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"Vivere la propria contraddizione". Trascendenza e immanenza in "Ossi di seppia" di Eugenio Montale

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Academic year: 2021

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IMMANENZA E TRASCENDENZA

IN OSSI DI SEPPIA DI EUGENIO MONTALE

Massimiliano Tortora

Testi e Culture in Europa

(2)

In copertina: Anonimo, Antiche Pitture di S. Michele del Sotterraneo in Borgo, di Pisa, acquaforte e bulino. Collezione Valentino Cai, Pisa.

© Copyright 2015 Pacini Editore SpA ISBN 978-88-6315-843-4

Realizzazione editoriale e progetto grafico

Via A. Gherardesca 56121 Ospedaletto-Pisa www.pacinieditore.it info@pacinieditore.it Rapporti con l’Università Lisa Lorusso

Responsabile di redazione Francesca Petrucci

Fotolito e Stampa

Industrie Grafiche Pacini

L’editore resta a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare e per le eventuali omissioni.

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.

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Finito di stampare nel mese di Marzo 2015

presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A. 7JB"(IFSBSEFTDBt0TQFEBMFUUPt1JTB 5FMt'BY

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Avvertenza pag. 9

Parte prima Il sistema di Ossi di seppia » 11

I. La WFYBUBRVBFTUJP: lettura di Riviere » 13

1. La chiusa contraddittoria di Ossi di seppia » 13

2. Lo Streben montaliano tra panismo e accettazione

del contingente » 17

3. Il futuro indicativo e la voragine del desiderio » 20

II. “The happy ending do exist”.

Gli explicit di Movimenti, Ossi di seppia, Mediterraneo » 29

1. L’oggetto ambiguo e la possibile salvezza:

Fuscello teso sul muro » 29

2. L’upupa e le barche in rada: la conclusione

degli “ossi brevi” » 33

2.1. La rivelazione perturbante in Upupa ilare uccello » 33

2.2. La negazione e l’ostinata speranza:

Sul muro grafito » 39

3. «Bruciare, questo, non altro, è il mio significato».

Su Mediterraneo » 42

3.1. La «sosta» o l’atemporalità: Mediterraneo I-V » 42

3.2. Giurare fede ad un evento impossibile:

Mediterraneo VI-IX » 46

3.3. Il «superiore dilettantismo» per rappresentare

la «contraddizione» » 52

III. Conclusioni provvisorie: il funzionamento della raccolta » 57

1. Quattro sezioni «parallele» e continue » 57

2. Il miniciclo all’interno di Movimenti: la raccolta in nuce » 58

IV. L’identità asserita e incompiuta: da Arsenio a Incontro » 63

1. Breve intermezzo teorico: ragione strumentale vs.

orizzonte metafisico » 63

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4. Un fallimento carico di futuro: Incontro e il finale della

raccolta » 90

4.1. Il dialogo mancato in Ossi di seppia » 90

4.2. «Tristezza, solo | presagio vivo»: il finale aperto

di Ossi di seppia » 92

Parte seconda Movimenti ovvero la raccolta in nuce » 99 V. L’incipit del romanzo: I limoni

(con una fonte nietszchiana per il meriggio: Pan) » 101

1. Dati di partenza » 101

2. Una disarmonia assordante » 104

3. Dal rumore al silenzio, dall’«io» al «noi» » 111

4. Il miracolo enunciato e non rappresentato » 113

4.1. Una strofe circolare e tripartita » 113

4.2. Su una possibile fonte montaliana per Pan, dio del

meriggio: Nietzsche » 121

4.3. Il «miracolo» del poeta non laureato » 131

5. L’ultima strofe: la fine del testo, l’inizio del romanzo » 139 VI. «Ogni apparenza dintorno vacilla s’umilia scompare».

Lettura di Corno inglese » 141

1. La struttura unitaria » 141

2. Il modello Debussy » 144

3. L’impressionismo di Corno inglese: alcuni presupposti

teorici » 151

4. La necessaria ambiguità sintattica » 152

5. Il miracolo infranto » 158

VII. Un punto di svolta in Ossi di seppia: Falsetto » 163

1. Una posizione strategica » 163

2. Due opposte prospettive temporali » 165

3. Un testo diviso a metà » 169

4. L’alga e il ciottolo vs. la salsedine » 171

5. L’abbraccio del «divino amico» » 173

6. Un titolo non ironico » 176

7. Un duplice registro stilistico » 178

8. L’io sullo sfondo della scena » 188

(5)

Minstrels » 193 2. Norma e trasgressione: il principio strutturante del testo » 194

2.1. Metrica e rime » 196

2.2. Fonetica » 197

3. Dal significante al significato: il riso, il paganesimo e i

baccanali » 198

3.1. La funzione del riso nel primo Montale » 199

3.2. I miti pagani in Minstrels e in Ossi di seppia » 200

3.3. L’avanzo di baccanale vs. il saltimbanco: Montale vs.

Palazzeschi » 202

4. Il finale » 211

IX. Dall’adesione al superamento del modello Sbarbaro:

Caffè a Rapallo ed Epigramma » 215

1. Una comune koinè: Montale e il modello Sbarbaro » 215

1.1. Una dichiarazione di poetica » 215

1.2. Una poetica comune » 216

2. Caffè a Rapallo: all’insegna della poetica di Sbarbaro » 219

2.1. Il registro più basso del “classicismo paradossale” » 219 2.2. La vita psichica dell’io: un personaggio spaesato » 221

2.3. Caffè a Rapallo: una prima conclusione del romanzo » 222

3. Montale non è Sbarbaro: il superamento del modello » 224

3.1. Il soggetto tra identità (per Montale) e annientamento

(per Sbarbaro) » 224

3.2. L’amicizia negata e quella trovata » 226

3.3. Tempo immobile vs. tempo lineare: un problema di

trascendenza » 228

4. Il congedo da Sbarbaro: su Epigramma » 231

4.1. Un passo indietro: «qui manchi | Camillo» » 231

4.2. Il fanciullo e il gentiluomo » 232

X. La «contraddizione» in re: Quasi una fantasia » 235

1. Il miracolo sognato » 235

1.1. Il tema del componimento » 235

1.2. La collocazione all’interno di Movimenti » 236

2. Tempo immobile, atemporalità e tempo lineare » 240

2.1. La condanna al tempo immobile » 240

2.2. L’aspirazione all’atemporalità » 242

2.3. Conclusioni: la conquista del tempo lineare » 243

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Ma nei miei versi della maturità ho tentato di sperare, di battere al nuovo, di vedere ciò che poteva esserci dall’altra parte della parete, convinto che la vita ha un significato che ci sfugge

(Eugenio Montale, intervista alla «Gazette de Lausanne», febbraio 1965)

«Abbiate pazienza» vi grideranno «non si può ribellarsi: due volte due fanno quattro! La natura non chiede mica il permesso a voi; non la riguardano proprio i vostri desideri e neanche se le sue leggi vi piacciono o non vi piacciono. Voi non potete che accettarla com’è, con tutte le sue conseguenze, ovviamente. Il muro dunque è un muro… eccetera eccetera». Signore Iddio che me ne faccio, io, delle leggi di natura e dell’aritmetica se queste leggi e il due-per-due-quattro chissà perché non mi piacciono? Si capisce, non tenterò di abbattere il muro con la fronte se in effetti non avrò le forze per farlo, ma non mi acquieterò neppure soltanto perché ho di fronte un muro e non mi bastano le forze per abbatterlo.

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Questo libro è stato scritto tra il 2010 e il 2014, ed è stato subito pensato e redatto nella forma unitaria che qui si pubbli-ca. Ciò non ha impedito che tre capitoli (sui dieci complessivi) venissero anticipati in rivista: più specificamente Un punto di svolta in Ossi di seppia: lettura di Falsetto, in «L’Ellisse», V, 2010, pp. 165-188; L’incipit di Ossi di seppia. Il meriggio, Pan e fonti nietzschiane ne I limoni di Eugenio Montale, in Interazioni mon-taliane, a cura di S. Chessa e M. Tortora, numero monografico de «L’Ellisse», VII, 2012, pp. 11-44; e «Ogni apparenza dintorno va-cilla s’umilia scompare». Lettura di Corno inglese, in «Allegoria», 65-66, 2012, pp. 134-153.

Soprattutto nella seconda parte, che raccoglie le singole let-ture dei sei Movimenti iniziali (da I limoni a Quasi una fanta-sia), il lettore troverà alcune considerazioni sul funzionamento generale della raccolta – e in particolarmente della prima sezio-ne – ripetute in quasi tutti i capitoli (benché è sezio-nel terzo che tale concetto viene distesamente discusso). Si è preferito mantenere queste continue e cicliche riprese, indispensabili a nostro avviso per comprendere l’interpretazione del singolo componimento, al fine di offrire i necessari ragguagli anche a chi si trovasse a con-sultare il volume soltanto per uno specifico testo.

Ci piace infine ricordare che questo libro nasce anche dal confronto con gli studenti e dalle sollecitazioni avute durante i corsi universitari di questi anni, e tenta in qualche modo di proseguire tale proficuo e prezioso dialogo: di qui il ricorso a qualche spiegazione in più, e soprattutto l’esplicitazione di al-cuni nodi metodologici, che il lettore con più esperienza riterrà certamente scontati.

