© edizioni kaplan 2017
Via Saluzzo, 42 bis – 10125 Torino Tel. e fax 011-7495609
[email protected] www.edizionikaplan.com ISBN 978-88-89908-22-9
In copertina: immagine tratta dal video The Fourth Dimension di Zbigniew Rybczyński, 1988, copyright Zbig Vision Ltd.
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Torino.
k a p l a n
Zbigniew Rybczyński
Prefazione
Capitolo 1
Biografia di un pioniere
Capitolo 2
Il periodo polacco: mostruosità del quotidiano
Capitolo 3
Video musicali: la gestione del caos
(Video musicali prodotti fra il 1984 e il 1985, p. 35; Video musicali prodotti dal 1986 al 1991, p. 42)
Capitolo 4
Opere video
(Steps, p. 51; The Fourth Dimension, p. 60; Capriccio no 24, p. 72; The Orchestra, p. 76; Kafka, p. 84)
Glossario tecnico
Riferimenti bibliografici
Indice delle opere e dei nomi citati
9 13 17 33 51 89 91 103
L’attività cinematografica e video di Zbigniew Rybczyński, che si squaderna in maniera vorticosa nel giro di poco più di dieci anni, fra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, è esemplare e peculiare, sotto molte-plici aspetti, della storia dell’audiovisivo di quel periodo.
È significativa per quello che riguarda l’aspetto tecnologico: le opere di Rybczyński tracciano una storia fondamentale, ovvero il passaggio dalla pellicola usata per creare cortometraggi d’animazione al video elettroni-co, all’alta definizione analogica, fino ai primi sistemi digitali di controllo dell’immagine, per fermarsi poco prima dell’avvento del video digitale, del-la diffusione deldel-la computer grafica e dei sistemi digitali in alta definizione. Dal punto di vista tecnico Rybczyński è un autentico pioniere dell’utilizzo creativo del chroma key e del tentativo di gestire in tempo reale un’estetica complessa, tanto da inventare sistemi in grado di gestire un’idea di postpro-duzione live che anticipa di molti anni l’invenzione del cosiddetto virtual set. Ma è anche il promotore di sistemi di distorsione dell’immagine e un instancabile sperimentatore tecnologico la cui aspirazione costante è quella di spingere al limite la macchina, qualunque sia, analogica o digitale. Per l’artista polacco l’arte e la tecnologia devono collaborare, l’artista deve es-sere anche uno scienziato dell’immagine, facendo spesso riferimento a un periodo della cultura italiana, il Rinascimento, che Rybczyński ama e cita non appena ne ha occasione.
La produzione video dell’artista polacco traccia anche un’altra storia, quel-la di un genere prettamente televisivo, ma in qualche modo fuori dalle moda-lità classiche della produzione televisiva, ovvero il video musicale, ambito nel quale diventa presto un regista ambito da personalità come Yoko Ono, Mick Jagger o Lou Reed, solo per citarne alcuni. Di fatto l’estetica di Rybczyński segna in modo significativo la storia, appena nata, dei video musicali e di MTV, diventando un punto di riferimento da copiare, omaggiare, a cui guar-dare. E contemporaneamente Rybczyński riesce a creare un suo genere pecu-liare, rintracciabile in due scelte estetiche distinte, da un lato il video musicale lungo, dai quaranta ai sessanta minuti, svincolato da committenze stringenti
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Prefazione
e dominato dalla sperimentazione visiva; dall’altro il video narrativo lungo (sessanta minuti), dove però il plot viene divorato da scelte tecnologiche e visive decisamente surreali, di fatto apparentemente anti-televisive.
Eppure tutti i suoi video sono prodotti o co-prodotti da televisioni o cen-tri di produzioni audiovisivi. E qui si affaccia un altro piccolo pezzo di storia dell’audiovisivo, ovvero la mutazione del palinsesto televisivo, l’avvento delle televisioni tematiche, come MTV, ma soprattutto la nascita in Europa delle televisioni via satellite che hanno bisogno di contenuti esteticamente innova-tivi. Rybczyński, da questo punto di vista, è veramente una figura peculiare perché nonostante l’alto tasso di sperimentazione delle sue opere, la sua este-tica miscela abilmente avanguardia e pop per conquistarsi un pubblico che all’epoca è curioso e consuma sempre più immagini in movimento.
Non è una novità che in Italia, per fare un esempio, un appassionato di Rybczyński sia Enrico Ghezzi che grazie al suo programma Fuori Orario crea un pubblico italiano, e quindi possibilità produttive, per le opere dell’artista polacco. Come si diceva, Rybczyński è una figura particolare perché il siste-ma produttivo che gli permette di creare le sue opere, ovvero le coproduzioni di varie realtà televisive statunitensi ma soprattutto europee, francesi, inglesi e italiane, normalmente si rivolge a registi cinematografici di culto e non ad artisti che provengono dal cortometraggio o da un ambito strettamente tele-visivo come quello dei video musicali.
Eppure Rybczyński riesce a imporsi come una sorta di “firma elettroni-ca”, in grado di attirare audience e risorse pur non essendo mai passato da una sala cinematografica. In un momento in cui molti registi di video musi-cali intendono fare il “salto” nella produzione cinematografica tradizionale, Rybczyński continua a sperimentare la sua estetica in ambito elettronico, propugnando l’utilizzo dell’alta definizione analogica, in un contesto in cui nomi illustri come Francis Ford Coppola o Wim Wenders si stanno inter-rogando sulla possibilità della nascita di un “cinema elettronico”. Nessuno ovviamente ancora poteva immaginare che nel giro di vent’anni molte delle idee immaginate da questi registi si sarebbero avverate con l’avvento della tecnologia dell’Alta Definizione Digitale. E che il digitale avrebbe in qual-che modo spazzato via l’elettronica, comprese molte intuizioni, sia estetiqual-che che tecnologiche, dell’epoca, che ora si stanno ripresentando come scel-te stilistiche vintage. Pur non definendosi mai videoartista, e non essendo particolarmente interessato all’ambiente dell’arte contemporanea, l’artista
polacco lambisce territori estetici che sono molto vicini a questa particolare forma di espressione.
Un’altra caratteristica dell’attività di Rybczyński, interessante e specifica, è l’idea che l’artista-scienziato ha bisogno di un suo laboratorio. Non è il clas-sico regista che si appoggia a studi altrui o a troupe assoldate sul momento: quando l’artista polacco fonda lo studio Zbig Vision, un luogo attrezzato con varie sale posa per il chroma key, studi di montaggio e di postproduzione, crea una vera e propria situazione laboratoriale dove svolgere un lavoro di sperimentazione costante, in compagnia di pochi tecnici fidati. Le nuove tec-nologie garantiscono riduzione di spazi e di persone (Rybczyński d’altra parte è anche un tecnico e segue in prima persona quasi tutte le fasi di realizzazione dei suoi video), quindi spingono soprattutto coloro che vogliono sperimentare ad avere una sorta di casa dove potersi allenare costantemente, e dove poter gestire le produzioni dall’inizio alla fine in autonomia, e anche in questo Rybczyński anticipa una modalità di lavoro che molti seguiranno.
Questi e molti altri aspetti che verranno affrontati nelle pagine seguenti rendono l’opera di Zbigniew Rybczyński un oggetto di studio particolarmente attuale. Per quello che riguarda la possibilità di poter visionare i suoi cortome-traggi e video, fondamentale è il cofanetto con due DVD: Bruno di Marino (a cura di), Zbigniew Rybczyński. Film & Video, Raro Video, Roma, 2003. Altri DVD si trovano in vendita nel seguente link: http://www.filmsbyRybczyński. com/DVDs.html, mentre per i video musicali, l’unica fonte disponibile è il web: caso per caso verrà indicato in nota il link di riferimento. Il sito ufficiale di Zbigniew Rybczyński è il seguente: http://www.zbigvision.com/
Biografia di un pioniere
Zbigniew Rybczyński nasce il 27 gennaio del 1949 a Łódź, ma frequenta una scuola d’arte a Varsavia, dove è intenzionato a intraprendere la carriera di pittore.
Ho iniziato la mia carriera come pittore. Quindi, alla fine degli anni Ses-santa, ho deciso che la pittura era morta – volevo movimento, non im-mobilità. Quindi sono passato ai film. Ma avevo un problema. Nei film di solito si riprende il ”reale” – ciò che è di fronte alla camera. Ma il mio interesse era nel riprendere cose che non esistono nella realtà – anche se noi siamo sicuri siano reali. Volevo riprendere immagini che esistono nelle nostre menti, nei nostri sogni, nella nostra coscienza, nella nostra fantasia. Quello è il “reale” che mi interessa1.
