare un disturbo depressivo rispetto ai bambini con genitori non depressi (Rice et al., 2002).

L’ipotesi eziologica più accreditata è l’ipotesi monoaminergica, la quale prevede che i disturbi dell’umore dipendano dall’alterazione dei neurotrasmettitori. La serotonina riduce gli eccessi dell’umore, quali: impulsività, irritabilità, ansia. La polarità dell’episodio sarebbe condizionata dai livelli di Noradrenalina (NA), alti in mania e bassi in depressione. La NA è infatti un mediatore del sistema simpatico, modula il sistema attentivo, la motivazione e l’energia. Si ritiene che anche la dopamina (DA) abbia un ruolo rilevante nella patogenesi dei disturbi dell’umore, in particolare tende a dare appagamento e a consolidare la fiducia nell’atto compiuto (Marazziti et al., 2013).

Nel corso degli ultimi vent’anni, vari filoni di ricerca neurobiologica hanno evidenziato che altri sistemi e processi, in particolare quelli infiammatori e neurodegenerativi, potrebbero essere coinvolti nello sviluppo della depressione.

L’asse ipotalamo–ipofisi-surrene (HPA) rappresenta il sistema chiave per la regolazione della risposta biologica allo stress. Una sua iperattività, insieme a una disfunzione del meccanismo di feed-back negativo, rappresenta un correlato biologico di depressione. Infatti attualmente si ritiene che circa il 40-60% dei pazienti depressi, non presentino la fisiologica soppressione di cortisolo. In particolare gli stress psicosociali, inclusi eventi avversi precoci, conflitti interpersonali e isolamento sociale, possono provocare il rilascio di corticotropina (CRH) e catecolamine, che a loro volta interagiscono con il sistema immunitario e determinerebbero un rilascio dei mediatori dell’infiammazione: interleuchina-6 e il tumor necrosis factor alpha (IL-6 e TNFα) (Marazziti et al., 2013; Miller et al., 2009).

L’ipotesi neurotrofica della depressione ipotizza che ridotte concentrazioni di fattori neurotrofici, correlano con un’alterazione funzionale del cervello, provocando la perdita di volume di alcune strutture cerebrali osservate nella depressione (Marazziti et al., 2013). Il fattore neurotrofico di derivazione cerebrale (BDNF), è fondamentale per

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14 la neurogenesi, la crescita, la sopravvivenza e la differenziazione di cellule neuronali, oltre che per la plasticità neuronale. Diversi studi che hanno valutato i livelli di BDNF in pazienti con depressione, riscontrando che i livelli plasmatici di BDNF sono significativamente più bassi nei pazienti depressi rispetto ai controlli. Inoltre un aumento della metilazione BDNF è correlata con la depressione, con l’ideazione suicidaria e con eventi di vita stressanti (Kang et al., 2015; Wang et al., 2015).

Un ruolo importante sulla sfera psichica dell'individuo, sembra essere svolto dai fattori ambientali, sociali e psicologici. Le esperienze di intenso distress psicologico possono produrre cambiamenti fisiologici, in particolare se lo stress è prolungato o ripetuto. Stati emotivi intensi sono associati con una varietà di risposte cardiovascolari e neuroendocrine e cambiamenti immunitari (Carver & Lattie 2015). Gli eventi di vita stressanti giocano un ruolo importante nella ricaduta e nell’insorgenza del disturbo depressivo maggiore e nella distimia; inoltre innescano schemi negativi latenti, dando origine ad un circolo vizioso di auto-mantenimento di pensieri negativi, emozioni e schemi comportamentali (Willis, 2012; Moerk & Klein, 2000). Inoltre gli eventi di vita negativi associati ad una bassa percezione di coping efficace incrementa il rischio di sviluppare un disturbo dell’umore (Asselman et al., 2015). La disoccupazione e le condizioni di lavoro avverse, caratterizzate da violenze psicologiche protratte ed altre situazioni che favoriscono il distress lavorativo, sono frequentemente associati ai disturbi depressivi (Perbellini, 2012).

Sulla base delle ipotesi eziologiche è possibile individuare diverse classi di farmaci antidepressivi che agiscono con un meccanismo d’azione specifico nel blocco della ricaptazione della serotonina, noradrenalina o dopamina (Fagiolini & Cuomo, 2014). La terapia antidepressiva non ha mostrato alcuna efficacia nel trattamento di episodi di depressione nei pazienti con disturbo bipolare. Le linee guida per il trattamento del DB raccomandano di utilizzare gli antidepressivi come terapia aggiuntiva a stabilizzatori dell'umore. Infatti gli studi in letteratura indicano che gli antidepressivi possono provocare un’accelerazione dei cicli di umore e una destabilizzazione globale dei pazienti o possono comportare il rischio di switch verso lo stato ipomaniacale (Hirschfeld, 2014; Ghaemi et al., 2004).

