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Hannah Arendt di fronte alla Shoah: la "questione ebraica" come punto di partenza del pensiero politico arendtiano nel Carteggio Hannah Arendt-Karl Jaspers 1926-1969

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Introduzione

Noi abbiamo disperatamente bisogno, per l’avvenire, della storia vera di questo inferno costruito dai nazisti. Non solo perché questi fatti hanno cambiato l’aria che respiriamo, non solo perché essi popolano i nostri incubi e impregnano i nostri pensieri giorno e notte, ma anche perché sono diventati l’esperienza di base e la miseria costitutiva del nostro tempo. Solo a partire da questo fondamento, su cui poggia una nuova conoscenza dell’uomo, potranno riprendere slancio le nostre nuove prospettive, i nostri nuovi ricordi, le nostre nuove azioni.

(Hannah Arendt, L’immagine dell’inferno. Scritti sul totalitarismo)

Nell’autunno del 1942 Hannah Arendt apprese dai giornali americani dell’esistenza del campo di sterminio di Auschwitz e reagì alle camere a gas con sconcerto ed incredulità1. Nei primi due anni del conflitto le informazioni riportate dalla stampa dei Paesi liberi su quanto stava accadendo agli ebrei d’Europa erano molto sommarie: gli articoli sull’argomento venivano collocati nelle pagine secondarie dei quotidiani e, anche se fornivano alcuni dati essenziali sulla politica antisemita del regime, per i contemporanei era difficile cogliere dalle notizie sui massacri la natura eliminazionista del crimine. Chi leggeva i giornali non poteva capire che le pratiche naziste erano assimilabili ad uno sterminio di massa, né che la liquidazione delle comunità ebraiche rientrava in un progetto su larga scala. I lettori sapevano che gli ebrei venivano perseguitati, ma non riuscivano a percepire la gravità della situazione anche perché spesso le notizie riferivano degli eccidi in termini di pogrom isolati2.

Molte delle persone che non risiedevano nell’Europa dominata dai nazisti quando iniziarono a circolare dati più precisi sull’ampiezza dell’eccidio stentarono a credervi, a partire dall’estate del 1942 le informazioni sulle deportazioni e la gassazione degli ebrei

1Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975. Per amore del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 19901, 19942, cit., pag. 197,

ed. orig. Hannah Arendt: For Love of the World, Yale University Press, New Haven-London, 1982. Cfr. anche Hannah Arendt, «Was bleibt? Es bleibt die Muttersprache». Ein Gespräch mit Günter Gaus (1964), in Id, Gespräche mit Hannah

Arendt, München, Piper, 1976, trad. it. Che cosa resta? Resta la lingua, in Archivio Arendt I, 1930-1948, Feltrinelli, Milano,

2001.

2Cfr. David Bankier, La conoscenza dell’Olocausto e le reazioni in Europa, negli Stati Uniti e nelle comunità ebraiche,

saggio contenuto in Storia della Shoah. Lo sterminio degli ebrei, vol. II, Utet Torino, 2008, pp. 796-831e pp. 796-798, cit.

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cominciarono a delineare un vero e proprio sterminio sistematico della popolazione ebraica, ma nell’opinione pubblica permase uno scetticismo destinato a perdurare fino alla fine della guerra. Nel 1945, per esempio, il «New York Times» di Londra pubblicò un articolo in cui invitava i propri lettori ad affidarsi con cautela ai resoconti dei sopravvissuti scrivendo: «[I rifugiati] raccontano storie tra le più ripugnanti, e servirebbe uno psicologo con una profonda conoscenza della mente dei rifugiati per poter distinguere in loro il vero dal falso involontario […]»3. Un anno prima erano stati resi noti i cosiddetti Protocolli di Auschwitz, tre resoconti di ex-detenuti che, riusciti a fuggire dal campo di sterminio, si erano prodigati per informare il mondo su quanto stava accadendo ad Auschwitz: l’organizzazione del campo e la sua struttura, le camere a gas, la sofferenza, le privazioni ed il numero delle vittime4.