Alla ricerca di esperienze nel mondo delle immagini in movimento, l’ar-tista polacco si avvicina inevitabilmente al cinema d’animazione, un settore che in Polonia è sempre stato piuttosto vivace: dopo aver lavorato per una paio d’anni presso lo studio di cinema animato Studio Miniatur Filmovich, Rybczyński torna nella sua città natale nel 1969 per frequentare la prestigiosa Scuola di Cinema di Łódź. Durante questi anni diventa uno dei membri fon-datori del gruppo di cineasti sperimentali polacchi Warsztat Formy Filmowej, e finita la frequentazione della scuola, dopo aver collaborato con ruoli tecnici a una serie di lungometraggi di diversi registi polacchi, entra a far parte dello studio di cinema d’animazione Se Ma For, sempre a Łódź, nel quale comincia a produrre i lavori d’animazione più maturi. Lo studio produce in maniera
1 Bruno di Marino (a cura di), Zbigniew Rybczyński, Film & Video, Raro Video, Roma,
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Capitolo 1
piuttosto prolifica cortometraggi d’animazione soprattutto per la televisione, e in breve tempo Rybczyński riesce a diventare un regista conosciuto nell’am-bito della tecnica dello stop motion, grazie soprattutto alle sue opere prodotte all’interno dello studio. Vince numerosi premi in prestigiosi festival europei di cinema d’animazione e sperimentale.
Questa sua esperienza dura dal 1973 al 1980, e nel frattempo Rybczyński diventa anche responsabile di uno studio di effetti speciali a Vienna realizzato per la televisione pubblica austriaca ORF.
La fine degli anni Settanta è un periodo turbolento per la Polonia:
Ero all’estero durante gli anni che precedettero la formazione di Solidar-ność, e tornai in Polonia proprio quando nacque l’organizzazione. Os-servavo gli scioperi proprio come una qualsiasi persona normale, e come una persona normale stavo dalla parte dell’“Unione”. Era assolutamen-te impossibile non esserne coinvolti: tutti i centri di lavoro avevano dei gruppi Solidarność. Come direttore del Laboratorio fondai un gruppo che contava approssimativamente centocinquanta membri. Diventai uno dei leader del Comitato Fondatore2.
Così nel 1982, quando in Polonia scatta la legge marziale, Rybczyński riesce a trovare un ingaggio in Austria dove chiede asilo politico. Di lì a poco l’artista polacco e la sua famiglia si trasferiscono negli Stati Uniti, a Los An-geles. In questo periodo piuttosto buio e incerto, improvvisamente si apre una possibilità inaspettata: nel 1983 il suo cortometraggio Tango (realizzato nel 1980) è candidato al premio Oscar come miglior cortometraggio d’animazio-ne, e vince3. È il primo premio Oscar vinto da un artista polacco: Rybczyński
si trasferisce a New York dove comincia a trovare le prime committenze, e dove inizia una brillante carriera da regista di video musicali.
I primi anni negli Stati Uniti non sono ovviamente facilissimi:
In generale, ho individuato le somiglianze fra questi due mondi ritenuti
2 Mark Matousek, Zbigniew Rybczyński, «Andy Warhol’s Interview», XIV, 12, 1984, p. 34. 3 https://www.youtube.com/watch?v=w3BDAvM1FqY in questo link si vede la cerimonia
di premiazione dove Kristy McNichol non riesce a pronunciare il cognome dell’artista polacco che, emozionato ma ironico come sempre, esordisce così: «Ho fatto un film breve, così parlerò per poco tempo...» provocando le risate del pubblico.
differenti. Là c’è una censura politica, qui estetica. L’opposizione alla cen-sura politica è uno stimolo per l’ispirazione, ma la cencen-sura estetica è ter-ribile. Ovviamente, la censura estetica è vecchia di cent’anni: ti commis-sionano un ritratto, a loro non piace e ti chiedono di rifarlo. Tutto questo determina la frustrazione di molte ambizioni: ricevere soldi significa essere trattati con disprezzo»4.
In realtà la situazione cambia da quando nel 1985 Rybczyński riesce a fondare il proprio laboratorio, lo studio Zbig Vision, nel quale comincia a produrre i suoi video musicali più interessanti e i suoi video più sperimentali, diventando in breve tempo un punto di riferimento per un certo tipo di pro-duzione televisiva, che in questi anni, soprattutto negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei (Francia e Inghilterra in testa) sta cambiando pelle alla ricerca di estetiche e contenuti innovativi.
Dal punto di vista finanziario credo che se si vuole fare qualcosa fuori dal comune devi avere a disposizione i tuoi strumenti. La prima cosa che mi sono portato quando sono venuto in America è la mia cinepresa. Se si cerca di catturare una realtà che non esiste non si può sapere esattamente quali problemi si presenteranno. Tutti i miei progetti non si sarebbero mai attuati se non avessi avuto la mia attrezzatura. Tutto dipende da come ci si organizza la vita e i suoi costi. Io investo tutti i miei soldi nelle attrezzature e nello Studio. Questo mi dà tempo e libertà, perché non devo sprecare energie per trovare le attrezzature, ho bisogno solo della collaborazione della troupe5.
Ciononostante la parabola del successo di Rybczyński comincia a discen-dere a metà degli anni Novanta, quando a causa di una serie di problemi fi-nanziari l’artista polacco è costretto a chiudere l’attività produttiva dello Zbig Vision a favore di altre avventure. Nel 1994 è a Berlino per collaborare alla fondazione di uno studio, lo Zentrum Für Neue Bildgestaltung, negli anni seguenti insegna presso la Kunsthochschule für Medien a Colonia, e presso un’altra istituzione didattica e produttiva, lo ZKM di Karlsruhe. Torna a Los
4 Ivi, p. 35.
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Angeles dove infaticabilmente progetta e brevetta una serie di attrezzature per la produzione televisiva, collabora con l’azienda americana Ultimatte per affinare la tecnica del chroma key, inventa nuovi obiettivi cinematografici.
Nel 2009 è chiamato dalla sua città natale, Wroclaw, come Direttore di un centro di produzione audiovisiva attrezzato per il chroma key: il Centrum Technologii Audiowizualnych (CeTa), che sembra possa diventare la sua “casa” di sperimentazione definitiva. Ma non è così: per una serie di dissidi interni Rybczyński lascia l’incarico.
Attualmente continua a sperimentare varie tecnologie e a cercare finanzia-menti per i suoi progetti.
Il periodo polacco: mostruosità del quotidiano
Dal 1973 al 1980 Zbigniew Rybczyński produce in Polonia una serie di cor-tometraggi d’animazione che squadernano alcuni temi costanti della sua ope-ra e adottano soluzioni tecniche che si ope-raffineope-ranno sempre di più negli anni, anche grazie al mutamento tecnologico che porterà l’artista polacco a essere un convinto sostenitore dell’immagine elettronica. Nelle pagine seguenti ver-ranno presi in esame alcuni cortometraggi particolarmente significativi per il suo concetto di realismo:
Il mio concetto di “realismo”: mostrare sullo schermo, solide e interamen-te convincenti come appaiono agli occhi della nostra meninteramen-te, quelle cose che sono assolutamente “reali” ma non si fanno catturare dallo schermo1.
Zupa (Soup), 1974
Zupa (Soup) del 1974 è il primo cortometraggio in cui Rybczyński opera delle scelte stilistiche che faranno da substrato comune a molte delle opere a seguire (anche video). II cortometraggio vuole mostrare, attraverso un’allu-cinante orchestrazione visivo-sonora, una mattina qualunque di una coppia polacca qualsiasi, ed è divisibile in tre parti: la prima è una rappresentazione del risveglio dell’uomo (proceduto da un breve sogno) e della donna, e dei preparativi della colazione (la zuppa citata nel titolo). Nella seconda si sus-seguono i ricordi del primo incontro, della proposta di matrimonio, della cerimonia e della prima notte di nozze. Nella terza avviene la consumazione della zuppa che prelude a una inspiegabile catastrofe finale: la donna, col piatto di zuppa in mano, apre una porta e casca in un vortice coinvolgendo
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Capitolo 2
nel volo la pellicola stessa che si sgancia e brucia davanti agli occhi dello spettatore.
La tecnica con la quale viene realizzata l’opera è una combinazione fra animazione in stop motion articolata con l’uso dei mascherini. Rybczyński filma “a passo uno” separatamente gli attori su uno sfondo con un colore neu-tro, e attraverso l’uso dei mascherini, che ritagliano il contorno delle figure, sovrappone i corpi in movimento su qualsiasi sfondo desiderato.