Il trattamento dell’episodio maniacale si avvale dei sali di litio, di alcuni antipsicotici come l’aloperidolo e di antiepilettici come l’acido valproico. Nei casi di

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15 depressione e disturbo bipolare resistenti al trattamento è necessario rafforzare l’alleanza terapeutica tra medico e paziente. La compliance al trattamento è un aspetto importante, infatti si stima che circa il 20% dei casi di refrattarietà al trattamento antidepressivo è attribuibile alla mancata aderenza del paziente alle prescrizioni terapeutiche (Del Grande et al., 2012).

Anche un intervento psicoeducativo, improntato all’informazione sulle caratteristiche del disturbo, la natura dei sintomi, le modalità del decorso, la terapia farmacologica, i risultati attesi e la durata del trattamento può favorire l’aderenza terapeutica (Luchini et al., 2014; Del Grande et al., 2012). Infatti scopo principale della psicoeducazione è fornire informazioni ai pazienti o ai caregiver, relative alla malattia. L’aumento delle conoscenze sull’argomento migliora la capacità che le persone hanno di mettere in atto strategie funzionali per far fronte alle situazioni critiche, con un conseguente aumento del controllo percepito della situazione che consente a sua volta una maggiore capacità di gestione del problema (Cuijpers & Stam, 2000).

1.3 I disturbi dello spettro della schizofrenia: aspetti clinici

I disturbi dello spettro della schizofrenia sono oggi considerati in ottica dimensionale, per cui esiste un continuum tra la schizofrenia, il disturbo psicotico breve e indotto da sostanze, il disturbo schizofreniforme, il disturbo schizoaffettivo e il disturbo schizotipico di personalità. Le caratteristiche diagnostiche in comune sono la presenza di almeno un sintomo psicotico tra deliri, allucinazioni e pensiero disorganizzato; la presenza di comportamento motorio disorganizzato o catatonico e la compromissione del funzionamento sociale e lavorativo. Si differenziano invece per la durata, la gravità, la presenza o meno di episodi maniacali o depressivi maggiori, e per le cause, cioè se indotti dall’uso di sostanze o da un’altra condizione medica (APA, 2013).

In Italia si stima che circa 245.000 persone sono affette da un disturbo dello spettro della schizofrenia con un’incidenza di 7,4 casi per 100.000 abitanti. Di questi , il 17,5 % hanno un'età tra i 14-25 anni , il 25,2 % tra i 26-35 anni , 28,0 % 36-45 anni , il 17,5 % 46-55 anni , il 5,6% tra i 56-65 anni e 6,3 % ha un'età maggiore di 66 anni (Gigantesco et al., 2012). Nel 98% dei casi, la malattia appare prima dell'età di 40 anni, con una prevalenza lifetime dello 0,5-2,7% . Alcuni studi indicano che non vi è alcuna

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16 differenza di genere, mentre da altri si evince che i disturbi psicotici sono più frequenti negli uomini che nelle donne con un rapporto M/F di 1,4:1, ma la maggior parte degli studi concordano che l'insorgenza nelle donne appare più tardi rispetto agli uomini di circa quattro anni, con un’età media d’esordio di circa 28 anni per le donne e 24 per gli uomini (Al-Asmary et al., 2014; Altamura et al., 2014).

I sintomi psicotici che si manifestano nei disturbi dello spettro della schizofrenia si distinguono in sintomi positivi, sintomi negativi e sintomi cognitivi. I sintomi positivi sono la manifestazione sintomatologica che più caratterizza i disturbi psicotici: deliri, allucinazioni e pensiero disorganizzato. I deliri consistono in credenze bizzarre che non sono modificabili alla luce di evidenze contrastanti. I contenuti deliranti presentano diversi temi: i deliri di persecuzione, in cui l’individuo crede di essere oggetto di aggressioni, danneggiamenti, complotti o cospirazioni; i deliri di grandezza in cui l’individuo ha la convinzione di avere poteri divini o conoscenze speciali; i deliri di controllo in cui si ritiene di essere sotto il controllo di forze esterne; i deliri somatici riguardano la salute; i deliri eretomanici concernono la credenza erronea che un’altra persona sia innamorata dell’individuo; i deliri nichilistici si riferiscono alla convinzione che si verificherà un evento catastrofico; e i deliri di riferimento nei quali è presente la convinzione che certi gesti, stimoli ambientali siano rivolti all’individuo stesso (APA, 2013). Le allucinazioni sono esperienze percettive che si manifestano in assenza di stimoli esterni. Le allucinazioni schizofreniche più comuni sono di tipo uditivo, ma possono coinvolgere anche altre modalità sensoriali. Il pensiero disorganizzato è caratterizzato da pensieri irrazionali o disorganizzati, i quali si evincono dall’eloquio.

I sintomi negativi sono invece preminenti nella schizofrenia e meno frequenti in altri disturbi psicotici. Si distinguono le risposte emotive appiattite, la povertà dell’eloquio e delle espressioni facciali, l’anedonia, l’abulia e l’asocialità (Carlson, 2008). I sintomi cognitivi sono strettamente correlati a quelli negativi, la compromissione riguarda la maggior parte delle funzioni cognitive, quali deficit dell’attenzione, delle funzioni esecutive, della memoria e dell’apprendimento e scarsa capacità di problem solving (Barlati et al., 2015).