Com’è uso, tutte le citazioni delle poesie sono tratte da E. Montale, L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, To-rino, Einaudi, 1980.

Nel mandare alle stampe questo libro, desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato con consigli e con suggerimen-ti. Una particolare gratitudine, per l’attenta e scrupolosa lettura del dattiloscritto finale o di sue redazioni intermedie, esprimo nei confronti di Pietro Cataldi, Silvia Chessa, Tiziana de

(10)

Roga-scoltare spesso la sera, invece che la legittima fiaba, testi di Ossi di seppia (addormentandosi peraltro dolcemente): a loro tre, per questo e per altri più ovvi motivi, il libro è dedicato.

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1. La chiusa contraddittoria di Ossi di seppia

I mutamenti di assetto che hanno riguardato con discontinua incisività la struttura di Ossi di seppia, dalla sua prima edizione del ’25 fino a quella definitiva de L’opera in versi, non hanno mai ri-mosso Riviere dalla nobile posizione di chiusura del volume; una posizione oltretutto resa ancor più visibile dalla sezione a sé in cui il componimento, da solo, trova collocazione.

Il testo com’è noto è uno dei più antichi della raccolta, risa-lendo, come avverte lo stesso Montale in una Nota inserita nell’e-dizione Ribet, addirittura al 1920, anno in cui di fatto erano state composte – limitando il campione alle liriche poi accolte nel libro – solo Corno inglese e la prima versione di Meriggiare pallido e as-sorto. La sua prima pubblicazione nel ’22 su «Primo Tempo» insieme ad Accordi riconduce inoltre il testo, per questioni sia cronologiche che poetiche, all’area del proto-Montale, quello precedente Ossi di seppia: e tuttavia né l’afflato simbolista, né la datazione alta hanno impedito a Montale di concedere proprio a Riviere le parole di con-gedo dalla raccolta.

Ciò che ha spiazzato maggiormente gli interpreti montaliani, ancor più dell’infrazione cronologica (comune ad altre liriche: si pensi ad esempio ad Altri versi, aggiunti nel ’26 e immessi nel finale della prima sezione), è la profonda inversione di rotta rappresen-tata da Riviere rispetto ai testi precedenti, e in modo particolare a quelli conclusivi di Meriggi ed ombre. Così se già Arsenio era con-dannato ad una progressiva e inarrestabile discesa verso «una sola | ghiacciata moltitudine di morti» [Arsenio, vv. 57-58], in Crisalide la prospettiva del miracolo è per l’ennesima volta, ma in una forma ben più palese e diretta, rimossa e accantonata:

[…] anche la vostra

rinascita è uno sterile segreto, un prodigio fallito come tutti quelli che ci fioriscono d’accanto.

(14)

E poco più avanti, a fugare ogni dubbio: e non vedremo, sorgere per via

la libertà, il miracolo,

il fatto che non era necessario!

[Crisalide, vv. 65-67]

Sicché l’ennesima esortazione ad affrontare «senza viltà» [Incon-tro, v. 54] la discesa, come informa Incon[Incon-tro, finisce per concludere una parabola che si estende sì per tutta la raccolta, ma che trova proprio in Meriggi e ombre la soluzione narrativa più serrata e omo-genea.

Riviere si oppone frontalmente a quanto asserito in Incontro, in Meriggi e ombre e in gran parte del volume (almeno a partire dalle Poesie per Camillo Sbarbaro): l’invocazione finale che l’io rivolge alle «riviere», ossia al mare e alla natura in genere, affinché queste permettano una rinascita, un «rifiorire!» [Riviere, v. 66] e una fusione panica con il tutto, sembra non trovare alcuna forma di conciliazio-ne con quanto descritto prima.

I conseguenti problemi esegetici sollevati da tale contraddizione sono stati sostanzialmente risolti secondo tre direttive. Da una par-te ci sono coloro che nel ripercorrere l’inpar-tero ipar-ter di Ossi di seppia di fatto tacciono su Riviere, delegando in questo modo ad Incontro la funzione di explicit. Volta a rimuovere l’attuale lirica conclusiva è anche quella schiera di critici che in modi diversi ha delegittimato il giovanile componimento, definendolo di volta in volta «un testo “minore”, che non è facile interpretare nella posizione»1, una «lirica

apparsa poi tematicamente inadeguata», un «componimento immatu-ro», «un regresso»2, o ancora un «testo sin troppo squillante»3. Diversa

1 T. Arvigo, Guida alla lettura di Montale Ossi di seppia, Roma, Carocci, 2003, p. 227. 2 N. Scaffai, Montale e il libro di poesia (Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e

altro), Lucca, Pacini Fazzi, 2002, pp. 67 e 68.

3 A. Casadei, Montale, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 38. Particolarmente severo è il

giudizio di Bonora, che quando giunge a commentare l’ultima strofe scrive: «Non sto a dire quanto sia frusta l’immagine del porto di saggezza, che si trova in Dante […], in Petrarca e in non so quanti altri. Non credo dover dare peso al proposito di “cangiare in inno l’elegia” […]. È piuttosto vero che forse Montale non ha mai scritto versi brutti come in questo punto in cui parla dell’elegia e dell’inno» (E. Bonora, Lettura di Montale. 1. Ossi di seppia, Torino, Tirrenia Stampatori, 1980, p. 78). Non più clemente è Ramat, il quale, ancor più di Bonora, sottolinea la discontinuità tra Riviere e il resto della raccolta: «Ci vuole dunque uno sforzo notevole per attaccare Riviere (1920) al carro in discesa degli Ossi: è questa una poesia giovanile che si affida al gioco sfrecciante delle luci per imprimersi durevolmente in chi legge. Così,

(15)

nel procedimento, ma identica nelle conclusioni, è la lettura di chi invece ha tentato di ricondurre Riviere ad una continuità con i testi precedenti, attenuando la matrice simbolista della lirica, a vantaggio di altri elementi poeticamente più vicini a quelli rinvenibili in Meriggi e ombre4. In ogni caso, in tutte e tre le posizioni assunte il messaggio

montaliano degli Ossi viene schiacciato unicamente sull’asse Arsenio-Incontro (sulla cui centralità non occorre spendere parole, data la sua evidenza), a danno di Riviere, che sembra non poter trovare alcuna cittadinanza all’interno del sistema elaborato nella raccolta.

Hanno influito su questa rimozione anche due note dichiara-zioni di Montale, che vale la pena riprendere, per tentarne una più piena comprensione. Nel settembre del ’27, mentre preparava la nuova edizione di Ossi di seppia e meditava sull’inserimento di sei nuove liriche, Montale scriveva a Sergio Solmi:

vorrei chiederti un enorme favore. Di rileggere gli Ossi nell’ordine della lista-indice acclusa, che è l’indice che proporrei a Gromo per la riedizione, inter-calandovi le liriche indicate che tu conosci e possiedi (credo). Dimmi che te ne pare subito subito. (Naturalmente qualche brutto verso qua e là è stato rabber-ciato, il nome di Arletta sparisce etc.). L’“intercalamento” (che parola!) mi pare possibile ma ne risulta vieppiù a Riviere il carattere di trombonata giovanile, con quelle camelie pallide, quelle voci d’oro ecc. ecc.!! Scrivimi subito il tuo parere5.

entro questo limite di suggestione visiva, è assai bella la prima strofe, mentre nella seconda e nella terza si avverte come un impaccio la memoria pesante di Gozzano» (S. Ramat¸ Montale, Firenze, Vallecchi, 1965, pp. 77-78).

4 È il caso di Mario Ceroti che sottolinea la «funzione anaforica» di Riviere rispetto al resto

della raccolta, ossia la capacità di questo componimento di ribadire la perdita di illusioni circa la possibilità di «smuovere | un sasso solo della gran muraglia» [Crisalide, vv. 62-63]. Scrive Ceroti nella parte conclusiva del suo saggio: «Nel microtesto [Riviere] abbiamo la riflessione del protagonista che si confronta con il passato ormai irrecuperabile, che dichiara la propria disarmonia con la natura e che cerca di assumere […] una identità, un senso in un futuro non lontano. […] L’explicit della poesia, infatti, non contiene, nonostante forti ascendenze di matrice dannunziana, una rêverie panica, un desiderio di annullamento nell’indistinto naturale che era proprio dello “smarrito adolescente”, bensì il tentativo del giovane Montale di costruirsi un “aspetto” e conseguentemente di poter mutare l’“elegia” […] in “inno”, espressione di “una personalità integra”» (M. Ceroti, Ossi di seppia. Una proposta di lettura, in «Allegoria», 52-53, gennaio-agosto 2006, pp. 107-116: p. 114). Una posizione simile era stata già in qualche modo assunta anche da G. Cillo, Le spore del possibile. Sviluppi di alcuni aspetti della poesia di Eugenio Montale dagli Ossi di seppia alle Occasioni, in Contributi per Montale, a cura di G. Cillo, Lecce, Milella, pp. 109-137, in particolare p. 116, in cui Riviere è letta come la «formulazione in poesia di una nuova poetica, le cui grandi linee teoriche sono ormai chiaramente tracciate».