La rappresentazione del quotidiano (per quello che riguarda il personag-gio maschile: alzarsi dal letto, allacciarsi le scarpe, mettersi la camicia, anno-darsi la cravatta; per quello che riguarda il personaggio femminile: mettersi le calze, truccarsi) viene condotto attraverso un orchestrazione visiva caratte-rizzata da una ostinata ed estenuante coazione a ripetere: qualsiasi gesto viene ripetuto o montato con dei veloci avanti-indietro della moviola, trasformando i corpi in automi meccanici. Nella scena in cui l’uomo indossa la camicia, per esempio, sembra che vi sia una lotta fra l’indumento, dotato di una qualche strana forma di vita, e il protagonista. Di fatto, pare che solo gli oggetti ab-biano una natura umana, come l’edificio che russa rumorosamente all’inizio del cortometraggio, mentre i corpi sono costretti a reiterare ossessivamente gli stessi movimenti, o producono rumori meccanici.
Sovente c’è una vicinanza insopportabile della macchina da presa al vissuto dei soggetti: nella sequenza del bagno (nella prima parte) il personaggio ma-schile avvicina lo spazzolino pieno di dentifricio ai denti e improvvisamente lo spettatore viene catapultato, in un improbabile contro-campo, nell’interno della bocca da dove si vede lo spazzolino in azione sui denti.
Aleggia in tutto il cortometraggio un senso di sgradevolezza e di squal-lore oscenamente evidenziato: a parte certe sequenze non piacevoli di per sé (l’uomo si guarda la lingua, si schiaccia un brufolo, cerca ossessivamente di uccidere una mosca con una paletta) è soprattutto il sonoro che contribuisce a comunicare questa atmosfera. Nella sequenza del ricordo della prima notte di nozze, il personaggio maschile, in maniera decisamente goffa, tocca il seno della donna e ne esce un rumore sgradevole, animalesco. Così anche per la scena del risveglio dell’uomo, dove ogni movimento è contrassegnato da stri-dii e cigolii fra l’organico e il meccanico.
Grazie alla tecnica dei mascherini gli attori instaurano un rapporto pri-vilegiato con gli sfondi, che sono costituiti da fondali astratti, o squallidi muri molto ravvicinati, o prospettive di finestre; il risultato finale non è mai
realistico, ma una sorta di collage in movimento. In ogni sequenza il rap-porto figura-sfondo è ricostruito da zero, seguendo regole che distruggono o ignorano la prospettiva classica a favore di scelte visive puramente grafiche. I mascherini in questo caso servono anche a ricolorare parti delle immagini con una scelta cromatica decisamente lisergica e pop, che non contribuisce però a mitigare l’atmosfera angosciosa del cortometraggio, anzi la amplifica in modo quasi fastidioso agli occhi dello spettatore.
Da notare come la finestra compaia in maniera ricorrente, soprattutto nell’ultima parte, dove viene ossessivamente aperta e chiusa dalla donna: è un immagine di “passaggio” che sarà importante per molte opere successive di Rybczyński. Le sovrapposizioni non si limitano a creare una dialettica allu-cinatoria fra personaggio e sfondo, ma complicano l’ordito visivo, nell’ultima parte, dove le azioni dei due personaggi vengono miscelate e inserite a loro volta su un fondale, aumentando in maniera fittizia la profondità dell’imma-gine. Inoltre, esse determinano l’improvviso apparire di elementi irrazionali nel flusso del quotidiano: in una scena, per esempio, il personaggio femminile indossa una calza e sulla gamba appare un occhio disegnato. La compenetra-zione fra immagini dal vero in stop motion e disegni animati sono un’altra caratteristica stilistica tipica di Rybczyński che predilige, coerentemente con l’estetica del collage, utilizzare fonti visive formalmente molto eterogenee sen-za cammuffarle, ma al contrario sottolineando la loro differensen-za.
In tutta l’Europa dell’Est, ma verrebbe da dire per tutti coloro che usano questa tecnica, la stop motion ha un maestro indiscusso: Jan Švankmajer. Rybczyński inevitabilmente si riferisce all’estetica del grande regista ceco con le opportune differenze e originalità: le scelte cromatiche e il trattamento fi-gura-sfondo ricordano da vicino altre esperienze legate al cinema d’animazio-ne, come quella di Len Lye e il suo Rainbow Dance (1936). Dal punto di vista tematico l’artista polacco ha molte affinità con il surrealismo di Švankmajer: alcuni temi come l’ossessione per il cibo, per il sesso, la meccanizzazione dei corpi a favore della vitalità degli oggetti, il feticismo, la ritmicità quasi ritua-le del montaggio delritua-le immagini, l’importanza data all’universo onirico e all’immaginazione che già compaiono in questo cortometraggio diventeran-no il cardine estetico di molte opere a seguire.
Anche in questo caso, con le opportune differenze, come una maggiore ironia scanzonata e dolente, una libertà quasi anarchica nella manipolazione dell’immagine e nell’articolazione dei campi e del ritmo di montaggio.
D’al-20
Capitolo 2
tra parte il gusto per l’assurdo e il grottesco fa parte della cultura dell’artista polacco, che come afferma egli stesso è
riconducibile alla fusione di due culture, di cui la polacca è il risultato: quella mitteleuropea e quella russa. Sono influenze abbastanza evidenti, specie nello scetticismo individuale verso le strutture sociali (lì il pensiero corre a Kafka, Witkiewicz, alla satira di Bulgakov, all’umorismo nero di Gogol’, a Gončarov… ). È anche una questione etnica: c’è un fondo di ironia in ogni polacco2.
Nowa Książka (New Book), 1975
In questo cortometraggio lo schermo è diviso in nove riquadri, come si dice in gergo tecnico, finestre (tre file di tre) che sono da guardare, come suggerisce il titolo, seguendo il senso di lettura: nella prima l’interno di una casa, con una finestra aperta; nella seconda un cortile, adiacente all’interno della stanza della prima; nella terza l’interno di un autobus; nella quarta l’interno di una libreria; nella quinta un incrocio di vie; nella sesta l’interno di un bar; nella settima l’esterno di una via; nell’ottava un piccolo cantiere dove lavorano degli operai, nell’ultima una piccola piazza dove campeggia in primo piano una panchina.
Dopo un attimo di pausa, tutte le finestre cominciano a essere occupate dai rispettivi abitanti: il momento è molto caotico, lo spettatore non riesce a orientarsi e una delle prime soluzioni è quella di concentrarsi su una casella qualsiasi. Una volta scelta questa opzione, ci si accorge di un fatto che svela la dovizia tecnica di Rybczyński e il senso generale dell’operazione: tutte le ca-selle sono in comunicazione le une con le altre, in quanto alcuni personaggi le attraversano (nel senso di lettura e al contrario) creando così dei sorprendenti legami spazio-temporali in una struttura perfettamente sincronica.
Tutte le finestre sono in un rapporto temporale di contemporaneità che lega la discontinuità spaziale attraversata dai personaggi che vivono delle quo-tidiane microstorie: il signore vestito con un cappotto rosso che lo rende ap-pariscente in modo tale da essere il primo personaggio che lo spettatore segue, dal primo riquadro esce di casa nel secondo, entra nell’autobus del terzo, va nella libreria del quarto, compra un libro, incontra una sua amica nel quinto,
si dimentica il libro nel bar del sesto, lo recupera, e via così, in una complessa rete di relazioni unificate dal reiterato passaggio dell’autobus che scorre libe-ramente in tutte le caselle.
Ma non basta: a un certo punto, all’interno di ciascun pianosequenza, succede qualcosa di più o meno drammatico esattamente nello stesso mo-mento: nel primo riquadro dalla finestra aperta entra il pallone del ragazzino; nel secondo il ragazzino, nel lanciare il pallone, fa cadere un cieco che si era messo a suonare il violino; nel terzo a un passeggero dell’autobus casca il giornale; nel quarto un cliente del bar cade per terra; nel quinto a un signore scivola un libro; nel sesto il cameriere rovescia un bicchiere di birra addosso a una signora; nel settimo un altro ragazzino rischia di essere travolto dall’auto-bus; nell’ottavo un secchio di cemento travolge una passante; nell’ultimo a un postino cadono delle lettere. Sincronicità. Questo momento è accompagnato da qualche secondo di silenzio: il sonoro finora era stato un efficace connubio fra rumori d’ambiente, frammenti di dialoghi poco percepibili e un accompa-gnamento musicale ritmico e un poco ansiogeno; dopo tutto ricomincia fino a quando le finestre ritornano deserte.
Siamo di fronte a un altro aspetto della mostruosità del quotidiano: l’ec-cedenza di dati. Lo scorrere di alcune vite considerate nei loro più banali intrecci sono catapultate e divorate da uno sguardo (quello della finzione) che riesce a gestire nove punti di vista differenti, tutti in contatto fra loro. Lo sguardo in questo caso tende a una sorta di onnipotenza: vuole vedere tutto, contemporaneamente, assimilare tutti gli spazi possibili.