La catatonia è riportata nel DSM-V all’interno di questa categoria diagnostica, ma può verificarsi nel contesto di vari disturbi, non solo psicotici ma anche depressivi,

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17 bipolari e in altre condizioni mediche. Le caratteristiche specifiche della catatonia includono la presenza di un ben definito gruppo di disturbi della psicomotricità: immobilità, spesso caratterizzata da catalessia, flessibilità cerea o stupor, agitazione psicomotoria, negativismo, mutismo e peculiarità del movimento volontario quali catalessia, stereotipie motorie, manierismi, ecolalia, ecoprassia (Callari et al., 2014).

Nel periodo antecedente l’esordio psicotico, si assiste ad una fase di durata variabile denominata stato prodromico, caratterizzata da un “cambiamento nelle abitudini e nelle esperienze di vita per una specifica persona in uno specifico contesto”. In questo stadio è presente un elevato rischio di sviluppare un disturbo psicotico e sul piano clinico sono osservabili i prodromi, manifestazioni morbose aspecifiche rispetto alla psicosi conclamata. La fase prodromica si manifesta in circa il 75% dei pazienti; solo il 18% mostra invece un esordio acuto della patologia con la comparsa dei sintomi psicotici entro un mese. Quanto più l’esordio della fase prodromica è precoce e l’intervento terapeutico tardivo, tanto più il disturbo psicotico sarà grave e la prognosi peggiore. L’età media di comparsa della sintomatologia prodromica risulta maggiore nelle femmine (21 anni) rispetto ai maschi (19,8 anni) (Bensi et al., 2011; Altamura et al., 2014). Alla fase prodromica segue la fase acuta, nella quale abbiamo una componente sintomatologica prevalentemente positiva, mentre in fase residua una prevalenza di sintomi negativi. Durante questi stadi della patologia i sintomi positivi e negativi non si escludono a vicenda, infatti i sintomi positivi possono essere seguiti dallo sviluppo di sintomi negativi, ma possono entrambi anche verificarsi contemporaneamente. Sia i sintomi positivi che negativi sono associati a difficoltà del funzionamento (Ferrari et al., 2012).

Il disturbo psicotico breve è caratterizzato essenzialmente dall’improvvisa insorgenza di almeno un sintomo psicotico positivo, dalla durata di almeno un giorno, ma meno di un mese e dalla completa remissione e ritorno allo stato premorboso. Il disturbo schizofreniforme presenta la stessa sintomatologia della schizofrenia, ma varia la durata, la quale è inferiore a sei mesi. Inoltre, sebbene siano possibili menomazioni del funzionamento sociale o lavorativo durante il periodo della malattia, queste non sono necessarie ai fini diagnostici. La schizofrenia dura almeno sei mesi e presenta manifestazioni sintomatiche in fase attiva per almeno un mese (APA, 2013).

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1.3.1 Eziologia e cenni di trattamento

I disturbi dello spettro della schizofrenia sono determinati da un background genetico, da fattori ambientali e dallo stile di vita. L’evidenza che esistono fattori genetici nel determinare le malattie multifattoriali deriva dall’osservazione epidemiologica che tali condizioni sono più frequenti tra individui consanguinei rispetto alla popolazione generale. La percentuale di persone affette è direttamente proporzionale al numero di geni comuni ovvero al grado di parentela: parenti di primo grado presentano un’incidenza di malattia superiore rispetto a soggetti che condividono un minor numero di geni. I fattori genetici opererebbero quindi creando una vulnerabilità al rischio ambientale a cui i soggetti possono essere ulteriormente esposti in maniera variabile. I tassi di concordanza per la schizofrenia tra i gemelli monozigoti variano tra 38-72%, mentre per i gemelli dizigoti variano tra il 10% e il 15%. Un altro fattore genetico è l’età paterna, infatti diversi studi hanno rilevato che i bambini di padri più anziani hanno maggiori probabilità di sviluppare schizofrenia. Questi dati confermano l’ipotesi di ereditarietà dei disturbi psicotici, ma la concordanza incompleta indica che altri fattori concorrono alla sviluppo della patologia (Carlson, 2008; Cassano, 2006).

Dato il forte background ereditario della schizofrenia, si presume che i fattori genetici possano essere alla base della deregolamentazione del sistema immunitario, il quale è coinvolto nella patogenesi della schizofrenia. Infatti diversi studi mostrano variazioni nella concentrazione di citochine nel siero in pazienti affetti da schizofrenia, la quale varia a seconda della fase acuta o remissiva. In particolare si registra un aumento del livello di citochina IL-10 nel liquido cerebrospinale degli schizofrenici in fase acuta. La produzione di citochina IL-10 è controllato dal gene IL-10, il quale è localizzato sul cromosoma umano 1 (1q31-q32), una regione già segnalata da diversi studi presenti in letteratura per essere correlata con la schizofrenia. Questi polimorfismi genetici potrebbero condurre ad anomalie comportamentali in età adulta o a squilibri innati del sistema immunitario, collegati ad una maggiore suscettibilità per lo sviluppo della schizofrenia (Al-Asmary et al., 2014).

