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Video musicali: la gestione del caos

Il caso di Zbigniew Rybczyński è veramente esemplare del modo in cui gli artisti sperimentali hanno trovato, per un certo periodo, una propria “casa” nella produzione videomusicale:

È il campo migliore dove sperimentare le tecnologie elettroniche: è un buon terreno di prova perché vi girano soldi, i video si possono realizzare facilmente ed in breve tempo. In due settimane il video è fatto, lo vedono in molti e si possono testare le reazioni1.

Il regista polacco è stato sicuramente l’autore di video musicali che più di tutti ha difeso l’elettronica come il formato più corretto per realizzare un vi- deo nella sua interezza, diffondendo nella storia delle immagini in movimen- to un uso intelligente e innovativo del chroma key. In un momento, i primi anni Ottanta, così com’era successo per il primo decennio della videoarte, in cui questo genere deve difendersi dalla solita accusa di essere “figlio minore” del cinema, e in cui molti registi di video musicali quasi si vergognano a de- finirsi tali, Rybczyński afferma che

Il problema degli altri registi di video musicali è quello di far capire agli altri che per loro è venuto il momento di girare un film. Nel mio caso si tratta di ricordare a tutti che sono un regista cinematografico polacco che ha dovuto lasciare tutto per ricominciare da zero2.

Come a dire: l’elettronica e la pellicola sono due cose diverse, perché fare

1 Alessandro Giancola, Rybczyński!, «Videoregistrare», 27, Dicembre 1987, p. 73. 2 Giacomo Mazzone, Zbigniew Rybczyński, «Videomagazine», 74, Dicembre 1987, p. 77.

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video musicali come se fossero dei film se non lo sono? Rybczyński, quindi, da regista di film d’animazione, si pone, dal punto di vista estetico, in linea con molti videoartisti: l’elettronica è un mezzo diverso da quello del cinema e quindi linguisticamente i video non devono seguire necessariamente la tradi- zione cinematografica, ma un loro percorso più personale e innovativo.

Sono l’unico, in ogni caso, che ha sempre utilizzato l’elettronica e non la pellicola per realizzare video musicali. Sono spesso gli autori, i musicisti, gli interpreti a preferire la pellicola con la sua immagine calda, col risul- tato che gli studi e le società di produzione video sono utilizzati solo per il confezionamento finale, come effetti o sigle, dando vita così ad una pa- radossale sottoutilizzazione di mezzi e impianti. Ma in questo momento i sostenitori dell’elettronica nell’ambito del video musicale sono in aumento e considero questo fatto un mio successo personale3.

Il regista polacco non lotta unicamente per affermare il formato dell’elettro- nica – dato che è anche proprietario di uno di quegli studi di produzione video che secondo lui sono sottoutilizzati –, ma anche per svecchiare le modalità clas- siche di produzione di un video musicale, quelle per cui, per esempio, è necessa- rio mostrare il musicista ed essere stilisticamente gradevoli a tutti i costi.

Certo: la musica mi permette di esprimermi abbastanza liberamente, il che mi dà modo, in teoria, di essere svincolato dall’idea di una storia. Ma in realtà, nelle discussioni con le case discografiche, finisce sempre che, dopo aver ascoltato le mie idee, mi chiedono di inserire il cantante, anche se non sa assolutamente recitare, e almeno due belle modelle. Io accetto, perché non sono queste cose a modificare il progetto originario, ma è sicu- ramente un grande limite artistico, che si ripropone ogni volta4.

E ancora: «Non ho mai amato ad esempio fare riprese dei concerti per poi trasferirle nei video musicali. Non lo farò mai perché amo sperimentare e lasciare un segno5.