Questo cortometraggio comincia a chiarire alcuni temi che saranno co-stanti nell’estetica di Rybczyński. L’idea di attraversamento dello spazio, il rapporto fra spazio e tempo delineato dalla macchina cinematografica, l’illu-sione della continuità. Il corpo dei personaggi in questo cortometraggio sfon-da il fuori campo dell’immagine di ogni singola finestra, mettendo in conti-nuità ogni singolo riquadro e rassicurando lo spettatore che tutto avviene “qui e ora”. In realtà New Book è stato girato in tre città differenti, infatti lo spazio urbano qui rappresentato è un collage: un insieme di riprese effettuate in luo-ghi diversi e distanti fra loro; è in definitiva un luogo virtuale, il prodotto di un artificio. Il “senso di realtà”, prodotto da un trucco, è determinato anche dal fatto che tutta la struttura visiva ricorda molto da vicino un videowall di monitor di sorveglianza: la staticità del punto di vista dei singoli riquadri con-ferma questa sensazione. È come se Rybczyński ci suggerisse che ci fidiamo
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Capitolo 3
troppo delle immagini e contemporaneamente facesse un riferimento visivo a un medium che di lì a poco comincerà a sperimentare attivamente: il video.
Il fatto che all’interno dei singoli riquadri vi siano delle scene senza stac-chi, dei pianisequenza, delle “vedute” alla Lumière, non impedisce all’artista polacco di operare degli aggiustamenti per far sì che le uscite e gli ingressi dei personaggi siano sincronizzati: infatti, in alcuni casi i movimenti dei perso-naggi sono rallentati o velocizzati per far quadrare la temporalità complessa di tutto il sistema. Sembra tutto in tempo reale, in realtà è tutto registrato e quindi il tempo diventa materia manipolabile.
Infatti, chi è il vero protagonista di questo cortometraggio? Lo sguardo della macchina, che in maniera apparentemente fredda e neutrale guarda il mondo, mentre si diverte a giocare con la nostra incredulità, connettendo in una finta simultaneità spazi diversi, deformando il tempo per far quadrare i tempi di ingresso e di uscita dei personaggi. Sembra una diretta, in realtà è pura fiction. I corpi sono burattini che devono meccanicamente andare a tempo. Anche la simultaneità nella quale vengono catapultati tutti i perso-naggi che subiscono vari incidenti sta a suggerire la presenza di un deus ex machina, una divinità dispettosa che dispone a suo piacimento degli eventi del mondo, spacciandoli come realtà.
La mostruosità del quotidiano qui sta nella fredda rappresentazione di un caos che diventa scacchiera abitata da una perfetta coreografia: sembra tutto casuale, in realtà è tutto organizzato, come se il quotidiano fosse un terribile orologio che scandisce sempre la stessa ora. E contemporaneamente a questo quotidiano Rybczyński conferisce un elemento di sospensione, di nuovo una qualità allu-cinatoria, onirica, nonostante le immagini appaiano come la rappresentazione fredda di un frammento di realtà. È il filtro della macchina che si intromette fra noi e il visibile a essere uno dei temi centrali di questo cortometraggio.
Siamo abituati all’idea che, osservando il mondo, i tetti, le mura, i pavi-menti e altri oggetti siano posizionati in punti dello spazio. Ma ho deci-so di demolire questa percezione e rovesciarla. In qualsiasi momento noi guardiamo un singolo oggetto che è sempre posizionato nello stesso punto dello spazio. Ogni oggetto è associato a un’unica posizione nello spazio relativamente alla camera3.
Oj! Nie Mogę Się Zatrzymać! (Oh! I Can’t Stop!), 1976
Si tratta della soggettiva più allucinatoria che la storia del cinema ci abbia mai mostrato: lo sguardo appartiene a qualcosa che non viene mai rappre-sentato e che all’inizio del cortometraggio si trascina pesantemente su un prato, travolgendo e (presumibilmente) schiacciando a morte una giovane coppia sdraiata. All’inizio ogni spostamento dell’oggetto è accompagnato da una serie di minacciosi rumori che ci danno delle vaghe informazioni sulla sua forma e materiale: è sicuramente metallico ed è goffo, largo, dal momento che, quando colpisce oggetti e persone anche distanti dalla sua traiettoria (potrebbe anche avere delle escrescenze meccaniche), sembra che perda dei pezzi o trascini con sé gli elementi che incontra. L’oggetto, o la creatura, mano a mano acquista sempre più velocità, risucchiando nella sua folle corsa oggetti e persone, in un crescendo di rumori e di grida dispera-te. Via via che l’oggetto acquista velocità, i rumori diminuiscono, come se diventasse più affusolato o fosse di poco elevato da terra: a un certo punto il protagonista ignoto del cortometraggio comincia quasi a volare, diven-tando più piccolo e passando attraverso passaggi sempre più angusti, fino a quando trova nel suo paradossale cammino un enorme edificio contro il quale si schianta. L’oggetto emette una serie di strani gorgoglii, segnali di un organismo ridotto allo sfascio che sanciscono l’agonia finale dell’essere, battuto sì, ma ancora stranamente vivo.
Una possibile chiave di lettura di questo cortometraggio è fornita dallo stesso Rybczyński:
Nel 1944, quando i russi hanno avuto la certezza che avrebbero instaurato in Polonia un governo comunista autonomo, cercarono di ricostituire un partito comunista locale. Impresa difficile perché nel 1939, poco prima della spartizione della Polonia con Hitler, avevano loro stessi sterminato tutti i quadri dirigenti del Partito Comunista Polacco per impedire che si opponessero all’operazione militare concordata da Stalin e Hitler. Con grandi sforzi i russi riuscirono a costituire un nucleo di appena dodici per-sone, ed era già chiaro all’epoca che da lì sarebbero stati scelti i dirigenti del partito e dello stato polacco futuro. Quei dodici sono stati per anni alle massime cariche dello stato e, in questi quarant’anni, grazie all’Armata Rossa e al regime totalitario instaurato, hanno reso fortissimo il sistema,
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Capitolo 2
nonostante le opposizioni; nonostante che nessuno, in fondo, ami quel regime, quel sistema di vita, quell’ideologia4.
Come se il “mostro” che qui viene descritto, dapprima pesante, visibile nella sua difformità dai personaggi che lo incontrano, a un certo punto di-ventasse qualcosa che “sta nell’aria”, veloce, invisibile, un virus oramai in li-bera uscita nel mondo, incontrollabile perché diventato parte integrante della realtà.
Al di là di questa suggestione dell’artista polacco, in questo cortometrag-gio ritornano alcuni temi già accennati, ma qui declinati in maniera differen-te. Il tema dell’attraversamento in questo caso riguarda la macchina cinema e video all’interno dello spazio dell’immagine, e più in particolare di un luogo popolato da una folla di esseri umani. In questo caso il transito è violento e selvaggio: prima lento e goffo nel divorare gli elementi dello spazio, poi velo-ce e sottile nell’attraversare anche spazi minuscoli, come l’interno di alcune sculture monumentali. In questo cortometraggio il vero protagonista è un elemento tecnico della macchina cinematografica, ovvero il movimento di ca-mera, che in questo caso viene quasi personalizzato, diventa un personaggio mai mostrato, ma solo suggerito.
L’attraversamento ha bisogno di aperture: in questo cortometraggio co-minciano a essere importanti nell’universo visivo di Rybczyński le porte e le finestre; aperture domestiche fra un dentro e un fuori, fra una dimensione interiore e una esteriore. Lo spazio, nonostante a una prima occhiata sembri un unico luogo, di fatto è il risultato di una ricostruzione artificiale, perché anche questo cortometraggio è stato girato in tre città differenti. L’illusione di organicità offerta agli occhi dello spettatore è dovuta a un altro elemento cardine dell’estetica di Rybczyński: la continuità simulata o artificiale. A pri-ma vista questo cortometraggio potrebbe essere definito un pianosequenza, ma non lo è: la tecnica con la quale è stato realizzato, il time lapse, altro non è che una derivazione della stop motion. Nella frenesia con la quale si susse-guono i singoli fotogrammi – e nella sostanziale discontinuità di visione che qui viene mitigata dalla velocità con la quale si muove l’oggetto – si perde il senso di appartenenza a un luogo fisico, e qualsiasi scorcio di città o di pae-saggio può essere collegato a un altro come se avessero una effettiva relazione
di contiguità. Quello che Rybczyński rappresenta in questo cortometraggio è un iper-spazio, un collage di più luoghi, una dimensione interiore, onirica, dove gli oggetti e le persone perdono la loro sostanza fisica per diventare altro. Il rapporto spazio-tempo comincia a diventare una dimensione di sperimen-tazione dell’immagine importante per l’artista polacco: in questo caso è lo spazio fra l’impressione di un fotogramma e un altro, ovvero fra uno sposta-mento a un altro della macchina da presa, a gestire la sensazione di velocità delle immagini.