L’ipotesi del neurosviluppo si fonda invece sull'associazione fra fattori di rischio pre-perinatali e maggiore incidenza di schizofrenia. I processi eziopatogenetici agirebbero durante il periodo gestazionale alterando lo sviluppo cerebrale e inducendo

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19 modificazioni patologiche in particolare della corteccia prefrontale dorsolaterale. Infatti proprio ad un’alterazione di quest’ultima sono attribuite le disfunzioni cognitive e i sintomi negativi della schizofrenia. Queste alterazioni dello sviluppo fetale possono essere causati da diversi fattori ambientali come la stagione di nascita, epidemie virali e la malnutrizione prenatale. Anche lo stress materno vissuto durante il primo trimestre di gravidanza correla con un aumento del rischio di schizofrenia nella prole di sesso maschile. Inoltre tali esposizioni allo stress agiscono alterando lo sviluppo del cervello e, eventualmente, possono influenzare la crescita del cervello del feto attraverso modifiche epigenetiche (Bale et al., 2010).

Sulla base di evidenze farmacologiche i sintomi positivi sono determinati dalla disfunzione del sistema dopaminergico. Secondo l’ipotesi dopaminergica, la schizofrenia è causata dall’iperattività dei neuroni dopaminergici dell’area tegmentale ventrale, del nucleo accumbens e dell’amigdala. Questa ipotesi va comunque integrata con il coinvolgimento di altri sistemi neurotrasmettitoriali. Infatti l’ipotesi serotoninergica prevede un ruolo importante di questo sistema nella patogenesi dei sintomi positivi, negativi, del deterioramento cognitivo e del comportamento impulsivo. Infine anche il glutammato, neuromodulatore eccitatorio, potrebbe essere coinvolto nella genesi dei sintomi negativi, in quanto tali pazienti presentano una diminuzione del glutammato (Katzung, 2011).

Il trattamento farmacologico della psicosi e della depressione è iniziato negli anni ’50, con la scoperta degli inibitori delle monoaminossidasi e degli antidepressivi triciclici. Negli ultimi decenni la principale categoria di composti utilizzati nel trattamento dei disturbi dello spettro della schizofrenia è stata quella dei farmaci antipsicotici, i quali sono suddivisi in farmaci di prima generazione, chiamati anche antipsicotici tipici e farmaci di seconda generazione, antipsicotici atipici. I primi bloccano i recettori D2 della dopamina e sono maggiormente indicati nelle patologie in cui prevalgono i sintomi positivi. I secondi bloccano sia i recettori D2 che i recettori serotoninergici 5-HT2A, ed in questo caso anche i pazienti con sintomi negativi rispondono al trattamento (Fagiolini & Cuomo, 2014). Recenti studi dimostrano che i farmaci antipsicotici comportano un aumento dell’attività prefrontale e incrementano la connessione funzionale tra le regioni striatali, la corteccia cingolata anteriore, la corteccia dorsolaterale prefrontale e le regioni limbiche (Lesh et al., 2015; Sarpal et al.,

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20 2015). I sintomi positivi sono associati con buona risposta al trattamento con antipsicotici, mentre gravi alterazioni cognitive possono predire scarsa risposta al trattamento e prognosi infausta (Altamura et al., 2014).

La sofferenza e le disabilità di un individuo affetto da disturbo schizofrenico sono molteplici: il trattamento deve intervenire a diversi livelli. Tutti gli studi effettuati sono concordi nell’affermare che, solo combinando insieme terapia farmacologica e strategie psicosociali, si ottengono risultati soddisfacenti nel trattamento della schizofrenia. Infatti i disturbi psicotici sono considerati molto gravi soprattutto sotto il profilo del funzionamento psicosociale e relazionale (Vita et al., 2014).

Gli interventi psicosociali rivolti al paziente mirano a migliorare le abilità cognitive e attuare tecniche cognitivo-comportamentali in piccoli gruppi attraverso

role-play, ristrutturazione cognitiva e implemento delle tecniche di problem solving. Gli

interventi psicosociali rivolti alla famiglia indagano i comportamenti e gli atteggiamenti familiari, a volte critici e ostili, a volte troppo protettivi, i quali diventano fattore di stress e di rischio che incide sulla sintomatologia psicotica: la famiglia può essere una risorsa nel mettere in atto strategie per far fronte alla malattia ed ai problemi emotivi e pratici che comporta. Inoltre a causa del carico assistenziale, la famiglia del malato è sottoposta a programmi psicoeducativi i quali sono rivolti ad aumentare l’informazione sul disturbo mentale e sulla terapia farmacologica, aiutare i familiari a contenere la sensazione di rabbia e impotenza e migliorare la comunicazione all’interno del gruppo familiare. Vengono inoltre effettuate terapie familiari cognitivo-comportamentali e strategie cognitivo-comportamentali di gestione dell’ansia e di disturbi affettivi. L’intervento psicoeducativo rivolto alla famiglia, migliora l’aderenza alle terapie da parte del paziente e riduce le ricadute e la riospedalizzazione (Ran et al., 2015; Lutgens et al., 2015).