5 Citazione tratta da G. Zampa, Introduzione a E. Montale, Tutte le poesie, Milano,

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Ancor più note sono le affermazioni montaliane su Riviere con-tenute nella celebre Intervista immaginaria:

[Ossi di seppia] era un libro difficile a situarsi. Conteneva poesie che uscivano fuori delle intenzioni che ho descritto, e liriche (come Riviere) che costituivano una sintesi e una guarigione troppo prematura ed erano seguite da una ricaduta successiva o da una disintegrazione (Mediterraneo)6.

Certamente le espressioni «trombonata giovanile» e «guarigione troppo prematura» (con l’accento posto principalmente sull’aggetti-vo) hanno offerto un punto d’appoggio decisivo alle letture volte a ridimensionare il testo, al fine di espungerlo, nei fatti, dalla stessa raccolta. E certamente nessun commento riuscirà mai ad esporsi, se non ricorrendo a personali quanto opinabili gusti estetici, in un giu-dizio di valore pari a quello che può essere espresso per altri testi, quali ad esempio Arsenio, Incontro o Crisalide. Tuttavia le stesse parole di Montale se prese nel suo insieme offrono anche altre e non così lineari indicazioni.

Si potrebbe già dire che nella lettera a Solmi Riviere risulta una «trombonata giovanile» soprattutto perché anteceduta da com-ponimenti più maturi ed elaborati quali Arsenio, Incontro, I morti e Delta, redatti com’è noto tra il ’26 e il ’27, e inseriti in raccolta nel ’28. Inoltre, ed è senz’altro un dato più rilevante, l’arretratezza di Riviere non starebbe tanto nel suo contenuto, quanto in alcune soluzioni espressive che possono essere avvertite ingenue e un po’ datate: soluzioni però che Montale decide comunque di mantenere sia nel ’28, che nelle edizioni successive, in cui si registrano uni-camente varianti di interpunzione (di maggior peso sono invece le divergenze tra la versione di «Primo Tempo» e il testo apparso nella princeps di Ossi di seppia). Sicché la sua permanenza nella raccolta non è affatto messa in discussione, né la sua posizione può subire modifiche; anzi proprio in apertura del volume Ribet Montale rimarca ulteriormente il valore di congedo di Riviere, sot-tolineando come la sua collocazione finale sia stata confermata a fronte della datazione alta del testo: «Riviere, che s’è voluto lascia-re in fondo al volume come nella Ia edizione (Gobetti 1925) è del

marzo 1920»7.

6 E. Montale, Intenzioni (Intervista immaginaria), in «La Rassegna d’Italia», I, 1,

gennaio 1946, pp. 84-89, poi in Id., Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976, pp. 561-569: p. 566.

7 Id., L’opera in versi, edizione critica a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino,

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Il motivo dell’ostinata e perpetrata permanenza in chiusura di libro è espresso nitidamente nell’Intervista immaginaria, in cui Ri-viere è definita una «sintesi» o, per sinonimia, una «guarigione». Nello scritto del ’46 Montale incrocia, percorrendoli contemporaneamente, l’ordine cronologico e quello strutturale del libro. Sicché, agendo sul primo, Riviere non può che risultare «prematura», visto che poi viene smentita dalla «ricaduta» di Mediterraneo. E però a livello di intreccio Riviere non perde la sua funzione di «sintesi», ma anzi la irrobustisce in maniera radicale con la sua collocazione terminale; una «sintesi» ol-tretutto che a questo punto finisce per inglobare anche Mediterraneo, e tutti i testi della raccolta: sia quelli che mostrano come «per i più non sia salvezza» [Casa sul mare, v. 24], che i componimenti più sin-ceramente fiduciosi nella possibilità di un riscatto che metta di fronte a «qualche disturbata Divinità» [I limoni, v. 36]. Non si tratta pertanto di contrapporre Riviere a ciò che precede, né di tentare di ricondurre il testo alle istanze espresse in Arsenio. Riviere piuttosto richiede di essere letto – o almeno così suggerisce Montale – come un luogo di convivenza tra aspirazione al miracolo e consapevolezza dell’assoluta immanenza della vita umana, in cui la prima prospettiva non si dà in alternativa alla seconda, ma nonostante la drammatica realtà della seconda. È in questo senso che Riviere può rappresentare un com-promesso, una «guarigione», o, per usare la più precisa espressione montaliana, una «sintesi».

2. Lo Streben montaliano tra panismo e accettazione del contingente L’afflato panico che caratterizza l’intera costruzione di Riviere è denunciato sin dalla prima strofe: è qui infatti che, adottando un presente indicativo che ha valore astorico, l’io mostra come «pochi stocchi d’erbaspada» o «due camelie pallide» «e un eucalipto bion-do» [Riviere, vv. 2, 5, 7] siano sufficienti ad esercitare un’irresistibile forza attrattiva, capace di imbrigliare «in un attimo | [con] invisibili fili» il soggetto «in una ragna» [Riviere, vv. 10-11, 12]. L’atmosfera solare e lucente in genere, costruita da un non originalissimo uso di sostantivi e aggettivi («luce», «girasoli», a loro volta rinforzati da «pallide», «biondo», ma anche dai «giardini deserti» per la troppa ca-lura, nonché dall’ambientazione marina), avvalora la sensazione di imminente rivelazione, tanto più perché richiama alla mente del let-tore di Ossi di seppia il «meriggio» più volte rievocato nella raccolta.

E tuttavia la tensione verso la natura, o più correttamente il richiamo della natura che l’io avverte, non conduce alla fusione tra i due elementi. Tutt’al più può essere rappresentato il carattere pulsante e della natura e del soggetto in essa allocato («un eguale

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| fremer di vite» [Riviere, vv. 23-24]), e il protendere di quest’ultimo verso uno scioglimento liberatorio nel più grande insieme naturale. Collaborano a questa rappresentazione non solo gli elementi più prettamente contenutistici, ma anche la catena di sibilanti e di den-tali sorde (spesso affiancate e per lo più rinfrancate da doppie o da occlusive), che riproduce metaforicamente, da un punto di vista fonetico, una sorta di sforzo, di tensione, di energia che fa fatica a liberarsi («baSTano», «STocchi», «erbaSPada», «deSerTi», «euCaliPTo», «SFrusci», «PaZZi», «aTTimo», «aSSerPano»).

È a partire dalla seconda strofe che il testo conosce una bifor-cazione temporale, di assoluta radicalità, dando vita a due piani del discorso, del tutto speculari alla dicotomia “uomo mortale”/“natura divina” appena esposta.

Da un lato prende posto un passato mitico, «in cui [per dirla con Lukács] è il firmamento a costituire la mappa delle vie pratica-bili […] Tutto è nuovo […] e insieme familiare, avventuroso eppure noto. Il mondo è ampio e tuttavia come la propria casa»; insomma il tempo, continua ancora Lukács, in cui «il mondo e l’io […] mai risultano estranei»8, e in cui il senso è immanente, la «patria

sogna-ta» è finalmente abitata, e «il piccino fermento | del mio cuore non era che un momento del tuo» [Antico, sono ubriacato, vv. 13-15]. In maniera evidente, in Riviere, a questo passato si riferiscono plurime immagini, quali l’«antico giuoco», «l’acre filtro che porgeste | allo smarrito adolescente», «un risucchio ampio, un eguale | fremer di vite, | una febbre del mondo» [Riviere, vv. 16, 18-19, 22-24], la figura del ciottolo, già usata peraltro in Mediterraneo e in Falsetto9, la

pos-8 G. Lukács, Teoria del romanzo, Parma, Pratiche, 1994, p. 57.

9 Leggiamo in Riviere: «diventare | un albero rugoso od una pietra | levigata dal

mare» (vv. 29-31). L’immagine della «pietra levigata | dal mare» è la stessa di Falsetto (in cui l’io dice ad Esterina: «noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo | come un’equorea creatura», vv. 31-32) e ancor più di Mediterraneo («una legge severa. | Ed è vano sfuggirla: mi condanna | s’io lo tento anche un ciottolo | róso sul mio cammino, | impietrato soffrire senza nome,» [Ho sostato talvolta nelle grotte, 16-20]). Il «ciottolo» mostra perfettamente la fusione panica con l’ente superiore della natura, rappresentata a sua volta dal padre-mare. Il «ciottolo» infatti ha perso ogni forma di individualità e di identità, ed è del tutto indistinguibile dalle altre pietre marine; e tuttavia, a risarcimento di tale perdita (imposta appunto da una «legge severa»), può godere dell’abbraccio con il «divino amico» [Falsetto, v. 49], ossia con un’entità trascendente, completamente appagante, e capace di redimere il soggetto della sua contingenza. Sulle diverse occorrenze di «ciottolo» cfr. E. Gioanola, Mediterraneo IV (da Ossi di seppia), in Letture montaliane: in occasione dell’80° compleanno del poeta, a cura di S. Luzzatto, Genova, Bozzi, 1977, pp. 55-68, in particolare p. 66.

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sibilità di «svanire a poco a poco»10. E alla stessa area concettuale

ap-partengono anche le «bellezze funerarie» [Riviere, v. 45], che in linea con i Sarcofaghi proiettano verso una trascendente atemporalità11.