Rybczyński coglie subito un limite nella produzione videomusicale: dal

3 Alessandro Giancola, Rybczyński!, cit., p. 101. 4 Giacomo Mazzone, Zbigniew Rybczyński, cit., p. 77. 5 Alessandro Giancola, Rybczyński!, cit., p. 101.

punto di vista visivo si possono fare cose anche molto sperimentali, ma il più delle volte si è costretti, come succede in pubblicità, a “mostrare il prodotto”, in questo caso il musicista o il gruppo, personaggi che spesso di fronte a una telecamera si trovano a disagio. Il regista polacco, però, non sembra essere così pessimista: evidentemente, anche quando si è costretti a rappresentare i musicisti, molti problemi possono essere “aggirati”. È la contraddizione di un ambito produttivo che sta fra la sperimentazione e il mercato. E Rybczyński, agli inizi della sua carriera videomusicale, è stato sicuramente uno dei più intelligenti “mistificatori” della presenza del musicista, inventandosi di tutto pur di inserirla all’interno di contesti visivi che, in qualche modo, la rendano parte di un tutto. Come vedremo, gli stratagemmi escogitati sono molteplici e hanno anche rappresentato fonti d’ispirazione per molti altri registi.

L’arco produttivo di Rybczyński in campo videomusicale si svolge dal 1984 al 1989, e in questi anni realizza più di trenta video musicali. Si può dividere questo percorso in due periodi piuttosto netti: le opere realizzate prima e dopo il 1985, ovvero l’anno di fondazione del suo Zbig Vision. La differenza più marcata fra i due periodi è tecnica (fra il 1984 e il 1985 Rybczyński si adatta alle esigenze del mercato filmando in pellicola la maggior parte dei video musi- cali, mentre dal 1986 passa interamente al formato elettronico e all’utilizzo del chroma key), ma anche e soprattutto linguistica, dato che per l’artista polacco la dimensione tecnologica e quella estetica sono legate a filo doppio.

Video musicali prodotti fra il 1984 e il 1985

Il primo video musicale affidato a Rybczyński è Close to the Edit (1984) per il gruppo di musica elettronica The Art of Noise6. L’artista polacco, alla sua prima

prova, è agevolato nel giocare con la sua personale estetica: i componenti di questo gruppo non hanno un look spendibile in un video musicale e quindi hanno accettato ben volentieri di non essere presenti; il brano è quasi interamen- te musicale, non ha un testo di riferimento se non una frase piuttosto sibillina: «To be in England. In the summertime. With my love. Close to the edge», che evidentemente Rybczyński può non prendere in considerazione ed è libero di realizzare un video che abbia come colonna sonora il brano stesso.

6 Il video è visibile al link: https://www.youtube.com/watch?v=-sFK0-

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In uno scenario desolante, forse la stazione abbandonata di una metro- politana, vi sono quattro personaggi: tre uomini, uno basso e grasso, uno di costituzione normale e uno alto e magro, vestiti nella stessa maniera (giacca e pantaloni scuri, occhiali da saldatore e scarpe da ginnastica bianche) e una bambina di sei anni vestita da punk. I tre personaggi maschili sembrano degli orchestrali malmessi. Essi distruggono con evidente sadismo e con ogni mez- zo possibile (seghe elettriche, fiamme ossidriche, pialle) una serie di strumenti musicali classici come violini e violoncelli, accanendosi in modo particolare su un pianoforte a coda.

Questo video presenta molti aspetti innovativi rispetto all’immaginario nascente (MTV nasce il primo Agosto del 1981) e già un poco standardizzato del mercato videomusicale di quegli anni. Innanzitutto vi è un’estrema cura nella caratterizzazione dei personaggi: la bambina punk, infatti, indica con cattiveria e autoritaria imperiosità i punti in cui deve essere operata la distru- zione degli strumenti, e sembra che chiami i tre “operai” che appaiono al suo servizio; inoltre scompagina una serie di spartiti musicali e lancia una serie di urla e di gesti minacciosi verso la telecamera. I tre “operai” (ridicoli eppure inquietanti) sono caratterizzati da una sorta di ironico sadismo, dal momen- to che ogni volta che distruggono gli strumenti guardano costantemente in macchina, a volte con un sorriso fra il canzonatorio e la sfida, come se la loro operazione fosse fatta sia sugli strumenti sia, attraverso il loro sguardo, sullo spettatore. Il riferimento, a ben vedere, è al cinema comico americano di Laurel e Hardy, dove lo sguardo in macchina e la progressiva distruzione del set erano due elementi essenziali per scatenare quella commistione di violenza e ilarità tipiche delle loro gag.