Tango, 1980
Lo scenario di questo cortometraggio è una stanza dalla prospettiva un poco schiacciata, con tre porte, una finestra aperta, un armadio sulla sini-stra, un tavolino con tre sedie al centro, una culla e un letto sulla destra. Improvvisamente, con un chiaro riferimento a New Book, un pallone entra nella stanza dalla finestra: un ragazzino si guarda circospetto, entra, recupera la palla ed esce; a questo punto scatta una sorta di “loop”, nel senso che la stessa azione si ripete da capo, all’infinito. Lo stesso vale per altri trentacin-que personaggi che progressivamente riempiono la stanza: una donna allatta un bambino; un ladro ruba una valigia appoggiata sull’armadio; un uomo appoggia la valigia sull’armadio; una bambina sul tavolo scrive qualcosa su un quaderno; una donna anziana appoggia sul tavolo un piatto dal quale mangerà un vecchio; un uomo fa degli esercizi ginnici; un uomo entra con dei pacchi; un altro tenta di aggiustare un lampadario ma prende la scossa e cade a terra, con un effetto che diventa comico; una vecchia affetta una torta; una donna entra nuda e rapidamente si veste; un operaio passa trasportando un sanitario; un uomo indossa una divisa; un ubriaco attraversa la stanza bevendo e barcollando; una giovane coppia comincia a far l’amore sul letto ma viene interrotta; un’altra coppia, più anziana, deposita un bambino nella culla; un vecchio cerca di trattenere un cagnolino recalcitrante; una donna cambia un bambino sul letto; una vecchia, da sdraiata, si alza dal letto; un uomo anziano in vestaglia legge un giornale; una donna delle pulizie lava il pavimento, e via così: a un certo punto del cortometraggio diventa anche difficile, per la folla che si crea, individuare i nuovi personaggi che man mano entrano ed escono di scena.
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e non interagiscono fra loro, ma compiono le rispettive azioni ripetute in una perfetta e allucinante autonomia, interpretando quelle piccole azioni quoti-diane che possono accadere in una stanza. L’orchestrazione di queste azioni segue il canone del crescendo: si comincia con la palla rossa, fino ad arrivare all’affollamento totale e caotico della stanza, per poi chiudersi con la vecchia che si alza dal letto, prende la palla ed esce dalla porta, cambiando così, solo per questa volta, la fissità delle azioni ripetute. II sonoro è una commistione fra rumori d’ambiente e un languido tango sommessamente suonato.
Da un punto di vista tecnico Rybczyński si avvale di modalità già speri-mentate: stop motion e mascherini, questa volta sfruttate in modo virtuosi-stico. La stanza è un disegno e tutti i personaggi coinvolti sono stati ripresi separatamente uno per uno, su uno sfondo neutro, e inseriti sul disegno con la tecnica dei mascherini trasparenti. La ripresa in stop motion dei personaggi serve per esigenze pratiche: infatti l’andamento “a scatti” dei personaggi, oltre a conferire loro una natura da automi, rende più agevole il lavoro dei masche-rini. Meno fluido è il movimento, meno mascherini ci sono da fare: inoltre, anche l’uso della ripetizione dei gesti facilita il lavoro di ritaglio, perché, una volta finita l’azione completa, basta poi riutilizzare gli stessi mascherini per tutte le volte in cui viene ripetuta. Facilitazioni, certo, per modo di dire: per fare Tango Rybczyński ha dovuto realizzare quasi sedicimila mascherini, per ottenere un negativo finale più simile a un fragile mosaico che a una pellicola vera e propria.
Lo sguardo sezionante di New Book, la sua visione analitica, diventa sin-tesi e catapulta le situazioni un un’unica coordinata spaziale (una stanza), complessificandosi in una visione totale e caotica, anch’essa esorbitante nel fornire informazioni sulla realtà. Ricompare in modo chiaro il tema della continuità simulata che conferisce un’illusione di realtà a una situazione pa-radossale: la ripresa in continuità di uno spazio unico in cui si muovono dei corpi è in realtà un vero e proprio collage in movimento di singole porzioni dell’immagine sovrapposte una per una, in un gioco spazio-temporale illusio-nistico che ha un ovvio e preciso riferimento al cinema di Georges Méliès, un regista più volte citato in maniera consapevole da Rybczyński. L’intuizione più importante e geniale di Méliès, e cioè quella di considerare il profilmico come uno spazio sezionabile, fatto di “livelli” gestibili autonomamente, è una delle ossessioni preferite di Rybczyński, che di lì a poco scoprirà il chroma key. Come Méliès, il regista polacco si concentra sul fatto che la figura
uma-na può essere estratta dal suo contesto di ripresa uma-naturale per essere inserita ovunque si voglia, ragionando con una logica da “cartoonista” che considera l’immagine una sommatoria di foreground e background, dove ovviamente il personaggio è il foreground e gli sfondi sono il background.
Come Méliès, l’artista polacco usa per questo cortometraggio un fondale dichiarato: in questo caso un vero e proprio disegno (e quindi non un elemen-to fisicamente reale, presente nel profilmico), ovvero la stanza in cui avviene l’attraversamento dei personaggi. Sempre come Méliès, a Rybczyński interes-sa il caos, il disordine, e soprattutto l’affollamento parossistico dello spazio in cui avviene l’azione: qui l’artista polacco non è ancora tentato dall’idea della moltiplicazione del medesimo attore (che ha come riferimento L’homme orchestre di Méliès, del 1900) ma nella sua produzione futura adotterà questo tipo di scelta. In realtà, pure Tango formalmente è un pianosequenza, ma in realtà è il frutto di una costruzione artificiale delle immagini particolarmente complesso.
Ricompare il tema dell’attraversamento dello spazio, questa volta con l’uso di un fuori campo altrettanto artificiale, evocato visivamente da oggetti tipici di passaggio che abbiamo già incontrato, ma qui usati in maniera più consapevole: porte e finestre, ulteriori “fori” nello spazio dal quale sbucano le figure umane incollate all’ambiente disegnato. L’attraversamento orizzontale dei personaggi presenti sulla “scena” è un ulteriore elemento che compatta, in un qualche modo, lo spazio simulato dal regista polacco, facendolo diventare ancora di più un luogo e non solo uno spazio, in questo caso la dimora del quotidiano passaggio di figure domestiche, automi segnati dalla meccanicità e dalla ripetizione. Si affaccia in maniera più evidente un tema nuovo: il ciclo della vita nelle sue declinazioni più primordiali: nascita, sesso, cibo, morte. E il desiderio di rappresentare l’infinito, con tutte le contraddizioni e difficoltà imposte dalla macchina che Rybczyński qui usa, ovvero il cinema.
La ripetizione, o il loop, dei movimenti che fa capolino anche in Soup, qui diventa quasi una “naturale necessità”: lo spazio è artificiale, la presenza fisica dei corpi all’interno dello spazio è simulata, e quindi in qualche modo essi devono necessariamente comportarsi in maniera non naturalistica, e ripetere come degli automi la loro azione, come se fossero “inceppati” in un ambiente che non può seguire le regole fisiche della natura. In questo senso la stop mo-tion aiuta a meccanizzare in maniera evidente la natura del movimento dei corpi messi in campo: perché i personaggi che vediamo non sono neanche più
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dei corpi, sono dichiaratamente delle immagini, frammenti di un collage che nella loro totalità simulano una situazione verosimile da un lato e paradossale dall’altro.
Se i mascherini e l’incollaggio dei personaggi sullo sfondo forzano lo spa-zio del campo fittispa-zio ricostruito dal regista polacco, la ripetispa-zione dei movi-menti forza il concetto di tempo e di durata dell’azione. Perché se di parados-so si può parlare, quello a cui lo spettatore assiste durante le visione di Tango è fondamentalmente un paradosso spazio-temporale. Chi sono i personaggi che affollano questa stanza? Proiezioni di abitanti di quel luogo in tempi di-versi, “ricordi” visivamente rappresentati di quella camera? Se un luogo può avere una memoria, in Tango è un groviglio di ricordi accavallati e messi in scena uno sull’altro; si potrebbe anche ipotizzare, procedendo nel paradosso, che alcuni personaggi che noi vediamo possano essere le stesse persone ritrat-te in età diverse: appena nati, giovani, e poi vecchi. Adottando la ritrat-teoria di Einstein, in Tango viene visualizzato uno spazio-tempo veramente relativo. Prendendo a prestito uno dei tanti paradossi ipotizzati da Einstein, questa stanza sta viaggiando a una velocità prossima a quella del luce, per cui i tempi si dilatano (il loop delle azioni dei personaggi) e gli spazi si contraggono (i cor-pi che si accatastano nello spazio: l’affollamento della stanza stessa). In questo caso Rybczyński si incarica di rappresentare l’idea di uno spazio-tempo, un luogo mentale, un tempo mentale, all’insegna del paradosso.