1.4 Disturbi da dipendenza e correlati all’uso di sostanze: aspetti clinici

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) descrive il concetto di dipendenza patologica come una “condizione psichica, e talvolta anche fisica, derivante dall’interazione tra un organismo vivente e una sostanza tossica, e caratterizzata da risposte comportamentali e da altre reazioni, che comprendono sempre un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, allo scopo di

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21 provare i suoi effetti psichici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione” (Marazziti et al., 2015).

Il fenomeno dell’abuso di sostanze rappresenta un problema di crescente difficoltà per la quantificazione nella popolazione generale. Inoltre la presenza di soggetti che attuano un uso controllato della sostanza e presentano un funzionamento socio-lavorativo adeguato ha ulteriormente complicato l’identificazione della popolazione tossicomane. Nei Paesi dell’Unione Europea, i disturbi da uso di alcol e sostanze figurano tra le prime cinque cause di morbilità e mortalità, con un impatto sulla popolazione generale paragonabile a quello delle patologie cardiovascolari e del cancro (Carrà et al., 2012).

Si stima che un quarto della popolazione adulta europea, circa 85 milioni, hanno consumato sostanze illecite nel corso della vita. La cocaina, le amfetamine e l’ecstasy sono gli stimolanti illeciti più frequentemente consumati in Europa. In Italia è stato registrato negli ultimi anni un aumento dell’uso delle sostanze psicostimolanti, in particolare la cocaina è quella maggiormente diffusa. Risulta infatti una stima pari allo 0,34 % per il consumo di cocaina, indicata come la droga primaria dal 14 % dei pazienti sottoposti a trattamento specialistico della tossicodipendenza, con un età media tra i 22-33 anni. Mentre il consumo di metamfetamine e allucinogeni in Italia è molto basso varia dallo 0 al 0,5% della popolazione, in età compresa tra i 15 e i 34 anni. La prevalenza media dell’abuso di oppiacei di età compresa fra i 15 e i 64 anni è dello 0,41% (EMCDDA, 2013)1 .

L'uso di sostanze psicoattive può avere profonde conseguenze sulla salute in termini di mortalità; si stima infatti che lo 0,5 % dei decessi nella popolazione generale, siano dovuti al consumo di droga. Mentre si evince che per gli oppioidi il tasso di mortalità è tra il 2-10% della popolazione di età compresa tra i 15 e 49 anni (Pavarin & Gambini, 2015).

La stima del consumo di alcol in Italia, secondo i dati ISTAT del 2013, è di circa 7 milioni e 144 mila persone. Questi dati assumono ancora più importanza se consideriamo che questo fenomeno interessa in particolare giovani di età compresa tra gli 11 e i 24 anni. Comportamenti a rischio più frequenti si osservano tra gli ultrasessantacinquenni (il 38,6% uomini e l'8,9% delle donne), tra i giovani di 18-24

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22 anni (il 23% maschi e l'8,6% femmine) e tra gli adolescenti di 11-17 anni rispettivamente l'11,7% e l'8,5%) (ISTAT, 2013). Mentre l’abuso di alcol e il binge

drinking (ovvero il consumo di 5 o più bevande alcoliche in una sola occasione) sono

comuni nella popolazione studentesca, con ingenti conseguenze sul piano comportamentale. In particolare gli uomini sono più propensi a consumare un maggiore quantitativo di alcol e dunque più esposti ai problemi alcol-correlati rispetto alle donne (Luca et al., 2015). Nella popolazione italiana l’alcol rappresenta il 3,8% del totale delle cause di mortalità maschile e il 2,1% di quella femminile (Costa et al., 2014).

I sintomi principali che si riscontrano sono il disagio e la compromissione clinicamente significativa sia a livello sociale e lavorativo, sia a livello del controllo del comportamento. L’individuo infatti può assumere la sostanza per periodi prolungati rispetto alle sue reali intenzioni senza aver nessun controllo sul comportamento da dipendenza, nonostante i suoi sforzi per diminuire o interromperne l’uso. Inoltre può impiegare la maggior parte del suo tempo per procurarsi la sostanza e per usarla causando una compromissione delle normali attività quotidiane (APA, 2013). In particolare ciò che caratterizza il disturbo da uso di sostanze è il craving, un desiderio irresistibile per la sostanza stessa, che comprende una componente positiva, quale l’effetto piacevole, associato ad una componente negativa, ovvero l’ansia anticipatoria per gli effetti dell’astinenza. Anche nella condizione di post-tossicodipendenza la presenza del craving definisce una duratura e resistente astinenza secondaria. Il desiderio incontrollabile di ripetere l’uso della sostanza, dopo esserne venuti a contatto la prima volta, insieme al comportamento compulsivo di ricerca che viene messo in atto senza curarsi delle conseguenze che ne derivano, rappresentano i due correlati caratteristici dell’ addiction (Di Sciascio & Nardini, 2005).