Tuttavia non può essere taciuto come questi elementi panici e rasse-renanti non costituiscano un assoluto e definitivo riscatto al “male di vivere”, risolvendosi piuttosto in «auree cornici | all’agonia di ogni essere» [Riviere, vv. 45-46]. E che quei «tempi beati»12 non fossero

immuni da tristezza è detto anche, e più esplicitamente, pochi versi sopra, nei quali l’io lirico si definisce come colui che «straziato vi fuggiva [riferito alla rive marine]» [Riviere, v. 39], ossia, recuperando l’originaria lezione apparsa su «Primo Tempo», come «chi v’odiò per troppo amore!»13. In questo passaggio il supplizio non è sinonimo

di “male di vivere”, pur presente nel testo, ma coincide più precisa-mente con lo stato d’ansia di chi non riesce a sostenere la «legge ri-schiosa» e «severa» del dio mare-padre, e con lo struggimento di chi avverte, proprio nel momento in cui gode dell’abbraccio invisibile e redentore con le “riviere”, che il proprio desiderio è ancor vivo e dunque non completamente appagato. Ciò non toglie che quell’«età verginale», caratterizzata da un «estatico affisare» la natura e da un «mondo [che] aveva un centro» [Fine dell’infanzia, vv. 69, 76, 68], assuma tratti di leggenda, di mito, di felicità primigenia: insomma, detto con parole elementari, di «bella età» [Fine dell’infanzia, v. 103].

Dall’altro lato, ossia all’opposto del «tempo [che] s’arresta» [Upupa, ilare uccello, v. 6], si situa invece il «tempo inesorabile»

10 Il termine «svanire» ritorna in un altro testo di Ossi di seppia, Portami il girasole:

«Svanire | è dunque la ventura delle venture» (vv. 7-8). In entrambi i componimenti il verbo indica la possibilità di perdere la propria identità terrena, per parcellizzarsi e diffondersi in un’entità superiore, che per rapidità individuiamo sic et simpliciter nella natura. L’approdo a questa dimensione, attuata attraverso uno «svanire a poco a poco» sarebbe infatti «la ventura delle venture».

11 Una posizione simile ha assunto Tiziana Arvigo che, dopo aver indicato

«l’inter-pretazione che Bourget dà della sofferenza di Amiel» in Essais de psychologie con-temporaine quale una delle chiavi di lettura di Riviere, sostiene: «risulta allora più eloquente la figura un po’ carducciana del “fanciullo antico | che […] moriva sor-ridendo”, dello “smarrito adolescente” […], depositario di una purezza di pensiero che si rispecchia nell’esuberante, ancorché straziata, dichiarazione d’amore per le “bellezze funerarie”, “auree cornici” che hanno inquadrato il suo doloroso affacciarsi alla vita» (Arvigo, Guida alla lettura di Montale Ossi di seppia, cit., pp. 228-229). Non condividono questa lettura Cataldi e d’Amely, secondo i quali le «bellezze funerarie» sono più schiettamente «bellezze colme di senso di morte» (E. Montale, Ossi di seppia, a cura di P. Cataldi e F. d’Amely, Milano, Mondadori, 2003, p. 259).

12 Lukács, Teoria del romanzo, cit., p. 57. 13 Montale, L’opera in versi, cit., p. 892.

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[Scendendo qualche volta, v. 7], quello che «non mai due volte con-figura | […] in egual modo i grani!» [Vento e bandiere, vv. 13-14]: il transitorio presente insomma, in cui l’io è ridotto a «esiliato» dal «paese incorrotto» [Ho sostato talvolta, v. 15]. Sono in primo luo-go i marcatori temporali a segnare uno stacco e una discontinuità con l’età aurea dello «smarrito adolescente» [Riviere, v. 19]: si noti il ricorso oggettivamente esibito ed evidenziato all’avverbio «oggi» [Riviere, vv. 14, 46b, 59], che contrapponendosi ad «antico» [Riviere,

vv. 16, 35], ad «allora» [Riviere, v. 26], a «ieri» [Riviere, v. 59]14, crea un

solco temporale capace di dividere senza ambiguità passato mitico e presente contingente.

Anche l’uso dei tempi verbali è finalizzato a rappresentare que-sto iato. Dopo una lunga sequela di presenti indicativi, che occupa l’intera prima strofe e circa metà della seconda («bastano», «asser-pano», «s’arrende», «Rammento», a cui si aggiunge un congiuntivo, anch’esso presente: «si tuffi»), il testo inserisce la dimensione del pas-sato, ricorrendo principalmente agli imperfetti («fondevano», «era», «pareva», «Erano», «moriva», ecc.), che, riferiti alla gioia provata dal «fanciullo antico» per il contatto con le riviere, danno un’idea di con-tinuità e di condizione perpetrata, tanto da restituire al lettore, anche per la massiccia e strabordante presenza degli infiniti15, una

sensa-zione di atemporalità, di immobilità, di non progressione. Ancora una volta passato mitico e presente si trovano pertanto contrapposti. 3. Il futuro indicativo e la voragine del desiderio

Quella appena descritta è un’impostazione non nuova in Ossi di seppia, e perno, ad esempio, di liriche come Fine dell’infanzia o della suite di Mediterraneo. Ciò che differenzia Riviere da queste opere è però il tentativo di superare lo iato temporale, trovando un ponte di collegamento tra i due piani. Contrariamente ad una costante che caratterizza quasi integralmente Ossi di seppia, quella della «labilità memoriale»16, in Riviere la memoria, che già aveva

14 Gli altri due indicatori temporali sono offerti dall’espressione «un giorno», che

al v. 44 si riferisce al passato («Ah, potevo | credervi un giorno o terre, bellezze funerarie»), e al v. 53 al futuro («Ed un giorno sarà ancora l’invito | di voci d’oro»). Anche in questo caso, tuttavia, il «giorno» lontano a cui si allude è associato ad un “tempo beato”, naturalmente contrapposto all’«oggi» terreno.

15 Nel testo si contano 17 infiniti: nessun altro componimento di Ossi di seppia

presenta caratteristiche simili, da questo punto di vista, a quelle ravvisabili in Riviere.

16 E. Graziosi, Il tempo in Montale. Storia di un tema, Firenze, La Nuova Italia, 1978,

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avuto una sua riabilitazione in Delta17, assume i tratti di una

fun-zione positiva ed efficace: è in grado di recuperare il passato, di riannodarlo al presente, di fare in modo insomma che la progres-sione temporale non sia solo devastazione, sperpero e perdita. La fiducia nel dispositivo memoriale accompagna tutto il testo, creando una sorta di dorsale su cui possono poggiare tutti gli altri elementi: evidente è il ricorso a termini-chiave quali «rivivere», «Rammento», «ricordi lieti – e atroci», «rifarsi», «riaffluir», «rifiorire!» [Riviere, vv. 16, 18, 48, 56, 63, 65]; e anche il prefisso ri-, come lucidamente rileva-to da Bruno Porcelli, corrobora la sensazione di ririleva-torno, di tempo ciclico, di ripresa18. Naturalmente questo meccanismo non conduce

mai a un riscatto del tempo passato, come se questo potesse essere liberato dai confini che lo separano dall’oggi, e il soggetto potesse riabitarlo nuovamente. Al contrario il ricordo, proprio nel momento in cui ritrova la «bella età» [Fine dell’infanzia, v. 103], ne constata anche la sua assenza. Sicché il prefisso ri-, i «ricordi lieti – e atro-ci», e la memoria si configurano come “ordigni” capaci di prendere contatto con ciò che non è più, di assaporare sensazioni trascorse, di rintracciare il luciferino segnale lasciato dagli dei al momento di abbandonare il mondo19; ma non possono in alcun modo

recupera-re – in senso proustiano – il tempo perduto.

E proprio questa sensazione di distacco e di esilio dalla «patria sognata» [Antico, sono ubriacato, v. 13] fa sì che si apra la voragine del desiderio (una «volontà nuova» [Riviere, v. 50]), e riprenda piede «la guerra» «delle divertite passioni» [I limoni, vv. 19, 18], che ne I

li-17 Si fa riferimento soprattutto alla seconda strofe del componimento: «Quando il

tempo s’ingorga alle sue dighe | la tua vicenda accordi alla sua immensa, | ed affiori, memoria, più palese | dall’oscura regione ove scendevi, | come ora, al dopopioggia, si riaddensa | il verde ai rami, ai muri il cinabrese.» [Delta, vv. 5-10]. Sottolineava giustamente Tiziana Arvigo, commentando questo testo, che già in Ossi di seppia, e ancor più ne Le occasioni, il discorso sulla memoria si infittisce in concomitanza della presenza di Arletta (cfr. T. Arvigo, La «presenza soffocata» di Delta, in «Per Leggere», II, 3, autunno 2002, pp. 75-82, in particolare pp. 79-80; sulla memoria in Delta e sulla sua «missione salvifica», cfr. anche P. Bigongiari, Montale tra Boutroux e Mlle Scudery, in Id., Poesia italiana del Novecento, vol. II, Milano, Il Saggiatore, 1979-1980, pp. 375-405, specificamente pp. 379-380).

18 Cfr. B. Porcelli, Una lettura di Riviere e anche di In limine (Ossi di seppia),

in «Lettere Italiane», 2000, 4, pp. 611-623, in particolare, per quanto concerne la «ricorrente allitterazione a distanza in ri-», p. 619.