E se il cinema è un’orchestrazione di spazi nel tempo, è come se Rybczyński si interrogasse sulle mutazioni delle dinamiche di montaggio all’interno di uno spazio relativo, tendente all’ipertrofia, se non all’infinito. È come se volesse forzare la linearità della pellicola per farle assumere la for-ma (infinita) del cerchio scoprendo che, in questo modo, il tutto implode in un organismo costretto a incepparsi. Eppure alla macchina cinematografica è necessario il loop per simulare l’infinito, per quanto imperfetto: in effetti in questo pianosequenza simulato dove sono gli stacchi? Sono situati in un limbo: nel fuori campo delle porte e delle finestre che cela il ripartire del loop delle azioni, eppure sono anche, in qualche modo, “interni” al campo simulato della stanza, perché la tecnica dello stop motion scandisce, foto-gramma per fotofoto-gramma e quindi stacco per stacco, il movimento a scatti dei personaggi-automi.
ma non c’era modo di rappresentare l’idea con altrettanta efficacia, così ho fatto uso delle tecniche quali lo stop motion [...]. Non mi piace distinguere fra pellicole impressionate a velocità diverse. Ventiquattro fotogrammi al secondo, di fatto, è una forma di stop motion: da fotogramma a fotogram-ma, ci sono delle interruzioni di movimento5.
L’idea degli spazi contratti accoglie al suo interno questa miriade di stac-chi effettivi operati sulle singole porzioni di immagine e li svolge al suo inter-no in continuità. La “deambulazione” dei personaggi dentro questa ragnatela di stacchi fa sì che lo spazio da “collagista” creato dal regista polacco, in qualche modo, risulti fragilmente integro, ovvero sempre sulla soglia di una disintegrazione che, al momento, non avviene. L’idea del bilico, o della possi-bile caduta nella vertigine del vuoto che circonda lo spazio artificiale messo in campo da Rybczyński, è forse il tema più esplicitato dalle azioni dei personag-gi: certo, metaforicamente, si parla del ciclo della vita, e quindi anche della soglia fra la vita e la morte, ma è proprio sulle singole azioni che si avverte di più il concetto di una sorta di mancanza di equilibrio che può preludere alla caduta finale. Non è solo sui personaggi che cadono effettivamente (come il signore anziano che casca dal tavolo dopo aver provato ad aggiustare la lam-padina), ma sulle improvvise perdite di equilibrio di molti altri personaggi che inciampano, incespicano o cadono in altri luoghi interni alla stanza.
In bilico fra gli stacchi, le immagini compongono una tessitura di forme che creano una continuità artificiale nel tempo e nello spazio, esattamente come fa il cinema con la sua perenne stop motion che, a ventiquattro fotogrammi al secondo, simula la continuità del movimento. Questa è l’idea di cinema che Rybczyński vuole trasformare in immagine, quella di una retta che non può “forzare” la sua natura in qualcosa di circolare (cosa che potrà fare invece il vi-deo), e che produce quindi un paradosso comunque interessante da rappresen-tare visivamente. Anzi, sembra quasi che sia proprio la natura fisica discontinua del movimento della pellicola a impedire al flusso delle immagini di procedere verso l’infinito, attorcigliandosi in un meccanismo dominato dalla ripetizione. Infatti, Tango, che non può essere un cerchio perfetto, inizia e finisce con un “passaggio di testimone”: la palla (non a caso una sfera) che entra dalla finestra e che viene raccolta dalla vecchia che esce definitivamente dalla porta di destra.
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Sono state proposte molte interpretazioni di questo cortometraggio: alcu-ni sostengono che Tango è una metafora del linguaggio informatico. Allora, come un software, a partire da un input sviluppa una serie di formule iterate per finire con un output così Tango, che inizia con la palla raccolta dal ra-gazzino, si svolge secondo un’iterazione di azioni e si conclude con la palla raccolta dalla vecchia. Di qui si spiegherebbe l’automatismo freddo e il com-portamento cibernetico dei personaggi. Altri hanno dato un’interpretazione più politica, sostenendo che il cortometraggio è una denuncia della difficoltà che esiste in Polonia di trovare degli alloggi, per cui gli abitanti sono costretti a delle convivenze forzate. Partendo dal titolo, Tango può essere, in tutti i sensi, un cortometraggio musicale: è strutturato come una partitura. Le ripe-tizioni e l’andamento iterativo sono elementi essenziali nella musica popolare, soprattutto in quella “da ballo”. Le azioni dei personaggi allora andrebbero interpretate come altrettanti ritornelli caoticamente fusi insieme e il corto-metraggio, nel suo complesso, potrebbe essere inteso come una costruzione visiva strutturata ritmicamente come una partitura musicale con un inizio, un crescendo, e una fine. Del resto, se la musica è la diffusione nello spazio di frequenze che “durano nel tempo”, di nuovo siamo di fronte al tentativo di dare immagine, o corpo, a un concetto di spazio-tempo.
Rybczyński è piuttosto laconico al riguardo: alla domanda diretta su che cosa significasse Tango, la sua risposta è stata molto chiara: «Assolutamente nulla»6.
E può darsi che sia vero.
Media, 1980
Attraverso un’inquadratura unica simulata, vediamo una sala di montaggio con un tavolo da moviola, sullo schermo della quale viene mostrata l’imma-gine impressionata su pellicola di un uomo con una sigaretta accesa in bocca che, improvvisamente, prende in mano un televisore che però è al di fuori della moviola. In realtà, l’immagine dell’uomo in pellicola non ha preso lo schermo, ma l’immagine di un palloncino gonfiato trasmesso dallo schermo televisivo. Giocando con l’immagine del palloncino il monitor stesso segue i movimenti dell’oggetto, come se fosse leggero, senza peso. Dopo un poco di
tempo, l’immagine cinematografica dell’uomo fa scoppiare con la sigaretta l’immagine video della palla: il monitor cade sul tavolo ma rimane acceso, mentre la pellicola sulla moviola salta, perché è finito il rullo.
È un cortometraggio che in maniera sorprendente prevede il futuro della carriera di Rybczyński, che nel giro di pochi anni sarà negli Stati Uniti a sperimentare il linguaggio e la tecnologia del video, e che contemporanea-mente squaderna alcuni temi che diventeranno importanti, ovvero il con-fronto con le due tecnologie. Il tema della rappresentazione dell’infinito, che si sta insinuando in questi anni, qui trova già un possibile alleato, anche se non ancora direttamente sperimentato: l’immagine della moviola a un certo punto finisce, mentre il monitor rimane acceso, potenzialmente per sempre. L’immagine cinematografica qui è “incatenata” al suo posto, inamovibile, pe-sante, mentre quella video è leggera, volatile, esattamente come un palloncino gonfiato.
Per l’artista polacco la macchina cinema è stata spinta fino ai suoi limiti estremi (in questo cortometraggio le tecniche usate sono sempre le stesse: stop motion e mascherini): di sicuro bisogna passare a una nuova tecnologia, con la quale si possa giocare di più; difatti il tema del gioco è presente in maniera molto chiara in questo cortometraggio. È anche vero che è l’imma-gine cinematografica a giocare con quella video, quindi è come se Rybczyński suggerisse che solo avendo una tradizione alle spalle il nuovo può essere spe-rimentato consapevolmente.
Video musicali: la gestione del caos
Il caso di Zbigniew Rybczyński è veramente esemplare del modo in cui gli artisti sperimentali hanno trovato, per un certo periodo, una propria “casa” nella produzione videomusicale:
È il campo migliore dove sperimentare le tecnologie elettroniche: è un buon terreno di prova perché vi girano soldi, i video si possono realizzare facilmente ed in breve tempo. In due settimane il video è fatto, lo vedono in molti e si possono testare le reazioni1.
Il regista polacco è stato sicuramente l’autore di video musicali che più di tutti ha difeso l’elettronica come il formato più corretto per realizzare un vi-deo nella sua interezza, diffondendo nella storia delle immagini in movimen-to un uso intelligente e innovativo del chroma key. In un momenmovimen-to, i primi anni Ottanta, così com’era successo per il primo decennio della videoarte, in cui questo genere deve difendersi dalla solita accusa di essere “figlio minore” del cinema, e in cui molti registi di video musicali quasi si vergognano a de-finirsi tali, Rybczyński afferma che
Il problema degli altri registi di video musicali è quello di far capire agli altri che per loro è venuto il momento di girare un film. Nel mio caso si tratta di ricordare a tutti che sono un regista cinematografico polacco che ha dovuto lasciare tutto per ricominciare da zero2.