Altri sintomi che possono manifestarsi sono la tolleranza e l’astinenza. La tolleranza consiste nell’assumere dosi sempre più elevate della sostanza per ottenere l’effetto desiderato. Mentre i sintomi dell’astinenza si manifestano se dopo periodo prolungato dell’assunzione se ne interrompe improvvisamente l’uso (Carlson, 2008). Una condizione classica è la sindrome astinenziale, quando si cessa il consumo attuale di una sostanza psicoattiva di abuso. Nello specifico i sintomi da astinenza alcolica sono molto gravi e possono causare persino la morte. La sindrome da astinenza alcolica si manifesta con tremore alcolico accompagnato in alcuni casi da sintomi psicotici dopo

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23 circa 8-12 ore dalla sospensione, sino a convulsioni da astinenza che si manifestano da 12 a 24 ore dopo la sospensione dell’alcol in circa il 5% dei pazienti. Nel 30-40% dei casi dopo 2 o 3 giorni di astinenza, ha esordio il delirium tremens che si manifesta con uno stato di agitazione, confusione e disorientamento associato ad allucinazioni visive e tattili (Cassano, 2006).

I disturbi mentali indotti da sostanze si sviluppano nel caso di intossicazione o di astinenza da sostanze di abuso e i sintomi sono identici a quelli dei disturbi mentali indipendenti. Le sostanze che vengono assunte hanno in comune l’attivazione diretta del sistema cerebrale di ricompensa, il quale è coinvolto nel rafforzamento dei comportamenti. La caratteristica principale di un disturbo da uso di sostanze è un cluster di sintomi cognitivi, comportamentali e fisiologici, i quali generano un cambiamento sottostante ai circuiti cerebrali che può persistere anche dopo la disintossicazione (APA, 2013).

Le sostanze da abuso hanno effetti che includono l’attivazione del meccanismo di rinforzo, a causa del rilascio di dopamina nel nucleo accumbens. Il consumo di queste sostanze per un periodo prolungato causa anomalie soprattutto nella corteccia prefrontale, coinvolta nelle funzioni esecutive come pianificazione, giudizio, valutazione delle conseguenze delle azioni e inibizione delle risposte (Carlson, 2008). Gupta et al. (2008) in aggiunta all’atrofia cerebrale, ad una riduzione di flusso sanguigno e del metabolismo cerebrale di glucosio hanno riscontrato una minor attivazione della corteccia prefrontale mediale negli individui con dipendenze rispetto ai soggetti normali. Questo risultato contribuisce a spiegare perché gli individui persistono nel comportamento di assunzione di sostanze nonostante la consapevolezza delle conseguenze nella propria vita (Balanzá Martínez et al., 2015).

1.4.1 Eziologia e cenni di trattamento

Gli studi empirici dimostrano che sia fattori genetici, ambientali che caratteristiche di personalità giocano un ruolo importante nel determinare le probabilità d’insorgenza di un disturbo da uso di sostanze e nello sviluppo della dipendenza. Diversi studi indicano un’alta incidenza familiare dei disturbi da uso di sostanze nei consanguinei. È stata infatti dimostrata in studi familiari, gemellari e di adozione la predisposizione genetica per la dipendenza da alcol e da altre sostanze. In particolare

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24 Goldman, Oroszi e Ducci (2005) hanno misurato l’ereditarietà (h²) di varie classi di disturbi da dipendenza da sostanza riscontrando un valore h² che varia da 0.4 per le sostanze allucinogene fino a 0.7 per alcol, oppiacei e cocaina (Carlson, 2008). La vulnerabilità genetica, a probabile trasmissione poligenica, si esprime attraverso l’attività delle regioni sottocorticali mediata dai sistemi della dopamina, degli oppioidi e dei glucocorticoidi. La predisposizione all’alcolismo potrebbe essere causata da differenze nella metabolizzazione dell’alcol oppure da diversità strutturali o biochimiche nel Sistema Nervoso Centrale. Infatti, variazioni nei geni implicati nel recettore degli oppioidi o nei recettori GABA e in quelli muscarinici, si associano alla predisposizione nelle dipendenze (Di Sciascio & Nardini, 2015).

Anche gli studi sulla comorbidità tra disturbo da uso di sostanze e altri disturbi psichici dimostrano un substrato genetico. I disturbi da uso di sostanze costituiscono la comorbilità più frequente e significativa dal punto di vista clinico tra i pazienti con disturbi psichiatrici gravi come la schizofrenia, il disturbo bipolare, la depressione e i disturbi di personalità (Drake, 2013). Infatti l’abuso di sostanza è coopresente nel 50% della popolazione schizofrenica, risultato che fa ipotizzare una relazione genetica (Di Sciascio & Nardini, 2015).