Nel panorama intellettuale del dopoguerra la «catastrofe» ebraica occupò un posto marginale5. In una Europa soffocata dal peso delle macerie pochi si rendevano realmente conto che la soluzione alla «questione ebraica» ottemperata dai nazisti si era tradotta in una «Soluzione totale» (Gesamtlösung)6, che aveva decretato la fine dell’ebraismo dell’Europa centrale e occidentale. Se da un lato la cultura occidentale attraversava un momento di grande coinvolgimento politico nella Resistenza e nella Liberazione, dall’altro si dimostrava incapace di cogliere la portata dell’evento. In questo clima di generale silenzio su Auschwitz l’ebrea tedesca Hannah Arendt colse da subito nella «catastrofe» un accadimento senza precedenti «una rottura quasi totale nel flusso ininterrotto della storia occidentale quale gli uomini l’hanno conosciuta per oltre due millenni»7. Posta di fronte alla Shoah la filosofa cercò di comprendere l’evento senza disancorarlo dalla propria storicità, ma collocandolo nel contesto da cui aveva preso le mosse. La «questione ebraica», secondo Arendt, era sorta con

3«The Times», 2 dicembre 1945, terza pagina, op. cit. pag. 797.

4Sui Protocolli di Auschwitz cfr.: Yehuda Bauer, Ripensare L’Olocausto, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2009, cit., pp.

265-298, tit. orig. Rethinking the Holocaust, Yale University, 2001; David Bankier, op. cit., pp. 821-827.

5Questo aspetto è ampiamente trattato da Enzo Traverso in Id., Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, il Mulino, Bologna, 2004, in particolare alle pp. 9-15 e 217-237.

6Questa locuzione è utilizzata da Hermann Göring in un telegramma del 31 luglio 1941 indirizzato a Reinhard Heydrich,

capo dell’apparato poliziesco delle SS. A quest’ultimo Göring ordinava di iniziare i preparativi per «una soluzione totale (Gesamtlösug) della questione ebraica nella sfera d’influenza tedesca in Europa», affermando che si trattava della «progettata soluzione finale della questione ebraica». Le presenti citazioni sono tratte da Michael R. Marrus, L’Olocausto nella storia, il Mulino, Bologna, 1994, pag. 56, tit. orig. The Holocaust in History, Hanover, NH, University Press of New England, 1987. Il documento si trova all’ International Military Tribunal, Trial of the Major War Criminals, Washington, D.C., 1947-49, XXXVI, pp. 266-67. Il testo del documento è riprodotto anche in Dawidowicz (a cura di), A Holocaust Reader, cit., pp.72-73.

7Hannah Arendt, The Origins of Totalitarianism (1951), New York, Harcourt Brace & Company, 1976, pag. 123, trad. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996, 20026, ed. ted. Elemente und Ursprünge totaler Herrschaft,

Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt, 19621.

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l’Illuminismo, quando gli ebrei erano stati assimilati attraverso l’educazione e l’accesso alla cultura (Bildung), senza che venisse presa in considerazione la loro esclusione politica, una circostanza che permase anche dopo la concessione dei diritti civili. In quel contesto da un lato gli ebrei persero il legame con la propria comunità e dall’altro il collante con la tradizione religiosa che aveva subito un processo di secolarizzazione. Allora l’ebreo fu posto di fronte ad una lacerazione identitaria: essere ebreo, ma dover trascendere il proprio passato per portare avanti gli ideali dell’emancipazione e al tempo stesso essere tedesco, ma venir discriminato socialmente a causa della propria origine ebraica8. Gli ebrei colti erano consapevoli che la loro posizione nella società dei gentili dipendeva da un’ambiguità: si pretendeva da loro «di essere ebrei, ma non come ebrei» e per questo essi «volevano allo stesso tempo essere ebrei e non essere ebrei»9.

Nell’Europa degli anni Trenta la «questione ebraica» si configurò in modo nuovo poiché gli ebrei costretti a fuggire dall’antisemitismo nazista vennero a trovarsi nella condizione di costituire una minoranza «superflua», ossia non riconosciuta dal diritto internazionale ed un peso di cui i diversi Stati volevano liberarsi10: al di fuori del complesso sistema di stati nazionali formatosi nel corso del XIX Secolo, all’epoca dell’emancipazione e dell’imperialismo, i diritti dell’uomo erano privi di valore. Questa esclusione degli ebrei da ogni sorta di comunità umana a causa del loro statuto di apolidi, secondo Arendt, costituì la fase essenziale del processo che avrebbe portato alla «Soluzione finale» (Endlösung)11.