19 Cfr. Lukács, Teoria del romanzo, cit., p. 65, in cui si discute del «luciferino e

accecante splendore» ancora presente nella cultura greca, e p. 114 in cui si legge: «Gli dèi discacciati e gli dèi che ancora non abbiano raggiunto la signoria, divengono dèmoni: la loro potenza è alcunché di efficace e vivo».

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moni, “miracolosamente”, per un attimo “aveva taciuto”. Il contatto con il passato aureo infatti sprigiona in Riviere una prospettiva di senso, non priva di fiducia, che rimanda a sua volta inevitabilmente al futuro: è questo il motivo per cui, nella quarta strofe, dopo che la memoria ha potuto raggiungere alcuni dei luoghi dell’«età virginale» [Fine dell’infanzia, v. 69], irrompe nel testo un futuro indicativo, espressione di speranza e di aspettativa per un domani armonico e compiuto:

Ed un giorno sarà ancora l’invito di voci d’oro, di lusinghe audaci, anima mia non più divisa.

[Riviere, vv. 52-55, corsivo mio]

E poi poco più avanti: sentire

noi pur domani tra i profumi e i venti un riaffluir di sogni, un urger folle di voci verso un esito; e nel sole che v’investe, riviere,

rifiorire!

[Riviere, vv. 61-65, corsivo mio]

In Ossi di seppia il futuro grammaticale – quantitativamente contenuto20 – non è quasi mai usato in senso meramente

referen-ziale e neutro21, ma si fa sempre portatore di messaggi rilevanti per

l’economia della raccolta. In genere è utilizzato per indicare l’impos-sibilità di un superamento, nell’oggi e nel domani, dell’«erto muro» [In limine, v. 10] che separa dall’eden redentore:

20 Il futuro indicativo ricorre solo in poche liriche: In limine (1), Falsetto (2),

Quasi una fantasia (11), Ora sia il tuo passo (2), Vento e bandiere (1), Ciò che di me sapeste (1), Là fuoriesce il Tritone (1), Forse un mattino andando (4), Sul muro grafito (1), Noi non sappiamo quale sortiremo (10), Potessi almeno costringere (1), Egloga (1), Flussi (1), Crisalide (3), Marezzo (3), Casa sul mare (2), Incontro (1), Riviere (1).

21 Gli unici due casi in cui il futuro indicativo non è utilizzato per rappresentare

una prospettiva di senso, o una sua recisa negazione, sono Ora sia il tuo passo e Potessi almeno costringere. Ha valore a sé il futuro in Vento e bandiere («se accada, insieme alla natura | la nostra fiaba brucerà in un lampo», vv. 15-16), in quanto usato con valore di condizionale; e tuttavia non può non essere sottolineato come anche in questo caso il tempo verbale ricorra discutendo di un impossibile riscatto della contingenza della vita umana.

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Oh la favola onde s’esprime la nostra vita, repente

si cangerà nella cupa storia che non si racconta [Noi non sappiamo, vv. 13-15];

noi andremo innanzi senza smuovere un sasso della gran muraglia;

e forse tutto è fisso, tutto è scritto, e non vedremo sorgere per via la libertà, il miracolo,

il fatto che non era necessario!

[Crisalide, vv. 61-65].

In linea con Noi non sappiamo e con Crisalide (ma si possono chiamare in causa anche i versi di In limine, Ciò che di me sapeste, Flussi, in parte di Marezzo e di Egloga22) sono anche quei testi che

riferiscono, attraverso il futuro indicativo, di un domani luminoso per il “tu” femminile, ma non per l’io. Emblematici sono i casi di Falsetto e, sia pure in forma meno netta e più problematica, di In limine e di Casa sul mare:

Sommersa ti vedremo nella fumea che il vento lacera o addensa, violento. Poi dal fiotto di cenere uscirai adusta più che mai

[Falsetto, vv. 5-9];

Va, per te l’ho pregato, – ora la sete mi sarà lieve, meno acre la ruggine…

[In limine, vv. 17-18];

22 Anche in Flussi, con modalità simili a quelle già riscontrate nel sesto movimento

di Mediterraneo, e in Crisalide si constata che «un giorno | il giro che governa | la nostra vita ci addurrà il passato | lontano, franto» (vv. 27-30), mentre in Ciò che di me sapeste si denuncia «lo schiudersi d’un’ignita | zolla che mai vedrò» (vv. 11-12). In Egloga invece l’unico futuro è nel verso «Tosto potrà rinascere l’idillio» [v. 27]: in realtà la frase ha un valore quasi esclusivamente atmosferico, e indica solo la fine della pioggia; infatti, benché rinfrancante, tale asserzione apre una strofe che si chiude con l’ammissione che la «parvenza di donna» (v. 37) scorta «non era una Baccante» (v. 38), ossia annunciatrice di quel dio Pan rapidamente visto nella terza strofe de I limoni. Considerazioni non dissimili si possono addurre per Marezzo: «Forse vedremo l’ora che rasserena» (v. 43) rimanda allo stesso tramonto annunciato dagli altri due futuri del testo («Tutto fra poco si farà più ruvido, | fiorirà l’onda», vv. 25-26); tramonto che a conti fatti rimane enigmatico e non necessariamente portatore di serenità e di senso.

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forse solo chi vuole s’infinita, e questo tu potrai, chissà, non io.

[Casa sul mare, vv. 22-23].

Appartengono sempre alla stessa linea “materialistica” quei fu-turi che si riferiscono sì all’io, ma per suggerire la via verso l’iden-tità terrena (la «razza | di chi rimane a terra» [Falsetto, vv. 50-51] appunto), l’abbandono di tensioni assolutistiche, l’accettazione del mondo quale «una sola | ghiacciata moltitudine di morti» [Arsenio, vv. 53-54]. Si rileggano ad esempio i versi di Là fuoresce il Tritone e di Incontro:

Quivi sei alle origini e decidere è stolto: ripartirai più tardi per assumere un volto.

[Là fuoresce il Tritone, vv. 10-13];

Forse riavrò un aspetto:

[Incontro, v. 37]

Un’altra caratteristica del futuro di Ossi di seppia è la sua carica di incertezza. Sia sufficiente notare come l’avverbio «Forse» in un nu-mero non limitato di casi introduca il futuro indicativo, mentre in al-tri funga da guida dell’intero periodo sintattico: accade ad esempio in Forse un mattino andando, in Incontro (il già citato verso «Forse riavrò un aspetto», v. 37), in Crisalide («forse tutto è fisso, tutto è scritto, | e non vedremo», vv. 64-65) e in Marezzo («Forse vedremo l’ora che rasserena», v. 43); a cui è da aggiungere Noi non sappiamo quale sortiremo, l’unico movimento di Mediterraneo proiettato al domani (come dimostrano chiaramente i dieci futuri indicativi, di fatto esclusivi nella sezione se si eccettua l’unico caso di Potessi almeno costringere), che si apre appunto con una dichiarazione di ignoranza circa le sorti dell’avvenire (rinfrancata oltretutto, anche in questo caso, da una massiccia occorrenza dell’avverbio «forse»23).

Diverso è il caso di Riviere, la cui profezia («sarà ancora l’invito | di voci d’oro», vv. 53-54) sembra poggiare su una fiducia più salda e più ferma, attenuata sì, anche in questo caso, da un «forse» al v. 51,

23 Cfr. i seguenti versi: «forse il nostro cammino | a non tócche radure ci addurrà […]

o sarà forse un discendere | fino al vallo estremo […] Ancora terre straniere | forse ci accoglieranno» [Noi non sappiamo quale sortiremo, vv. 3-10]. Alcune considerazioni sull’uso dell’avverbio “forse” in Ossi di seppia si trovano in P. Zoboli, Linea ligure. Sbarbaro, Montale, Caproni, Novara, Interlinea, 2006, p. 155.