Un altro studio ha invece identificato un’anomalia significativa dei substrati neurobiologici nelle regioni del cervello prefrontale che si estendono dall' insula alla corteccia cingolata anteriore nel disturbo bipolare, nella schizofrenia e nell’abuso di sostanze. Questa anomalia delle strutture prefrontali è associata a disfunzioni nell’autoregolazione e nella consapevolezza di sé e riflette un aumento della vulnerabilità per l’uso di sostanze. Mentre la vulnerabilità per l’uso di sostanze di origine familiare sembra essere associata con anomalie subcorticali come un ampliamento del putamen e anomalie dell’amigdala e dell’ippocampo (Ersche et al., 2013). Le determinanti genetiche che modificano la struttura e la funzionalità di alcuni circuiti neuronali sono unite all’azione di altre variabili quali stress e fattori socio-ambientali. Infatti, anche l’ambiente di appartenenza influenza le condotte e i comportamenti di tipo addiction e ne determina la dipendenza anche da una specifica sostanza. In letteratura emerge che i figli di alcolisti hanno una possibilità di sviluppare una condotta alcolica 4 o 5 volte superiore rispetto ai figli di genitori non alcolisti. Ma

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25 questa anomalia dello sviluppo neuropsicologico nel bambino è ridotta nei figli di alcolisti se collocati in case adottive (Cicchetti & Toth, 2009).

Anche lo stress cronico e gli eventi di vita negativi giocano un ruolo importante nella facilitazione e nel mantenimento dei comportamenti di addiction, in quanto l’iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, favorita da situazioni esterne, potenzia l’attività dopaminergica nei circuiti del rinforzo e in particolare nel nucleo accumbens, attraverso l’aumentata sintesi di dopamina. La diretta conseguenza è il potenziamento della ricerca di sostanze.

Questi comportamenti possono essere stabili e duraturi, soprattutto quando sono presenti caratteristiche temperamentali e personologiche che possono indurre con maggiore probabilità quadri clinici sintomatologici. Cloninger (1987) ha individuato tre dimensioni comportamentali che interagiscono al mantenimento della dipendenza:

Novelty Seeking (ricerca di novità), caratterizzata dalla ricerca di stimoli nuovi ed

esperienze limite, autodistruttive in risposta ad emozioni negative o per trovare sollievo dalla tensione; Harm Avoidance (evitamento del danno), caratterizzata dalla tendenza a rispondere intensamente a stimoli di avversione e ai loro segnali di condizionamento;

Reward Dependence (dipendenza dalla ricompensa), caratterizzata dalla stretta

dipendenza da fenomeni di ricompensa esterna utili a mantenere comportamenti appetitivi (Di Sciascio & Nardini, 2005). La persistenza di questi comportamenti suggerisce cambiamenti di lunga durata nell’espressione genica, attraverso acetilazione e metilazione del DNA e dell’RNA, l’abuso di sostanze induce quindi modificazioni nelle regioni cerebrali coinvolte nei meccanismi di ricompensa (Nestler, 2014).

A causa dell’eziologia complessa dei disturbi correlati all’uso di sostanze ogni trattamento deve tener conto delle principali componenti e dei meccanismi alla base del comportamento da dipendenza, agendo di conseguenza a livello biologico, sociale e psicologico, applicando cioè un trattamento multimodale integrato. Il successo o insuccesso dei trattamenti è influenzato dalla scarsa compliance e mancanza di motivazione che generalmente questi pazienti presentano. La compliance migliora l’efficacia del trattamento farmacologico e dei trattamenti psicologici e psicoterapeutici (Di Sciascio & Nardini, 2005).

Il trattamento farmacologico utilizzato agisce influenzando il sistema dopaminergico, infatti vengono somministrati antagonisti dei recettori oppioidi come

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26 Naltrexone e Nalmefene, i quali sono risultati più efficaci nella riduzione del desiderio della sostanza e nella prevenzione delle ricadute (O’Malley et al., 2015). La terapia più diffusa della dipendenza da oppiacei è il mantenimento con metadone, il quale incrementa lentamente il livello cerebrale di oppioidi, ma ha un’azione duratura e un effetto meno immediato della sostanza d’abuso. La buprenorfina, è un agonista parziale dei recettori oppioidi e produce un debole effetto simile alla sostanza d’abuso (Carlson, 2008). Mentre il trattamento intensivo del delirium tremens è mirato sia a correggere il deficit vitaminico che a ridurre i sintomi comportamentali attraverso la somministrazione e successivo decremento progressivo di benzodiazepine (Cassano, 2006).

Il trattamento cognitivo comportamentale mira a potenziare il controllo del comportamento da dipendenza e il processo decisionale. La letteratura evidenzia come gli interventi cognitivi aumentino la connettività tra le regioni corticali prefrontali, coinvolte nel controllo comportamentale e regioni subcorticali implicate nel desiderio.