II secondo elemento degno di interesse riguarda il trattamento delle im- magini. Rybczyński per questo video sfodera la tecnica che meglio conosce: la stop motion, che in questo caso serve esclusivamente a conferire ai movimenti dei personaggi quell’andamento velocizzato e a scatti tipico del procedimento. Eppure, nonostante l’accelerazione, i personaggi si muovono perfettamente a tempo col ritmo ossessivo della musica, anzi c’è un’ostinata ricerca del sincro- nismo fra i passi, i gesti, i colpi dati agli strumenti e la base ritmica del brano. Questo effetto è stato realizzato con un semplice stratagemma: le scene sono state riprese facendo agire gli attori con il sottofondo della musica rallentato, in modo tale che fosse più agevole sincronizzarsi con il ritmo (troppo veloce nella versione originale) per velocizzarlo in fase di postproduzione per far sì

che sia ri-sincronizzato con la velocità normale della musica. Il risultato è stra- niante e contribuisce a rendere potente il ritmo delle immagini che, d’altro canto, sono anch’esse montate seguendo ostinatamente il ritmo percussivo del brano, in un’orchestrazione visiva complessa ed efficace.

Rybczyński costruisce una struttura visiva che nulla deve al brano musi- cale, se non un’aderenza ritmica:

Le persone che costruirono gli strumenti acustici musicali si ruppero la schiena nel farlo, ma il violino oggi è uno strumento primitivo paragonato ad un sintetizzatore moog [...] senza buttare via il passato noi non potrem- mo proprio vivere7.

Stando così le cose, allora nei colpi che i tre operai danno al pianoforte (immagine che ha dei riferimenti, non sappiamo quanto volontari, alle vio- lente performance musicali del gruppo Fluxus, in particolare di Nam June Paik) e nelle grida della bambina punk che getta all’aria gli spartiti musicali, scaraventa a terra un busto di Beethoven e richiama i suoi “operai” verso nuove distruzioni, risiede il pensiero di Rybczyński stesso che, con una vio- lenza inusitata, invita a buttare via il passato: violini, pianoforti, violoncelli e, soprattutto, pellicole cinematografiche. È evidente che in questi anni l’artista polacco è affascinato dalle strade, dai luoghi abbandonati pieni di graffiti, dalla moda, in una parola da quello che sta succedendo durante gli anni Ottanta a New York.

Questa prima prova dell’artista polacco si rivela particolarmente efficace per le vendite dell’album omonimo dei The Art of Noise (il video viene tra- smesso più volte con successo da MTV), tanto che il cane bassotto diventa il simbolo del gruppo. Rybczyński diventa così non solo un regista ricercato per il suo talento visivo, ma anche per un’istintiva attitudine al marketing videomusicale.

Il riferimento alle slapstick comedies e alla gioiosa distruzione del set è l’idea di base di Lose Your Love8 (1985) per il duo Blancmange, dove i membri del

gruppo sono impegnati nella sistematica disintegrazione di alcuni interni di un edificio che alla fine del video crolla come fosse un modellino di cartone.

7 Mark Matousek, Zbigniew Rybczyński, cit., p. 36.

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Rybczyński riesce a inserire generi musicali apparentemente incompatibili, musicisti inclusi, all’interno dell’estetica della comica classica raggiungendo un risultato paradossale e ironico: il duo compie le sue azioni rivolgendo puntual- mente lo sguardo in macchina, le singole performance sono riprese in conti- nuità, la macchina è statica, insomma è come se un regista del film muto fosse catapultato in un altro spazio tempo e avesse realizzato il video musicale.

Un altro video interessante è AII That I wanted9 (1984) per i Belfegore.

Meno complesso del precedente, è tuttavia interessante per come Rybczyński risolve il problema della presenza dei membri del gruppo, evidentemente im- posta dalla casa discografica, con una modalità che gli sarà propria anche in molti video successivi, ovvero inserire i musicisti o il cantante in una situazio- ne performativa insieme a una folla di altri personaggi, creando una situazio- ne di caos rigorosamente controllato dall’occhio della macchina.