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ma poi comunque incoraggiata da un crescendo di sicurezza che caratterizza tutta la seconda parte dell’ultima strofe (a cominciare dalla frattura del v. 46, in cui significativamente si legge: «Oggi tor-no | a voi più forte», vv. 46b-4724). Ciò non induca però ad appaiare

tale fiducia all’assertività di Quasi una fantasia (il componimento della raccolta con il più alto numero di futuri indicativi25), giacché

in quest’ultima lirica la determinazione senza dubbi, e riferita all’io, ha possibilità di espressione solo a livello di immaginazione (una “fantasia” appunto). Semmai si potrebbe determinare una situazione più simile a quella riscontrabile ne I limoni, la cui conclusione, con una formula che ricalca in qualche modo Riviere (l’endecasillabo «Quando un giorno da un malchiuso portone», v. 43, richiama quello con cui Riviere si appresta a congedarsi dal lettore: «Ed un giorno sarà ancora l’invito», v. 53), consegna un presagio e un messaggio di speranza, sebbene poi smentiti dal prosieguo della raccolta. E ciò nonostante, anche in questo caso, come già per Quasi una fan-tasia, le indubitabili convergenze non tengono fino in fondo, e il significato complessivo dei due componimenti alla fine risulta non sovrapponibile. Ne I limoni infatti la prospettiva delle «trombe d’oro della solarità» [I limoni, v. 49] annulla ed è alternativa alle «città ru-morose», al «tedio», alla «luce … avara» [I limoni, vv. 38, 41, 42]; e del resto già la terza strofe, quella in cui l’io incontra una «disturbata Di-vinità» [I limoni, v. 36], aveva dimostrato come una dimensione non possa che sopprimere l’altra. Non propriamente così è in Riviere, e non solo per la sua collocazione conclusiva, che impedisce evi-dentemente di eludere con un solo colpo il lungo cammino svolto nella raccolta. Come abbiamo cercato di rilevare finora, nell’ultima lirica di Ossi di seppia la condizione irriducibilmente immanente del soggetto non è mai negata (di qui l’uso dell’imperfetto – in contra-sto con il presente – per riferirsi alla «bella età»), né, come invece seppur per un momento accade ne I limoni, trova soluzioni atte ad offrire una redenzione ed una liberazione: la condanna all’hic et nunc insomma non appare in alcun modo aggirabile. E ciò nono-stante – e in questo risiede l’originalità di Riviere – tale condizione non proibisce di continuare ad aspirare ad una trascendenza, che

24 Anche Bruno Porcelli ritiene che «la frattura del v. 46 e la posizione iniziale, assai

più forte che nella strofa II, dell’indicazione temporale oggi, staccano nettamente da ciò che precede» (Porcelli, Lettura di Riviere e anche di In limine (Ossi di seppia), cit., p. 622).

25 Come già segnalato nella nota 20, Quasi una fantasia registra per undici volte

il futuro indicativo, e insieme a Noi non sappiamo quale sortiremo è l’unico testo a strutturarsi su questo tempo verbale.

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seppur asserita non offre alcuna garanzia. È in questo senso dunque che vanno letti i versi seguenti:

Triste anima passata

e tu volontà nuova che mi chiami, tempo è forse d’unirvi

in un porto sereno di saggezza

[Riviere, vv. 49-52]

La tristezza passata, oltre ad essere quella del desiderio non completamente appagato, è anche quella di Arsenio, che ha rifiutato ogni prospettiva trascendente; mentre la «volontà nuova» corrispon-de al recupero di un orizzonte metafisico, insopprimibile nell’ottica del soggetto. Ma ancor di più, la vera novità è questa tensione verso l’assoluto che è costretta ad una convivenza, consapevolmente con-traddittoria, con la logica terrena e terrestre che ha strutturato tutta la raccolta, e che il lettore non può aver dimenticato al momento di Riviere. Prende corpo insomma quella «sintesi» denunciata dal-lo stesso Montale nell’Intervista immaginaria, e che sempre nella stessa sede è ulteriormente ribadita:

Immanenza e trascendenza non sono separabili, e farsi uno stato d’a-nimo della perenne mediazione dei due termini, come propone il moderno storicismo, non risolve il problema o lo risolve con un ottimismo di parata. Occorre vivere la propria contraddizione senza scappatoie, ma senza neppure trovarci troppo gusto. Senza farne merce da salotto26.

Riviere costituisce un tentativo di mantenere in vita entrambe le prospettive, quella immanentistica e quella trascendentale (giun-gendo in fondo ad un cammino che In limine, anche in virtù della sua posizione proemiale, suggeriva soltanto27). L’eccessivo

«ottimi-26 Montale, Intenzioni (Intervista immaginaria), cit., p. 565.

27 Anche In limine, come molte altre liriche della raccolta, è costruita su una logica

binaria, che contrappone il «pomario» al «reliquiario», la vitalità della natura e del vento alla morte, il “di là” a il «di qua dall’erto muro». E tale suddivisione antitetica regola anche i rapporti tra l’io, rassegnato a «la ruggine», e il «tu», a cui è concessa la speranza di imbattersi «nel fantasma che ti salva» e di trovare «una maglia rotta nella rete». Tuttavia, come giustamente sottolineato da Ernesto Citro (cfr. E. Citro, Trittico montaliano: In limine, Il balcone, Il tu, Roma Bulzoni, 1999, pp. 11-39), Paola Nicoli, a cui è dedicata la poesia, è a differenza di Arletta, persona viva. Ciò le permette da un lato di farsi proiezione dei desideri dello stesso io lirico (desideri che in In limine appaiono già rimossi), e dall’altro di occupare momentaneamente il posto destinato al lettore (soprattutto per il ruolo introduttivo di Godi se il vento). Sicché l’invocazione rivolta alla giovane – «Va, per te l’ho pregato» – finisce per essere un

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smo» che però accompagna il testo ha reso il componimento sì una «sintesi», ma forse, come asserisce l’autore stesso, «una sintesi e una guarigione troppo prematura». Per questo motivo il cammino dovrà essere nuovamente intrapreso, ed inizierà già nel ’26 con Vecchi versi, per proseguire per tutti gli anni Trenta ne Le occasioni. Com’è noto neanche la prospettiva umanistica della seconda raccolta costi-tuirà una risposta sufficiente, e bisognerà attendere La bufera per trovare ulteriori soluzioni: lì la contraddizione tra «l’opera tua (che della Sua | è una forma)» [Iride, vv. 29-30] e il «Giove […] sotterra-to» [Il gallo cedrone, v. 16] si acuirà a tal punto, che lo iato tra le due dimensioni non sarà più colmabile. Ogni forma di trascendenza verrà abbandonata, e la scelta di terra si porrà come esclusiva. Al contempo, quasi fosse una conseguenza obbligata, deflagrerà un significativo silenzio poetico, infranto solo – alla metà degli anni Sessanta – da una nuova forma di poesia che poco ha in comune con Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro: quella del secon-do e ultimo Montale28.

augurio e una guida di lettura per chi si appresta ad attraversare l’intera raccolta; e a compiere questo cammino saranno sia il lettore che l’io lirico, i quali, partiti da postazioni diverse (almeno nella strategia compositiva degli Ossi), si ritrovano nella medesima posizione alla fine della raccolta, ossia in Riviere: entrambi infatti sono consci dell’impossibilità del miracolo (così come già sapeva l’io nel proemio), ma proiettati, comunque e nonostante l’hic et nunc, verso una dimensione superiore e laicamente metafisica (come prospettato alla Nicoli e al lettore in Godi se il vento). Non sarà inutile citare le parole dello stesso Montale riguardo il testo iniziale di Ossi di seppia; in una lettera a Irma Brandeis del 10 gennaio 1934 si legge: «Life is a addition o painful movements (?), necessity is the Rule; but the miracle, the contingenzaFYJTUTBMTP In limine, Casa sul mare) for the “happy few”. I don’t think I belong; but the happy few do FYJTUx & .POUBMF  Lettere a Clizia, a cura di R. Bettarini, G. Manghetti e F. Zabagli, Milano, Mondadori 2006, p. 47).

28 Insiste molto sulla presenza di una «verticale tensione metafisica» N. Paolini

Giachery, L’“eterno” rimosso, in «Rivista di letteratura italiana», 2004, 2, pp. 197-210; pur condividendo l’attenzione posta dalla studiosa sull’elemento trascendente nella poesia montaliana, non pare sostenibile l’accantonamento che di fatto la Giachery compie della «visione materialistica» ugualmente presente in Montale, né il j’accuse SJWPMUPBMMBDSJUJDBNBSYJTUBFTUPSJDJTUJDB SFBEJBWFSUSBMBTDJBUPPSJEJNFOTJPOBUPPMUSF ogni misura tutti gli aspetti miracolistici di Ossi di seppia, delle Occasioni e de La bufera.

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MEDITERRANEO

1. L’oggetto ambiguo e la possibile salvezza: Fuscello teso sul muro Nel licenziare l’edizione Carabba del 1931, Montale dichiarò che le quattro sezioni di Ossi di seppia dovevano essere conside-rate «parallele» e non succedanee. Se è vero che l’atto di lettura, necessariamente lineare e sequenziale, tende a rendere unitario e continuo il percorso tracciato dalle sessantuno liriche della raccol-ta, è altrettanto vero che le parole dell’autore non possono essere accantonate.

L’ottimismo di Riviere smentisce la «tristezza» di Incontro, im-ponendosi non solo come punto finale del volume (questo è un dato di fatto), ma anche, implicitamente, come chiusa della quarta sezione, giacché è a quest’ultima che immediatamente segue, e con questa intrattiene una prima e decisiva forma di dialogo. A ben ve-dere tutte e quattro le sezioni di Ossi di seppia si chiudono con delle liriche che, con incisività e fermezza differenti, aprono alla speran-za, recuperano il «sospetto d’un altro mondo, autentico e interno»30,

rilanciano una possibilità di salvezza.

Fuscello teso sul muro, pubblicata su «Solaria» nel ’26, venne inserita insieme a Vento e bandiere in Movimenti a partire dall’e-dizione Ribet del ’28. In quel primo inserimento le due poesie co-stituivano già la sottosezione di Altri versi, ma erano seguite dai Sarcofaghi, che in qualche modo sono sempre stati interpretati

29 In una lettera a Clizia del 19 gennaio 1934, già citata nel precedente capitolo,

Montale sostiene che «the happy few doFYJTUx &.POUBMF Lettere a Clizia, a cura di R. Bettarini, G. Manghetti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2006, p. 47), rilanciando per l’ennesima volta, e oltretutto in uno scritto privato, la possibilità che pochi eletti abbiano accesso al miracolo, nonostante un mondo che non lascia scorgere “maglie rotte nella rete” dell’immanenza. Ma perché questo accada è necessario che le storie raccontate si concludano nonostante tutto con un finale lieto, happy, tutt’al più speranzoso. Ed è proprio questa la tesi che in questo lavoro si intende presentare.