Il pensiero arendtiano deve essere perciò correlato ai diversi approcci interpretativi della Shoah, per tener conto dei cambiamenti intervenuti nella percezione di un evento che solo a partire dagli anni Sessanta cominciò ad essere considerato come l’accadimento centrale del XX Secolo; ho quindi tratteggiato il quadro storico, sociale e culturale da cui prese le mosse

8Questi aspetti relativi alla «questione ebraica» vengono trattati da Hannah Arendt nei seguenti saggi contenuti in Id., The Jewish writings, edited by Jerome Kohn and Ron H. Feldman, New York, Schocken Books, 2007: The Enlightenment and the Jewish Question (1932), pp. 3-16; Original Assimilation: An Epilogue to the One Hundredth Anniversary of Rahel Varnhagen’s Death (1933), pp. 22-28; Antisemitism (1938-1939), pp. 46-111 e nella biografia su Rahel Varnhagen, Id., Rahel Varnhagen. Storia di una donna ebrea, a cura di L. Ritter Santini, Milano, 1988, 2004; ed. ingl. Rahel Varnhagen: the life of a Jewess, London 1958; ed. ted. Rahel Varnhagen. Lebengeschichte einer deutschen Jüdin aus der Romantik,

München, 1959.

9Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 20026, cit., pag. 79.

10Hannah Arendt, Le Origini del totalitarismo (1951), Milano, Edizioni di Comunità, 20026, pp. 402 e sgg. Sulla mancanza

di disponibilità dei Paesi occidentali ad accogliere i profughi ebrei durante gli anni Trenta e per una ricognizione degli studi sull’argomento cfr. Michael R. Marrus, L’Olocausto nella storia, il Mulino, Bologna, 1994,pp. 228-232.

11Le Origini del totalitarismo, pag. 409.

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l’ideologia antisemita al centro delle riflessioni arendtiane e collocato quest’ultime nell’ambito della storiografia della Shoah.

La prima sezione del mio lavoro ha lo scopo di situare nella giusta prospettiva storica il Carteggio12 tra Hannah Arendt e Karl Jaspers analizzato nella seconda sezione. Esso offre una testimonianza diretta dell’evoluzione del pensiero arendtiano che, partendo dalla riflessione sulla «questione ebraica» e scontrandosi con il male radicale, si ridefinì nei termini di una nuova teoria politica fondata sull’azione intesa come cardine di una società libera, diversificata e pluralistica (antitetica a quella da cui era scaturito il nazismo). Nella seconda sezione affronto gli argomenti che mi hanno guidato in questo percorso, di cui la Presentazione del Carteggio è elemento essenziale.

Sotto il Terzo Reich gli accadimenti che coinvolsero personalmente l’ebrea tedesca Hannah Arendt (la fuga dalla Germania, l’internamento nel campo di Gurs, lo status di apolide) e il tedesco Karl Jaspers (l’esclusione nel 1933 dagli incarichi istituzionali nell’Università a causa dell’origine ebraica della moglie e nel 1937 dall’insegnamento, poi il divieto di pubblicare nel 1938 e nel 1945 la minaccia della deportazione in un campo di sterminio) rappresentano gli elementi paradigmatici di quella che si venne a configurare come una tragedia collettiva. Il loro continuo scambio di opinioni sull’abisso che si era spalancato nel secolo XX13, costituì un tentativo di assumere le proprie responsabilità di fronte alla «maledizione [di] vivere in tempi interessanti». Per i protagonisti del Carteggio valgono le stesse parole usate da Hannah Arendt per descrivere l’opera di Chaim Weizmann: «Il grande fascino della sua carriera personale lunga cinquant’anni di storia risiede in una di quelle combinazioni fortunate in cui biografia e storia sono un tutt’uno»14.

12Hannah Arendt-Karl Jaspers, Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano, 1989,

ed. ted, Briefwechsel 1926-1969, a cura di L. Köhler e H. Saner, Piper, München-Zürich, 1985, ed. am. Correspondence

1926-1969, edito da Lotte Köhler e Hans Saner, trad. ingl. Robert e Rita Kimber, Harcourt Brace Javanovich, ( N. Y. , San

Diego, London), 1992.

13«Era il 1943. E subito non ci credevamo, benché io e mio marito considerassimo quegli assassini capaci di tutto. […] Ma

siamo stati costretti a credervi sei mesi dopo, quando ne abbiamo avuto la prova. Fu allora il vero trauma. […] Era come se l’abisso si fosse aperto di fronte a noi», cit., Hannah Arendt, «Was bleibt? Es bleibt die Muttersprache». Ein Gespräch mit

Günter Gaus (1964), in Id, Gespräche mit Hannah Arendt, München, Piper, 1976, pag. 23.

14Hannah Arendt, Single Track to Zion: A Review of Trial and Terror: The Autobiography of Chaim Weizmann (1949), in

Id., The Jewish writings, edited by Jerome Kohn and Ron H. Feldman, New York, Schocken Books, 2007, pp. 405-407, cit., pag. 405.

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