All’inizio del video vediamo il cantante del gruppo correre su un enorme ponte stagliato contro dei grattacieli; egli esegue la prima strofa della canzo- ne, guardando in macchina mentre corre, poi, con una violenta panoramica a schiaffo (in sincrono con l’ingresso della batteria nel brano) scopriamo che dietro al cantante c’è un gruppo di almeno trenta persone che corre forsen- natamente assieme a lui. Sul ponte sono sparsi oggetti piuttosto ingombran- ti (custodie per strumenti, amplificatori, aste per microfoni, strumenti) in un’atmosfera ancora una volta desolata, di abbandono: le lunghe ombre dei protagonisti e i toni arancioni dei loro corpi ci segnalano che siamo al tra- monto.

Questa folle corsa viene ripresa per lo più dall’alto grazie a uno speciale carrello, ideato da Rybczyński, fissato su un supporto a rotelle spinto a mano, o dal basso, con una serie di carrellate molto dinamiche, associate spesso a delle violente panoramiche laterali, come se la camera non avesse il pieno controllo dei suoi movimenti. Poiché il cantante è costretto a guardare in macchina con delle posizione del volto piuttosto scomode, spesso non riesce a vedere gli oggetti che si frappongono alla sua corsa, quindi rischia più di una volta di cadere. L’effetto è ansiogeno: sembra che lo sguardo della macchina sia un vero inseguitore: il cantante e altri elementi della folla inciampano e ca- dono per terra, per rialzarsi quasi subito e riprendere a correre in un crescendo ritmico incalzante. Fra la folla ci sono i personaggi più vari: un’infermiera, un

emiro arabo, una donna con una carrozzina, un punk, un cieco, un texano con un water in braccio (chiaro riferimento a Tango ); gli altri membri del gruppo (il bassista e il batterista) costituiscono invece gli unici elementi fermi della situazione, evitati continuamente dalla folla in corsa.

Anche in questo caso Rybczyński trascende il testo della canzone per co- struire una situazione visiva a lui congeniale (il tema dell’attraversamento) e al contempo adatta a rappresentare i membri del gruppo e l’atmosfera ritmica del brano. Un altro esempio interessante che adotta questa soluzione è The Real End10 (1984) per Ricky Lee Jones. La cantante si aggira per una strada di New

York compiendo delle semplici azioni su una serie di personaggi maschili in fila e immobili, come fossero dei manichini. Nel frattempo compaiono delle scher- mate piuttosto rudimentali di un computer che ci fanno intuire che la cantante sta ironizzando su tutta una serie di stereotipi maschili: il computer di volta in volta le propone dei compagni ideali (belli, ricchi, atletici e via dicendo) che sono piuttosto ridicoli nel momento in cui si presentano dal vero. L’insieme dei personaggi disposti in una fila ordinata richiama in maniera evidente il flusso dei dati del computer, ma prelude a un immaginario tipico di Rybczyński nel periodo in cui scoprirà il chroma key.

In generale, in questi anni di sperimentazione l’artista polacco è attirato dalla iterazione e dalla moltiplicazione dei personaggi nello spazio: l’idea del- la folla di personaggi è sempre ben presente, come in She Went Pop11 (1985)

per Iam Siam dove la cantante è interpretata da una serie di modelle simili fra loro (evidentemente Rybczyński è in grado di sfruttare creativamente le imposizioni della committenza, fra cui “i cantanti che non sanno recitare” e “le belle modelle citate” prima) che richiamano alcune icone del cinema hollywoodiano, tra cui Marilyn Monroe, il tutto inserito in uno spazio nero mano a mano arredato in modo diverso e affollato da una serie di personaggi maschili tutti vestiti alla Blues Brothers, come se si stesse assistendo a una versione dadaista di un musical americano classico. L’idea della clonazione del personaggio sta cominciano a farsi strada nell’estetica di Rybczyński. Al- cune soluzioni, come per esempio far interpretare la cantante a una serie di modelle diverse che cantano parti di strofe della canzone, sono assolutamente innovative in questi anni per il settore videomusicale.