30 G. Contini, Dagli Ossi alle Occasioni, in Id., Una lunga fedeltà, Torino, Einaudi,

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come elementi a sé stanti all’interno del volume31: ad ogni modo

BODIFMBTPTQFOTJPOFFYUSBUFNQPSBMFFDMBTTJDJTUBDIFRVFTUJVMUJNJ propongono poteva costituire una sosta pacifica nella vorticosa e inarrestabile discesa agli inferi che le Poesie per Camillo Sbarbaro prima e Vento e bandiere poi mettevano in atto. L’edizione Carabba del ’31 pospone le due nuove liriche rispetto ai quattro bassorilievi, «certo per una ragione anche tipografica, poiché in Rib il gruppo di SARCOFAGHI, col titolo di Sarcofaghi segnato sopra la prima poesia,

veniva dopo ALTRIVERSI in occhiello, sì che anche questi quattro

com-ponimenti di SARCOFAGHI sembravano far parte della serie precedente

di ALTRI VERSI»32. Probabilmente non sono state solo ragioni tecniche

a mutare ulteriormente l’assetto della raccolta, giacché un problema solo tipografico poteva essere agevolmente risolto ricorrendo a tito-lazioni e occhielli più netti e definiti. Più lecito ci sembra congettu-rare un’esigenza, da parte di Montale, di delegare proprio a Fuscello teso sul muro il compito di chiudere la sezione: di qui la scelta di una collocazione meno ambigua, confermata inoltre per tutte le suc-cessive edizioni, fino a quella definitiva de L’opera in versi, e non messa in discussione neanche quando Movimenti è stato interessata da rivisitazioni e cambiamenti di sequenza.

Fuscello teso sul muro è strettamente legata a Vento e bandiere, tanto da costituirne una sorta di replica e di contraltare. La prima delle due liriche di Altri versi si struttura intorno al tema del tempo lineare e della sua irreversibilità: «Ahimè, non mai due volte configu-ra | il tempo in egual modo i gconfigu-rani!», «Sgorgo che non s’addoppia» [Vento e bandiere, vv. 13-14, 17]; e la sensazione di non ritorno è av-valorata dal fatto che la dedicataria della poesia è Arletta, emblema com’è noto della donna morta giovane e dunque mai più recupera-bile. Questo insegna in maniera nitida «la folata» che è «tornata, te lontana, a queste pietre» [Vento e bandiere, vv. 1, 7-8], riproducendo una situazione remota, ma senza restituire nulla di un passato ormai

31 Valgano, a mo’ di sintesi, le parole di Casadei, tanto più significative giacché scritte

in un volume che vuole essere anche un’agile guida alla lettura di Ossi di seppia: «Così pure restano tutto sommato un unicum la serie di quattro componimenti, non a caso in origine dedicati a Francesco Messina, dal titolo complessivo Sarcofaghi, caratterizzati da una descrittività quasi neoclassica, adatta al modello della poesia sepolcrale (di Foscolo, ma anche di Leopardi) da un lato, e a quello della descrizione lirica di opere d’arte, come nell’Ode on a Grecian Urn di Keats» (A. Casadei, Montale, Bologna, il Mulino, 2008, p. 31)

32 E. Montale, L’opera in versi, edizione critica a cura di R. Bettarini e G. Contini,

Torino, Einaudi, 1980, p. 861; ma su questo aspetto cfr. anche R. Bettarini, Appunti sul «taccuino» del 1926, in «Studi di filologia italiana», XXXVI, 1978, pp. 417-512, ora in Ead., Scritti montaliani, a cura di A. Pancheri, Le Lettere, Firenze 2009, pp. 1-56.

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andato. E anche la memoria, che subito interviene in maniera istin-tiva, finisce soltanto per assolvere un ruolo di resa, decretando l’ir-rimediabile perdita della fanciulla, delle sensazioni a lei connesse, del luogo che la ospitava: insomma del mondo precedente apparte-nuto all’io (e forse anche la copiosa occorrenza di verbi al passato remoto partecipa alla realizzazione di questo sistema33). È proprio

questa concezione della storia simile a quella dell’angelo di Klee – il quale «ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi»34 – a gettare l’io

monta-liano in un eterno presente, senza progressione e senza agganci né con il passato, né con il futuro. L’«immoto andare», il «troppo noto | delirio, Arsenio, d’immobilità…», [Arsenio, vv. 22-23] trovano la loro causa scatenante proprio in questo sperpero temporale: sono questi i «vaganti incubi» a cui «il cuore … cede» [Vento e bandiere, v. 22]35.

Fuscello teso sul muro sembra ripartire dalle conclusioni di Vento e bandiere per rovesciarle o almeno per contrastarle. Anche per questo motivo il componimento è «costruito su tre momenti del giorno: la sera della prima strofe, la notte allusa nello stacco inter-strofico e il mattino della seconda strofe»36. Il fuscello-meridiana

con cui si apre la lirica scandisce chiaramente il tempo, secondo una progressione lineare che regola la «carriera» del sole e quella «breve» del soggetto: in altre parole ribadisce le «rovine su rovine» che caratterizzano la vita umana. Di pari passo la stessa meridiana rappresenta anche la dinamica del tempo circolare, che ciclicamen-te – quotidianamenciclicamen-te nello specifico – torna sui suoi passi e sulle

33 In Vento e bandiere si contano sei occorrenze del passato remoto; solo Fine

dell’infanzia – che conta otto passati remoti, distesi però su 109 versi – ricorre a questo tempo verbale in forma maggiore. Si tenga presente inoltre che i sei passati remoti – ad ulteriore tensione di allontanamento dal soggetto – sono riferiti ad Arletta, e in ben cinque casi sono introdotti da prenome personale «ti»: «t’investì», «ti scompigliò», «t’incollò», «ti modulò», «ti cullò» (il sesto passato è quello d’apertura, al v. 1: «alzò»).

34 W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus Novus, Torino, Einaudi,

1962, p. 80.

35 Ci contrapponiamo, in questo senso, alla lettura offerta a suo tempo da Laura

Bellucci, la quale ha definito Vento e bandiere «una delle poesie più ariose e pacificatrici di Montale» (L. Bellucci, Per l’interpretazione di Vento e bandiere, in «Studi e problemi di critica testuale», VIII, 15, ottobre 1977, p. 176). I «vaganti incubi» sono interpretati come una «tregua» anche da A. Valentini, Lettura di Montale. Ossi di seppia, Roma, Bulzoni, 1971, p. 63.

36 E. Montale, Ossi di seppia, a cura di P. Cataldi e F. d’Amely, Milano, Mondadori,

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sue tappe. Non si tratta però dell’atemporalità mitica dell’infanzia, né della temporalità redenta, esperita ne I limoni, raggiunta da Este-rina in Falsetto, ricercata in Corno inglese, e vagheggiata in Quasi una fantasia. Sono piuttosto l’«immoto andare» e la stasi mortifera e insensata ad essere esemplificati metaforicamente dal continuo ricorso del cammino solare; i versi di evidente ed esibita ascendenza leopardiana (Canto notturno su tutti) denunciano proprio questo:

[…] e t’attedia la ruota

che in ombra sul piano dispieghi, t’è noja infinita la volta

che stacca da te una smarrita sembianza come di fumo

[Fuscello teso sul muro, vv. 8-12]

La poesia montaliana è piena di «oggetti […] posti a stabilire mere possibilità di futuro»37. In questo caso è un velo38 strappato

misteriosamente «a un’orda invisibile» [Fuscello teso sul muro, v. 18] a costituire l’elemento che inceppa il vuoto e «immoto» procedere temporale. Tra la prima e la seconda strofe la scena si duplica, ma la decisiva divergenza del «velo», il quale impedisce al fuscello di farsi meridiana, fa sì che la rappresentazione del tempo, da una sezione a l’altra del testo, non sia più la stessa. Il «velo», misterioso in quanto sottratto ad una comitiva «invisibile», e per di più durante la notte che non è sorvegliata dal testo perché trascorre nello spazio bianco tra il v. 14 e il v. 15, si erge a «segno d’un’altra orbita» [Arsenio, v. 12] e a presagio misterioso del domani. Questa apertura al futuro e alla possibilità trova un suo conforto rasserenante e positivo nel «treal-beri», il cui «timone | nell’acqua non scava una traccia» [Fuscello teso sul muro, vv. 22, 26-27]. È una visione pacificatrice, di serenità, di

37 G. Zazzaretta, Ossi di seppia di Eugenio Montale. Divagazioni e parafrasi,

Macerata, Cegna, 1977, p. 90.