Le strategie di prevenzione hanno invece l’obiettivo di eliminare i fattori di rischio, rafforzando importanti fattori protettivi a livello individuale, familiare e ambientale, attraverso colloqui motivazionali, terapie familiari e gestione del comportamento. Un ampliamento degli studi inerenti l’influenza gene-ambiente, quindi dei fattori ambientali che possono influenzare l’espressione genica potrebbero migliorare gli interventi di prevenzione (Potenza, 2013).

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FAMIGLIE E PSICOPATOLOGIA

2.1 Modelli di funzionamento familiare

Nel corso degli anni cinquanta, diversi approcci di studio ai fenomeni psicopatologici convergono verso l’individuazione di un nuova ipotesi eziologica dei disturbi psichici, ovvero che le relazioni familiari costituiscano l’ambito di origine, ma anche di cura dei disturbi psicopatologici. Il sintomo cessa di essere trattato come un'espressione di disfunzioni individuali e viene assunto come funzionale all’interno del contesto dei rapporti in cui la persona è inserita; la diagnosi non è l'attribuzione di categorie patologiche centrata sul singolo, ma fa riferimento a modalità di funzionamento di un gruppo (Bertrando, 1997).

L'approccio sistemico relazionale, fin dai suoi albori, è stato fondato sul presupposto che non sia possibile spiegare lo sviluppo di un individuo indipendentemente dal sistema, cioè dalla rete di relazioni significative, e i comportamenti sintomatici sono stati individuati nelle dinamiche interattive familiari specifiche. Infatti, la ricerca dei terapisti sistemici è stata inizialmente finalizzata alla individuazione dei diversi modelli di interazione familiare (Fruggeri, 2008).

Il concetto di famiglia “normale” che viene a delinearsi non è più quello di un luogo di assoluta armonia, equilibrio e uguaglianza, ma di uno spazio sociale spesso in disequilibrio, dove si verificano conflitti, dove si riflettono le disuguaglianze sociali e le diversità culturali. L’accento è posto sulla capacità di mantenere una coesione del gruppo, promuovendo l’autonomia del singolo individuo e la normalità è legata al modo in cui i conflitti vengono risolti all’interno del gruppo, come le sofferenze vengono affrontate e alle modalità specifiche di ogni famiglia di utilizzare le proprie risorse (Visani, 2001). Ogni sistema familiare è caratterizzato da una struttura ben definita, indicata da Minuchin (1974) come “l’invisibile insieme di richieste funzionali che determina i modi in cui i componenti della famiglia interagiscono”. Non necessariamente la diversità di una struttura familiare è il prerequisito per sviluppare

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28 una patologia, ma bensì sono l’equilibrio e il modo in cui la famiglia si approccia alla risoluzione dei problemi e ai modelli di riferimento che regolano e definiscono le relazioni e il comportamento dei membri (Loriedo & Picardi, 2005).

La famiglia è un’unità sociale che affronta una serie di compiti evolutivi, e che per essere funzionale deve essere sufficientemente flessibile e adattarsi ad eventuali richieste evolutive o ambientali (Minuchin, 1974). Le famiglie sono quindi unità dinamiche soggette a continui cambiamenti a livello individuale, dove ciascun membro deve confrontarsi con l’evoluzione emotiva e cognitiva dei diversi componenti; a livello interpersonale, in cui le relazioni tra i diversi membri evolvono e conducono a modificazioni della famiglia stessa e infine a livello gruppale e sociale, cioè le trasformazioni che si hanno in seguito alla nascita di un nuovo membro della famiglia (Malagoli Togliatti & Lubrano Lavadera, 2002).

La famiglia può essere considerata come un sistema che funziona in relazione al suo contesto socioculturale e si evolve durante il ciclo di vita (Walsh, 1996). Il passaggio da uno stadio all’altro del ciclo vitale è scandito da eventi critici. Già Haley (1973) ipotizzò che i sintomi psicopatologici si manifestino più facilmente nel periodo di transizione da una fase all’altra del ciclo vitale nel caso in cui ci siano interruzioni o distorsioni del processo evolutivo della famiglia (Malagoli Togliatti & Lubrano Lavadera, 2002). Alcuni autori affermano che le modalità che consentono lo sviluppo e il cambiamento e come le famiglie affrontano gli eventi critici mettono alla prova le loro abilità e risorse; al contrario altri autori sostengono che la crisi è generata dalla disorganizzazione del sistema che deriva dall’incapacità di attingere alle risorse; questa incapacità può avere un impatto gravoso e stressante che genera un aumento significativo della vulnerabilità (D’Arrigo et al., 2010). Il sistema famiglia per gestire con successo gli eventi di vita e garantire il superamento delle crisi evolutive o ambientali utilizzano la resilienza, descritta come un processo attraverso il quale le famiglie sono in grado di adattarsi e funzionare con competenza a seguito di esposizioni alle avversità significative o alle crisi (Patterson, 2002). Secondo Froma Walsh è necessario quindi comprendere quali siano le diversità di funzionamento che favoriscono l’evoluzione della crisi innescata dalle fasi di transizione e quali invece diventano contesto di insorgenza di patologie (Fruggeri, 2008).

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