10 Il video è visionabile al link: https://www.youtube.com/watch?v=2bL49gdGo4U 11 Il video è visionabile al link: https://www.youtube.com/watch?v=gPux0igoNfs

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Capitolo 3

In Diana D. (1984), per il trombettista Chuck Mangione, l’artista polacco indaga un settore specifico della videoarte, quello delle videoinstallazioni. Una modella bionda in calzamaglia nera (probabilmente una ginnasta) scom- pone e ricompone per nove volte l’immagine del trombettista Chuck Man- gione scissa in sei monitor, costruendo di volta in volta diverse installazioni. Questo video apparentemente semplice è il risultato di una serie complessa di scelte tecniche. Innanzitutto Rybczyński deve risolvere dei problemi non in- differenti di illuminazione, dal momento che la stanza in cui si svolge l’azione deve essere abbastanza buia per permettere una buona visione dei monitor accesi, ma allo stesso tempo abbastanza illuminata per far vedere la modella; la soluzione, teatrale, è quella di seguire, con uno spot a occhio di bue, il volto e parte del corpo della modella.

L’elemento più interessante è, ancora una volta, un minuzioso lavoro ope- rato sui sincronismi e sulla velocità dell’immagine. Difatti, anche in questo caso le riprese sono state fatte in stop motion, mentre le immagini trasmesse dai monitor scorrono a velocità normale e in maniera perfettamente fluida: questo vuol dire che durante le riprese, assieme alla musica originale anche le immagini dei televisori (che sono ovviamente sincronizzate al brano) sono state opportunamente rallentate. Tutto questo è complicato dal fatto che la modella ha un timing preciso per completare le videoinstallazioni, perché deve finire appena prima che Mangione canti o suoni il ritornello di base, con un sincronismo perfetto. L’artista polacco si ingegna di nuovo nel confe- rire alla protagonista del video dei tratti psicologici: ogni volta che completa un’installazione, la modella si esibisce in una serie di gesti, fra il ginnico e il fanciullesco, per esprimere la propria gioia; a volte contempla soddisfatta la propria opera, altre volte mima un poco beffardamente i gesti dell’immagine del trombettista e non si esime dal prendere a calci i monitor quando questi, per un attimo, non funzionano.

In Midnight Mover12 (1985) per il gruppo heavy metal Accept, Rybczyński

riesce a rendere personale e creativa la formula che evidentemente più detesta, ovvero la messa in scena di un finto live, inevitabile per il genere musicale che affronta, tradizionalmente legato all’“epica” della performance dei musicisti. Qui l’artista polacco realizza un video in gran parte in stop motion dove per la prima volta è il movimento di macchina a essere protagonista, realizzan-

do una serie di carrellate circolari, alcune delle quali da punti prospettici inusuali, intorno al gruppo sistemato anch’esso lungo una forma circolare all’interno di un set nero. Il risultato finale è una sorta di “pre-bullet time”, l’effetto speciale usato in Matrix dai registi Larry e Andy Wachowski nel 1999. I musicisti, coinvolti dai vorticosi movimenti di macchina e dall’effetto di spezzettamento dei loro gesti imposto dalla stop motion, diventano quasi degli elementi astratti dominati dal puro ritmo.

Il tema della meccanizzazione del corpo, o della sua spersonalizzazione in una azione, che già si intravede nei suoi cortometraggi, diventa in questo periodo non solo uno stilema da sperimentare ancora di più ma anche uno stratagemma utile per potenziare visivamente la presenza dei musicisti: l’idea della trasformazione del corpo in burattino meccanico è esplicita nel video P-Machinery13 (1985) dei Propaganda, dove i membri del gruppo diventano

letteralmente delle marionette appese a fili meccanici dentro una fabbrica abbandonata.

In questi video si vede chiaramente come alcune espressioni dell’arte con- temporanea – la performance, la videoarte, o la street-art – siano letteral- mente divorate dalla curiosità di Rybczyński, e trattate con estrema ironia. In questa fase egli infonde nei video musicali la sua esperienza del periodo polacco, rielaborando i temi della folla, dell’attraversamento dello spazio, della meccanizzazione del corpo, e ripescando alcune modalità linguistiche della tradizione cinematografica, come le distruzioni dello spazio filmico del

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