Come a dire: l’elettronica e la pellicola sono due cose diverse, perché fare
1 Alessandro Giancola, Rybczyński!, «Videoregistrare», 27, Dicembre 1987, p. 73. 2 Giacomo Mazzone, Zbigniew Rybczyński, «Videomagazine», 74, Dicembre 1987, p. 77.
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video musicali come se fossero dei film se non lo sono? Rybczyński, quindi, da regista di film d’animazione, si pone, dal punto di vista estetico, in linea con molti videoartisti: l’elettronica è un mezzo diverso da quello del cinema e quindi linguisticamente i video non devono seguire necessariamente la tradi-zione cinematografica, ma un loro percorso più personale e innovativo.
Sono l’unico, in ogni caso, che ha sempre utilizzato l’elettronica e non la pellicola per realizzare video musicali. Sono spesso gli autori, i musicisti, gli interpreti a preferire la pellicola con la sua immagine calda, col risul-tato che gli studi e le società di produzione video sono utilizzati solo per il confezionamento finale, come effetti o sigle, dando vita così ad una pa-radossale sottoutilizzazione di mezzi e impianti. Ma in questo momento i sostenitori dell’elettronica nell’ambito del video musicale sono in aumento e considero questo fatto un mio successo personale3.
Il regista polacco non lotta unicamente per affermare il formato dell’elettro-nica – dato che è anche proprietario di uno di quegli studi di produzione video che secondo lui sono sottoutilizzati –, ma anche per svecchiare le modalità clas-siche di produzione di un video musicale, quelle per cui, per esempio, è necessa-rio mostrare il musicista ed essere stilisticamente gradevoli a tutti i costi.
Certo: la musica mi permette di esprimermi abbastanza liberamente, il che mi dà modo, in teoria, di essere svincolato dall’idea di una storia. Ma in realtà, nelle discussioni con le case discografiche, finisce sempre che, dopo aver ascoltato le mie idee, mi chiedono di inserire il cantante, anche se non sa assolutamente recitare, e almeno due belle modelle. Io accetto, perché non sono queste cose a modificare il progetto originario, ma è sicu-ramente un grande limite artistico, che si ripropone ogni volta4.
E ancora: «Non ho mai amato ad esempio fare riprese dei concerti per poi trasferirle nei video musicali. Non lo farò mai perché amo sperimentare e lasciare un segno5.
Rybczyński coglie subito un limite nella produzione videomusicale: dal
3 Alessandro Giancola, Rybczyński!, cit., p. 101. 4 Giacomo Mazzone, Zbigniew Rybczyński, cit., p. 77. 5 Alessandro Giancola, Rybczyński!, cit., p. 101.
punto di vista visivo si possono fare cose anche molto sperimentali, ma il più delle volte si è costretti, come succede in pubblicità, a “mostrare il prodotto”, in questo caso il musicista o il gruppo, personaggi che spesso di fronte a una telecamera si trovano a disagio. Il regista polacco, però, non sembra essere così pessimista: evidentemente, anche quando si è costretti a rappresentare i musicisti, molti problemi possono essere “aggirati”. È la contraddizione di un ambito produttivo che sta fra la sperimentazione e il mercato. E Rybczyński, agli inizi della sua carriera videomusicale, è stato sicuramente uno dei più intelligenti “mistificatori” della presenza del musicista, inventandosi di tutto pur di inserirla all’interno di contesti visivi che, in qualche modo, la rendano parte di un tutto. Come vedremo, gli stratagemmi escogitati sono molteplici e hanno anche rappresentato fonti d’ispirazione per molti altri registi.
L’arco produttivo di Rybczyński in campo videomusicale si svolge dal 1984 al 1989, e in questi anni realizza più di trenta video musicali. Si può dividere questo percorso in due periodi piuttosto netti: le opere realizzate prima e dopo il 1985, ovvero l’anno di fondazione del suo Zbig Vision. La differenza più marcata fra i due periodi è tecnica (fra il 1984 e il 1985 Rybczyński si adatta alle esigenze del mercato filmando in pellicola la maggior parte dei video musi-cali, mentre dal 1986 passa interamente al formato elettronico e all’utilizzo del chroma key), ma anche e soprattutto linguistica, dato che per l’artista polacco la dimensione tecnologica e quella estetica sono legate a filo doppio.
Video musicali prodotti fra il 1984 e il 1985
Il primo video musicale affidato a Rybczyński è Close to the Edit (1984) per il gruppo di musica elettronica The Art of Noise6. L’artista polacco, alla sua prima
prova, è agevolato nel giocare con la sua personale estetica: i componenti di questo gruppo non hanno un look spendibile in un video musicale e quindi hanno accettato ben volentieri di non essere presenti; il brano è quasi interamen-te musicale, non ha un interamen-testo di riferimento se non una frase piuttosto sibillina: «To be in England. In the summertime. With my love. Close to the edge», che evidentemente Rybczyński può non prendere in considerazione ed è libero di realizzare un video che abbia come colonna sonora il brano stesso.
6 Il video è visibile al link:
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In uno scenario desolante, forse la stazione abbandonata di una metro-politana, vi sono quattro personaggi: tre uomini, uno basso e grasso, uno di costituzione normale e uno alto e magro, vestiti nella stessa maniera (giacca e pantaloni scuri, occhiali da saldatore e scarpe da ginnastica bianche) e una bambina di sei anni vestita da punk. I tre personaggi maschili sembrano degli orchestrali malmessi. Essi distruggono con evidente sadismo e con ogni mez-zo possibile (seghe elettriche, fiamme ossidriche, pialle) una serie di strumenti musicali classici come violini e violoncelli, accanendosi in modo particolare su un pianoforte a coda.
Questo video presenta molti aspetti innovativi rispetto all’immaginario nascente (MTV nasce il primo Agosto del 1981) e già un poco standardizzato del mercato videomusicale di quegli anni. Innanzitutto vi è un’estrema cura nella caratterizzazione dei personaggi: la bambina punk, infatti, indica con cattiveria e autoritaria imperiosità i punti in cui deve essere operata la distru-zione degli strumenti, e sembra che chiami i tre “operai” che appaiono al suo servizio; inoltre scompagina una serie di spartiti musicali e lancia una serie di urla e di gesti minacciosi verso la telecamera. I tre “operai” (ridicoli eppure inquietanti) sono caratterizzati da una sorta di ironico sadismo, dal momen-to che ogni volta che distruggono gli strumenti guardano costantemente in macchina, a volte con un sorriso fra il canzonatorio e la sfida, come se la loro operazione fosse fatta sia sugli strumenti sia, attraverso il loro sguardo, sullo spettatore. Il riferimento, a ben vedere, è al cinema comico americano di Laurel e Hardy, dove lo sguardo in macchina e la progressiva distruzione del set erano due elementi essenziali per scatenare quella commistione di violenza e ilarità tipiche delle loro gag.
II secondo elemento degno di interesse riguarda il trattamento delle im-magini. Rybczyński per questo video sfodera la tecnica che meglio conosce: la stop motion, che in questo caso serve esclusivamente a conferire ai movimenti dei personaggi quell’andamento velocizzato e a scatti tipico del procedimento. Eppure, nonostante l’accelerazione, i personaggi si muovono perfettamente a tempo col ritmo ossessivo della musica, anzi c’è un’ostinata ricerca del sincro-nismo fra i passi, i gesti, i colpi dati agli strumenti e la base ritmica del brano. Questo effetto è stato realizzato con un semplice stratagemma: le scene sono state riprese facendo agire gli attori con il sottofondo della musica rallentato, in modo tale che fosse più agevole sincronizzarsi con il ritmo (troppo veloce nella versione originale) per velocizzarlo in fase di postproduzione per far sì
che sia ri-sincronizzato con la velocità normale della musica. Il risultato è stra-niante e contribuisce a rendere potente il ritmo delle immagini che, d’altro canto, sono anch’esse montate seguendo ostinatamente il ritmo percussivo del brano, in un’orchestrazione visiva complessa ed efficace.
Rybczyński costruisce una struttura visiva che nulla deve al brano musi-cale, se non un’aderenza ritmica:
Le persone che costruirono gli strumenti acustici musicali si ruppero la schiena nel farlo, ma il violino oggi è uno strumento primitivo paragonato ad un sintetizzatore moog [...] senza buttare via il passato noi non potrem-mo proprio vivere7.