38 Scriveva Valentini, nel parafrasare la seconda strofe: «Oggi non stampi la tua

ombra sul tuo muro. Non c’è ancora il sole. In cambio rechi appeso un velo, una ragnatela che, miticamente, sembra una trama di luce strappata a qualche orda invisibile (creature meravigliose?) e ora risplende ai primi raggi (Dunque non era ancora giorno quando l’orda invisibile ti ha sfiorato col suo mistero notturno)» (Valentini, Lettura di Montale, cit., p. 64). Una simile lettura, come si è visto, impone un eccessivo numero di congetture, non tutte suffragate da sufficienti indizi. Più economico appare pertanto attenersi strettamente al testo, intendendo con «velo» un brandello di tessuto accidentalmente strappato a un gruppo di persone. Sulle motivazioni di questa lettura cfr. le considerazioni di Cataldi e d’Amely in Montale, Ossi di seppia, cit. p. 54.

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potenziale pienezza39: la scia che non lascia segni nel mare

riman-da al lettore l’immagine, indescrivibile, dell’acqua nell’acqua, che a sua volta richiama nella mente le espressioni, per lo più presenti all’inizio della raccolta quando la fiducia nel miracolo è meno com-promessa, di «musica senza rumore» [Minstrels, v. 11], di «concerto ineffabile» [Falsetto, v. 20], di «indicibile musica» [Caffè a Rapallo, v. 13]. Questo mescolarsi e fondersi in un insieme indistinto, in Fu-scello teso sul muro solo prospettato, spezza l’immobilità denunciata in apertura di testo, aprendo invece ad una speranza di atempora-lità contigua alla «possibiatempora-lità di liberare il mondo nascosto»40. È «un

giorno d’eccezione»41, sostiene giustamente Contini: un giorno che

permette all’io, anche dopo le cupe considerazioni di Altri versi (e ancor prima di Poesie per Camillo Sbarbaro), di continuare ad eser-citarsi, anche attraverso l’ars poetica, affinché il tempo si corroda e si logori, lasciando spazio a quell’«istante di liberazione improbabile e gratuita»42.

2. L’upupa e le barche in rada: la conclusione degli “ossi brevi” 2.1. La rivelazione perturbante in Upupa ilare uccello

La sezione degli “ossi brevi”, che dà appunto il titolo anche all’intera raccolta, è quella che rivela una minore apertura alla tra-scendenza, al miracolo, all’ipotesi di trovare un «varco». Anzi sono proprio testi come Meriggiare pallido e assorto, Spesso il male di vi-vere e Forse un mattino andando a costituire la spina dorsale della sezione; rinfrancati in questo da un lato da Ripenso il tuo sorriso, Il canneto rispunta i suoi cimelli e Cigola la carrucola del pozzo, che denunciano l’irrecuperabilità del tempo e degli affetti passati, e dall’altro da Ciò che di me sapeste e So l’ora in cui la faccia più im-passibile, che affermano l’impossibilità da parte dell’io di esprimere e di comunicare agli altri «la vera mia sostanza» [Ciò che di me sape-ste, v. 14]. Non rappresentano una vera controspinta i due testi che costituiscono il cosiddetto “dittico della felicità”. Gloria del disteso

39 Dello stesso avviso è anche, ad esempio, Scaffai, secondo cui «immagini di

leggerezza e un tono di favola chiudono Fuscello teso dal muro (con un’eco, di nuovo palazzeschiana e con probabile ripresa, anche, del frammento conclusivo dei Frantumi di Boine)» (N. Scaffai, Montale e il libro di poesia (Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro), Lucca, Pacini Fazzi, 2002, p. 44).

40 Contini, Dagli Ossi alle Occasioni, cit., p. 20. 41 Ivi, p. 13.

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mezzogiorno infatti, pur lodando la grazia offerta dall’ora meridia-na, deve constatare che «l’ora più bella è di là dal muretto» [v. 7], e non nel qui e ora; mentre la Felicità raggiunta è talmente fragile e fuggente da non essere in alcun modo conquistata («si cammina | per te su fil di lama. | Agli occhi sei barlume che vacilla, | al piede, teso ghiaccio che s’incrina;», vv. 2-3)43; e anche nel caso in cui questa

fosse effettivamente raggiunta, non costituirebbe un reale riscatto al male e alla tristezza, poiché «nulla paga il pianto del bambino | a cui fugge il pallone tra le case» [vv. 9-10].

Tuttavia proprio il primo membro del “dittico alla felicità” – che però proprio la felicità intende negare – offre la chiave di lettura della chiusa degli “ossi brevi”; il distico finale recita:

La buona pioggia è di là dallo squallore, ma in attendere è gioia più compita

[Gloria del disteso mezzogiorno, vv. 11-12]

È sin troppo esplicita la constatazione dello «squallore» con-tingente, che però non inibisce il rilancio speranzoso nella «buona pioggia» futura; ed è proprio in questa attesa, priva di alcuna garan-zia, che può “compìrsi” (si tratta del medesimo verbo che introduce il «miracolo», negativo però, di Forse un mattino andando, v. 2) la «gioia» più piena, la felicità ricercata. Questa dialettica imperitura e mai sanabile, presente tutto sommato già (o poi) in Riviere, regola anche il dittico conclusivo di Ossi di seppia.

Non ha torto Tiziana Arvigo a ritenere che l’upupa dell’omo-nima poesia (ma che è anche il «galletto di marzo» di Quasi una fantasia [v. 28]) debba essere «considerata come un’icona attraverso la quale entra in gioco il meccanismo del tempo sospeso, che rap-presenti la libertà dal volere, la personificazione di quel misterioso stato di grazia che, secondo Schopenhauer, fa sì che finalmente – seppure per un attimo – la ruota di Issione si arresti»44: solo in

questo senso può essere interpretato il verso centrale del componi-mento, ossia «per te il tempo s’arresta» [Upupa ilare uccello, v. 6]45.

43 Su questo testo cfr. R. Luperini, Il desiderio e la sua negazione. Su Felicità

raggiunta, si cammina, in Interazioni montaliane, a cura di S. Chessa e M. Tortora, numero monografico de «L’Ellisse», VII, 2012, pp. 45-50, ora in Id., Montale e l’allegoria moderna, Napoli, Liguori, 2012, pp. 97-104.

44 T. Arvigo, Guida alla lettura di Montale Ossi di seppia, Roma, Carocci, 2003, p.

151, corsivo mio.

45 Una posizione non dissimile aveva già assunto a suo tempo Giorgio Orelli,

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A ben vedere la dilatazione temporale non conduce ad una vera e propria sospensione, quanto, più precisamente, ad una com-penetrazione di stadi e momenti diversi: l’upupa dunque è sì «nun-zio primaverile», e quindi portatore della stagione dei colori che caratterizzano lo stesso volatile, ma anche, allo stesso tempo, ele-mento in grado di arrestare il tempo al mese di febbraio. Inverno e primavera – con facile metafora potremmo dire di morte e rina-scita – si trovano pertanto a condividere lo stesso spazio testuale, seguendo una logica che, mutuando i concetti da Matte Blanco, po-tremmo definire simmetrica. Il febbraio freddo e incolore infatti non esclude, simmetricamente appunto, la variopinta e vitale primavera, ma è la primavera, così come questa, grazie al miracolo compiuto dall’«aligero folletto» [v. 10], è «il Febbraio»: ci si trova insomma di fronte a uno di quei momenti in cui «“il tempo esce di squadra” (direbbe Shakespeare)»46, consentendo al soggetto di esperire una

condizione di vita diversa e alternativa al contingente.

Un procedimento simile, e per certi aspetti ben più lavorato per quanto concerne la costruzione testuale, si riscontra anche in Corno inglese, opera in cui l’ambiguità sintattica che caratterizza i vv. 1-13 impone al lettore di ritenere valide e plausibili – nell’atto immediato della ricezione – diverse, contraddittorie e inconciliabili soluzioni interpretative. Proprio questa oscillazione tra più possibili parafrasi, o meglio questa convivenza tra significati reciprocamente incompa-tibili, fa sì che l’atto della lettura – almeno per quanto concerne la prima parte del componimento – si configuri come un’esperienza di senso in qualche modo totalizzante, basata proprio sulla momen-tanea abolizione delle consuete coordinate spazio-temporali. Ed è proprio l’atto poetico, secondo una tradizione tipicamente simboli-sta, lo strumento che consente il distacco dall’hic et nunc e la pos-sibilità, nel momento della fruizione del testo, di vivere una realtà altra rispetto a quella ordinaria47.

della tensione o attenzione cosmica in corrispondenza a “qualcosa”, a un “oggetto” emerso dall’indistinto, dall’amorfo, a un “dove”; della dilatazione dell’istante nel Tempo (che anche a Montale accade di scrivere con la maiuscola), per cui, con le parole di Poulet, “ce n’est pas le temps qui nous est donné, c’est l’instant. Avec cet instant donné, c’est à nous de faire le temps” […]. Fare il tempo equivale, nella poesia montaliana, a prefigurare l’intemporaneo, donde soltanto può sorgere il sogno» (G. Orelli, L’Upupa e altro, in Id., Accertamenti verbali, Milano, Bompiani, 1978, pp. 171-199: p. 192).

46 E. Montale, Lettere a Nino Frank, in «Almanacco dello Specchio», 1986, 12, pp.

18-64: p. 35.

47 Per una discussione più distesa e dettagliata della questione, cfr. infra, pp.

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