Stando così le cose, allora nei colpi che i tre operai danno al pianoforte (immagine che ha dei riferimenti, non sappiamo quanto volontari, alle vio-lente performance musicali del gruppo Fluxus, in particolare di Nam June Paik) e nelle grida della bambina punk che getta all’aria gli spartiti musicali, scaraventa a terra un busto di Beethoven e richiama i suoi “operai” verso nuove distruzioni, risiede il pensiero di Rybczyński stesso che, con una vio-lenza inusitata, invita a buttare via il passato: violini, pianoforti, violoncelli e, soprattutto, pellicole cinematografiche. È evidente che in questi anni l’artista polacco è affascinato dalle strade, dai luoghi abbandonati pieni di graffiti, dalla moda, in una parola da quello che sta succedendo durante gli anni Ottanta a New York.
Questa prima prova dell’artista polacco si rivela particolarmente efficace per le vendite dell’album omonimo dei The Art of Noise (il video viene tra-smesso più volte con successo da MTV), tanto che il cane bassotto diventa il simbolo del gruppo. Rybczyński diventa così non solo un regista ricercato per il suo talento visivo, ma anche per un’istintiva attitudine al marketing videomusicale.
Il riferimento alle slapstick comedies e alla gioiosa distruzione del set è l’idea di base di Lose Your Love8 (1985) per il duo Blancmange, dove i membri del
gruppo sono impegnati nella sistematica disintegrazione di alcuni interni di un edificio che alla fine del video crolla come fosse un modellino di cartone.
7 Mark Matousek, Zbigniew Rybczyński, cit., p. 36.
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Rybczyński riesce a inserire generi musicali apparentemente incompatibili, musicisti inclusi, all’interno dell’estetica della comica classica raggiungendo un risultato paradossale e ironico: il duo compie le sue azioni rivolgendo puntual-mente lo sguardo in macchina, le singole performance sono riprese in conti-nuità, la macchina è statica, insomma è come se un regista del film muto fosse catapultato in un altro spazio tempo e avesse realizzato il video musicale.
Un altro video interessante è AII That I wanted9 (1984) per i Belfegore.
Meno complesso del precedente, è tuttavia interessante per come Rybczyński risolve il problema della presenza dei membri del gruppo, evidentemente im-posta dalla casa discografica, con una modalità che gli sarà propria anche in molti video successivi, ovvero inserire i musicisti o il cantante in una ne performativa insieme a una folla di altri personaggi, creando una situazio-ne di caos rigorosamente controllato dall’occhio della macchina.
All’inizio del video vediamo il cantante del gruppo correre su un enorme ponte stagliato contro dei grattacieli; egli esegue la prima strofa della canzo-ne, guardando in macchina mentre corre, poi, con una violenta panoramica a schiaffo (in sincrono con l’ingresso della batteria nel brano) scopriamo che dietro al cantante c’è un gruppo di almeno trenta persone che corre forsen-natamente assieme a lui. Sul ponte sono sparsi oggetti piuttosto ingombran-ti (custodie per strumeningombran-ti, amplificatori, aste per microfoni, strumeningombran-ti) in un’atmosfera ancora una volta desolata, di abbandono: le lunghe ombre dei protagonisti e i toni arancioni dei loro corpi ci segnalano che siamo al tra-monto.
Questa folle corsa viene ripresa per lo più dall’alto grazie a uno speciale carrello, ideato da Rybczyński, fissato su un supporto a rotelle spinto a mano, o dal basso, con una serie di carrellate molto dinamiche, associate spesso a delle violente panoramiche laterali, come se la camera non avesse il pieno controllo dei suoi movimenti. Poiché il cantante è costretto a guardare in macchina con delle posizione del volto piuttosto scomode, spesso non riesce a vedere gli oggetti che si frappongono alla sua corsa, quindi rischia più di una volta di cadere. L’effetto è ansiogeno: sembra che lo sguardo della macchina sia un vero inseguitore: il cantante e altri elementi della folla inciampano e ca-dono per terra, per rialzarsi quasi subito e riprendere a correre in un crescendo ritmico incalzante. Fra la folla ci sono i personaggi più vari: un’infermiera, un
emiro arabo, una donna con una carrozzina, un punk, un cieco, un texano con un water in braccio (chiaro riferimento a Tango ); gli altri membri del gruppo (il bassista e il batterista) costituiscono invece gli unici elementi fermi della situazione, evitati continuamente dalla folla in corsa.
Anche in questo caso Rybczyński trascende il testo della canzone per co-struire una situazione visiva a lui congeniale (il tema dell’attraversamento) e al contempo adatta a rappresentare i membri del gruppo e l’atmosfera ritmica del brano. Un altro esempio interessante che adotta questa soluzione è The Real End10 (1984) per Ricky Lee Jones. La cantante si aggira per una strada di New
York compiendo delle semplici azioni su una serie di personaggi maschili in fila e immobili, come fossero dei manichini. Nel frattempo compaiono delle scher-mate piuttosto rudimentali di un computer che ci fanno intuire che la cantante sta ironizzando su tutta una serie di stereotipi maschili: il computer di volta in volta le propone dei compagni ideali (belli, ricchi, atletici e via dicendo) che sono piuttosto ridicoli nel momento in cui si presentano dal vero. L’insieme dei personaggi disposti in una fila ordinata richiama in maniera evidente il flusso dei dati del computer, ma prelude a un immaginario tipico di Rybczyński nel periodo in cui scoprirà il chroma key.
In generale, in questi anni di sperimentazione l’artista polacco è attirato dalla iterazione e dalla moltiplicazione dei personaggi nello spazio: l’idea del-la foldel-la di personaggi è sempre ben presente, come in She Went Pop11 (1985)
per Iam Siam dove la cantante è interpretata da una serie di modelle simili fra loro (evidentemente Rybczyński è in grado di sfruttare creativamente le imposizioni della committenza, fra cui “i cantanti che non sanno recitare” e “le belle modelle citate” prima) che richiamano alcune icone del cinema hollywoodiano, tra cui Marilyn Monroe, il tutto inserito in uno spazio nero mano a mano arredato in modo diverso e affollato da una serie di personaggi maschili tutti vestiti alla Blues Brothers, come se si stesse assistendo a una versione dadaista di un musical americano classico. L’idea della clonazione del personaggio sta cominciano a farsi strada nell’estetica di Rybczyński. Al-cune soluzioni, come per esempio far interpretare la cantante a una serie di modelle diverse che cantano parti di strofe della canzone, sono assolutamente innovative in questi anni per il settore videomusicale.
10 Il video è visionabile al link: https://www.youtube.com/watch?v=2bL49gdGo4U 11 Il video è visionabile al link: https://www.youtube.com/watch?v=gPux0igoNfs
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Capitolo 3
In Diana D. (1984), per il trombettista Chuck Mangione, l’artista polacco indaga un settore specifico della videoarte, quello delle videoinstallazioni. Una modella bionda in calzamaglia nera (probabilmente una ginnasta) scom-pone e ricomscom-pone per nove volte l’immagine del trombettista Chuck Man-gione scissa in sei monitor, costruendo di volta in volta diverse installazioni. Questo video apparentemente semplice è il risultato di una serie complessa di scelte tecniche. Innanzitutto Rybczyński deve risolvere dei problemi non in-differenti di illuminazione, dal momento che la stanza in cui si svolge l’azione deve essere abbastanza buia per permettere una buona visione dei monitor accesi, ma allo stesso tempo abbastanza illuminata per far vedere la modella; la soluzione, teatrale, è quella di seguire, con uno spot a occhio di bue, il volto e parte del corpo della modella.
L’elemento più interessante è, ancora una volta, un minuzioso lavoro ope-rato sui sincronismi e sulla velocità dell’immagine. Difatti, anche in questo caso le riprese sono state fatte in stop motion, mentre le immagini trasmesse dai monitor scorrono a velocità normale e in maniera perfettamente fluida: questo vuol dire che durante le riprese, assieme alla musica originale anche le immagini dei televisori (che sono ovviamente sincronizzate al brano) sono state opportunamente rallentate. Tutto questo è complicato dal fatto che la modella ha un timing preciso per completare le videoinstallazioni, perché deve finire appena prima che Mangione canti o suoni il ritornello di base, con un sincronismo perfetto. L’artista polacco si ingegna di nuovo nel confe-rire alla protagonista del video dei tratti psicologici: ogni volta che completa un’installazione, la modella si esibisce in una serie di gesti, fra il ginnico e il fanciullesco, per esprimere la propria gioia; a volte contempla soddisfatta la propria opera, altre volte mima un poco beffardamente i gesti dell’immagine del trombettista e non si esime dal prendere a calci i monitor quando questi, per un attimo, non funzionano.
In Midnight Mover12 (1985) per il gruppo heavy metal Accept, Rybczyński
riesce a rendere personale e creativa la formula che evidentemente più detesta, ovvero la messa in scena di un finto live, inevitabile per il genere musicale che affronta, tradizionalmente legato all’“epica” della performance dei musicisti. Qui l’artista polacco realizza un video in gran parte in stop motion dove per la prima volta è il movimento di macchina a essere protagonista,